Le intenzioni e i risultati conseguiti nel libretto del 1975 Storie del bosco boemo[1] sono già stati chiariti da un’autoesegesi esaustiva consegnata da Angelo Maria Ripellino alla quarta di copertina e a due importanti interviste (ma forse bisognerebbe definirle conversazioni) con Corrado Bologna e Rosella De Vito[2]; e d’altra parte la postfazione di Antonio Pane all’edizione aumentata del 2006[3] (ma anche qualche suggestione offerta da un intervento di Giacinto Spagnoletti, pronunciato al convegno acese del 1981)[4] ha disvelato il fittissimo gioco di allusioni, citazioni, echi e sberleffi che Ripellino ha nascosto, come al solito, sotto la lettera del testo.
Quel poco che si potrebbe aggiungere adesso può risultare da una rilettura del testo in cui si vada alla ricerca di macchiuzze emergenti in mezzo al politissimo smalto dello stile di Ripellino: uno stile che pare capace di escludere inesattezze, lapsus, dimenticanze e abbassamenti di tono che, naturalmente, non siano voluti. E tuttavia, come vedremo in seguito, mi pare ci sia qualcosa di rilevabile proprio nella presenza di quel “lessico familiare” a cui accenna il titolo di quest’intervento.
Ma andiamo con ordine: e partiamo da un dato emerso soltanto a partire dalla pubblicazione delle einaudiane Lettere e schede editoriali, procurata da Antonio Pane e arricchita dall’introduzione di Alessandro Fo[5].
Da una lettera di Ripellino a Guido Davico Bonino del 27 novembre 1972 si apprende che tre delle quattro future Storie del bosco boemo erano state inserite dall’autore nell’indice di un libro già progettato e composto da brevi «saggi-racconti» che «dovrebbero, con ancor più fantasia, applicare su piccoli spazi verbali la formula della cancellazione dei confini tra i due generi, già tentata nel Trucco e in Praga»[6]: fra i testi elencati nell’indice ne emergono tre, che hanno titoli ancora provvisori, ossia Dubček come Pierrot, Dariopea: storia di due bambini, Storie di manichini. Alcuni degli altri testi elencati confluiranno in altri volumi mentre ritroviamo queste tre «storie», con titoli modificati (Storie del bosco boemo, Parapiglia e Manichinia) nel «volumetto di quattro racconti»[7] che Ripellino annuncia come quasi imminente in una lettera a Davico Bonino dell’8 luglio 1974.
Evidentemente, rispetto al progetto iniziale, le tre «storie» suddette, a cui si aggiungerà la riscrittura della favola puškiniana Il gallo d’oro, sono quelle in cui la componente narrativa ha finito per prevalere: quelle, cioè, in cui ha preso corpo il di più di «fantasia» evocato da Ripellino quando scriveva a Davico Bonino.
Questa componente narrativa, per quanto sapientemente intramata di affondi saggistici e memoriali, emerge tuttavia con un rilievo tale che, poi, Ripellino sembra quasi volerla schermare o addirittura giustificare, quando risponde a Corrado Bologna definendo i quattro testi delle «instabili macchine narrative» tracciate su una pagina che «si squarcia, sovente, fa le grinze, borbotta, si rifiuta di stare al gioco»[8]. Anzi, si direbbe che l’ispirazione metaletteraria di Ripellino abbia voluto tematizzare proprio l’emergere di un corpo a corpo con la Pagina che, nel racconto Parapiglia, assume un rilievo proprio e fa quasi da Leitmotiv, tanto che Spagnoletti scrisse che in Parapiglia «l’unica reale presenza resta la Pagina»[9].
Poeta-saggista e saggista-poeta, Ripellino sembra dunque a disagio nel proclamarsi narratore: probabilmente sa di non avere il “fiato” necessario alla narrazione distesa di stampo ottocentesco; o si dovrebbe meglio dire che di tale “fiato” non saprebbe che farsene, data la sua costante predilezione (di lettore e di studioso) per le scritture narrative frammentarie, incompiute, sperimentali, a collage, che emergerebbe anche se pescassimo a sorte nella sua produzione critica non solo slavistica.
Ed ecco spiegato il titolo della raccoltina, che echeggia musicalmente le Storie del bosco viennese di Strauss (come suggeriva già De Vito)[10], e anche il sottotitolo (Quattro capricci)[11] dell’edizione originale. Ma soprattutto mi sembra che titolo e sottotitolo vogliano denunciare la voluta esclusione dell’opzione tassonomica tra “racconto/novella” e “fiaba” (perché una componente fiabesca è pur presente in questi testi!). La più generica parola «storie» diventa così una parola-ombrello sotto la quale ospitare, senza contraddizioni interne, gli elementi novellistici, fiabeschi, musicali e teatrali che nei quattro testi si mescolano omogeneamente e mirabilmente. E si tratta di una mescolanza che avviene sotto il segno di un’ironia costante, anche venata di costante autoironia e caratterizzata da toni via via cangianti: dal gioioso di Parapiglia al lùbrico di Manichinia, dall’ironico di Il gallo d’oro al pensieroso del testo eponimo.
Non insisterò sulle suggestive chiavi di lettura proposte dall’autore nei luoghi autoesegetici che ho ricordato, ma vorrei menzionarne almeno due: la prima perché mi lascia un po’ perplesso, ed è l’intenzione di scrivere dei «racconti-saggi al modo di Borges», confessata però in un’intervista più antica, del 1972, sempre rilasciata a Corrado Bologna[12]. Può darsi che l’allusione a Borges fosse limitata al concetto di «racconto-saggio», ma può anche darsi che lo stile dei testi sia cambiato nel corso del tempo, rispetto alle intenzioni precedenti: mi pare certo, però, che i quattro testi licenziati nel 1975 non abbiano granché in comune, soprattutto nello stile e nei toni, con le opere del grande scrittore argentino. La seconda è un’interessantissima voce dal sen fuggita che fa dichiarare a Ripellino, nell’intervista a De Vivo: «Ho paura del vuoto: ecco il mio massimo difetto. Ho bisogno di colmare, colmare i vuoti con gli oggetti sonori […]. Baroccheria? Forse. Ma anche difesa della specificità della poesia in un mare di logorrea politica»[13]. Una “confessione” che può spiegare, almeno in parte, la strenua tensione ripelliniana alla conquista d’una scrittura lussureggiante nel lessico, nella sintassi e nella prosodia e il suo specifico, originalissimo tramutarsi in azione etica o politica tout court.
Accennerò brevemente ai tre racconti recuperati da Pane, che arricchiscono l’edizione Mesogea: Il sogno di frate Anselmo, Uomini che invocano la pioggia e Lo scarafaggio. Apparentemente simili, tutti e tre, nell’essere dissimili rispetto alla scrittura ripelliniana che conosciamo e amiamo – circostanza spiegabile con l’essere i primi due dei testi giovanili[14] e il terzo con la fedeltà alla novellina originale raccolta da Giuseppe Pitré[15] –, si differenziano, poi, per la forte componente ironica presente nel terzo (la pointe attualizzante «Consultori a quel tempo non ne esistevano»[16]; l’insistenza sul càntero dalla «selletta smaltata a fiorellini»)[17] e per il citazionismo ancora un po’ ingenuo che accomuna i primi due, e che emerge quando, nel Sogno di frate Anselmo, il refrain dei limoni gialli si rifugia sotto l’egida montaliana mescolandosi, nell’incipit, all’evocazione di una gialla «chiarità»[18]; e poi, a livello onomastico, quando Ripellino allude a William Blake battezzando Guglielmo il Nero uno dei personaggi invocatori di pioggia. Sono certamente tre prove “minori” ma, nel complesso, coerenti nell’anticipare l’ispirazione fiabesco-teatrale dei quattro testi del 1975.
Se si volessero rinvenire i temi e i motivi dominanti nel libro direi, in sintesi, che essi sono i treni, i colori verde e giallo, la mappatura degli spazi, il kitsch, una scatologia e un erotismo gioiosamente popolareschi. Nulla di realmente nuovo per chi conosce le altre opere di Ripellino, perché anche gli ultimi due elementi, apparentemente i più inconsueti, sono ricondotti a un riuso citazionistico (con prelievi, in particolare, dalla tradizione novellistica: da Boccaccio, da Bandello, da Straparola e altri) che, si sa, è parte integrante della poetica ripelliniana.
Se si volesse ricostruire la tonalità dominante del libro, si potrebbe pensare, per l’abbondanza delle citazioni, agli artifici allegri dell’opera buffa e della screwball comedy ma poi, anche in virtù dei frequentissimi richiami autobiografici ai tre spazi fondamentali dell’esperienza e della cultura ripelliniana (l’area fiammingo-germanica[19], la Russia e la Boemia), ecco emergere una tonalità più corrucciata, posture più rigide, colori più spenti, apparenze fantasmatiche: insomma, una buona dose di buio che allunga le sue ombre sulla luce. Come dire che, dietro lo scontro ecfrastico tra Paul Delvaux e Oskar Schlemmer, Manichinia celebra il trionfo del cerebrale erotizzato (o dell’eros cerebralizzato); Il gallo d’oro, in apparenza solo una riscrittura di Puškin, inneggia al fiabesco infantilmente insozzato; e Storie del bosco boemo, narrando l’incontro di un io vagante con una carovana di attori (e dunque alludendo, almeno nella parte iniziale, al Capitan Fracassa di Théophile Gautier), procede poi all’angosciosa e precaria liberazione da vari incubi e sensi di colpa, al distacco dall’ombra fraterna di Dubček, rappresentato un po’ come Don Chisciotte e un po’ come Pierrot[20]. Anche per questo sottotesto riconducibile al trauma dei carri armati sovietici a Praga (e di cui recano tracce tutte le sue opere successive, soprattutto Notizie dal diluvio e Praga magica), nei tre racconti, malgrado talune luminose apparenze, predomina la melanconia della perdita e le parole si rivelano «residui di un unico discorso perduto»[21].
Se non ci fosse, appunto, l’eccezione rappresentata da quello che mi pare sia la punta di diamante della raccolta, ovvero Parapiglia: testo che si potrebbe schematicamente riassumere come una lotta gioiosa tra l’ordine e il disordine, l’uno simboleggiato dalla «Pagina» entro la quale «entrano con un gran chiasso»[22] gli emblemi del Caos più vitale che ci sia, ovvero i nipotini gemelli di Ripellino, Daria e Pea, riunificati nell’ircocervo denominato Dariopea. Già sfumata la possibilità di trattenere entro la Pagina «i bianchi colombi che vi si annidavano» e che «prendono il volo spauriti»[23], il rischio è che «la candida carta» si laceri: si vede chiaramente in filigrana l’ansia, forse perfino l’angoscia, che la vita in difficile equilibrio del nonno scrittore venga sconvolta dalla pur meravigliosa sarabanda inscenata quotidianamente dalla Dariopea. È un equilibrio precario quanto un foglio di carta, va ribadito: là dove la salute, come nel caso di Ripellino, è ormai così fragile, i «bianchi colombi» d’una pace serena possono abitare soltanto l’appiattita dimensione cartacea della scrittura. Per provare a imbrigliare l’estro dei nipoti, ecco il tentativo di inscenare una recita teatrale: la vita come teatro e il teatro come vita, dunque, non costituiscono soltanto un’equivalenza, secondo il codice collaudato dal Barocco, ma anche un tentativo razionalizzante di imbrigliare il caos.
Se poi volessimo riferirci alla biografia di Ripellino, credo sarebbe produttivo confrontare il suo impossibile farsi regista del teatrino familiare e bambinesco con il suo, invece riuscito, farsi regista della compagnia teatrale universitaria degli “skomorochi”[24].
Ma torniamo al testo: il parapiglia teatrale a misura di bambino non può privarsi della dimensione ludica del linguaggio, veicolata dalle tante allusioni intertestuali al mondo di Lewis Carroll ed Edward Lear ma anche portata fino alla dimensione, più ferma e rassicurante, dell’arguzia enigmistica. Non mi riferisco soltanto ai giochi più semplici, come quando la testa di Pea diventa una pera per inserzione di consonante[25]. Penso soprattutto a un gioco complicato che mi sembra d’intravedere[26], nella conclusione della “stazione” n. 4 di Parapiglia:
Pea armeggia col grillo sul bianco prato del letto, ne spalanca le cigolanti mascelle. Il cigolio come un brivido scorre per questa Pagina. Mi precipito a togliergli di mano la “scatola del diavolo”. Così Paul Klee chiamava il telefono. In dispensa mettetelo, perché non ci disturbi durante la preparazione di un così arduo spettacolo[27].
Mi pare che qui Ripellino abbia costruito una sorta di crittografia mnemonica, concettuale e fonica insieme, costruita su slittamenti grazie ai quali il celebre telefono di design denominato «grillo», per cambio di consonante, si trasforma nel trillo del telefono medesimo, che però si preferisce chiamare, con Klee, “scatola del diavolo”: e allora è come se, concettualmente, il passaggio da grillo a trillo mediato dal diavolo contenesse il “trillo del diavolo” di Giuseppe Tartini, con il suo fascino diabolico; ma tutto quanto è diabolico causa “brividi”, come è stato per il cigolìo (sempre prodotto dal telefono ultramoderno) che scorre minaccioso sulla pagina inseguito dalla terna stridente dei fonemi gr-, br- e tr-, ossia dal grillo, dal brivido e dal trillo. Nella settima “stazione”, peraltro, si ribadisce che «strilli drammatici squarceranno la carta»[28].
Ma neppure il rigore dell’enigmistica può frenare l’irruenza dei nipotini. Il caos, con loro, dilaga e lo spettacolo teatrale che dovrebbe irreggimentarli si disgrega: Paul e François Fratellini si scambiano i ruoli da clown; i due bambini entrano dentro un quadro dell’amico Piero Dorazio come se fossero in una surreale comica del cinema muto (tante volte evocato con allusioni a Buster Keaton, a Charles S. Chaplin, ai fratelli Marx); le “lingue di gatto” devono cambiar genere[29] altrimenti non potrebbero rimare con l’ovatta…
Il nonno, affettuosamente, s’arrende al «chiasso del diavolo»[30] e si adatta a tramutare l’ansia in forte auspicio, adoperando uno dei suoi prediletti sintagmi imperativi costruiti sulla formula “siate + aggettivo”: «E perciò scatenatevi, siate infernali, infastidite il buon senso»[31]. Quello che lui ha fatto in letteratura, i suoi nipoti lo faranno nella vita perché per loro, e purtroppo solo per loro, la vita proseguirà: «Bambini, voi vedrete la fine del secolo. Chissà che festa, che luminarie, che gorgoglianti comete di champagne. Pea, ricordi ancora quando guardavamo i trenini a Oberaudorf e non volevi staccarti dalla ringhiera della stazione?»[32].
È evidente che Ripellino ha messo in atto la consueta strategia che consiste nel controbilanciare l’atrabile con l’allegria, l’angoscia di morte con lo sberleffo vitale e anti-filisteo[33]. Ma, appunto, ciò vuol dire ribadire la strategia collaudata nelle sue raccolte poetiche (e, per la verità, anche nei testi saggistici) nell’ambito della quale la sfera del personale è sempre in perfetto equilibrio con quella del pubblico e perfino del politico, alla luce del fatto che «Brecht ha insegnato che cosa significhi ‘impegno’; e ‘rivoluzione’ è parola che suonava non féssa in bocca a Majakovskij […]»[34].
È vero che i bambini s’affacciano, tematizzati, anche in alcune poesie di Ripellino: ma in Parapiglia la novità è rappresentata dal fatto che prendono la parola, e sulla pagina (o sulla Pagina) risuonano i loro lessemi infantilmente deformati ma non corretti da alcuna autorità linguistica superiore. Tutto, infatti, si tiene perché Parapiglia mette in scena un tentativo di messinscena: ma lo fa narrativamente, senza struttura drammaturgica. E dunque succede che dilagano sulla pagina quelle parole infantili – kino, kìschere, girintondo, bambele, uscellini o cellini, tùrne, càmmella – che, come in tutte le famiglie dove ci sono stati bambini, vengono ripetute con divertimento, delibate e continuamente riproposte, consolidandosi così in “lessico familiare”, nello spazio di comunicazione privata instauratosi fra nonno e nipotini: questi ultimi hanno imposto al coltissimo nonno la dolcezza sentimentale delle loro deformazioni ed esse sono rimaste, pertanto, le uniche voci non gestite dal narratore, non uniformate nello smalto del suo stile unico.
Non inganni il riferimento al celebre libro di Natalia Ginzburg, il cui titolo è ormai diventato antonomastico: Lessico familiare finisce, se non sbaglio, per rappresentare un’esplorazione del passato svolta “a chiarezza di sé” (e nella quale, significativamente, le parole “esclusive”, incomprensibili fuori dal contesto familiare, sono quelle pronunciate non da bambini ma dai genitori della narratrice o, comunque, da personaggi adulti ed emergono con un rilievo prevalentemente documentale), e dunque una specie di moderno Bildungsroman dell’apprendistato letterario sostanzialmente ripiegato sull’autrice; nel racconto Parapiglia, invece, il discorso si sposta, più autenticamente, sul versante linguistico e la realtà del lessico familiare in versione infantile viene messa a nudo, con tutta la sua carica eversiva, molto più che nel testo della Ginzburg.
In Ripellino, insomma, le tracce del lessico dei nipotini rappresentano quelle macchiuzze esterne e non assimilabili a cui alludevo all’inizio di questo scritto. Sono, insieme, l’estraneo infantile ma anche la speranza vitale a cui Ripellino s’affida mentre continua a suonare il suo splendido violino verde e poco prima di arrendersi al suo autunnale barocco.
- A. M. Ripellino, Storie del bosco boemo. Quattro capricci, Torino, Einaudi, 1975. ↑
- C. Bologna, Angelo Maria Ripellino e la magia della scrittura, in «La fiera letteraria», LI, 24, 1975, pp. 12-15; R. De Vito, Un forziere, in «Il Veltro», XIX, 3-4, 1975, pp. 361-65. Si leggono ora in A. M. Ripellino, Solo per farsi sentire. Interviste (1957-1977) con le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), a cura di A. Pane, Messina, Mesogea, 2008, pp. 62-68 e 69-77. ↑
- A. M. Ripellino, Storie del bosco boemo e altri racconti, a cura e con postfazione (Ripellino narratore?) di A. Pane, Messina, Mesogea, 2006. ↑
- G. Spagnoletti, I racconti di Ripellino, in «Lunarionuovo», V, 21-22 (A. M. Ripellino poeta-slavista, a cura di M. Grasso), 1983, pp. 145-48. ↑
- A. M. Ripellino, Lettere e schede editoriali (1954-1977), a cura di A. Pane, introduzione di A. Fo, Torino, Einaudi, 2018. ↑
- Ivi, p. 119. ↑
- Ivi, p. 123. ↑
- A. M. Ripellino, Solo per farsi sentire. Interviste (1957-1977) con le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), op. cit., p. 71. Sull’“instabilità” costitutiva dei testi ripelliniani ho provato a dire qualcosa anch’io in G. Traina, Primaverile ripelliniano. Su Ripellino prosatore, Modena, Mucchi, 2023, passim. ↑
- G. Spagnoletti, I racconti di Ripellino, op. cit., p. 147. ↑
- Cfr. A. M. Ripellino, Solo per farsi sentire. Interviste (1957-1977) con le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), op. cit., p. 63. ↑
- «“Capricci” per due ragioni: per un incremento che ha in questo libro la musicalità della lingua, trattata come trama di agganci fonetici e quasi trascrizione di righi musicali; per i continui rimandi al repertorio dell’opera lirica (Rossini, Mozart, Rimskij-Korsakov, Donizetti ecc.), e per certe trovate da opera buffa» (ibidem). L’importanza della musica e del “pensare in musica”, com’è noto, è fondamentale in Ripellino: ai “capricci” di questo sottotitolo fanno eco altri titoli, da Saggi in forma di ballate a Sinfonietta fino a L’arte della fuga. A tal proposito si veda anche, nel presente fascicolo, il contributo di Nicola Ferrari. ↑
- C. Bologna, «L’arte può salvarci con ferite di gioia», in «Il nostro tempo», XXVII, 30, 1972, p. 3, poi in A. M. Ripellino, Solo per farsi sentire. Interviste (1957-1977) con le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), op. cit., pp. 39-44: 41. ↑
- Ivi, pp. 63-64. ↑
- Precedentemente pubblicati su «Roma fascista», rispettivamente il 22 ottobre 1942, p. 3 e il 26 novembre 1942, p. 3; si leggono ora in A. M. Ripellino, Storie del bosco boemo e altri racconti, op. cit., pp. 107-13 e pp. 115-21. ↑
- Precedentemente pubblicato in Favole su favole, premessa di W. Pedullà, Cosenza, Lerici, 1975, pp. 253-58; ora in A. M. Ripellino, Storie del bosco boemo e altri racconti, op. cit., pp. 125-27. La novella originale Lu scravagghiu si legge in G. Pitré, Fiabe e leggende popolari siciliane, Palermo, Pedone Lauriel, 1888, pp. 297-99. ↑
- A. M. Ripellino, Storie del bosco boemo e altri racconti, op. cit., p. 126. ↑
- Ivi, p. 127. ↑
- Ivi, p. 109. ↑
- Cfr. A. Pane, Le Fiandre di Ripellino, in questo stesso fascicolo. ↑
- «Il travestimento di scudiero canzona certi drammi cavallereschi in un contesto che vuole arieggiare la vana cavalleria degli idealismi politici. Dubček da anni mi perseguita come Pierrot. Questo volevo dire. Baraccone, opera buffa con sconquassati cavalieri. Ed io con loro, ridicolo scudiero» (A. M. Ripellino, Solo per farsi sentire. Interviste (1957-1977) con le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), op. cit., p. 66). ↑
- Ivi, p. 72. ↑
- A. M. Ripellino, Storie del bosco boemo e altri racconti, op. cit., p. 9. ↑
- Ibidem. ↑
- Cfr. Ripellino regista. Una conversazione con Alberto Di Paola, a cura di F. Lenzi, in «Trasparenze», 23, 2004, pp. 27-64. ↑
- «Pea allunga il visino come un vecchietto avvizzito, storce gli occhi, diventa una pera» (A. M. Ripellino, Storie del bosco boemo e altri racconti, op. cit., p. 10). ↑
- Ma trovo il conforto del mio amico Vincenzo La Monica – appassionato della scrittura di Ripellino quanto me, ma solutore più abile di me per quanto concerne sciarade, rebus e cruciverba – che qui ringrazio di cuore. ↑
- Ivi, p. 12. ↑
- Ivi, p. 15. ↑
- «Ci si appiccica addosso l’ovatta stopposa del caldo meridionale. Il sedile posteriore del macinino che rantola è un’aiuola di briciole e lingue di gatta» (ivi, p. 31). ↑
- Ivi, p. 40. ↑
- Ivi, p. 41. ↑
- Ivi, p. 28. ↑
- «I filistei, nella loro rigidità di precetto, non consentono alcun teatro se non quello obbediente e ufficialissimo»: A. M. Ripellino, Solo per farsi sentire. Interviste (1957-1977) con le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), op. cit., p. 66; «Si cammina tutti, chi lo sappia e chi chiuda gli occhi, sul filo dell’assenza di significato, sulla corda d’acciaio della solitudine risucchiata dalle consuete ottusità dei mercati di parole e di idee. […] L’arte è in certa misura rottura di un ordine, che è quello del conosciuto: è immissione dell’Impossibile in seno alla legalità quotidiana, inalterabile e spenta»: ivi, p. 70. ↑
- Ivi, p. 74. ↑
(fasc. 50, 31 dicembre 2023)