Fillotàssi di giorni sempre uguali: il racconto della malattia in A. M. Ripellino e G. Bufalino

Author di Federico Lenzi

Dalla Conca d’Oro di Palermo a Dobříš, nei pressi di Praga, a una ventina d’anni di distanza l’uno dall’altro, due autori siciliani, Angelo Maria Ripellino e Gesualdo Bufalino, si trovano a passare un periodo di ricovero in due sanatori, per l’aggravarsi delle loro condizioni di salute[1]. Da queste due soste forzate nascono una parte della Fortezza d’Alvernia, seconda raccolta poetica di Ripellino, e il romanzo d’esordio narrativo di Bufalino, La Diceria dell’untore[2]. Già Giuseppe Traina ha mirabilmente accostato, in una prima ricognizione, l’opera dei due autori[3]; questo studio si propone di mettere in parallelo e confrontare alcuni temi e motivi delle due opere sopracitate, nate entrambe in seguito a una degenza, e facendo astrazione riguardo ai loro tempi fra scrittura e pubblicazione, ben differenti[4].

Si potrebbe obiettare la diversa natura dei due testi. Ma nella Fortezza d’Alvernia è presente una certa narratività, perché la raccolta è costruita come un diario, e descrive un periodo e un mondo ben definiti[5]. D’altro canto, possiamo anche parlare di una liricità presente nella Diceria. Liricità data dalla ricchezza delle scelte lessicali, dalla moltiplicazione sistematica di sinonimi e aggettivi, dal suo barocchismo[6]. Inoltre, in entrambi gli autori possiamo facilmente riscontrare un’intertestualità stratificata e feroce, più o meno nascosta[7]. Infine, ci hanno spinto in questa direzione un’affinità, una consonanza fra le due opere, che cercheremo quindi brevemente di indagare.

Un primo punto di incontro, decisivo, è rappresentato dai luoghi e dagli edifici che inquadrano il racconto, in versi o in prosa: che ne sono teatro. Il sanatorio di Dobříš dà il titolo alla raccolta poetica, e diventa la più militare “fortezza” (per “l’Alvernia”, si veda il Congedo della raccolta stessa)[8]. Il sanatorio della Conca d’Oro in cui viene trasferito un venticinquenne Bufalino, invece, nel romanzo è trasformato in “Rocca”. I due edifici non sono abitati solo da degenti, ma anche da medici, infermieri e infermiere, suore, inservienti, giardinieri: tutto un sistema di personaggi che interagisce, più o meno direttamente, con i due autori ed è ben presente nei testi.

I due edifici generano un’importante opposizione fra spazi interni ed esterni. Foreste circondano la Fortezza, con il loro corredo di animali selvatici e di suoni. Un bel giardino si stende intorno alla Rocca, accessibile ai malati, così come la terrazza.

L’opposizione fra interno ed esterno assume presto un valore simbolico, e diventa quella fra malati (rinchiusi) e persone sane (fuori). Si legga in questo senso la seconda parte della poesia 24 della Fortezza[9].

24

Gelido nickel. Zaffate di lisoformio.

Lungo filari di porte con numeri

continuo il mio torpido viaggio, sfiorando

flaccide lance di cactus malati.

Nella stazione d’Alvernia la mia negritudine

pende dall’orologio appassito. Nel cubo cubicolo

non trovo ragione al mio nero tormento.

Perché siamo qui? Perché mi hanno rinchiuso,

come un vecchio ronzino coperto di zecche

a pestare i minuti come uva intinata?

La foresta respinge quei portatori che a notte

abbandonano la spedizione. E dunque resistere.

Bollire l’acqua per il Nescafé, e qualche volta

carezzare i confini dell’immensa foresta,

che circonda la nostra tenebria malsanile.

In entrambi gli autori si ritrova, con il passare del tempo e l’osservazione dello spazio esterno, lo scorrere delle stagioni, che si traduce, per la Fortezza, nell’arrivo della neve, in un’invasione di bianco. Ripellino e Bufalino si mostrano sensibili all’arrivo dell’autunno[10], in cui forse vedono rispecchiata la propria precarietà fisica.

L’opposizione interno/esterno, come abbiamo già accennato, simbolicamente è anche l’opposizione fra i malati, i morti da una parte, e i vivi, i sani dall’altra. Sia per Ripellino che per Bufalino, questa malsanìa si traduce in un sentimento di invidia verso gli altri, ma anche in un fastidio, una colpa.

[…]

Amaro è il vedersi in sfacelo nel gorgo

D’un perfido specchio spumoso, l’accorgersi

che il mondo è degli altri, e che gli altri

sono implacabili verso i mollicci,

gli storpi, gli stolidi, i cionchi, i dannati[11].

Dall’opposizione malati/sani scaturiscono due conseguenze nelle opere analizzate. Prima di tutto, per i malati la morte è onnipresente, sia nei loro pensieri, su cui getta un’ombra, sia nelle persone intorno[12] (nella Diceria alla fine del romanzo sono morti quasi tutti i personaggi principali; l’unico che si salva sembra essere il narratore stesso, e il suo è un vero e proprio ritorno alla vita)[13]. In secondo luogo, entrambi gli autori avvertono un’alterità nel loro essere malati, alterità che è suggerita dalla loro cultura, dalle strategie e dalle risorse intellettuali adottate per arginare il male.

12

In che cosa io sono diverso da quei nonostante che non pensano?

Perché soffro due volte, con la carne e col pensiero, sono forse

{diverso?

Che cosa autorizza questo briciolo ancora di presunzione,

questa boriosa primería intellettuale? Che cosa,

nell’èremo degli appestati, in Alvernia, mi distingue

dal rozzo omino che a notte chiede un po’ di codeina?

Sapessi almeno sbrogliare il linguaggio degli alberi,

io che sto recitando di spalle, io svanito. E frattanto,

lo so, i cosmonauti ci guardano[14].

Se l’alterità di malati si può definire comune per entrambi gli autori, il fatto di descrivere la propria malattia, in versi o in prosa, segna uno scarto. Ripellino nella Fortezza parla pochissimo della propria malattia, dei suoi sintomi, come frenato da un qualche pudore, oppure semplicemente eliminando i dettagli clinici dal materiale poetico a disposizione. Talvolta la malattia affiora dai testi, come nella poesia n. 27 o nella n. 32, ma si tratta di apparizioni fugaci[15]. Il diario del ricovero, almeno in Ripellino, non è racconto della propria malattia, ma di tutto ciò che le sta intorno. Per Bufalino la malattia è più visibile e si manifesta, anche qui, a sprazzi, ma in maniera più distesa, e in momenti diversi[16]. Forse la descrizione del male si presta maggiormente alla libertà della prosa: in ogni caso si avverte qui una distanza, in opposizione ai vari punti in comune, come per esempio la durata ampia dei due soggiorni.

La degenza di mesi provoca nelle due opere una deriva temporale: il tempo, durante il ricovero, sembra fermarsi (si vedano, in tal senso, la prima parte della poesia 24, già citata, o due versi della n. 4)[17], e così ogni possibilità di futuro è disattesa, risulta negata. In questo tempo sospeso, i sanatori si trasformano in teatri[18], e la malattia diventa spettacolo.

Che platea di pigiami a righe, si pigiava nella sala, forse attori eravamo anche noi, da quest’altra parte, inceronati di rosa agli zigomi e pronti a intonare in coro il nostro cantabile requiem, gli spettatori veri s’erano nascosti, ci guardavano in silenzio da una barcaccia che sembrava vuota[19].

Come suggerisce Bufalino, i due autori si ritrovano intrappolati in un sistema di scatole cinesi, fuori dalla vita, dalle attività umane e, anche se affrontano la degenza a età diverse, entrambi sono costretti ad accettare questo stato di sospensione forzata; a giocare questa partita con la morte, che avrà in seguito tempi ed esiti diversi.

In conclusione, La fortezza d’Alvernia e Diceria dell’untore rappresentano, per entrambi gli autori, una sorta di rinascita, una partenza (o ripartenza, nel caso di Ripellino) intellettuale e artistica. Per Ripellino, possiamo affermare che, a livello poetico, con la Fortezza entriamo in una fase nuova, che mostra uno scarto importante rispetto alla prima raccolta, grazie alla compattezza della sezione che abbiamo preso rapidamente in esame: alla sua unità, stilistica e tematica (e il tema della malattia tornerà, come un fil rouge, nelle raccolte successive)[20]. Per Bufalino la Diceria rappresenta l’esordio letterario, la vittoria del premio Campiello e il lancio di una sorprendente e tardiva carriera di romanziere in primis, ma più in generale di autore e intellettuale di primo piano.

Preme ricordare che entrambi hanno accompagnato la loro opera con un piccolo vademecum, con una guida che svelasse qualche mistero testuale, qualche citazione particolarmente ben nascosta, e al tempo stesso servisse come dichiarazione di poetica, di intenti. Al desiderio di soccorrere il lettore, di aiutarlo e rassicurarlo, può forse essere ricondotta la propria sopravvivenza al male, e la volontà che questa esperienza sia capita e tramandata[21].

Infine, per Ripellino e Bufalino la scrittura è un modo per distrarre, per tenere a bada la morte. Ed entrambi lo rivendicano, nei testi di accompagnamento alle opere. Concluderemo l’intervento con le parole di Ripellino, intervistato dalla Rai a margine del premio Cittadella che La fortezza d’Alvernia vinse nel 1967:

Io penso che la poesia debba essere una sintesi, una sincronia di diverse arti, che vanno appunto dalla pittura, alla musica, al jazz. Insomma, al fondo di tutto questo c’è anche un desiderio di non cadere nel solito sofferentismo che in fondo cerca di coprire il vuoto con le stille delle lacrime, ma di fare della sofferenza una cultura[22].

  1. Ripellino nel 1965 aveva quarantuno anni, ed era in viaggio per la Cecoslovacchia con la moglie Ela, quando le sue condizioni di salute peggiorarono rapidamente. Proprio Ela, nel 2003, con Alessandro Fo e Antonio Pane, ha ricostruito le fasi dell’improvviso ricovero: «già in viaggio, a Vienna, Angelo si sentì male; aveva la febbre molto alta, e non appena arrivammo al Castello [degli Scrittori] fu necessario chiamare un medico. Angelo venne immediatamente ricoverato nel vicino sanatorio di Dobříš, dove rimase a lottare contro la tubercolosi dal luglio al dicembre del ’65: gratuitamente, in quanto scrittore di chiara fama» (brano tratto da Dossier Angelo M. Ripellino, in «Il Caffè illustrato», marzo-aprile 2003). Bufalino, nell’autunno del 1944 si ammala di tisi, e viene ricoverato. Dopo la fine della guerra, nel maggio 1946, «ottiene il trasferimento in un sanatorio della Conca d’Oro, fra Palermo e Monreale», dal quale sarà dimesso, ormai guarito, nel febbraio 1947 (Cronologia, da G. Bufalino, Opere 1981-1988, introduzione di M. Corti, a cura di M. Corti e F. Caputo, Milano, «Classici» Bompiani, 1992, p. XXXVIII. Per Bufalino, questa sarà la nostra edizione di riferimento).
  2. A. M. Ripellino, La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, Milano, Rizzoli (“poesia”), 1967. G. Bufalino, Diceria dell’untore, Palermo, Sellerio, «La memoria», 1981. Per Ripellino, prenderemo come edizione di riferimento A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, Torino, Nino Aragno Editore, 2006.
  3. G. Traina, Il dialogo intertestuale di Bufalino con Ripellino: un primo sondaggio su L’amaro miele, in La “biblioteca totale”. La citazione nell’opera di Gesualdo Bufalino, a cura di M. Paino e G. Cacciatore, in «Cahiers d’études italiennes», 30, 2020.
  4. Se la Fortezza esce a poca distanza di tempo dalla degenza di Ripellino, ed è comunque un’opera inserita in una dinamica editoriale ben viva e strutturata, lo stesso non si può dire per l’esordio letterario di Bufalino, che «iniziò l’opera “nei primi anni dopo la guerra, al tempo della glaciazione neorealista”, la interruppe scontento del proprio “liberty funebre”, la riprese nel ’70 e la rielaborò per anni» (Maria Corti, dall’introduzione a G. Bufalino, Opere 1981-1988, a cura di M. Corti e F. Caputo, Milano, «Classici» Bompiani, 1992, pp. VIII-IX).
  5. Si notino, in tal senso, il ricorso insistito all’io narrante poetico, e anche una sintassi dei testi ricca di frasi di senso compiuto.
  6. «[…] assolo di requiem a gara con il barocco funebre di una terra che ama l’iperbole, e sostenuto e pomposo, quanto è lecito aspettarsi in una condizione eccessiva qual è quella di chi aspetta la fine: di cruciverba sofistico, di allegoria… Altra intenzione: di ricercare nel lirismo esibito e nell’artificio del “recitar cantando” gli stessi effetti di distacco da una materia dolente che altri nel “recitar straniato”» (G. Bufalino, Qualche intenzione, in Id., Istruzioni per l’uso, in Id., Opere 1981-1988, introduzione di M. Corti, a cura di M. Corti e F. Caputo, op. cit., p. 1301).
  7. Bufalino «è uno scrittore la cui identità, specificità vuole realizzarsi in area manieristica, in un universo barocco. L’affermazione è più sottile di quanto sembri perché B. da un lato è un raffinatissimo esperto di ludi retorici, dall’altro possiede come i grandi autori barocchi una cultura letteraria assai vasta in ambito di testi classici, medievali, moderni da utilizzare nel sublime gioco dello stile e della citazione occulta» (Maria Corti, dall’introduzione a G. Bufalino, Opere 1981-1988 cit., p. XVII).
  8. A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, op. cit., pp. 199-205.
  9. Ivi, p. 146.
  10. Poesia n. 23, in A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, op. cit., p. 145. Per Bufalino citeremo il passaggio: «Era buio, il giardino, ma distinsi il lustrare di una cesoia dimenticata nell’erba, e percepii la soddisfazione delle radici dentro la terra bruna e bagnata. È piovuto, ecco dunque l’autunno. […] Intanto quieta quieta veniva giù di nuovo la pioggia. Io restavo col capo sporto fuori a metà, sotto l’acqua che gocciava dai coppi del tetto, e mi sentivo stranamente lieto. O pago, piuttosto, mentre guardavo nel giardino il prato imbeversi ancora e l’acqua battere il suo mite alfabeto sulle sedie di ferro rovesce, sul fogliame e gli aghi degli alberi» (fine del penultimo capitolo del romanzo, in Id., Opere 1981-1988, introduzione di M. Corti, a cura di M. Corti e F. Caputo, op. cit., p. 133. Interessantissimo lo studio di Giulia Cacciatore, che ricostruisce le letture e le citazioni che ci sono dietro a questa pagina (e ad altre) di Bufalino, in G. Cacciatore, Dicerie di un lettore: altre (e inedite) Istruzioni per l’uso, in «Cahiers d’études italiennes», 30, 2020.
  11. Versi di chiusura della poesia n. 5, in A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, op. cit., p. 127. «Che altro eravamo, del resto, noi qui della Rocca, se non, ciascuno, un guardiano di faro scordato dagli uomini sopra uno scoglio di Mala Speranza? Non molti mesi erano trascorsi, pochi anzi, ma già, così dai mostri della guerra di ieri come dal nuovo patema di vita che faceva spuma d’attorno a noi, un braccio di mare morto ci aveva separati per sempre» (G. Bufalino, Opere 1981-1988, introduzione di M. Corti, a cura di M. Corti e F. Caputo, op. cit., p. 48).
  12. «[…] Ma il fondo sformato, corroso, flaccido di quelle brache, / quel rataplan, mio Dio, di babbucce / tengono a bada la morte, il suo lezzo di becco, / il suo volto esvaliato, la Senza ginocchia, la figlia di Bruegel […]» (versi di chiusura della poesia n. 6, in A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, op. cit., p. 128). «Così non c’era giorno o notte, alla Rocca, che la morte non m’alitasse accanto la sua versatile e ubiqua presenza» (G. Bufalino, Opere 1981-1988, introduzione di M. Corti, a cura di M. Corti e F. Caputo, op. cit., p. 11).
  13. «Tregua o condono che fosse in arrivo, sapevo che avrei durato fatica a rivisitare la vita, e le sue insolenze, il parapiglia preoccupante dei suoi commerci» (G. Bufalino, Opere 1981-1988, introduzione di M. Corti, a cura di M. Corti e F. Caputo, op. cit., p. 109).
  14. A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, op. cit., p. 134.
  15. Prendiamo l’incipit della poesia n. 27: «Ecco la mia maschera d’oro micenea, la mia grinta di ipocrita» e più in basso: «E poi d’improvviso noi siamo tori trafitti da spade, / che fiottano sangue dal ventre, nerissima urina»; oppure la chiusa della poesia n. 32: «Illudersi sui dopo che non esistono, e intanto / catalogare scorregge, come un Simplicissimus» (A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, op. cit., pp. 149 e 154).
  16. L’alter ego del romanzo di Bufalino evoca più volte la mancanza di fiato provocata dalla malattia; a un certo punto si diverte a confrontare le radiografie sue e di Marta, la paziente del reparto femminile di cui si invaghisce. Oppure, d’estate, è il battito del sangue a preoccupare: «Mentre il mio sangue, quell’estate, non c’era briglia che lo tenesse, e me lo sentivo battere nelle vene secondo un tempo scorretto, ora furioso ora languido» (G. Bufalino, Opere 1981-1988, introduzione di M. Corti, a cura di M. Corti e F. Caputo, op. cit., pp. 24, 49, 53).
  17. «[…] V’è un orologio dal vetro incrinato, incollato / con bende di carta, ma fermo, attrappito, impassibile. (A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, op. cit., p. 126).
  18. «Parli Charlie Rybàri, l’illusionista, il gran mago. / “Anch’io sono chiuso nel ventre di una bottiglia, / benché sappia trarre di tasca a qualsiasi nonostante / nastri, accendini, bandiere, morselli di pane / orologi. / Anch’io sono fuga di fughe, e ritorno e follore e speranza: qualcosa che sventola, sventola senza uno spazio. / Vo a cominciare, e lor tutti mi guardino, / un teatro nel teatro del teatro d’Alvernia”. Musica […]» (poesia n. 45, in A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, op. cit., p. 167).
  19. G. Bufalino, Opere 1981-1988, introduzione di M. Corti, a cura di M. Corti e F. Caputo, op. cit., p. 41.
  20. Andando in ordine cronologico di pubblicazione: in Notizie dal diluvio le nn. 4, 18, 29, 42, 49, 77. In Sinfonietta le nn. 8, 36, 55, 62, 66, 73, 78. Nello Splendido violino verde le nn. 18, 24, 37, 62, 74, 84, 85 (le tre raccolte sono adesso riunite in A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde, a cura di A. Fo, F. Lenzi, A. Pane, C. Vela, Torino, Einaudi, «Collezione di poesia», 2007). Per finire, anche in Autunnale Barocco, ultima raccolta pubblicata da Guanda nel 1977, troviamo il tema della malattia, nelle poesie nn. 36, 46, 55, 61, 72. Ma qui è meno presente, come sopravanzato da altri temi, più urgenti: la vecchiaia, in opposizione con la giovinezza perduta, e la morte (A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, op. cit.).
  21. Per Ripellino si tratta del Congedo, ora in A. M. Ripellino, Poesie prime e ultime, a cura di F. Lenzi e A. Pane, presentazione di C. Vela, introduzione di A. Fo, op. cit., pp. 201-205. Per Bufalino pensiamo alle già citate Istruzioni per l’uso (vd. nota 6), che tra l’altro non uscirono con la prima edizione Sellerio nel 1981, ma l’anno seguente, in un volumetto a parte, con una ristampa del romanzo a cura del Club degli Editori (cfr. la Nota ai testi relativa al romanzo, in G. Bufalino, Opere 1981-1988, introduzione di M. Corti, a cura di M. Corti e F. Caputo, op. cit., p. 1325).
  22. A. M. Ripellino, Solo per farsi sentire. Interviste (1957-1977) con le presentazioni di programmi Rai (1955-1961), a cura di A. Pane, Messina, Mesogea, 2008, p. 25.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023)