«Scrivo la sera, a tempo perso». Rêverie e incantamenti su Angelo Maria Ripellino, a cent’anni dalla nascita

Author di Massimo Gatta

Siamo gente che ha “dissipato” molti suoi poeti, come fece la Russia con Majakovskij, di cui scrisse Jakobson in un celebre libro. Li abbiamo lasciati andar via senza quasi trattenerli. Li abbiamo dispersi, dimenticandocene, e senza alcun rimpianto. Abbiamo lasciato che le loro tracce si confondessero lentamente e che nessuno dei loro versi trovasse davvero stabile dimora. Anche le loro biblioteche sono scomparse con loro, ad esempio quelle di Dostoevskij, di Mandel’štam, di Brodskij. E, se uno di noi entrasse oggi in una qualsiasi libreria e chiedesse alla sorridente commessa, che ha tutta l’aria di volergli dedicare il proprio tempo, se in libreria ha libri di Angelo Maria Ripellino, vedremmo il suo sorriso spegnersi come una lampadina fulminata. E allora capiremmo ciò che in fondo già sappiamo, e cioè che il più grande saltimbanco del linguaggio in quel Novecento che fu è uno dei tanti poeti che abbiamo come dissipato, un altro nome da aggiungere alla lunga lista. Ce ne torneremmo, allora, a casa svuotati, e non sapremmo dove sbattere la testa per leggere qualcuna delle sue acrobazie barocche, anche uno solo dei suoi saggi luminosi, un semplice articolo, la malìa di una frase, un piccolo aggettivo soltanto che possa riempire questo vuoto.

Angelo Maria Ripellino sulla lapide volle fosse scritto «Poeta». Perché questo fu, prima d’ogni altra cosa: un Poeta. Del resto, fu proprio lui il fondatore della «Collezione di Poesia» dell’Einaudi, la celeberrima “Bianca”; era il 22 luglio del 1964 quando sugli scaffali delle librerie apparvero le Poesie di Fëdor Tjutčev, magnificamente tradotte da Tommaso Landolfi con prefazione, appunto, di Ripellino. E ricordo bene cosa provai in quel lontano 1978 quando, a uno a uno, iniziai a raccogliere quelli che, semplificando, potrei chiamare i suoi libri, ma che in realtà sono doni, a volte anche disperati, ma doni. Sono tutti “possibilità in forma di libro”, sono misteri e connessioni, tutto fuorché semplici parallelepipedi di carta da aprire, chiudere e riporre su uno scaffale. Sono invece, e soprattutto, «una scienza spettacolo», come egli stesso scrisse, la più grande pirotecnia verbale che l’Italia abbia avuto dopo i funambolici e acrobatici voli futuristi.

Ma chi fu veramente Angelo Maria Ripellino? In Sinfonietta così si descrive: «Sono un piccolo agente di commercio, / con referenze e conoscenza di qualche linguaggio, / e con la bombetta sul capo come i cocchieri di Ostenda, / e un pastrano topesco e lercio. / Smanio e recito perché qualcuno mi senta / e si accorga che esisto. / Scrivo la sera, come suol dirsi, a tempo perso, / perché le crevettes non abbiano freddo al mercato. / Scrivo i miei sfoghi di povero cristo, / smanio e racconto come un vecchio soldato, ma non ho più la parlantina occorrente, / e il campionario è già stinto […]. Dov’è il mio furore di vivere, il mio barocco? / Stanco mi fermo a guardare con invidia talvolta / la dolce follia dei bambini che giuocano»[1]. Bisognerebbe che un giorno i suoi fidati amici, accoliti di una congrega clandestina, Alessandro Fo, Antonio Pane e Claudio Vela, che si oppongono con ogni mezzo all’oblio, ci donassero finalmente un Lessico Ripelliniano, bussola in grado di orientarci nel piranesiano palazzo barocco della sua scrittura, in cui il linguaggio assume riflessi cangianti e infiniti; un lessico in grado di mantenerci a galla nel riverbero di tanta malìa.

Partiamo dalla lingua. Ripellino è stato professore di Letterature slave all’Università di Roma. La conoscenza raffinata e l’uso strategico che aveva di varie lingue, dal russo al polacco, dal ceco al francese al tedesco, con tutto il loro bagaglio di avanguardie letterarie e artistiche che padroneggiava allegramente, dilata in maniera esponenziale il già ampio spettro dei suoi interessi. E poi la musica e le tradizioni popolari, il circo e il varietà e le leggende. Abitare il vasto mondo dell’Est, come seppe fare; essere di casa nella torre del falegname Zimmer a Tübingen, dove Hölderlin trascorre in serena follia i suoi ultimi 36 anni, firmando col nome Scardanelli alcune poesie estreme, quello stesso Scardanelli che Ripellino prende in prestito e si misura addosso: «Non fate chiasso coi cucchiaini: / nell’attiguo salotto Scardanelli continua a sonare»[2]; e poi tutto Klee, e Kafka che gioca con Emil Nolde, e Romolo Valli con Buster Keaton/Pasternak, e l’avanguardia ceca e russa al completo, e quella tedesca, la francese, e poi ancora Vladimir Holan sulla sua isola di Campa con Blok e Cechov e l’amato Arcimboldo, di volta in volta quadro, personaggio, artista, amico, collega, sogno poetico.

E la Polonia con l’amato Bruno Schulz, il «pazzo sommerso che viveva sugli orli come una bestia malata»[3]. Questo “geniale pazzo sommerso”, come scrisse Gombrowicz, il 19 novembre del ’42, nella sua Drohobycz, “cittaduzza sperduta” che non volle abbandonare, rincasando con la solita, misera razione di pane, si trovò ancora una volta completamente indifeso di fronte al Male assoluto. Fu quella la volta estrema. Due colpi di pistola gli tolsero lo sguardo e la bellezza dall’animo, sparati da un tale Karl Günther, uno dei tanti esiziali nazisti SS, per ripicca nei confronti di un altro tristo figuro, un certo Feliks Landau, un maggiorente della locale Gestapo che, come scrive il meraviglioso slavista: «impancandosi a mecenate, gli commise il proprio ritratto e gli fece adornare di affreschi e di boiserie la Reitschule e la propria villa»[4]. Ora Landau, che Günther odiava, qualche tempo prima gli aveva ucciso un suo protetto. Insomma, una triste ripicca, una vendetta inutile, com’è inutile un lampione acceso di giorno. Suono sfocato nel frastuono terribile in quella Drohobycz occupata dai nazisti, ma sufficiente a togliere di torno per sempre uno dei grandi, meravigliosi, solitari e pazzi scrittori del Novecento.

Quello stesso giorno, il 19 novembre 1942, altri cento ebrei seguirono il nostro “pazzo sommerso” nel buio indistinto del non ritorno, uccisi l’uno per l’altro a casaccio. Solo la notte il suo corpo venne amorevolmente raccolto da un amico, come uno straccio sporco ormai inservibile, per essere deposto nel locale cimitero ebraico. La tomba è però sparita: nessuna traccia rimasta di quel cimitero, di quello scrittore geniale e solitario che qualche anno prima, era il 1938, a lungo esitò se andare a Parigi o comprarsi un divano. Bruno Schulz, è di lui che stiamo scrivendo, non pubblicò quasi nulla in vita: i racconti delle Botteghe color cannella nel ’34, a 42 anni; Il Sanatorio all’insegna della clessidra nel ’37 e l’anno dopo, quasi a chiudere il ciclo, La cometa, tutti racconti nati come propaggini di missive, prolungamenti, filamenti di lettere inviate sia a Debora Voget, poetessa sua amica invaghita di pittura moderna, sia a un amico poeta mortalmente malato, ovviamente.

Nel frastuono di sangue, dolore e morte della Polonia nazificata colarono a picco molte lettere, quadri e disegni, oltre che una terza raccolta di racconti e un romanzo, Il Messia, che Schulz aveva lavorato negli ultimi anni. Scomparve tutto di quest’uomo «di bassa statura, gli occhi fiammeggianti, un inquieto ciuffo nero; polsini della camicia sempre sporgenti dalle maniche di vestiti di solito grigio cenere» (Andrzej Chciuk)[5], inabissandosi in quell’inferno grigio e freddo. E sempre Gombrowicz, uno dei «tre bislacchi sui margini» (Ripellino)[6], gli altri due lo stesso Schulz e Witkiewicz, lo descrive «minuto, bizzarro, chimérico, assorto, teso, quasi bruciante»[7]; altrove «misàntropo», «timidissimo», «ombroso», «sempre tuffato nei sogni, con mille fantasmi che gli matteggiavano in capo, sfuggiva la compagnia degli estranei, il fragore del mondo» (ancora Ripellino)[8], insomma un estraneo, un eretico. Inevitabile che di un tale coacervo di aggettivi finisse per invaghirsi il genio eccentrico ripelliniano, la sua meravigliosa prosa critica, la poesia barocca della sua scrittura. Ed “eccentrico” fu proprio l’aggettivo con il quale la piccola borghesia di Drohobycz, nella solitudine sterminata di questo pezzo di Galizia austro-ungarica, forse in buona fede o forse no, era solita indicare quella “gracilità malandata” chiamato Bruno Schulz.

La prosa con la quale Ripellino, nel 1970 nella collana einaudiana dei «Supercoralli», Io presentava ai lettori nella prima edizione italiana appunto delle Botteghe color cannella, ha un che di magàto, perfetto e irripetibile, come quando la scrittura diventa “altro”, scardinando e valicando i generi e le forme collaudate del già visto, del già scritto, del già Ietto. La magia critica ripelliniana è tale da essere tutt’uno con la propria poesia, la prosa aderendo come un guanto a scrittori a lui congeniali, e Schulz lo fu come pochi. Rileggere questo Ripellino in questo Schulz è un bene prezioso, un balsamo, bussola per non perdersi nel vago della scrittura amorfa. Tutto risuona, perfino le accentuazioni, segno distintivo di questo siciliano unico e irripetibile. Come poteva Ripellino non attardarsi per anni nei pressi di questa «creatura in esilio, un superfluo, un escluso»[9], a lui talmente congeniale? E intrattenersi nel «sentimento di umiliazione e di contumacia»[10] di Schulz, retaggio secolare della stirpe ebraica? Infatti, Ripellino donò al lettore schulziano un’impagabile lezione di stile, di narrazione critica, di profonda giocolerìa terminologica, dove si percepisce, anche in absentia, l’assoluta vicinanza dei due scrittori, la loro consanguineità, il reciproco ritrarsi in disparte, di scansarsi. Perfino Io Schulz grafico e disegnatore, altro lato chiaroscurale dello scrittore, appare ad alcuni come in linea coi demonòlogi, arrivando a ipotizzare che le sue incisioni fossero in fondo «poemi della ferocia dei piedi» (Witkiewicz)[11]. Cos’altro era, infatti, «l’irrequietezza di piedi mirabilmente lavati e privi di calli» di quelle frigide donne schulziane che, di volta in volta, calpestavano, opprimevano, inebriavano, se non manifestazione della ferocia verso «glabri gobbi imploranti che schiumano di desiderio, estrema propaggine forse, ma quanto contratta e rospesca, dei mesti pierrots di Laforgue, anch’essi imberbi e idrocèfali» (Ripellino)[12]? E, quando lo slavista ricorda quanto scriveva Gombrowicz di sé e di Schulz, e cioè che «entrambi ci aggiravamo per la letteratura polacca come uno svolazzo, un addobbo, una chimera, un manico di violino»[13], oppure che alla gente questi due giganti della letteratura polacca apparivano all’epoca come «cervelli mal ristuccati e balzani, della stessa pasta, cugini nell’esperimento e nei trucchi verbali»[14], siamo sicuri che non parli in fondo anche di sé stesso?

Inclassificabili Schulz e Gombrowicz, inclassificabile Ripellino che di loro due fu magistrale cantore. In quelle odorose botteghe di merci rare che aprono solo di notte nella sua cittaduzza galiziana, appunto color cannella, dalla tinta delle brune boiserie che le rivestono, sembra declinarsi l’intero malinconico immaginario schulziano. Sono bottegucce e baracche «fatte di scatole di caramelle, vistosamente tappezzate di réclames di cioccolata, piene di saponette, di allegra paccottiglia, sciocchezzuole dorate, stagnole, trombette, wafer e mente colorate»[15], così simili ad alcune che, anni fa, ancora adornavano i vicoli più remoti e ombrosi della mia Napoli, e dove entrare normalmente era quasi impossibile, e infatti ci si penetrava a stento, come in un antro oscuro e magàto, piccolo regno di meraviglie e paccottiglia, dov’era impossibile venire a capo d’alcunché, così come fare domande al donnone che, fuori nel vicolo, s’arieggiava il corpo straripante e sudato, seduta su una sgangherata sedia, che un tempo lontano era imbottita di paglia. Rileggere come Schulz descrive quelle botteghe, in particolare quella di tessuti del padre, diventa una sorta di baedeker necessario per penetrare l’”arcanità”, come la chiama il poeta siciliano, di un emporio di pezze in equilibrio sugli scaffali legnosi (teatro «tessile, microcosmo di sortilegi», come mirabilmente li nomina ancora Ripellino)[16]. Botteghe alle quali sembra contrapporsi I’affarismo canagliesco del petrolio, la sua genìa irriverente e cruda che Schulz immortala nella contigua Via dei Coccodrilli, tutta una “rapinerìa” nata all’ombra dell’oro nero che sembra confliggere inesorabilmente con la tradizionale arcaica saggezza delle botteghe d’antan impersonate in quella del padre Jakub, alter ego del figlio Bruno, e anch’esso personaggio che «continuamente si eclissa e riappare dal limbo delle metamorfosi e della morte, campione del nonsense a contrappunto col praticismo degli uomini»[17]; un sognatore che «restava in continuo contatto col mondo invisibile dei ripostigli oscuri, delle tane dei topi, dei vuoti spazi tarlati sotto il pavimento e delle gole dei camini» (Schulz)[18]. Sembra leggersi in filigrana un contrappunto mentale di Scardanelli, come si firmava l’Hölderlin della follia in alcune poesie estreme scritte nella torre del falegname, come che, ancora non casualmente, Ripellino, come visto, farà suo in molteplici poesie.

Comunque sia, anche in questo teatrino speculativo e clownesco, in mano ai coccodrilli dell’affarismo spregiudicato del petrolio, Schulz sembra intravedere una propria maravigliosa identità, in fondo pur sempre incantata e favolesca, proscenio, palcoscenico e golfo mistico dell’intera sua scrittura. Insomma, una gioia per sempre, un dovere etico, una magnificenza assoluta, una pace interiore, è il tornare al guitto Schulz attraverso il guitto Ripellino o arrivare a Ripellino attraverso Schulz, tanto consustanziali sono i due tipacci. E mai dimenticare che nel ’36 Schulz tradusse in polacco II Processo di Kafka, mettendo la sua arte in stretta fratellanza con quella kafkiana, soprattutto nella pratica delle molteplici metamorfosi che Ripellino, in quella introduzione, saggiamente rilevava; metamorfosi che Schulz riprendeva ovviamente dal Kafka della Verwandlung del ’15, ma declinandole di volta in volta sul versante degli uccelli, delle blatte (Gregor Samsa traffica coi tessuti, come il padre di Schulz), delle mosche, dei gamberi e degli scorpioni, applicate al padre Jakub.

E, quanto della straripante e multicolore verve linguistica e terminologica di Schulz è transitata, per poi sottilmente e meravigliosamente decantare e fiorire, in quella ripelliniana a cui siamo devoti, cifra inconfondibile del suo genio inesorabilmente senza eredi? Un esempio: nella sua mirabolante Introduzione all’edizione Einaudi del ’70, Ripellino, parlando degli uccelli che la domestica Adela aveva disperso e che tornano poi da Jakub, il padre di Schulz, così scrive: «cadono come un’informe congerie di piume, si rivelano ciechi, di cartapesta, farciti di putridume, scontraffatte chimere, splendidamente colorate ma vuote»[19]; e proprio quelle «scontraffatte chimere» diventeranno, a nove anni dalla morte del critico e poeta siciliano, il titolo di una sua raccolta postuma di poesie, curata da Giacinto Spagnoletti. E, siccome nulla accade per caso, sarà proprio Scontraffatte chimere il libro che un amico, poi prematuramente scomparso, mi donerà da un suo viaggio in terra sicula, esattamente la regione dell’anima ripelliniana.

Cos’altro chiedere, in fondo, a noi poveri lettori che da soli abbiamo dovuto sbrogliare quest’intera, luminosa giocolerìa di pagine per stargli dietro nei versi, nella critica teatrale che adoperò come un coltissimo clown, nella critica d’arte e nei futurismi, dadaismi e surrealismi di ogni latitudine; e poi ancora rincorrerlo nei meandri del Poetismo ceco quando coloro che riuscirono ad acquistare la sua Storia della poesia ceca contemporanea capirono al volo che, per stargli dietro, avrebbero dovuto faticare tantissimo, districarsi, non semplicemente leggere il libro a letto aspettando il sonno? Ma anche quello era un dono. Lì si parlava di cubismo a Praga, di Apollinaire e dell’avanguardia ceca, di teatro liberato e dei clown Vósyovec e Werich, di surrealismo, di Seifert che danza con Valéry e anche di realismo socialista. Ma chi trattava temi simili nell’Italietta di quegli anni? Solo un folle poteva mandare in libreria libri così e scrivendo che:

Non c’è divario tra i miei saggi, i miei racconti, le mie liriche: allo stesso modo diramano le loro radici nell’humus del teatro, della finzione pittorica, allo stesso modo ricorrono alle duplicazioni e ai camuffamenti. Un’ebbra molteplicità di rimandi e reminiscenze ricerca e nutre il tessuto della mia scrittura. […] Al sottovoce, al sommesso, al da camera di altri poeti contrappongo un ardente ordito fonetico, agganci ed incastri di suoni, l’attività dei bisticci, delle omofonie, l’arroganza della Paronomasia.

Dalla natia Palermo si era portato a Roma lo splendore variopinto della Vuccirìa, che entrava e usciva nelle sue acrobazie barocche ed espressionistiche à la Ensor. Bisognava essere esperti nella difficile arte della navigazione per seguire le impervie e lussureggianti traiettorie mentali della sua critica letteraria. Uno così, un «guitto» come scrive di sé, era giusto isolarlo come un pericoloso virus: «Avvicinatevi e prestatemi ascolto: Non / conoscete voi i famosi odiatori del genio, / della personalità, della grandezza, / della semplicità?»[20], scrisse Bruno Barilli nei Taccuini e altrove: «si mettono in pentola le aquile e si conferiscono / ai capponi gli onori, l’incenso e gli attributi / imperiali»[21]. Uno che parlava di circo per dirci di Blok o di moda per spiegare Cechov: uno così era tempo che tornasse nei luoghi angusti e fumosi della poesia dai quali, peraltro, mai si era mosso.

Ripellino è poeta sempre, anche quando apparentemente scrive di teatro e fa il regista, o di musica o di letteratura o di avanguardie artistiche. E non esserne riconosciuto come esponente gli diede, soprattutto all’inizio della sua collaborazione einaudiana, non poco malessere. E le sue poesie, dopo Notizie dal diluvio (Einaudi 1969) e Sinfonietta (Einaudi 1972) transiteranno con difficoltà per le stanze di via Biancamano, in attesa di pubblicazione, passando da un tavolo ovale all’altro, da un giudizio all’altro senza che si giungesse a una “sentenza” di pubblicazione. Lo stesso Ripellino, nella lettera a Einaudi del 23 maggio del ’75, ne sollecitava un giudizio, uno qualsiasi, e Giulio Einaudi di suo pugno a margine della lettera scrisse «sono così brutte?»[22]. E solo l’anno dopo si decisero, finalmente, a pubblicare Lo splendido violino verde.

Era anche troppo distante dagli “stitici tecnici catastali” dell’Accademia. Entrò, infatti, di striscio nell’acida contestazione studentesca del Sessantotto, sfiorato da quell’acido eppure colpito lo stesso al cuore dai suoi studenti; da leggere al riguardo la struggente Lettera agli ‘anziani’ (anziani studenti, ovvio), che scrisse in quell’occasione. Temeva un ritorno all’indietro, ma non come l’Angelus novus di Klee che guarda indietro ma è spinto nel futuro. Temeva i protocolli, le tabelle, le date, la poesia imbalsamata anziché di carne e sangue, e lo scrisse: «Ora torneranno gli schemi, le secchezze dei dati, la Vecchia Scuola, il Manuale dalle gambe corte, il liceo, i bicchieri di piombo invece dei vetri di Tiffany, lezioni protocollari, e non più iridescenze. È ciò che vuole la nuova generazione dell’Istituto: nacque-scrisse-morì-requiesca: e niente choc, niente salti, niente deliri»[23]. Temeva di non essere “riconosciuto” come uno di loro, ma di essere per loro solo e soltanto un professore: «Slavista! Mi gridano i fiumi di piazza Navona. Slavista! Mi gridano da un carro funebre/ gonfio come una torta dai riccioli d’oro»[24].

Quale accademico del suo livello, al contrario, si sognava di pensare e scrivere in quel modo? Il mondo che Ripellino ha descritto esiste perché lui lo ha scritto, usando quelle e non altre parole, una fedeltà che sovente ha messo in imbarazzo i suoi esegeti, costretti a fare i conti, sudando in un corpo a corpo col suo lessico. Felici quegli studenti che, ai suoi esami, si sentivano chiedere cosa ci fosse nell’armadio nel terzo atto del Giardino dei ciliegi. Ovviamente Cechov non lo scrive, ma Ripellino voleva che i suoi studenti aprissero comunque quell’armadio e vedessero e raccontassero il fascino di quegli abiti, e dagli abiti sapessero poi risalire all’arte russa d’avanguardia e alla musica, e a Blok che s’innamora di Isadora Duncan, e da lì spiare financo il circo coi clown che il giovane Nabokov forse amava, e infine incamminarsi, assieme a Bulgakov, verso lo Stagno degli Imperatori dove principia il suo capolavoro letterario, e poi tornare indietro e risalire ancora, e poi svoltare di nuovo. Una sinfonia di umori, di colori, di note e di poesia. Ditemi voi se essere studenti di quello strano professore, coi baffetti siciliani alla Mastroianni del Bell’Antonio, non doveva rappresentare un’immane esperienza, una fortuna senza limiti, un dono insperato? Quando, tra la polvere degli scaffali di una libreria, dove rare mani si dispongono a sfogliare libri e, a volte, addirittura ad acquistarli; ebbene quando su quegli scaffali arrivarono i suoi libri-biblioteca come gli estremi Saggi in forma di ballate. Divagazioni su temi di letteratura russa, ceca e polacca, oppure Letteratura come itinerario nel meraviglioso, II trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, oppure le maliose Storie del bosco boemo, il fantasmagorico scritto su Jiri Kolar (di cui scrisse anche nel catalogo della mostra alla Galleria Rebus di Firenze), e fino a quella Praga magica, forse l’unico titolo veramente conosciuto anche dai non affiliati alla sua setta esoterica; ebbene quando questi libri furono lì, pochi seppero cosa farne davvero. Oggi sono quasi tutti al macero.

Ripellino aveva il dono di far trasmigrare nel linguaggio, sia poetico che saggistico, tutte le sue frequentazioni culturali. Era una sorta di bancone da farmacia, di quelli cinesi con centinaia di minuscoli cassettini. Basta sfogliare il volume I sogni dell’orologiaio. Scritti sulle arti visive 1945-1977 e misurare l’arco che il suo compasso critico riesce a disegnare per noi sulla pagina. Un saltimbanco coltissimo e imprendibile, ironico, spesso tetro e malinconico; sommozzatore negli abissi di lingue incomprensibili che per noi scioglieva in abbracci e risate, fu spiritosissimo amante di scherzi telefonici, istrione e mago, un pericoloso irregolare. Fu un grande che l’Italia si fece sfuggire, dissipandone l’immenso teatro linguistico: gli attrezzi che usava furono lasciati ad arrugginire sul muro e nessuno o quasi si accorse che quel 21 aprile 1978 la saracinesca era calata per sempre.

Le mani amorevoli che in questi anni hanno raccolto il testimone di quanto di lui ancora era disperso, in rare riviste e settimanali, ci hanno consegnato un Ripellino sempre bruciante, dove il farsi poesia è qualcosa di tangibile, e non c’è differenza tra scrivere un verso e fare critica teatrale, come per quasi un decennio fece su un grande settimanale come «L’Espresso». Di questo lavorìo critico dobbiamo esser grati, tra gli altri, ad Alessandro Fo, Antonio Pane e Claudio Vela, che mandarono in libreria il suo Siate buffi. Cronache di teatro, circo e altre arti. L’Espresso 1969-77, col quale facemmo la conoscenza di alcuni dei suoi lari. Un volume densissimo, 727 pagine di puro funambolismo critico, dove la poesia ha sempre una possibilità di irraggiare la scrittura necessariamente giornalistica.

Anche Nel giallo dello schedario. Note e recensioni “in forma di ballate” (1963-73) riempie un vuoto, indica una strada, stimola la parte di cervello ancora irrorato di sangue. Curato con maestria da Antonio Pane, raccoglie recensioni e articoli che Ripellino pubblicò sul «Corriere della Sera» e «L’Espresso», con la sua giurisdizione del cuore al completo: Puškin, Dostoevskij, Gončarov, Gogol’, Majakovskij, Nabokov, Hoffmann, Orten, Kolář, Hrabal, Hašek, l’amato Pasternak, molti da lui stesso tradotti e fatti conoscere in Italia nel 1965 con la celebre antologia poetica russa. Cosa dire, poi, della sua poesia? Le tante raccolte, dal primo e raro Non un giorno ma adesso, con copertina e disegni di Achille Perilli, a La Fortezza d’Alvernia e altre poesie; da Notizie dal diluvio a Sinfonietta, fino agli estremi Lo splendido violino verde e Autunnale barocco, raccolte anch’esse irreperibili per i comuni mortali: se ne fece uno spoglio in Poesie 1952-1978. Poi fu il silenzio sulla sua poesia.

Ma noi siamo uomini fiduciosi. Abbiamo imparato ad attendere, a farci carico del peso del tempo. Svegliandoci, una mattina di aprile del 2003, scoprimmo in edicola che il n. 11 del «Caffè Illustrato» aveva pubblicato un Dossier Ripellino, con saggi, articoli, anche suoi, e un bel portfolio fotografico, a cura di Alessandro Fo e Antonio Pane, gli stessi che dedicarono al poeta il n. 23 di «Trasparenze» (2004). Lo scrittore temeva che lo avrebbero presto dimenticato: «Non si accorgeranno nemmeno / di quello che hai scritto. / Getteranno i tuoi versi tra gli stracci vecchi. / Resterai sguattero, guitto / in questa fiera di gattigrù delle lettere. / Sei un viluppo di piume, una balla di fieno, / carica di gorgheggianti uccellini. / Ma per chi cantano? Chi mai li ascolta? / Merda. Sarebbe meglio scrivere / novelle per pollivendoli, romanzi zuccherini, / storielle piovose, canzoni da balera. / Ma è tardi ormai. Scriverai ancora versi, / questa feccia di vino che nessuno vuole bere»[25]. Era di casa nei vicoli della vecchia Praga ebraica con la Primavera nel ’68 nelle strade, e anche dopo 30 anni tra i carri armati sovietici nell’invasione della Cecoslovacchia, vicende che seguì come corrispondente dell’«Espresso», articoli («letteratura civile» come chiosò Fo) poi raccolti nei Fatti di Praga e di cui Guido Ceronetti scrisse: «è giusto che le parole più umane e arroventate su Praga, nei giorni di Dubcek e dopo la sua caduta, in Italia, siano state scritte da un poeta»[26].

Oggi un Ripellino avrebbe difficoltà a districarsi nei cunicoli bui nei quali è stata relegata la critica, o quel che ne resta. Saprebbe a stento riconoscere una vetrina, un’insegna, una soltanto di quelle parole che così spesso usava, accentuandone il significato per dilatarlo al di là dei suoi confini naturali per espanderla nel sogno. Saprebbe poco di doxa, best seller, di reality, di fast-food, e rimarrebbe stupito e muto, attonito come il Buster Keaton così spesso invitato alle feste delle sue poesie.

  1. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Sinfonietta, Lo splendido violino verde, a cura di A. Fo, F. Lenzi, A. Pane, C. Vela, Torino, Einaudi, 2007, p. 160, poesia n. 56.

  2. Ibidem.

  3. A.M. Ripellino, Schulz, in Id., Saggi in forma di ballate, Torino, Einaudi, 1987, p. 184. Qui Ripellino riprende da Witold Gombrowicz la definizione di «pazzo sommerso» riferita a Schulz.

  4. Ivi, pp. 182-83.

  5. Ivi, p. 183.

  6. Ivi, p. [181].

  7. Ivi, p. 183.

  8. Ibidem. Qui Ripellino traduce ‘misàntropo’ l’originale odludek.

  9. Ibidem.

  10. Ibidem.

  11. Ivi, p. 184. L’espressione qui riportata «in linea coi demonòlogi» è citazione testuale di Witkiewicz ripresa nel testo da Ripellino.

  12. Ibidem.

  13. Ivi, p. 185.

  14. Ibidem.

  15. Ivi, p. 187. Qui Ripellino cita testualmente da Botteghe color cannella di Schulz.

  16. Ibidem.

  17. Ivi, p. 190. Per il riferimento nel testo ripelliniano al Trattato dei manichini di Schulz rimando al prezioso scritto di Francesco Pemunian, Bruno Schulz, Torino, Aragno, 2018 nel quale è contenuto anche La maldicente moglie del dottore Wilcza. Una pubblica corrispondenza, di Bruno Schulz.

  18. Ibidem: ancora una citazione testuale dalle Botteghe color cannella.

  19. Ivi, p. 191.

  20. B. Barilli, Capricci di vegliardo e taccuini inediti 1901-1952, a cura di A. Battistini e A. Cristiani, Torino, Einaudi, 1981, p. 65.

  21. Ivi, p. 70.

  22. La lettera di Ripellino del 23 maggio 1975 è ora in A. M. Ripellino, Lettere e schede editoriali (1954-1977), a cura di A. Pane, introduzione di A. Fo, Torino, Einaudi, 2018, pp. 124-25; il giudizio espresso da Giulio Einaudi a margine della lettera è riportato a p. 124, nota 1; si tratta di un’edizione fuori commercio, stampata in 1000 copie numerate, e si cita dalla copia n. 199.

  23. A. M. Ripellino, Lettera agli anziani, in A. Fo, A. Pane, Storia di Ripellino (seconda parte), in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia. Università di Siena», vol. XI, 1990, pp. 239-40.

  24. A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio, Torino, Einaudi, 1969, poesia n. 2.

  25. A. M. Ripellino, Autunnale barocco, Parma, Guanda, 1977, poesia n. 17.

  26. G. Ceronetti, Briciole di colonna 1975-87, Torino, La Stampa, 1987.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023, vol. II)