Fra tenebra e tenebra. Osservazioni sui taccuini di Nicola Chiaromonte

Author di Ugo Perolino

L’atto di comunicare – si legge in un passaggio dei taccuini di Nicola Chiaromonte – discende da una sorta di «abnegazione verso l’esistenza comune»[1], dalla “fiducia in ciò che dura”. Conformata alla luce platonica dell’essenza e dell’idea, la parola si aliena dalle contingenze e menzogne della storia: la salvezza è altrove. Tutta la scrittura chiaromontiana sembra reggersi sulla forza di un gruppo di enunciati che hanno stabilità di assiomi: la fiducia in ciò che dura, l’opposizione inconciliabile tra l’ordine del discorso e quello degli eventi; l’evidenza che nulla, nel destino comune, si sottrae alla contingenza e tutto corrisponde all’inerzia della forza e del caos.

I taccuini del biennio 1963-1964 sembrano attraversati da un cupo pessimismo che si manifesta insistentemente e quasi ossessivamente nel senso di chiusura del “reale”, termine che identifica simultaneamente una metafisica e un’ideologia, una precettistica estetica e una visione morale. «Se non esiste che il reale, ossia l’insieme degli oggetti e il seguito dei giorni», annota Chiaromonte in una pagina al contempo tersa e buia, «la morte – il fatto della morte inerente in ogni momento e permanente in ogni pensiero – la morte, dunque, non lascia un solo oggetto, un solo fatto, un solo momento essere reale, regna su tutto come il solo fatto irrefragabilmente reale e non c’è alcuna cosa reale, alcun momento reale, alcuna realtà la più corposa che non sia resa dalla morte equivalente al sogno, al ricordo, all’illusione»[2].

Lo zibaldone di Chiaromonte rappresenta ancora per la cultura italiana un territorio in parte inesplorato. Com’è noto, l’intero corpus consta di 53 taccuini scritti tra il 1955 e il 1971 i cui originali manoscritti sono attualmente conservati alla Beinecke Library dell’Università di Yale. Nel 1995 un’ampia selezione di questo materiale è stata pubblicata con il titolo Che cosa rimane dalla casa editrice bolognese Il Mulino grazie alle cure di Miriam Chiaromonte, coadiuvata nella scelta dei testi da Paolo Milano e Gustaw Herling. Si tratta – scrive Raffaele Manica – di una «zona segreta e provvisoria di riflessione»[3], per la quale resta aperta l’alternativa «se procedere secondo l’ordine dell’autografi (spesso cronologico) o se favorire una lettura continuata, adottando una sistemazione tematica»[4]. È appena il caso di ricordare che un’oscillazione analoga è toccata in sorte ai Quaderni di Gramsci, a lungo conosciuti e letti nell’edizione tematica di Togliatti e Felice Platone, e soltanto in un secondo momento riordinati secondo criteri filologico-testuali con l’obiettivo di riprodurre l’esatta conformazione e stratificazione temporale della scrittura.

Testi problematici, dunque, un work in progress quotidiano che scorre come un fiume carsico sotto le attestazioni della scrittura formalizzata per la stampa. I taccuini – scrive Manica – sono tracciati con «una grafia dai segni quasi privati, perfino criptici a un primo sguardo»; costituiscono «una sorta di magazzino al quale eventualmente attingere, un laboratorio di pensiero, e anche un luogo di esercizio spirituale nella più ampia delle accezioni: uno speciale modo di pregare, riflettendo»[5]. Proprio quest’ultima, suggestiva indicazione, avvicina Che cosa rimane alle lettere a Muska (al secolo Melanie von Nagel), e in generale allo stile epistolare di Chiaromonte, una sorta di continente sommerso che ha cominciato ad affiorare nell’ultimo decennio grazie alle ricerche di Marco Bresciani, Cesare Panizza e altri[6].

Esercizi spirituali, magazzino e laboratorio di pensieri e segni appuntati per una lettura complice e intima, mai corriva, piuttosto scarnificata nei suoi punti di appoggio o di caduta, i taccuini sono il luogo di una resa dei conti con l’io, di una chiara esposizione della materia di cui è fatta la coscienza. È del tutto evidente l’insofferenza di Chiaromonte verso la psicoanalisi e il marxismo, cioè verso quelle teorie che inscrivono l’individuo in un diagramma di forze che lo determinano. La fede nella contingenza – paradossale per un platonico – è per lui assoluta; destino e necessità concorrono a fissare il riflesso dell’irrazionalità della storia: «Il Fato è questo: l’impossibilità di sapere in anticipo quali saranno le conseguenze di un atto, la possibilità fino all’ultimo minuto che qualcosa di diverso da ciò che sembrava inevitabile accada e, con questo, il carattere assolutamente decisivo dell’evento»[7]. L’individuo è il perno su cui ruotano la contingenza e il fato; forma instabile, coagulo o «groviglio di desideri di pensieri di volontà e velleità contraddittorie e casuali dalle quali sembra che solo il caso l’arbitrio l’occasione l’impulso momentaneo scelgano»[8]. Questa intensa immaginazione del nulla, che lambisce e insidia da ogni lato la stabilità dell’essere, sembra suggerire qualche analogia con il discorso di Ray Brassier, esponente di punta del realismo speculativo. Con Brassier o con gli apocalittici del cambiamento climatico Chiaromonte, forse, oggi condividerebbe l’idea di un legame necessario, una «legge comune che regge il comportamento umano e il Cosmo»[9], l’incertezza sul mondo a venire, l’angoscia dell’estinzione. Nei taccuini è documentata questa linea di pessimismo radicale, che nei termini attuali rimanda alle descrizioni dell’Antropocene, cioè alla volontà politica della specie come forza catastrofica su scala planetaria. In un appunto intitolato La fine dell’uomo Chiaromonte annota: «Poiché se ne parla oggi come di un fatto non solo possibile ma probabile, bisogna pure affrontarlo col pensiero almeno, il fatto possibile di una fine del mondo e dell’umanità non nell’apocalissi di un Dio giudice, ma nella catastrofe causata dall’intelligenza, dalla volontà, dall’iniziativa e dall’impresa dell’uomo stesso». Si tratta di un immaginario puntualmente rilevato anche nelle scritture e critiche teatrali, come sottolinea Manica in un importante passaggio della sua Introduzione, a proposito della cosmologia di Čhecov, nel Gabbiano: «il mondo dopo la fine», «il mondo tra duecentomila anni, quando tutte le vite, compiuto il loro triste ciclo, si sono spente»[10].

Ad arginare la gnosi e il sentimento della perdita del mondo, opera in lui un vincolo che risale al pensiero greco:

L’individuo può pensare la propria fine – deve pensarla – ma non può pensare quella del genere umano, non può che pensare la continuazione della impresa umana. La fine è un pensiero limite, significa pensare la continuità e immortalità dell’uomo malgrado anche la probabilità della fine[11].

Questa prospettiva si è misurata nel corso dell’esistenza di Chiaromonte con fatti storici di portata globale, dall’affermazione dei fascismi, negli anni Venti e Trenta, alla crisi dei missili a Cuba negli anni Sessanta; ma anche con una realtà più pervasiva e apparentemente meno traumatica come l’affermazione della società di massa. Il lavoro silenzioso della letteratura – «con l’ombra si fabbricano gli oggetti più consistenti e resistenti al tempo: le trame dei pensieri»[12] – consiste nel traslare dalla prima alla terza persona i segni e l’esperienza del tempo. Il «mondo “reale”, il mondo “obiettivo”, il mondo alla terza persona»[13] – annota lo scrittore nei taccuini – è compatto, stabile, continuo; la rappresentazione integra e coerente, senza lacune o interruzioni, confida nel «mito di un mondo reale davvero, non scisso e fratturato, costruito tutto e tutto pieno di senso»[14].

A proposito dei rapporti tra storia e narrazione Manica cita opportunamente un’importante chiosa di Chiaromonte che accompagna la pubblicazione di Credere e non credere: «a mio parere – annota l’autore – è soltanto attraverso la finzione, nella dimensione dell’immaginario, che è possibile apprendere qualcosa sull’esperienza storica dell’individuo»[15]. Non si tratta di diluire la realtà nei flussi della narrazione, secondo un’istigazione postmoderna che si rifà al lavoro di Hayden White. Nell’Introduzione al «Meridiano» Manica ricorda gli studi filosofici e filologici di Carlo Diano – il saggio L’evento nella tragedia attica e il libro Forma ed evento (1952) –, «nel cui impianto sono riscontrabili non poche analogie con Credere e non credere»[16]. Perché un evento possa essere considerato come tale – scrive Diano – è necessario che «codesto accadere io lo senta come un accadere per me»[17]: svelandosi alla coscienza, l’evento deve rivelare una configurazione di senso nel continuum disorganico dell’esperienza. È, narrativamente, il problema del passaggio dalla prima alla terza persona, attraverso il quale il romanzo porta a visibilità i paradossi della storia.

  1. Per le citazioni si rimanda a N. Chiaromonte, Lo spettatore critico. Politica, filosofia, letteratura, progetto editoriale, saggio introduttivo, cronologia e note di R. Manica, Milano, Mondadori (Collana «I Meridiani»), 2021. I testi dei taccuini, Che cosa rimane, si trovano alle pp. 445-696. Per la Nota al testo di Raffaele Manica si rimanda alle pp. 1776-78. La citazione si trova a p. 449.
  2. N. Chiaromonte, Che cosa rimane, op. cit., p. 453.
  3. Si veda la Nota al testo, p. 1777.
  4. Ivi, pp. 1777-78.
  5. Ivi, p. 1777.
  6. Si rimanda, in ordine di pubblicazione, agli epistolari pubblicati nell’ultimo decennio: «Cosa sperare?». Il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte: un dialogo sulla rivoluzione (1932-1955), a cura di M. Bresciani, Prefazione di M. Battini, Napoli, ESI, 2012; N. Chiaromonte, Fra te e me la verità. Lettere a Muska, a cura di C. Panizza e W. Karpinski, Forlì, Una Città, 2013; N. Chiaromonte-A. Camus, In lotta contro il destino. Lettere (1945-1955), traduzione di A. Folin, Vicenza, Neri Pozza, 2021.
  7. N. Chiaromonte, Che cosa rimane, op. cit., p. 640.
  8. Ivi, p. 512.
  9. Ivi, p. 514.
  10. N. Chiaromonte, Il meraviglioso Čechov, in Lo spettatore critico…, op. cit., pp. 1551-54: 1553.
  11. N. Chiaromonte, Che cosa rimane, op. cit., p. 530.
  12. Ivi, p. 617.
  13. Ivi, p. 618.
  14. Ibidem.
  15. Traggo la citazione dall’Introduzione di R. Manica, Nicola Chiaromonte e i paradossi della storia, op. cit., p. LXVI.
  16. Ivi, p. LXIX.
  17. Ibidem.

(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. II)