Freud e Croce: differenze e inaspettate sintonie

Author di Stefano Brugnolo

Voglio provare a stabilire un confronto tra Freud e Croce a partire da uno degli assiomi della filosofia estetica di Croce e cioè quello che prevede una perfetta coincidenza tra forma e contenuto o più precisamente tra intuizione ed espressione.

Ecco una citazione tra le tante che lo attesta:

Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in una espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo. Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle. L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime. Se questa proposizione suona paradossale, una delle cause di ciò è senza dubbio nell’abito di dare alla parola «espressione» un significato troppo ristretto, assegnandola alle sole espressioni che si dicono verbali; laddove esistono anche espressioni non verbali, come quelle di linee, colori, toni: tutte quante da includere nel concetto di espressione, che abbraccia perciò ogni sorta di manifestazioni dell’uomo, oratore, musico, pittore o altro che sia. E, pittorica o verbale o musicale o come altro si descriva o denomini, l’espressione, in una di queste manifestazioni, non può mancare all’intuizione, dalla quale è propriamente inscindibile[1].

Croce nel fare queste affermazioni è consapevole che sono «paradossali» perché in effetti esse cozzano con il senso comune che ha sempre separato il contenuto dalla forma. Secondo il filosofo invece è impossibile. L’uno viene fuori con l’altra, nell’attimo stesso dell’altra, perché non sono due “fatti” ma uno.

Autorizzato o no che fosse dalla filosofia, il senso comune non si è comunque mai privato dal porre due domande distinte di fronte a un discorso umano: “di che esso parla” e “come ne parla”[2].

Benedetto Croce passa per essere stato un filosofo antimodernista e a suo modo dunque come un conservatore, ma in effetti in molti casi si è dimostrato, almeno sul piano della teoria letteraria, affetto da quel «giovanile radicalismo» di cui lui stesso parla e che mai lo abbandonò[3]. D’altra parte, in questo suo unificare quanto il senso comune distingueva Croce non faceva che continuare De Sanctis, il quale aveva scritto: «La forma non è “a priori”, non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste, o apparenza, o aggiunto di esso; anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma»[4].

È proprio riprendendo questa formulazione di De Sanctis che Croce ha potuto scrivere che la forma «non è cosa che abbia valore estetico per sé, e sia applicabile a certi contenuti sì e a certi altri no, come una veste variopinta o un diadema di gemme scintillanti», ma è per così dire «proiezione del contenuto stesso»[5].

Secondo Croce non è dunque possibile estrapolare delle forme da dei contenuti; come si può arguire anche da questa citazione: «Ma che cosa è la lingua se non una serie di espressioni di cui ciascuna appare, in quel modo proprio che appare, una volta sola? Che cosa è la parola se non continua, perpetua trasformazione?»[6].

Croce qui anticipa una delle convinzioni più diffuse del pensiero post-moderno e post-strutturalista: l’avversione verso le costanti, la preferenza per le varianti, le differenze. Che è poi l’attitudine che lo indusse a vietare di servirsi di categorie retoriche, stilistiche, di genere letterario ecc. sovraordinate rispetto al singolo testo preso in esame. E l’estremismo di Croce è tanto più impressionante perché, anche se ritiene che una tale inscindibilità caratterizzi soprattutto la poesia, pensa che essa sia riscontrabile anche nel linguaggio comune.

Ora, se davvero Croce avesse ragione, essendoci sempre nei nostri scambi linguistici un’unità d’intuizione ed espressione (di contenuto e di forma), non avrebbe senso pretendere che due frasi, diverse nella loro formulazione in parole, possano non di meno dire la stessa cosa, quando invece queste operazioni di verifica del senso di una espressione sono quanto di più comune ci sia.

D’altra parte, è proprio sulla base di questi assunti “estremistici” che Croce arrivò ad affermare che il testo poetico era sostanzialmente intraducibile. Tutt’al più il traduttore ri-crea l’opera e cioè letteralmente ne crea una diversa dalla prima:

Ogni traduzione […] o sminuisce e guasta, ovvero crea una nuova espressione, rimettendo la prima nel crogiuolo e mescolandola con le impressioni personali di colui che si chiama traduttore. Nel primo caso l’espressione resta sempre una, quella dell’originale, essendo l’altra più o meno deficiente, cioè non propriamente espressione: nell’altro saranno sì due, ma di due contenuti diversi. ‘Brutte fedeli o belle infedeli’[7].

Qualunque traduzione, ma si direbbe qualunque riformulazione, dunque, essendo per Croce diversa dall’espressione originale, veicola un «contenuto diverso» di pensiero. Non posso certo addentrarmi in questioni traduttologiche, ma direi che soltanto se si pensa che l’unità assoluta di forma e contenuto non è un dogma si può credere che leggere Delitto e castigo in una buona traduzione sia ancora e pur sempre leggere quella tal opera scritta in russo da Dostoevskij. Ci sono d’altra parte molte possibili obiezioni da muovere al “dogma” crociano. Si pensi solo che l’unico modo che hanno A e B per verificare, nei casi incerti, se si sono capiti, è che, dopo che A ha detto qualcosa, B la riformuli con parole proprie, ma diverse da quelle di A. In fondo si tratta anche in questo caso di “traduzioni”. Se A riconosce il proprio pensiero nella riformulazione di B, vuol dire che A e B si sono compresi. Se A non si riconosce nella riformulazione di B, allora non si sono capiti e bisognerà ritentare. In questi scambi possono esserci certo dei piccoli fraintendimenti, ma di fatto su queste transazioni o negoziazioni del senso si basa il “lavoro della civiltà”, la sua perpetuazione (o traduzione nel senso etimologico del termine).

L’idea quindi che la stessa cosa, lo stesso pensiero, la stessa opinione possa essere formulata con parole diverse è il pilastro su cui poggia tutta la comunicazione umana. Se fosse vero che ogni cosa può essere detta in un solo modo («una volta sola»), resterebbe da spiegare come mai gli esseri umani si capiscono. Il postulato crociano, quindi, non è solo falso, ma anche pericoloso.

Eppure, come sempre, il bello di Croce è proprio questo: ha il coraggio di portare certi pensieri fino alle loro estreme conseguenze e, facendo questo, ti sfida, ma nello stesso tempo ti aiuta ad articolare meglio le tue idee anche solo per contrasto rispetto alle sue. E d’altra parte, se Croce ha torto nel voler estendere queste sue conclusioni a tutti gli scambi linguistici, gli si può e deve concedere che a essere, almeno in linea di principio, immodificabile nella sua letteralità è l’espressione artistica: se abbiamo un testo di una poesia è quello e basta, non ci si può cambiare una parola e spesso nemmeno una virgola, ma guai se qualcosa di simile valesse per la comunicazione ordinaria.

Tuttavia, anche se è indubbiamente vero che un testo poetico va considerato nella sua letteralità e materialità, non perciò si deve ritenere che non sia possibile parlare di esso distinguendo il piano del significante e quello del significato, il piano della forma e quello del contenuto. Il senso comune lo ha sempre fatto e forse in questo non s’è sbagliato. Si tratta certo di compiere un’astrazione mentale, perché nella realtà l’una e l’altra dimensione si danno a noi come un fatto unitario, ma ciò non toglie che si tratta di un’astrazione necessaria se vogliamo comprendere come funziona la letteratura. Ma anche come funzionano altri linguaggi, come per esempio quello scoperto da Freud: il linguaggio dell’inconscio.

Prendiamo, per esempio, il suo grande libro sul sogno[8]. Va da sé che un simile studio non potrebbe esistere senza operare una distinzione tra contenuto e forma, e cioè tra contenuto manifesto e contenuto latente dei sogni. Più in generale si dirà che Freud va scoprendo contenuti tipici dei sogni da una parte, ma dall’altra va anche scoprendo alcune forme tipiche dei sogni. E tali forme possono benissimo essere estrapolate e come isolate. Per esempio, Freud scopre un procedimento che chiama “condensazione”. Si tratta di un fenomeno per cui un elemento del sogno rinvia a tanti elementi diversi. Essa è forse un contenuto? No, è una forma che può caratterizzare innumerevoli altri contenuti, diversissimi l’uno dall’altro.

Un altro procedimento scoperto da Freud è quello dello “spostamento”, per cui un certo desiderio aggressivo o libidico, invece che rivolgersi direttamente a una certa persona, viene deviato verso un’altra persona meno importante della prima e che però presenta alcune caratteristiche esteriori simili alla prima. Una situazione simile può accadere anche nella vita reale, allorché per esempio un geloso, invece che accusare direttamente la partner di infedeltà, la accusa di colpe diversissime. La collera del geloso non prende per oggetto il problema vero, ma un problema diverso e meno importante di quello vero. Infatti, per Freud, lo spostamento è solo dal più al meno, e non può mai essere né dall’uguale all’uguale né dal meno al più.

Ripetiamolo: condensazione e spostamento non sono contenuti ma sono forme. È vero, sì, che esse non si possono mai dare se non in concomitanza con certi specifici contenuti, ma resta pur sempre altrettanto vero che Freud ha potuto estrapolarle da quei tanti significati che volta per volta veicolano. E questo è tanto più interessante se si pensa che esse possono essere considerate delle vere e proprie figure retoriche al pari delle metafore, degli ossimori ecc. Non a caso tali figure le troviamo nei sogni, nella vita e anche in letteratura.

Questo è importante affermarlo perché per molto tempo sembrò che certe istanze o pulsioni dell’inconscio – il “di che cosa si parla” – e certe forme tipiche del linguaggio dell’inconscio – il “come se ne parla” – fossero indissolubili. E invece, grazie a delle operazioni di astrazione, possiamo considerare certe forme come dei contenitori vuoti, riempibili da tanti possibili contenuti. A sua volta attraverso un’altra operazione di astrazione noi possiamo individuare alcuni contenuti psichici specifici come, per esempio, quello che chiameremo “complesso di Edipo”. In questo caso potremo dire che il contenuto è una costante semantica ben identificata, anche se poi esso si realizzerà in forme sempre diverse.

Ripeto, per molto tempo negli studi psicoanalitici sembrò che quelle forme e quei contenuti fossero legati a doppio filo, che non ci potesse essere condensazione o spostamento oppure, per citare altre figure freudiane, “rappresentazione mediante il contrario” o “denegazione” (ossia quel fenomeno per cui là dove si dovrebbe negare si afferma e invece là dove si dovrebbe affermare si nega); sembrava che, dove ci fosse qualcuna di queste quattro forme, dovessero esserci obbligatoriamente certi contenuti cosiddetti primari (nascita, morte, stato prenatale, falli, vagine).

Chiediamoci: è così o no? C’è questo vincolo obbligato tra i contenuti tipici e le forme tipiche dell’inconscio? Ebbene, molto probabilmente vale proprio l’opposto. Quelle certe forme che in effetti Freud riconobbe come tipiche esclusivamente del linguaggio inconscio possono essere ritrovate anche nei discorsi consci e per esempio letterari.

Montesquieu, per esempio, nel 1721 ha inaugurato la grande fioritura dei capolavori illuministici maturi con un romanzo epistolare intitolato Lettere persiane, perché fece immaginariamente “venire” due persiani dalla Persia a criticare Parigi, il cattolicesimo, la monarchia, i costumi di Parigi, e più in generale la civiltà europea. E d’altra parte, dando la parola a questi due persiani, Montesquieu poteva continuamente tirare in ballo il Corano piuttosto che la Bibbia. Si tratta di uno spostamento bello e buono. Scegliere come soggetti di critica rispetto alle istituzioni di Parigi, dell’Occidente, dell’Europa cattolica, due persiani; oppure fare oggetto di critica la loro religione, che è quella musulmana e non quella cristiana, significa esattamente mettere ciò che è meno importante (non in assoluto ma per Montesquieu e i suoi lettori) al posto di ciò che lo è di più, corrisponde alla definizione di “spostamento” che abbiamo appena dato. Comunque sia, con questo suo spostamento i contenuti psichici primari non c’entrano assolutamente niente. Tutto, infatti, è chiaro e se noi, leggendo Le lettere persiane, non operassimo istantaneamente, mentre leggiamo, delle riduzioni mentali del tipo Islam = Cristianesimo, letteralmente non capiremmo il testo[9].

Con questo non si vuol dire che quei contenuti primari non siano di vitale importanza per tutti e non si vuole negare che essi siano molto diffusi nel discorso umano, si vuole però dire che lo sono comunque meno di quelle forme discorsive (condensazione ecc.) che Freud ha scoperto e a cui ha dato il nome per primo.

Se, dunque, ci poniamo ancora le due domande (che si possono sempre porre di fronte a un discorso), e cioè “di che si parla” e “come se ne parla”, risponderemo dicendo che la portata del “come se ne parla” (delle forme individuate da Freud) è maggiore della portata del “di che si parla” (dei contenuti da lui scoperti). Sono molto più importanti le forme di pensiero che Freud ha scoperto dei contenuti. In altre parole, il discorso umano in generale si modella molto più spesso su quello del cosiddetto inconscio dal punto di vista formale, che non dal punto di vista dei contenuti.

Ma il testo freudiano più significativo per verificare l’ipotesi che Freud sia più importante come scopritore di forme piuttosto che di contenuti è Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten del 1905.

L’originalità o unicità di questo saggio freudiano è che il motto diversamente dal sogno, lapsus, sintomo, è comunicante oltre che significante. Non solo, si può dire che questo saggio, pur parlando del motto, in realtà parla di letteratura e ne parla “in quanto tale”. Infatti, Freud ha sì parlato altrove di letteratura, ma quando lo ha fatto ha deviato l’attenzione dal testo in sé per concentrarsi sulla persona dell’autore e fare della biografia o psicologia (dell’autore o del personaggio). Ora anche nel libro sul motto ci sono degli esempi letterari illustri (motti firmati da Heine o Lichtenberg), ma, siccome la maggior parte degli esempi che costituiscono il corpus del libro sono anonimi, questo preserva a priori e globalmente Freud da qualsiasi tentazione di deviare il suo interesse dal testo alla psicologia e la persona dell’autore. Ne consegue che questo suo libro è il solo esempio, in tutta l’opera freudiana, di un’analisi di quella che non si può non chiamare letteratura, perché il motto di spirito non può che essere letteratura. E nell’analizzare i motti Freud si disinteressa di biografismi o psicologismi, dimostrandosi attento unicamente a un’analisi testuale, retorica, logica (o più genericamente semiotica).

Ora, in questa idea di una letteratura intesa in senso molto più ampio di quello istituzionale, c’è una sorprendente sintonia di fondo con Croce che per esempio poteva scrivere:

L’intuizione di un semplicissimo canto popolare d’amore, che dica lo stesso, o poco più, di una dichiarazione di amore quale esce a ogni momento dalle labbra di migliaia di uomini ordinarî, può essere intensivamente perfetta nella sua povera semplicità, benché, estensivamente, tanto più ristretta della complessa intuizione di un canto amoroso di Giacomo Leopardi[10].

E altrove dirà che il discorso letterario è da intendere come un continuum che va dalla «parola d’amore che un caporale bisbiglia all’orecchio di una serva» a «un sonetto o una sinfonia»[11].

Ebbene, il motto è una di quelle forme popolari e “povere” che per Croce sono comunque “letteratura” alle pari delle forme più elevate e canoniche. Se si adotta questa prospettiva, ne consegue che è del tutto possibile estrapolare alcune considerazioni che Freud fa per i motti e farle valere per tutta la letteratura.

Le possibilità possono essere due: quando il motto si presenta allo stato isolato, come barzelletta o aneddoto, si può parlare di un piccolo genere letterario a sé stante; quando invece è semplicemente il frammento di un’opera letteraria più vasta, il rapporto tra parte e tutto è assolutamente evidente, e allora il motto di spirito può essere considerato letteratura in quanto è tratto da un’opera che, nella sua totalità, è letteratura.

Parlando di motti, Freud credeva, in perfetta buona fede e con tutta la modestia dovuta a quel complesso d’inferiorità che aveva per la maestà della sfera estetica e letteraria, di parlare di un fenomeno discorsivo molto più piccolo e limitato, ma in realtà ha fatto affermazioni che sono di estrema importanza chiarificatrice per l’intera letteratura.

Vediamo nel concreto. Freud parte da un motto inventato da Heine ma attribuito al ricevitore del lotto Hirsh-Hyacinth. Scrive:

In quella parte delle sue Impressioni di viaggio che porta il titolo I bagni di Lucca, Heine introduce la deliziosa figura del ricevitore del lotto e callista Hirsch-Hiyacinth di Amburgo il quale, vantandosi col poeta delle sue relazioni con il ricco barone Rothschild, conclude infine: «Come è vero Dio, signor dottore, stavo seduto accanto a Salomon Rothschild e lui mi ha trattato proprio come un suo pari, con modi del tutto familionari»[12].

La parola “familionari” non esiste. In questo caso abbiamo fortuna, perché il gioco di parola in tedesco funziona altrettanto bene in italiano. Croce aveva scritto che, quando si traduce, ci troviamo davanti a due espressioni e dunque a due contenuti diversi. E davvero questo può accadere allorché si traducono certi jeux de mots ma qui apparentemente no: il contenuto di pensiero a me pare lo stesso. Sia in tedesco che in italiano il neologismo deriva dalla condensazione degli aggettivi “familiare” e “milionario”. Ora, quel che qui ci interessa è che Freud afferma di portare questo esempio come dimostrazione del fatto che il fenomeno del motto di spirito è indissolubilmente legato a una forma. Che cosa vuol dire? Proprio per dimostrare che il motto di spirito scomparirebbe non appena la sua forma venisse alterata, Freud introduce il concetto di “riduzione”, che sarebbe la formulazione del pensiero del motto ma “con altre parole”.

Quello che Freud dimostra è che la riduzione spiega, sì, il motto attraverso un’estrapolazione del significato dal significante, ma anche lo uccide, lo fa scomparire, o meglio fa scomparire il suo effetto: il divertimento, il riso. In questo è, sia pure inconsapevolmente, in sintonia con Croce: entrambi credono nell’indissolubilità di forma e contenuto. E tuttavia non perciò Freud crede che tali riduzioni siano inutili. Anzi!

Continuando nella sua analisi Freud cita uno studioso del motto di spirito, Theodor Lipps, che commenta così il motto di Heine: «Noi comprendiamo che Heine vuol dire che l’accoglienza era stata familiare, e precisamente di quel noto tipo di familiarità che, odorando un po’ troppo di milioni, non acquista certo in gradevolezza»[13].

Poi Freud riprende la parola: «Non si altera affatto il senso della spiegazione ponendola in un altro modo. “Rothschild mi ha trattato come un suo pari, con modi del tutto familiari; cioè: per quanto è possibile ai milionari”»[14]. Già a questo punto ci rendiamo conto che le riduzioni freudiane prevedono sempre un ampliamento e approfondimento del senso letterale del testo; un tale ampliamento vale come un’espansione di un senso che si presume essere ricostruibile anche avvalendosi di riformulazioni diverse. In altre parole, quel senso può essere detto in altri modi, pur rimanendo sostanzialmente “quel senso”. Per convincersene occorrerebbe, però, accettare che esiste uno scarto tra quanto l’inventore del motto dice letteralmente e quanto sottintende, il che già rompe la perfetta congruenza tra il piano della forma e quello del contenuto. Se avesse ragione Croce, non avrebbero proprio senso quelle operazioni di riduzione, perché esse presuppongono che sia possibile distinguere i piani. Per Freud, invece, il significato non corrisponde alle parole effettivamente pronunciate così come il recto e il verso di un foglio; quelle parole, a quanto pare, non esprimono, ma semmai suggeriscono un certo contenuto di pensiero.

Si deve, anzi, supporre che l’effetto del motto dipenda anche e proprio da questo scarto tra significante e significato; da questo dire una cosa e intenderne un’altra. Se l’ascoltatore prendesse il motto alla lettera, non lo capirebbe ma, se trascurasse la forma per badare al contenuto, non riderebbe, e cioè non apprezzerebbe il motto in quanto motto. Se cento o mille persone ridono all’unisono a una battuta teatrale di Oscar Wilde, è perché l’hanno tutti compresa all’istante e si deve supporre allo stesso modo, anche se poi non è affatto detto che tutti saprebbero riformulare quel significato; e anche chi lo facesse lo farebbe con parole sue proprie e diverse da quelle degli altri. A testimonianza che la comprensione del motto avviene a un livello preverbale quasi alla maniera di un calcolo mentale uguale per tutti e che le tante formulazioni (espressioni) con cui poi i singoli individui verbalizzeranno quella loro istantanea comprensione (intuizione) non significa che essa diverga sostanzialmente dall’uno all’altro.

Le riduzioni provano, dunque, a esplicitare a posteriori quanto l’ascoltatore coglie come implicito; quanto addirittura potrebbe non essere capace di esplicitare (la funzione della critica non è, in definitiva, proprio questa: trovare delle parole che rendano possibile al buon comune lettore di portare a coscienza quanto ha spontaneamente intuito?). Esse non corrispondono mai a esatte trasposizioni linguistiche del significato colto al volo al momento dell’ascolto, ma ad approssimazioni di quel significato che non dobbiamo, dunque, concepire come un “significato dato” e fissabile una volta per tutte. Pur riferendosi a un unico motto, quelle riduzioni possono essere diverse e ognuna può essere sempre modificata, approfondita, migliorata e dunque riformulata tante volte. Il che non significa, però, che quelle riformulazioni corrispondono a intuizioni sempre diverse del contenuto di pensiero del motto, semmai a una migliore messa a punto di esso.

E che il senso del motto (e per estensione di qualunque testo letterario) non coincida e si esaurisca con la sua espressione lo dimostra prima di tutto il fatto che la sua traduzione dal tedesco in italiano pare non comportare alcuna perdita significativa di comprensione e di effetto. È, infatti, dalla coincidenza delle due sillabe “mili”, casuale sia in italiano che in tedesco e che però potrebbe non avvenire in un’altra lingua, che nasce il motto di spirito: dalla loro fusione.

Le riduzioni che, dunque, Freud propone per il motto in tedesco si attagliano perfettamente per la traduzione in italiano. D’altra parte, va detto che in questi suoi primi tentativi Freud in effetti fa sì delle riduzioni, ma rimanendo dapprima molto vicino alla lettera del motto e cioè riferendosi alle parole “familionari”/“milionari”. Freud, però, propone un’altra riduzione, che è la terza, dove lo scarto con la formulazione originaria è maggiore. Scrive: «“La condiscendenza di un ricco”, potremmo aggiungere noi, “ha sempre qualcosa di spiacevole per chi ne fa diretta esperienza”»[15]. In quest’ultima riduzione si è andati oltre il caso specifico riguardante Hirsh-Hiyacinth e Rotschild e s’è prodotta una sorta di espansione del senso quasi sotto forma di massima universale, estrapolabile sì dal motto ma senza più riferirsi alle parole “familiari” e “milionari”.

Va da sé che si potrebbero portare ancora altre riduzioni di questo motto. Si potrebbe, per esempio, rilevare che qui siamo davanti a una combinazione di due forme discorsive: a livello extradiegetico si tratta oggettivamente di un motto di spirito coniato da Heine, ma a livello intradiegetico ci è presentato come un lapsus, dato che esso viene pronunciato da un personaggio dentro il piano immaginario del racconto. Hirsch-Hiyacinth, infatti, apparentemente non intende criticare Rothschild. Mentre Heine è consapevole che si tratta di un motto, il personaggio non è consapevole, ma anzi si sta vantando di conoscerlo e di essere trattato da lui con grande benevolenza e confidenza. Un’ulteriore riduzione dovrebbe dare, dunque, conto anche di questa sfumatura di senso secondo la quale la critica emerge anche contro la volontà del soggetto. Noi possiamo, dunque, intenderlo come un lapsus o come un motto.

La catena delle riduzioni e quindi quella delle interpretazioni possono essere infinite, anche se alcune costanti dovrebbero ritrovarsi sempre. Alcune riduzioni saranno migliori di altre ma potrebbero essere tutte pertinenti, anche se non ne esiste una perfetta che costituisca un equivalente esatto del motto originale.

Ne deriva che contra Croce a un’unica “espressione” originaria (il motto considerato nella sua letteralità) corrisponderebbero una molteplicità di “intuizioni” più o meno calzanti ma comunque pertinenti, proprio come accade con le traduzioni e proprio come accade con i sinonimi.

Solo il motto nella sua forma originale non è modificabile e deve essere rispettato alla lettera; le riduzioni/interpretazioni possono invece essere riviste, corrette, prolungate, confrontate e nel loro insieme contribuiranno a chiarire l’effetto che ci ha fatto il motto la prima volta che l’abbiamo udito. Il che costituisce anche un insegnamento teorico secondo cui non esiste un “calcolo” per cui da un certo testo poetico discende necessariamente un significato corrispondente sul modello delle deduzioni logico-matematiche.

Sembra quasi che, non potendo esserci una tale perfetta equivalenza, siano però possibili tra le tante riduzioni possibili di un motto o di un qualsiasi testo letterario delle equivalenze parziali, confrontabili, delle “somiglianze di famiglia”, per dirla con Wittgenstein. Ha scritto a questo proposito Meyer H. Abrams, parlando di interpretazioni letterarie:

In many observations like these, Wittgenstein indicates the lowers rather than the limits of language; he also suggests the indispensability, in many areas of human concern, of fluidity and variability in our ways of speaking. The view that the justification for a linguistic procedure is not what forms of expression it uses, but whether it is really “doing work”, is neither inhibitive nor prohibitive, but liberative. And such a view may be taken to confirm ‒ not in details, but overall ‒ the very diverse ways that our best literary critics have in fact used language in order to achieve their profitable discoveries and conclusions, as against what some recent analysts claim that the critics have done or should instead have done[16].

Il che significa che, se il testo non può essere “toccato”, il suo senso può essere reso in tanti modi diversi spesso omologhi e comunque confrontabili. Insomma, accade con le traduzioni un po’ quel che accade con le riduzioni: ce ne possono essere tante, alcune delle quali sono preferibili ad altre, nessuna naturalmente essendo l’esatto equivalente dell’originale. Ma, se possiamo esprimere una preferenza, è perché riconosciamo che tutte le formulazioni si riferiscono e tendono, sia pure asintoticamente, alla ricostruzione di un significato certamente «dai contorni sfumati» (sempre per dirla con il Wittgenstein che parla di concetti)[17], ma pur sempre circoscrivibile, determinabile.

Non è insomma che, siccome ogni riduzione del testo si presenta con una veste linguistica diversa, essa corrisponde a un’intuizione diversa. Molte di quelle riduzioni, come dimostrano le citazioni freudiane sopra riportate, sono omologhe e, se non coincidenti, sovrapponibili. Anche solo la possibilità di confrontare queste riduzioni testimonia che delle operazioni di estrapolazione dal testo del senso di esso sono possibili e che, dunque, il senso di quel motto non coincide con la sua formulazione letterale. Se davvero questa possibilità non esistesse, il soggetto potrebbe solo ripetere il motto dentro di sé per risentirne l’effetto ma senza provare a darsene una ragione.

Ora queste considerazioni ci riportano a Croce. Perché? Croce, lo ricordiamo, affermava un’identità di espressione e intuizione: se si ha un’intuizione, un pensiero, un concetto nella mente, è identico alle parole che servono a esprimerlo, nel senso che, se cambio una sola parola, l’intuizione (il contenuto di pensiero) non è più quella. Allora, per essere perfettamente coerenti con la posizione crociana, occorrerebbe che il motto di spirito non dovesse essere commentato (parafrasato, ridotto, interpretato) in alcun modo. Nell’idealismo rigoroso della formulazione di Croce c’è, infatti, racchiuso un pericolo: nelle sue posizioni prese alla lettera sarebbe implicita la morte della critica o almeno di quella parte della critica che chiamiamo interpretazione. Croce ha provato in vario modo a risolvere questa aporia, non potendo certo astenersi dal dire qualcosa sulle opere da lui considerate. E anzi, come è stato notato, nella sua prassi di critico Croce spesso si è sbilanciato dal lato dei contenuti. Ha scritto Davide Colussi:

Se dunque la «forma» crociana salda insieme le accezioni tradizionali di contenuto e forma, è vero però che la prassi critica di Croce si fonda sempre su elementi di contenuto, con l’effetto di uno sbilanciamento fra i componenti del nesso[18].

E cioè di quel nesso che lui avrebbe voluto inscindibile. D’altra parte, se si accettano quelle tali premesse del sistema crociano, non si può interpretare (e tradurre), in quanto per interpretare (e tradurre) bisogna sostituire alle parole originali del testo altre parole con le quali si cambierebbe il senso originale che (secondo Croce) fa tutt’uno con la sua letterale espressione linguistica. Ne consegue che, a voler essere coerenti, non si può e non si deve interpretare.

Infatti, in larga misura almeno, Croce è stato coerente nel condannare ogni tendenza all’interpretazione. Quel che ha raccomandato sono, semmai, degli atti di riproduzione interiore di quanto l’artista aveva genialmente prodotto, astenendosi il più possibile da approfondimenti ermeneutici:

l’equivalenza di genio e gusto, in base alla quale il giudizio estetico coincide in buona sostanza con la riproduzione dell’opera sopra cui viene esercitato, spiega bene, ad esempio, la frequenza con cui Croce indulge a un tono pianamente descrittivo o riassuntivo e, a maggior ragione, a larghe citazioni desunte dall’opera esaminata[19].

Anche in questo si può dire che ha anticipato alcune tendenze post-strutturaliste avverse all’interpretazione metodica dei testi e per esempio quelle rappresentate dalla decostruzione[20].

La poesia secondo Croce si intuisce direttamente, non si può spiegare con altre parole, non si possono fare riduzioni. In un certo senso si può solo dire che la poesia c’è o non c’è. Ora, questa posizione di Croce non è solo sua, ma è la versione italiana di un tipo di scelta di fronte al testo caratteristica della poetica di difesa dell’autonomia del bello. Secondo questo approccio interpretare la poesia significava misconoscerne la sua natura “intraducibile” e in definitiva ineffabile.

Si prenda come esempio dell’insofferenza nei confronti dell’impostazione ermeneutica la reazione di André Breton contro un critico che aveva provato a ridurre al grado zero le folgoranti metafore di Saint Pol Roux:

vi si leggeva: L’indomani di un bruco in tenuta da ballo vuol dire “farfalla”. Mammelle di cristallo vuol dire: “una caraffa” ecc. No, signore, non vuol dire. Rimettete la vostra farfalla nella vostra caraffa. Quel che Saint-Pol-Roux ha voluto dire, siate certo che l’ha detto[21].

Qui Breton, sia pure senza saperlo e volerlo, è molto vicino a Croce. Ora, possiamo sì contro-obiettare a Breton (e a Croce) che, se qualcuno dovesse davvero prendere alla lettera le due metafore, mancherebbe il senso del testo, ma dobbiamo dargli atto che le parafrasi da lui evocate sono del tutto insoddisfacenti e non rendono conto dello straordinario effetto che producono in noi le immagini originali di Saint-Pol-Roux. C’è qualcosa di più nelle immagini proposte dal poeta, un “surplus di senso” che viene perduto se ci si affida a una parafrasi letterale.

Anche secondo Benedetto Croce, infatti, «chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle»[22]. E in questo lui è in consonanza con tutti coloro che si sono proclamati avversi a ogni operazione di analisi e interpretazione razionale del testo letterario, in quanto lesiva della peculiare natura di quest’ultimo.

Ora come abbiamo visto in qualche modo anche Freud condivide spontaneamente le posizioni dei teorici dell’autonomia del bello, ma egli apporta utili correzioni e integrazioni a quelle posizioni, riuscendo a disegnare un approccio ai testi letterari più equilibrato e più fecondo. Un equilibrio che riesce a tenere conto di due esigenze differenti. Prima di tutto, infatti, Freud ha riconosciuto, sia pure senza esserne consapevole, quel tanto di vero che c’è nell’affermazione crociana circa l’identità di intuizione e di espressione:

possiamo ricorrere a un criterio sicuro per dimostrare che il carattere arguto è andato perduto nella trasposizione. Il discorso di Hirsch-Hyacinth ha suscitato la nostra viva ilarità, mentre la trasposizione accurata di Lipps o la nostra versione può piacere, può indurci a riflettere, ma non può certo indurci al riso[23].

In effetti, nel caso specifico del motto di spirito, l’effetto letterario consiste precisamente nel farci ridere o almeno sorridere, ma, non appena l’espressione letterale viene sostituita con la riduzione, non ridiamo più. In un certo senso Freud è dunque d’accordo con Croce e i teorici dell’autonomia del bello: il testo è insostituibile, non appena lo si sostituisce non è più “quel” testo, è un’altra cosa.

In che cosa, però, Freud si differenzia? In questo: che l’acuta coscienza da lui espressa che, appena si altera qualcosa nella lettera del testo, il motto di spirito (e, se si estrapola, qualunque testo letterario) non c’è più, non chiude però il discorso. Mentre in Croce questa difesa dell’inalterabilità del testo fa sì che un approccio critico di tipo interpretativo non possa esserci, ma solo un giudizio di valore (poesia/non poesia), per Freud, invece, la constatazione che, riformulando con altre parole il testo, si distrugge il carattere e l’effetto del motto non implica affatto che la riformulazione sia inutile, anzi. Infatti, anche se l’interprete è consapevole che le nuove parole non sono più un motto di spirito (e cioè letteratura), le osservazioni di vario genere, rese possibili con una buona riduzione in altre parole, possono comunque essere interessanti.

È come se Freud, quasi alla stessa data dell’Estetica di Croce, si mostrasse perfettamente avvertito del fondo principale di giustezza delle posizioni crociane e, nello stesso tempo, anche capace di difendere i diritti dell’interpretazione. Questo punto ci conferma che Freud, pur credendo di parlare solo del motto di spirito, sta dicendo qualcosa che ha un grande valore generale per tutta quanta la letteratura e non solo per il motto di spirito.

Prendiamo un altro caso in cui l’assoluta insostituibilità non sia minore. Prendiamo questo motto di Lichtenberg riportato da Freud: «Non solo non credeva agli spiriti, ma non ne aveva nemmeno paura»[24]. È un motto perché, secondo la logica ordinaria, per spaventarsi degli spiriti bisogna crederci quindi se uno non ci crede non può certo spaventarsi. A farci ridere di primo acchito è, dunque, il controsenso che caratterizza il motto. Ma, a ben guardare oltre questa facciata comica, ci accorgiamo che dietro di essa fa capolino un’osservazione psicologica di estremo acume che si potrebbe facilmente esprimere con altre parole. Per esempio, quelle proposte da Freud: «è molto più facile superare con l’intelletto la paura dei fantasmi che non difendersene quando si presenta l’occasione»[25]. Il sottinteso è che spaventarsi è un processo affettivo, crederci o no è un processo intellettuale, e non è affatto detto che i due processi coincidano. Va da sé, scrive Freud, che «rinunciando a questa veste spiritosa […] questa affermazione non ha più nulla di spiritoso ma è una osservazione psicologica esatta»[26]. Un altro modo per dire la stessa cosa sarebbe per esempio: “i processi affettivi ed emotivi sono indipendenti da quelli intellettuali”. Qui si vede il vantaggio, la legittimità, l’indispensabilità della riduzione: posso esprimere il contenuto di pensiero valido con parole astratte e lontanissime dalla formulazione originaria del motto. Se lo faccio, il motto non c’è più. Vero. Ma forse che comunque questi commenti non contribuiscono a una migliore comprensione del motto e dunque a una sua valorizzazione? Certo, questi commenti, diversamente dal motto vero e proprio, non sono letteratura, ma non per questo li considereremo chiose inutili e pedanti: essi infatti «intensificano la nostra percezione e il nostro piacere estetico»[27].

Dunque, una volta posto il problema se la riduzione sia possibile o no allorché si fa critica letteraria, la risposta di Croce è no, quella di Freud è un sì e un no. Riducendo il motto, se ne distrugge l’effetto immediato (il riso), ma contemporaneamente se ne approfondisce il senso. Tali risposte sono immediatamente trasferibili dal motto di spirito (parte) alla letteratura (tutto).

Se per esempio, quando leggiamo nel Cimetière marin di Paul Valéry «Ce toit tranquille, où marchent des colombes», noi non intendessimo ‘mare su cui passano delle vele bianche’, ma letteralmente ‘tetto di una casa su cui posano delle colombe’, mancheremmo il senso del verso e va da sé che non ne coglieremmo nemmeno la bellezza. E, tuttavia, resta vero che c’è un “di più” di senso in quella formulazione del poeta di cui la riduzione non rende ragione. A noi piace proprio la formulazione originaria del verso, è quella che ci ripetiamo e amiamo. Come, dunque, dare conto di questo sovrappiù di senso rispetto alla pura parafrasi? Dobbiamo davvero scegliere tra l’una e l’altra operazione? Come dare ragione a Croce e contemporaneamente a Freud?

È stato Gerard Genette a proporre una definizione che a questo fine può esserci molto utile; secondo quel teorico, infatti, la distinzione tra discorso letterario (e cioè figurale) e discorso trasparente (puramente referenziale o denotativo) equivarrebbe a quella tra discorsi “aventi o non aventi un’alternativa virtualmente percepita”. Scrive infatti:

Il fatto retorico comincia là dove posso paragonare la forma di questa parola o di questa frase a quella di un’altra parola o di un’altra frase che avrebbero potuto essere usate al loro posto e che esse, in un certo senso, sostituiscono[28].

Altrimenti detto, e semplificando al massimo, se diciamo “nave” o “ti amo”, non abbiamo un’alternativa virtualmente percepita; se invece diciamo “vela” o “non ti odio”, si capisce “vela” ma anche “nave”; si capisce “non ti odio” ma anche “ti amo”. E questo vale anche per il tetto di Valéry; si legge “tetto” ma si capisce “mare”. E questo meccanismo dell’alternativa virtualmente percepita si dà in infiniti altri casi, anche se certo non in tutti, essendo molti i casi in cui io dico “tetto” e voglio che si intenda (proprio e solo) “tetto”.

Occorre insistere: non è che si prende un’espressione figurale alla lettera (il che vorrebbe dire mancarne totalmente il senso), ma non è neanche che si mette un’espressione “al posto” di un’altra (il che sarebbe riduzionista). C’è come l’idea di “qualcosa e qualcosa d’altro, di due significati che in qualche modo arrivano insieme, vengono recepiti necessariamente insieme”. E si direbbe anzi simultaneamente.

Credo che questo sia assolutamente compatibile con un normale funzionamento mentale. Parlerei a questo proposito con lo psicoanalista Wilfred Bion di “visione binoculare”[29] e cioè di un «pensare che implica necessariamente vedere la realtà da molteplici punti vista (o vertici) contemporaneamente»[30]. Credo, in altre parole, che possiamo immaginare che la mente umana sia capace di pensare un unico fenomeno (in questo caso un testo letterario) secondo una prospettiva multipla (binoculare) che non prevede ciò che temeva Croce e cioè una separazione irreparabile dei due piani.

E questo pensiero binoculare non si dà solo per singole figure costituite da poche parole (si pensi soprattutto alla metafora), ma per testi interi, come romanzi e racconti. Narrandoci una certa specifica vicenda, essi suggeriscono pur sempre una sorta di significato secondo o, per meglio dire, una pluralità coerente di significati secondi (ma dire significati primi e secondi è già spezzare qualcosa che non può essere diviso). Ne consegue che, se Gregor Samsa, protagonista della Metamorfosi di Kafka, ci rappresenta l’uomo emarginato, solo, umiliato, vergognoso, contemporaneamente è “proprio” un uomo-insetto, una persona-scarafaggio. Se adottiamo l’idea bioniana della prospettiva binoculare, diremo che si tratta di due punti di vista (o vertici) che interagiscono e continuamente si influenzano e modificano, componendo infine un significato unico. Gregor Samsa è davvero diventato un insetto repellente e contemporaneamente esemplifica il moderno individuo emarginato ecc. Il che dà ancora ragione e torto a Croce, allorché sosteneva l’unità inscindibile di espressione e intuizione.

Secondo il semiologo russo Jury Lotman, il critico deve sempre tener conto di questo intreccio ed evitare «la metodologia dell’esame del ‘contenuto ideologico’ separato, e delle ‘particolarità artistiche pure separate’», essendo che «il volume d’informazione contenuto nel linguaggio poetico […] non può esistere, né essere trasmesso fuori della struttura data»[31]. Ed è sempre secondo questa logica che il critico e teorico marxista Pierre Macherey, opponendosi all’idea che il significato di un testo risiederebbe (come un tesoro nascosto) in una qualche recondita profondità, ha scritto: «il significato [di un’opera] sta nella relazione tra l’implicito e l’esplicito, non in una o l’altra parte di questo steccato»[32].

Credo che il punto sia proprio questo: servendoci anche e proprio degli spunti che ci hanno dato Croce e Freud, dobbiamo provare ad articolare meglio proprio questa relazione, perché essa sta alla base di ciò che continuiamo a chiamare letteratura.

  1. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e storia, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, p. 12.
  2. È interessante notare che il sottotitolo del libro di Antoine Compagnon intitolato Il demone della teoria (Torino, Einaudi, 2000) sia Letteratura e senso comune.
  3. B. Croce, La Poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, Bari, Laterza, 1946, p. 35.
  4. F. De Sanctis, Settembrini e i suoi critici [1869], in Id., Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari, Laterza, 1979, III ed., vol. II, p. 306.
  5. B. Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte [1893], in Id., Primi saggi, Bari, Laterza, 1951, p. 9.
  6. B. Croce, Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, vol. I, Bari, Laterza, 1910, p. 154.
  7. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, op. cit., p. 87.
  8. S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Id., Opere, vol. 3, traduzione di El. Fachinelli e H. Trettl, Torino, Boringhieri, 1971. 
  9. Sull’interpretazione di questo testo in chiave di retorica freudiana si veda il saggio di Francesco Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana [1982], Torino, Einaudi, 1997.
  10. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, op. cit., p. 46.
  11. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro [1909], edizione critica a cura di C. Farnetti, con una nota al testo di G. Sasso, 2 voll., Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 187.
  12. S. Freud, Il motto di spirito [1905], Torino, Bollati Boringhieri, 1975, p. 42.
  13. Ibidem.
  14. Ibidem.
  15. Ibidem.
  16. M. H. Abrams, A Note on Wittgenstein and Literary Criticism, in «ELH», Vol. 41, No. 4 (Winter, 1974), pp. 541-54: 544.
  17. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche [1953], Torino, Einaudi, 2014, pp. 42-43.
  18. D. Colussi, Questioni di forma: Croce, i formalisti russi, in S. Brugnolo, D. Colussi, S. Zatti, E. Zinato, La scrittura e il mondo. Teorie della letteratura, Roma, Carocci, 1916, p. 93.
  19. Ivi, p. 88.
  20. Si veda a questo proposito Richard Shusterrman, Croce e l’interpretazione: decostruttivismo e pragmatismo, in «Prospettive settanta», 2-3-4/1987, pp. 549-62.
  21. A. Breton, Introduzione al discorso sulla poca realtà, in Breton e il surrealismo, a cura di I. Margoni, Milano, Mondadori, 1976, pp. 238-51: 248.
  22. Cfr. la nota 1.
  23. S. Freud, Il motto di spirito [1905], Torino, Bollati Boringhieri, 1975, p. 42.
  24. Citato in S. Freud, Il motto di spirito, op. cit., p. 116.
  25. Ibidem.
  26. Ibidem.
  27. E. Wind, Arte e anarchia [1963], Milano, Adelphi, 1997, p. 90.
  28. G. Genette, Figure. Retorica e strutturalismo [1966], Torino, Einaudi, 1969, p. 191.
  29. W. Bion ne parla in Second Thoughts, New York, Aronson, 1967, pp. 110-19.
  30. Th. Ogden, Bion’s Four Principles of Mental Functioning, «fort da», 14 (2), 2008, pp. 11-35.
  31. J. Lotman, La struttura del testo poetico [1970], Milano, Mursia, 1972, p. 25.
  32. P. Macherey, Per una teoria della produzione letteraria [1967], Bari, Laterza, 1969, p. 87 (il corsivo è mio).

(fasc. 51, 25 febbraio 2024)