La filosofia italiana di fronte al Grande Fratello. Croce e Franchini lettori di Orwell

Author di Rosalia Peluso

I believe that the key to the future is in the remnants of the past.

(Bob Dylan)

The last man in Europe

Tra il 1946 e il 1949 nascono due libri capitali sul totalitarismo. Il primo è Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt. L’altro è 1984 di George Orwell. Due “maestri irregolari”[1].

Il primo libro ha dalla sua parte la storia, quella appena conclusasi; le fonti, le testimonianze, le interpretazioni, benché ancora “calde”, non ancora oggettivatesi nella ricostruzione saggistica[2]. Il secondo non parla del tempo che fu, ma di quello che sarà. Non è una registrazione, ma una previsione totalitaria. Non parla del totalitarismo come lo abbiamo conosciuto ma del totalitarismo che conosceremo: di quegli elementi totalitari che, notava proprio Arendt, si annidano anche nei regimi più democratici e che sono garantiti dall’atomizzazione degli individui e proliferano grazie ad essa, all’architettato progetto di atrofizzare le esperienze condivise, quelle politiche in primo luogo. Per questo lo scrittore ambienta la narrazione in un futuro allora remoto, il 1984.

Il libro di Orwell non è un semplice romanzo, posto che i romanzi siano “semplici”. Non è nemmeno una semplice distopia. Non è neanche un atto d’accusa nei confronti dell’URSS. Sarebbe semmai una denuncia del socialismo inglese, il Socing di cui si parla nel racconto, o il partito laburista della realtà politica, che delude lo scrittore bisognoso di un socialismo non sovietico, non bolscevico ma europeo e occidentale[3].

1984 fu pubblicato nel ’49 col titolo che conosciamo ma è singolare notare che, nelle intenzioni di Orwell, esso avrebbe dovuto intitolarsi The Last Man in Europe. Perché è davvero l’ultimo uomo d’Europa colui che nei meandri della sua mente conserva ricordi e nozioni che collidono con le notizie ufficiali del sistema totalitario guidato dal Big Brother: egli ricorda che c’è stata una storia altra, ricorda dunque che esiste qualcosa come la “verità storica”, la verità dei fatti. Ma ricorda e conferma anche empiricamente la solidità delle “verità razionali”, quelle che dicono con assoluta certezza che, nell’universo finora noto, due più due fa quattro.

Il potere del Grande Fratello è autenticamente totalitario non solo perché riesce ad alterare e capovolgere le verità storiche, che in sé hanno uno statuto epistemologico molto fragile (gli usi e gli abusi della storia sono di ogni tempo e di ogni mentalità). Il potere totalitario è assoluto quando, diceva Arendt, non ha più nemici; eppure, continua a esercitare un terrore illimitato, che diviene totale se addirittura riesce a rovesciare la fede in 2+2 = 4.

Non si tratta di aderire semplicemente a una menzogna (io posso fingere di credere in 2+2 = 5 ma in cuor mio “so” che la somma è diversa). L’esperimento totalitario raggiunge la sua acme quando il mio cuore e la mia mente “sanno” che due più due fa cinque, quando dunque ho fede assoluta nel risultato dell’operazione che stabilisce una verità razionale. Come si può arrivare a ciò? Come si può vincere la resistenza interiore della coscienza che distingue tra verità e menzogna? Non basta la “logica da cane di Pavlov” che Arendt scorgeva nell’universo concentrazionario già noto, là dove gli individui sono stati ridotti a fasci di nervi e potevano produrre soltanto reazioni meccaniche in risposta agli stimoli esterni. Qui, nella profezia totalitaria di Orwell che assomiglia tanto al nostro presente, c’è più del “cane di Pavlov”. È in atto un’ancora più radicale trasformazione dell’umano, nell’esteriorità e nell’interiorità, che ha bisogno di alcuni strumenti di persuasione: l’inaridimento di ogni forma di desiderio, amore compreso; il prosciugamento della lingua con relativa ideazione a tavolino, con tanto di aggiornato vocabolario, di una “neolingua” (New Speak) che soppianti la vecchia, viva e plastica lingua della poesia, della letteratura, della filosofia, dell’arte, della storia. Perché, in fondo, impiegare tante parole quando ne basta una? Perché i contrari? Perché i verbi e le loro coniugazioni, il loro ostinato flettersi in tempi? Con pochi e rudimentali prefissi, con abbondanza di acronimi si può dire tutto, o almeno quello che serve nel dispositivo totalitario di cui siamo membri.

Perché, infine, i concetti? Il punto principale è proprio questo: le parole e la loro varietà linguistica sono foriere di concetti; dunque, di quelli che il sistema totalitario chiama “psicoreati”, vale a dire opinioni, giudizi, punti di vista, pensieri che possono trasmettere prospettive differenti rispetto alla logica monodimensionale del totalitarismo. In una parola, a che lo sperpero della pluralità e della plurivocità, quando tutto può essere banalmente ed economicamente uniforme, univoco, uguale?

C’è, infine, un’ultima strategia indispensabile a forgiare dall’intimo l’abitante dell’universo totalitario del futuro orwelliano: la “distruzione del passato”. Per tenere gli individui sotto scacco, occorre esercitare il controllo sul passato e a farlo sono sempre coloro che esercitano il controllo sul presente (i benjaminiani “dominatori” di turno[4]): «Chi controlla il passato […] controlla il futuro», dice il Grande Fratello, e «chi controlla il presente controlla il passato»[5].

Atrofizzazione del desiderio, e quindi dell’esperienza, della volontà e della libertà. Atrofizzazione della parola e, infine, cancellazione del passato e sua potenziale riscrivibilità assoluta. La profezia totalitaria orwelliana si è avverata da un pezzo e ci sono ragionevoli argomenti per prevedere che in futuro saranno sempre meno coloro che, un giorno, potranno o saranno ancora in condizione di rivendicare che «la libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro»[6].

La disciplina del pensiero e la distruzione del passato

La libertà di sapere e dover esprimere una verità razionale è quanto Croce chiama la «disciplina del pensiero»[7]. Negli ultimi anni di vita, su suggestione dello scrittore inglese e sulla base dell’esperienza storica recente coi totalitarismi realizzati, egli vedeva questa disciplina quanto mai esposta alla possibilità di dissoluzione. Se è il pensiero a contrastare l’avanzata del non-pensiero e dei suoi prodotti, dall’irrazionalismo all’antistoricismo, là dove venisse meno una simile energia «a raccogliere le forze di resistenza di difesa e offesa»[8], allora si avrebbe un crollo della civiltà dinanzi alla quale le catastrofi storiche che hanno segnato la fine di culture e imperi sarebbero poca cosa:

nella situazione di quel sistema totalitario accadrebbe qualcosa di immensamente più vasto e profondo della caduta della civiltà greco-romana, perché il genere umano stesso soccomberebbe senza speranza di resurrezione: morirebbe del gran peccato contro natura, contro la natura umana, di aver corrotto in sé il pensiero, che è il preservatore di ogni corruttela[9].

La fine del pensiero sarebbe davvero la catastrofe definitiva della civiltà. Dopo aver trascorso tutta l’esistenza a difendere e sostenere l’«indistruttibile perennità dei valori umanistici e liberali», dinanzi alla «spietata» e «scientifica conclusione» orwelliana della storia, Croce avrebbe avuto, scrive Raffaello Franchini commentando il passo appena citato, «un attimo di religioso orrore»[10].

Croce e Franchini sono stati fra i primi lettori italiani di 1984 e la loro ricezione si colloca in ambito idealistico, storicista e liberale. Entrambi furono attratti non dalla forma estetica del romanzo, non lo sottoposero cioè a un esame di critica letteraria, ma si interessarono invece al suo contenuto «dottrinale»[11], «tutto politico e contro lo stato totalitario»[12]. Esiste un tracciato filosofico del libro, e filosofico-politico in modo particolare, che mette in secondo piano anche la narrazione romanzata. Di Winston Smith, dello sventurato abitante di questo futuro-presente mondo totalitario, noi ricordiamo più le sue proteste intellettuali e interiori contro il regime che i pochi atti di vita, e quindi di dissenso, nei confronti di un potere che fa della morte, dell’ignoranza, della schiavitù e della guerra i suoi ideali.

Nell’anno di pubblicazione del libro Croce firma una lunga nota intitolata La nuova disciplina del pensiero. La nota appare, nel 1950, prima su «Il Mondo», poi nei «Quaderni della Critica»; infine, nella sezione intitolata Dispute di teoria della storiografia e di filosofia in generale dell’ultima edizione del primo volume delle Nuove pagine sparse[13]. Lo scritto di Franchini intitolato La distruzione del passato appare invece in occasione della prima traduzione italiana del romanzo, nel 1951, ed è stata pubblicata, come la nota crociana, con la quale naturalmente dialoga, prima su «Il Mondo», nel fascicolo del 20 maggio di quell’anno, e poi nel volume Esperienza dello storicismo del 1953, nel capitolo intitolato Note metodologiche[14].

Occupandosi del tessuto dottrinale del libro, Croce scorge un sistema di affinità tra il romanzo e una sua tesi politico-storiografica. Indotto a credere che la macchina totalitaria orwelliana sia stata modellata sul sistema sovietico (ciò è vero solo in parte[15]), in questo stato totalitario in cui “l’ultimo uomo d’Europa” diventa «l’ultimo dei liberali»[16], Croce scorge una conferma della sua tesi secondo la quale non c’è alcuna relazione fra l’ideale del comunismo e la rivoluzione bolscevica che ha portato alla nascita dell’Unione sovietica. Sono passati molti decenni dal suo studio del marxismo in cui era, da un lato, negata scientificità alle tesi di Marx, ma al tempo stesso era segnato un discrimine importante fra le diverse forme di aspirazioni comunistiche e il socialismo scientifico vero e proprio[17].

Se nel 1895 Croce, motivato da Antonio Labriola, aveva preso la penna contro Paul Lafargue per dimostrare che Tommaso Campanella[18] (ma lo stesso potrebbe dirsi per Platone o Thomas More) non ha nulla dei precursori del comunismo, adesso invece il discorso si inverte. Non esiste un comunismo ingenuo, pre-moderno e pre-scientifico, esiste un’unica idealità comunistica che propugna una «semplicistica e astratta eguaglianza»[19]. Questo ideale ha raggiunto il suo punto di massima forza nell’intellettualismo settecentesco e da qui, per il tramite della Rivoluzione francese, si è irradiato nel corso dell’Ottocento. Nel secolo che la Storia d’Europa ci presenta come quello del trionfo dell’ideale liberale, le astratte istanze vagamente comunistiche avrebbero ottenuto il loro superamento in un altro indirizzo che, nella nota orwelliana, Croce definisce «un gran fatto storico»: la nascita cioè del «socialismo o laburismo, che era lo storicizzamento del comunismo, il vero passaggio dall’utopia alla storia, il quale accettava e rispettava il metodo del liberalismo»[20].

In 1984 Croce legge tra le righe un’ulteriore conferma di una sua tesi: l’idea, cioè, che la rivoluzione bolscevica avrebbe inaugurato un modello di rivoluzione totalitaria, quella che nel romanzo orwelliano si fa non per abolire ma poter istaurare una dittatura[21]. Il modello bolscevico, emancipato dal suo «fittizio»[22] legame col comunismo, sarebbe stato il riferimento principale delle altre due distorte rivoluzioni del Novecento: quella fascista prima, quella nazista poi. Anche questa una tesi variamente presentata da Croce nelle sue opere politiche.

La nota crociana, forse troppo esposta al tentativo di trovare, in un romanzo che descrive un futuro ordine possibile, una conferma per le sue interpretazioni politiche e storiografiche del presente, trascura, ma non senza citarlo, un argomento sul quale, in quanto oppositore fiero della mentalità antistoricistica del suo tempo, avrebbe potuto dare un contributo fondamentale. Il tema della distruzione del passato e, con esso, della storia è invece perfettamente messo a fuoco nella recensione di Franchini.

Anche Franchini insiste sulle implicazioni filosofiche più che sul tracciato narrativo e pone, al centro delle sue riflessioni, i tentativi compiuti dal Grande Fratello di riscrivere la storia a proprio piacimento e secondo il proprio tornaconto (controllare il passato per controllare il futuro e tener fermo il proprio controllo sul presente). Questi atti si inscrivono senza dubbio nel tentativo di distruggere il passato, ma portano con sé una conseguenza ancora più grave della falsificazione e della manipolazione dei documenti. Dietro la distruzione del passato potrebbe annidarsi il tentativo, coerente con le mentalità totalitarie, di abolire nel mondo quella scoperta che è stata propria della filosofia moderna: «la storicità del pensiero»[23]. Come Croce vedeva, infatti, nella scomparsa del pensiero la catastrofe definitiva della civiltà, Franchini vede nell’abolizione della storia non solo una pratica di disumanizzazione (la liquefazione di quegli individui che non si integrano più nella storia del Grande Fratello), ma la distruzione totale della stessa umanità. La libertà di esistere e di pensare comincia, infatti, quando «l’uomo comincia a ricordare, a scrivere la storia di sé stesso e cioè a diventare cosciente»[24].

Nel «pessimismo polemico e apocalittico»[25] di Orwell si cela, tuttavia, un timido segnale di speranza. La cieca strategia del Grande Inquisitore orwelliano non rinuncia, infatti, a una dimensione su cui, assieme alla storicità del pensiero, la filosofia moderna ha costruito sé stessa e si è posta nella sua differenza rispetto alla tradizione filosofica precedente. Questa dimensione è quella che, con Maurizio Ferraris, potremmo chiamare la “documentalità”[26], vale a dire l’irriducibilità del documento alla base della costruzione della storia. È quanto prima Franchini ha chiamato storicità o, ancora, quanto Simona Forti, nella sua analisi del potere paranoico e nichilista di 1984, definisce «la realtà “dura”, “ultima”, semplice della materialità del mondo [che] non obbedirà al Grande Fratello»[27]. Il pensiero moderno è antimetafisico nella misura in cui si richiama alla concretezza, alla datità, alla documentabilità della storia, al fatto cioè che la storia sia estrinsecata in tracce: non imperscrutabile capriccio del divino, ma produzione materiale di atti di volontà e libertà.

Nella Storia come pensiero e come azione, Croce scriveva che la storia sopravvivrebbe anche alla scomparsa del documento, che perfino la distruzione dell’ultima carta non atrofizzerebbe la coscienza storica: quest’ultima ricomincerebbe daccapo il suo lavoro di estrinsecazione di sé nelle diverse testimonianze[28]. Era il 1938 quando Croce pubblicava queste considerazioni e le scriveva, in tempi di trionfante antistoricismo, per mantenere viva la fede nella ricreazione continua della stessa storia. La nostra fede nella sopravvivenza della storia “oltre il dato” forse non è così solida. Come una volta Platone diceva che compito del filosofo era “salvare i fenomeni”, così oggi potremmo dire che l’ufficio, forse l’ultima funzione del filosofo – questa professione così defunzionalizzata nel mondo contemporaneo – sia tutta nella preservazione del fatto e del dato, nell’acribia filologica, perfino nella difesa dell’erudizione. Quando monta la marea antistoricistica, quando tentativi di revisione e cancellazione del passato giungono da più fronti e per diverse ragioni ideologiche, allora, contrariamente alla fede crociana nella sovra-documentalità della storia, dobbiamo credere nel dato, nella fisicità dell’evento di cui la ricerca erudita è la prima vestale e custode.

Del resto, dell’irriducibile presenza del documento non può fare a meno nemmeno il mostro totalitario orwelliano: esso, sì, distrugge documenti, come hanno sempre distrutto tracce di spiritualità regimi dispotici e totalitari, ma non distrugge la documentalità in sé. Non la distrugge perché egli stesso ha bisogno, per attestare la sua esistenza, di essere “documentato” e di documentare. In questo modo, al fondo dell’abisso, Franchini scorge un residuo di umanità che addirittura si conserverebbe anche nello spietato Grande Fratello: «l’esigenza storicistica risorge incoercibile dal seno stesso di chi pretende negarla o cancellarla»[29]. La disastrosa e sconsolata conclusione del romanzo – la trasformazione dell’odio in amore per il Grande Fratello e per le sue azioni – non sarebbe dunque la fine della civiltà e dell’umanità: la distruzione del passato rimane impossibile, un’esperienza impensabile, così come la distruzione della storia, del tempo o di tutti quegli oggetti mentali senza i quali il pensiero stesso non avrebbe possibilità di concretizzarsi[30]. Nessun umano, homo totalitarius compreso, può azzardarsi a «vivere senza storia»[31]. E, finché c’è storia, ci sarà la sua documentata persistenza.

 

Parole-chiave: Benedetto Croce, Filosofia italiana, Raffaello Franchini, George Orwell, Totalitarismo.

Keywords: Benedetto Croce, Italian Philosophy, Raffaello Franchini, George Orwell, Totalitarianism.

  1. Cfr. F. La Porta, Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.

  2. Si veda al riguardo la prima prefazione all’opera arendtiana: H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, introduzione di A. Martinelli, con un saggio di S. Forti, Torino, Einaudi, 2004, pp. LXXIX-LXXXII.

  3. Cfr. R. Campa, L’idea di socialismo nella filosofia politica di George Orwell, in «Orbis idearum», IV, 1 (2016), pp. 27-47.

  4. Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997.

  5. G. Orwell, 1984, tr. it. di S. Manferlotti, in Id., Romanzi e saggi, a cura e con un saggio introduttivo di G. Bulla, Milano, Mondadori, 2000, pp. 877-1233: 918.

  6. Ivi, p. 972. Cfr. R. Campa, George Orwell e le menzogne dei totalitarismi, in I difensori dell’Occidente, a cura di G. Berti, N. Matrolla e L. Pellicani, Ogliastro Cilento, Licosia Edizioni, 2016, pp. 375-98.

  7. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, in Id., Nuove pagine sparse, vol. I, Bari, Laterza, 1966, pp. 193-204.

  8. Ivi, p. 204.

  9. Ibidem.

  10. R. Franchini, La distruzione del passato, in Id., Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini, 1971, pp. 84-88: 85. Si cita da quest’ultima edizione, quarta e ultima.

  11. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., p. 195.

  12. Ivi, p. 193.

  13. Per tutti i riferimenti bibliografici si veda la bibliografia curata da S. Borsari, L’opera di Benedetto Croce, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1964, p. 449.

  14. Si veda anche, oltre all’edizione già citata, R. Franchini, La distruzione del passato, in Id., Pensieri sul «Mondo», a cura di R. Viti Cavaliere, C. Gily Reda e R. Melillo, presentazione di G. Cotroneo, Napoli, Luciano Editore, 2000, pp. 17-19.

  15. Non trascurabile è anche la critica orwelliana al capitalismo liberista: cfr. R. Campa, L’idea di socialismo nella filosofia politica di George Orwell, op. cit., pp. 33-37.

  16. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., p. 202.

  17. Cfr. B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Ed. Nazionale a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi Garampi, con una nota al testo di P. Craveri, Napoli, Bibliopolis, 2001.

  18. Cfr. B. Croce, Sulla storiografia socialistica. Il comunismo di Tommaso Campanella, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, op. cit., pp. 177-213.

  19. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., pp. 195-96.

  20. Ivi, p. 197.

  21. G. Orwell, 1984, op. cit., p. 1179.

  22. B. Croce, La nuova disciplina del pensiero, op. cit., pp. 195-96.

  23. R. Franchini, La distruzione del passato, op. cit., p. 85.

  24. Ibidem.

  25. Ivi, p. 87.

  26. Cfr. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma, Laterza, 2014.

  27. S. Forti, Scene di paranoia in Oceania, in Paranoia e politica, a cura di S. Forti e M. Revelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 156-80: 176.

  28. Cfr. B. Croce, Documenti e testimonianze, in Id., La storia come pensiero e come azione, Ed. Nazionale a cura di M. Conforti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002, pp. 109-15.

  29. R. Franchini, La distruzione del passato, op. cit., p. 88.

  30. Si pensi, ad esempio, all’argomento kantiano di immaginare l’eternità a partire del tempo: cfr. I. Kant, La fine di tutte le cose, tr. it. di E. Tetamo, a cura di A. Tagliapietra, Torino, Bollati Boringhieri, 2018.

  31. R. Franchini, La distruzione del passato, op. cit., p. 88.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

La genesi di un “caso”. La storiografia e la nascita di Benedetto Croce

Author di Lorenzo Arnone Sipari

Benedetto Croce fu nominato senatore il 26 gennaio 1910[1]. Il fascicolo delle «Congratulazioni» per quella nomina contiene circa settecento documenti, tra biglietti da visita, telegrammi, lettere e cartoline postali, già da tempo digitalizzati[2]. Non diversamente da quel che si possa immaginare, gli encomi furono inviati, oltre che da parenti, amici, titolari di case editrici e più o meno anonimi estimatori, anche da eminenti studiosi e politici di rango[3].

Appare singolare, invece, che nello stesso fascicolo compaiano solamente tre autografi di risposta: una minuta destinata al ministro della pubblica istruzione Edoardo Daneo; una brutta copia e una minuta in riscontro agli auguri di Pietro Antonio Sipari, sì cugino del filosofo, ma formulati nella qualità di sindaco di Pescasseroli. In particolare, il telegramma indirizzato da quest’ultimo al neosenatore poneva l’accento sul fatto che la località abruzzese fosse stata sempre orgogliosa dell’illustre concittadino, avvertendo «fortemente l’onore» di avergli dato i natali[4].

Tale testimonianza trovava conforto in altri attestati di stima provenienti sempre dal paese dell’Alta Val di Sangro, tra i quali quelli dei rappresentanti dell’Istituto di beneficenza, della Società cooperativa San Paolo, della Società operaia di mutuo soccorso, nonché dal parroco Quintiliani, che, scrivendo di interpretare il «sentimento popolare», partecipava la diffusa «esultanza» dei pescasserolesi per l’elevata dignità[5]. La circostanza non è di poco conto, perché rafforza l’ipotesi secondo la quale la prima visita del filosofo al paese natìo, che si sarebbe registrata fra il 20 e il 22 agosto 1910, fosse stata sollecitata proprio dai compaesani, che erano desiderosi di tributargli i dovuti onori, con il «non sottinteso» fine di riavvicinarlo a Pescasseroli[6].

La risposta di Croce al cugino sindaco sembra, ad ogni modo, andare nella stessa direzione. Stesa non senza una qualche esitazione, come si percepisce dalla riscrittura, essa si risolve nel commosso ringraziamento al «saluto», che gli era «dolcissimo», del luogo natìo, con la precisazione che fino ad allora non aveva potuto conoscerlo se non solo e grazie a quanto gli aveva raccontato la «povera madre»[7]. È di tutta evidenza che tale autografo, pur nella stringatezza del caso, anticipi i temi portanti di quel Discorso di Pescasseroli che il filosofo avrebbe pronunciato il 21 agosto 1910[8].

Sta di fatto che la calorosa partecipazione alla nomina del 26 gennaio non fu l’unica occasione in cui Croce, in quell’inverno, si sentì o fu accostato alla terra natìa. Nel corso dell’udienza del 13 marzo, Vittorio Emanuele III gli accennò, infatti, dell’ospitalità ricevuta a Pescasseroli per le battute di caccia all’orso, che peraltro non era riuscito a uccidere[9]. Inoltre, in riscontro alla documentazione richiesta dalla Segreteria del Senato, per le procedure di verifica dei titoli utili alla convalida della nomina, il filosofo depositò anche la propria fede di nascita, che gli era stata rilasciata dal Comune di Pescasseroli il 19 febbraio 1910[10].

La corrispondente trascrizione è pressoché fedele all’originale, salvo che nella sostituzione, nel sostantivo «Uffiziale», della consonante «z» aggiornata in «c», e nella presenza di alcune varianti nell’uso della punteggiatura e delle maiuscole. Tuttavia, seppur più volte pubblicato, appare utile riproporre l’atto originale, così come contrassegnato in margine dal numero d’ordine 12 (seguito dall’annotazione «Croce Benedetto, Maria, Francesco, Antonio») del registro delle nascite per l’anno 1866 di quel Municipio:

L’anno milleottocentosessantasei nel giorno venticinque del mese di Febbraio nella casa comunale alle ore sei pomeridiane. Dinanzi a me Francesco Saverio Sipari Sindaco di questo Comune di Pescasseroli, Circondario di Avezzano, Provincia di Abruzzo Ultra Secondo, Uffiziale dello Stato Civile, è comparso Pasquale Croce, figlio del fu Benedetto, di anni ventotto, di professione proprietario, domiciliato in Napoli, ed attualmente di passaggio in Pescasseroli, il quale mi ha presentato un bambino di sesso maschile che dichiara essergli nato il giorno venticinque del mese di Febbraio corrente anno alle ore due pomeridiane dalla di lui moglie Luisa Sipari figlia del fu Pietrantonio, seco lui domiciliato, e nella casa di abitazione di Carmelo Sipari posta in questo Comune di Pescasseroli alla strada Largo del Barone, al quale figlio dichiara di dare i nomi di Benedetto, Maria, Francesco, Antonio. La quale dichiarazione viene fatta alla presenza di Gioele Trella, figlio del fu Giustino, di anni cinquanta, di professione Sacerdote, e di Achille Laudazi, figlio di Loreto, di anni quarantuno, di professione Farmacista, residente in questo Comune, testimoni scelti dal dichiarante stesso, i quali dopo avere avuto lettura del presente verbale steso contemporaneamente sui due registri si sono meco col dichiarante sottoscritti[11].

Sull’incisiva evidenziata in corsivo, non di rado trasmessa con la preposizione «per» in luogo di quella («in») presente nell’originale[12], si è soffermata parte della storiografia crociana, soprattutto per indicare la casualità della nascita in oggetto. La testimonianza in tal senso più rappresentativa è data dalla biografia di Charles Boulay, per il quale il filosofo era nato «un peu par hasard» in Abruzzo, proprio sulla base dell’espressione «de passage», che attribuì al padre di Croce e che gli parve «très révélatrice». L’italianista francese riteneva di cogliervi, infatti, qualcosa «d’un peu dédaigneux», arrivando persino a prospettare, in una dedotta contrapposizione tra cittadino (Pasquale) e paesana (Luisa), «la réaction d’un homme de la capitale qui prend ses distances: on passe dans ce village, on n’y séjourne pas»[13].

Tale tesi non sembra aver attecchito nella successiva letteratura, anche perché l’immagine di Pasquale Croce – nato a Campobasso, da genitori originari di diverse province regnicole, dove continuavano a vivere i parenti, e amministratore di proprietà la cura delle quali richiedeva frequenti viaggi in Capitanata, dove pure riecheggiavano le radici di una casata storicamente legata alla transumanza[14] – appare poco in sintonia con quella di «“un uomo della [antica] capitale”» che, per una sorta di snobismo urbano-centrico, disdegnava la vita di provincia.

Non altrettanto isolato è rimasto, come s’è anticipato, il valore attribuito alla proposizione incidentale, da cui sono fiorite espressioni “invariabili”, tra il «quasi per caso» e il «relativamente fortuito», riferite, per l’appunto, alla nascita abruzzese del filosofo[15]. Anche Giuseppe Galasso, nel primo paragrafo di un ben noto saggio, sottolineando come proprio il padre di Croce si fosse definito «domiciliato in Napoli, ed attualmente di passaggio per [sic] Pescasseroli», aveva ribadito la «casualità di quel luogo di nascita»[16].

Lungi da un esame delle lezioni con la preposizione-errore congiuntivo, di cui qui neanche interessa individuare l’archetipo, va invece prestata attenzione alla formazione dell’atto in oggetto, con particolare riferimento ai termini tecnico-giuridici della sua compilazione. Alla luce di quanto finora si è osservato, infatti, sembra che, nell’accostarsi a quel certificato di nascita, non ne siano state valutate con attenzione le formule “rigide”, cioè quelle formalità che, in quanto prescritte dalla legge per la relativa compilazione, non erano riservate al dichiarante.

La data del 25 febbraio 1866 si colloca nel quadro dell’operatività della “Riforma Pisanelli” (Regio Decreto 25 giugno 1865, n. 2215), nell’ambito della quale la materia dello Stato civile era disciplinata dagli articoli dal 350 al 405, oltreché, per gli aspetti che qui interessano, dal Regio Decreto 15 novembre 1865, n. 2602 sul suo Ordinamento. L’art. 352 del nuovo Codice prevedeva, in particolare, che gli atti dovessero enunciare, tra l’altro, «il nome, il cognome, l’età, la professione e il domicilio o la residenza» di coloro che vi fossero indicati «in qualità di dichiaranti»[17], con ciò enumerando delle «formalità generali» relative alla loro compilazione[18]. Per questa ragione erano predisposti degli appositi modelli, ai quali il compilatore, cioè l’ufficiale dello Stato civile, doveva attenersi[19].

A maggior garanzia della validità dell’atto, l’art. 351 prescriveva la presenza di due testimoni, precisando che questi dovessero essere residenti nel comune interessato dalla registrazione[20], aspetto rilevante in special modo se, come osservava un commentatore, i dichiaranti vi si trovavano «a caso o di passaggio»[21]. A parte la dicotomia che si potrebbe verificare assumendo una siffatta congiunzione con valore disgiuntivo, va segnalato che la coeva legislazione utilizzava, per esplicitare una nascita in luogo fortuito, l’avverbio «accidentalmente»[22]. L’espressione «di passaggio», invece, è sempre stata legata a un luogo diverso dal consueto domicilio[23] e, come tale, risulta molto frequente negli atti pubblici. Basti qui segnalare l’atto di abdicazione del già citato Vittorio Emanuele III, autenticato il 9 maggio 1946 dal notaio Angrisani, con studio in Napoli, dove i due testimoni presenti, essendo domiciliati l’uno a Roma, l’altro a Padova, furono attestati come «di passaggio» nella città partenopea[24].

Trattandosi, pertanto, di una formula prevista dalla legge per individuare la residenza o il domicilio, in sostanza nulla più che l’indicazione di un dato anagrafico, non v’è ragione di ritenere l’incisiva in questione l’estrinsecazione di una manifestazione di volontà del dichiarante. Pure, la rappresentazione della transitorietà connessa al trovarsi in un luogo di passaggio non pare possa essere automaticamente coniugata con un evento casuale, tanto più se, come nella fattispecie, si è in presenza di una scelta precisa e motivata, qual era quella assunta da Pasquale e Luisa di affrontare un viaggio, dal mare alla montagna, per evitare il colera, al fine di portare a termine con relativa serenità la gravidanza.

Del resto, non si può fare a meno di notare che Benedetto Croce non ha mai ricondotto la sua nascita pescasserolese a un evento fortuito. Dal fatto di aver incorniciato nello studio l’atto di nascita ricevuto in dono durante la prima visita nella terra natìa[25] e dalle testimonianze che su di essa ha offerto, intimamente compendiate nel Discorso di Pescasseroli, si ricava, anzi, un quadro armonico con il telegramma del gennaio 1910, con quel saluto dei compaesani che in lui risuonava «dolcissimo»[26].

  1. Per il decreto, la convalida e il giuramento si vedano le Discussioni relative alle tornate del 22 febbraio, 5 e 11 marzo 1910, in «Atti Parlamentari», Senato del Regno, Legislatura XXIII, 1a sessione 1909-1910, rispettivamente alle pp. 1745-46, 1834 e 1948.

  2. Tale fonte, digitalizzata nell’ambito del progetto “Archivi online” promosso dal Senato della Repubblica, previa stipula di una convenzione con la Fondazione Biblioteca Benedetto Croce, che conserva i carteggi del filosofo, è identificata dalla seguente segnatura archivistica: s. 1 «Carteggio (1883-[1952]), fasc. «Congratulazioni per la nomina a senatore (1910)». Ospitata sul sito dell’Archivio storico del Senato, per fini di valorizzazione, è accessibile al seguente link (consultato il 04/02/2023): https://patrimonio.archivio.senato.it/inventario/fondazione-croce/benedetto-croce/struttura.

  3. Si segnalano, tra gli altri, V. Aganoor, V. Betteloni, L. Bodio, R. Caggese, F. Compagna, A. D’Ancona, A. De Bosis, C. De Lollis, P. Fedele, G. Fortunato, A. Gemelli, G. Gentile, O. Guerrini, S. Jacini, D. Jaja, G. Lombardo Radice, L. Loria, F. Momigliano, E. Morselli, G. Mosca, E. Nathan, Neera, F. S. Nitti, V. E. Orlando, V. Pareto, E. Pessina, G. Pitrè, A. Salandra, S. Sonnino, B. Stringher, V. Tangorra, M. Valgimigli, M. Weil, F. Zampini Salazar, N. Zingarelli (ivi, fascc. ad nomen).

  4. Ivi, telegramma «2747 di Pietro [Antonio] Sipari (27 gennaio 1910)» con la brutta copia di risposta. La riscrittura di quest’ultima, che comprende anche la minuta di riscontro ad altro telegramma che il cugino del filosofo aveva inviato a titolo personale, come registrato sotto il numero «2746», è censita autonomamente: ivi, minuta «2747 Benedetto Croce a Pietro [Antonio] Sipari (post [27 gennaio] [1910])».

  5. Ivi, telegramma «2658 di Carlo Quintiliani (28 gennaio [1910])». Ma si vedano anche i telegrammi «2198» (Tranquillo Boccia et alii), «2311» e «2329» (Giuseppe Decina et alii per Soc. operaia di mutuo soccorso), «2459» (Istituto di beneficenza), «2787» (Gioele Tudini per Soc. Coop. San Paolo), tutti datati 28 gennaio 1910.

  6. B. Mosca, Croce e la terra natia, Roma, De Luca, 1967, p. 41.

  7. Minuta «2747 Benedetto Croce a Pietro [Antonio] Sipari», cit. Per la successiva corrispondenza fra i due, relativa in particolare alle ricerche per la monografia di Pescasseroli (1922), si veda L. Arnone Sipari, Gli inediti di Benedetto Croce nell’Archivio Sipari di Alvito, in «L’Acropoli», V (2004), n. 3, pp. 309-19.

  8. Si pensi al seguente passo di B. Croce, Il discorso di Pescasseroli, in La lunga guerra per il Parco Nazionale d’Abruzzo, scritti di B. Croce, L. Piccioni, L. Arnone Sipari, E. Giancristofaro, G. Tarquinio, P. Palumbo, F. Fanci, introduzione di F. Tassi, Lanciano, Quaderni di Rivista Abruzzese, 1998, p. 15: «Quantunque io non abbia, prima di questi giorni, percorso materialmente la via che conduce a questo paese, l’ho percorsa infinite volte con la fantasia; […] A me, fanciullo, i racconti di mia madre […] facevano di Pescasseroli […] uno di quei paesi delle fiabe, che non si sa mai se siano o no esistiti».

  9. B. Croce, Taccuini di lavoro, I (1906-1916), Napoli, Arte tipografica, 1987, pp. 195-96. Sulle cacce reali nel comprensorio marsicano si veda L. Arnone Sipari, Dalla Riserva reale dell’Alta Val di Sangro alla costituzione del Parco Nazionale d’Abruzzo, in La lunga guerra, op. cit., pp. 49-66.

  10. Archivio Storico del Senato del Regno, fasc. 0673, consultato in data 11/02/2023 al seguente link: http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/All/45B162F23980C5A64125646F005A8FE6/$FILE/0673%20Croce%20Benedetto%20fascicolo.pdf.

  11. Si cita dal fac-simile pubblicato nell’Omaggio a Benedetto Croce, in «Rivista Abruzzese», XIX (1966), n. 1-2, tav. tra le pp. 16-17, omettendo le quattro sottoscrizioni e avvertendo che il corsivo nel testo è dell’odierno trascrittore. Sui genitori del filosofo si veda, ora, L. Arnone Sipari, Il contratto matrimoniale tra Pasquale Croce e Luisa Sipari (1861), in «Diacritica», VII (2021), n. 1 (37), pp. 15-21

    (link: https://diacritica.it/letture-critiche/il-contratto-matrimoniale-tra-pasquale-croce-e-luisa-sipari-1861.html).

  12. F. Nicolini, Benedetto Croce, Torino, Utet, 1962, p. 26; C. Boulay, Benedetto Croce jusqu’en 1911. Trente ans de vie intellectuelle, Genève, Droz, 1981, p. 10; F. Tessitore, Benedetto Croce, un abruzzese a Napoli, in Benedetto Croce e l’Abruzzo, L’Aquila, Deputazione abruzzese di storia patria, 1985, p. 11; G. Galasso, Nota del curatore, in B. Croce, Un paradiso abitato da diavoli, Milano, Adelphi, 2006, p. 81; Id., Croce abruzzese e napoletano, in «L’Acropoli», XIV (2013), n. 6, pp. 483-502 (ora in Id., La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani, a cura di E. Giammattei, Bologna, il Mulino, 2015); P. D’Angelo, Benedetto Croce. La biografia, vol. I: Gli anni 1866-1918, Bologna, il Mulino, 2023, p. 25.

  13. C. Boulay, Benedetto Croce jusqu’en 1911, op. cit., pp. 10-11.

  14. Il rinvio d’obbligo è a B. Croce, Montenerodomo. Storia di un comune e di due famiglie, Bari, Laterza, 1919, specie alle pp. 22-24 e 35-40.

  15. G. Cassandro, Benedetto Croce abruzzese, in «Rivista Abruzzese», XIX (1966), n. 3, p. 93; Id., Benedetto Croce abruzzese. Una postilla metodologica (universale e particolare), in «Rivista di Studi Crociani», IV, 1967, p. 75; F. Tessitore, Benedetto Croce, op. cit., p. 11; P. D’Angelo, Benedetto Croce. La biografia, vol. I: Gli anni 1866-1918, op. cit., p. 27.

  16. G. Galasso, Croce abruzzese e napoletano, art. cit., p. 483.

  17. Codice civile del Regno d’Italia col confronto coi codici francese austriaco napoletano parmense estense etc., a cura di D. Galdi, Napoli, Marghieri e Perrotti, 1865, pp. 411-12. Peraltro, non dissimilmente, nell’ambito della normativa (territoriale) precedente era previsto per gli atti di nascita (tit. II, art. 159) l’indicazione, tra l’altro, di nomi, cognomi, professione e domicilio «del padre e della madre, e quelli de’ testimonj»: Comento sulle leggi civili del Regno delle Due Sicilie, a cura di A. Giordano, vol. I, Napoli, Stamp. del Fibreno, 1848, p. 155.

  18. Commento al codice civile del Regno d’Italia 25 giugno 1865 etc., a cura di F. Voltolina, Venezia, Tip. Longo, 1873, pp. 443-44.

  19. Il modello per la fattispecie è il n. 14, «Dichiarazione di nascita fatta dal padre pel figlio legittimo», in Modelli dei diversi atti dello Stato Civile, a cura del Ministero di Grazia, Giustizia e dei Culti, Firenze, Tip. Franco-Italiana, 1865, p. 17. L’ufficiale, del resto, non aveva ampi margini di discrezionalità, perché, come recitava l’art. 355, non si potevano enunciare «se non quelle dichiarazioni e indicazioni […] per ciascun atto stabilite o permesse» (Codice civile del Regno d’Italia, op. cit., p. 413).

  20. Codice civile del Regno d’Italia, op. cit., p. 411.

  21. Commento al codice civile, op. cit., p. 443.

  22. Infatti, con riferimento al contenuto dei registri degli atti di nascita, l’art. 53, punto 4, del Regio Decreto 15 novembre 1865, n. 2602, recitava doversi comprendere «Gli atti di dichiarazione di nascita ricevuti dall’ufficiale dello stato civile di un comune, in cui un bambino nacque accidentalmente» («Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia», vol. XIII, Torino, Stamp. Reale, 1865, p. 2652).

  23. Nel Regno delle Due Sicilie erano state introdotte, per evidenti finalità di pubblica sicurezza, le «carte di passaggio», indispensabili non soltanto per recarsi all’estero ma anche per varcare i confini delle singole province: Repertorio amministrativo ossia Collezione di leggi, decreti, reali rescritti, ministeriali di massima, regolamenti, ed istruzioni sull’amministrazione civile del Regno delle Due Sicilie, a cura di P. Petitti, vol. III, Napoli, Migliaccio, 1851, V ed., p. 272.

  24. Abdicazione di Vittorio Emanuele III e primi atti di Umberto I, in «Civiltà Cattolica», XCVII (1946), vol. II, p. 376.

  25. D. Marra, Conversazioni con Benedetto Croce su alcuni libri della sua biblioteca, Milano, Hoepli, 1952, p.157; R. Franchini, Note biografiche di Benedetto Croce, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1953, p. 13. Il 20 agosto 1910 il Consiglio comunale di Pescasseroli aveva deliberato di omaggiare il filosofo con una pergamena in cui era riprodotto l’atto in questione e di intitolargli il largo antistante la dimora dove nacque: cfr. Onoranze a Benedetto Croce, in «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti», XXV (1910), fasc. VII-VIII, p. 440.

  26. Si rinvia, supra, alle note 4 e 7. Sembra di cogliersi, nella risposta del filosofo, una parafrasi del celebre «diniego del saluto» di Beatrice a Dante, nella Vita Nova. Si vedano a tal riguardo le considerazioni dello stesso B. Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921, II ed., specie alla p. 41.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

La «Rivista di Studi Crociani», Agorà della Cultura

Author di Giuseppe Gembillo

Dialogare con Benedetto Croce implica imbandire un’ideale tavola rotonda tra i cui convitati più illustri del primo semicircolo spiccano i nomi di Vico, Goethe, Hegel, Marx, Mach, Poincaré, Pareto, Bergson, e tra quelli del secondo semicircolo Heisenberg, Bohr, Maturana, Mandelbrot, Prigogine, Lovelock, Morin. Insomma, dialogare con lui significa ripensare la cultura italiana del primo Novecento proiettata in quella europea del suo e del nostro tempo.

Come Agorà che rappresenti un luogo ideale aperto a tutti e dentro cui collocare stabilmente la tavola, abbiamo pensato di ripubblicare la Rivista di Studi Crociani, affidandole il compito di far interagire le menti pensanti del nostro tempo.

Le riviste, come testimonia magistralmente quella che ospita queste riflessioni, rappresentano il luogo ideale per generare e alimentare libere discussioni mediante la felice commistione di saggi, articoli, discussioni, recensioni; per “saggiare”, concentrando la rigorosa argomentazione espressa nei trattati, l’attualità di una domanda, di un dubbio, di un’opinione espressi nella forma efficace della comunicazione sintetica.

Come ha mostrato da tempo anche «Diacritica», che ritorna ogni anno, specie nel “mese di Croce”, a dialogare con lui, ciò di cui si parla, a partire dalle riflessioni del “filosofo della distinzione”, non è solo la Filosofia, ma la Cultura a tutto tondo, la Cultura che è sempre prodotto di uomini, “scientifica” o “umanistica” che si denomini. Perché, come diceva espressamente Croce, determinare cosa sia l’Arte significa, contemporaneamente, dire cosa essa non sia, ovvero delineare tutte le altre attività da cui essa si distingue e con le quali tuttavia interagisce, perché l’Arte, come tutto ciò che esiste, è parte integrante di un sistema, che solo in esso acquista senso, nel momento stesso in cui conferisce un senso specifico all’Intero. In quest’ottica, comprendere un pensatore significa metterlo in relazione non solo col suo tempo e con i suoi contemporanei, ma con tutti coloro che hanno riflettuto, prima e dopo di lui, sia nel suo contesto di senso sia al di fuori o contro di esso.

Nei settant’anni intercorsi dalla morte di Croce il dialogo con lui si è concretizzato in moltissimi studi che si sono progressivamente intensificati sia nella forma delle monografie ampie sia in quella dei saggi sparsi in tutti i luoghi possibili[1]. Ci è sembrato opportuno, allora, creare un luogo d’incontro specifico, finalizzato a favorire il convergere e l’interagire di voci e di suggestioni che, altrimenti, rischierebbero di restare sparse o poco collegate. Un luogo che sia, soprattutto, occasione di dialogo tra le varie generazioni che solo grazie al rapporto dialettico tradizione-innovazione muovono la Storia, consentendo l’emergere del nuovo nella forma del “superare-conservando”, così splendidamente portato alla luce da Hegel e poi ribadito con piena convinzione da Croce.

Ma, a parte questo, oggi appare particolarmente urgente la necessità di riflettere criticamente su tutto ciò che costituisce il nostro “ambiente circostante”, sia materialmente che concettualmente. Infatti la “metà” della grande ricchezza dei nostri mezzi di comunicazione si mescola sempre, come diceva Goethe, con la “metà” della sua maledizione: l’odierna prevalenza delle immagini o delle enunciazioni brevi, oracolari e quindi effimere, distrae sempre più, promanando e provocando frenesia, dalla riflessione pacata, dalla ricerca di senso rispetto a ciò che facciamo o che ci viene richiesto di fare. La riduzione di fatto di ogni attività all’unico valore della quantificazione esercita i giovani a formarsi come “esecutori” piuttosto che come “direttori di sé stessi”. Li sottomette a un criterio di efficienza economica che tende a sopraffare tutti gli altri valori, soprattutto quelli che rendono il vivere dignitoso e consapevole; li sottomette a tutto ciò proprio nella sfera della formazione intellettuale e culturale, dalla quale discendono, poi, tutte le realizzazioni pratiche. Diventa indispensabile, allora, potenziare i luoghi ideali deputati alla formazione critica e libera, e che rendono “umanistica” qualunque attività ogni essere umano scelga di esercitare.

La discussione pacata attraverso una scrittura meditata e non giornalistica o mediatica, allora, esercita il ruolo di abitudine alla riflessione, espletata attraverso tempi propri sia dell’atto con cui si esprime la propria opinione sia di quando si pone attenzione a quella degli altri. In quest’ottica lo spazio ideale della rivista consente di differenziarsi sia dall’inevitabile articolazione e lunghezza del trattato sia dall’aleatorietà della comunicazione verbale o mediatica. Lo confermava indirettamente anche Benedetto Croce, quando indicava nella trattazione saggistica il mezzo più equilibrato e più efficace per comunicare in maniera tale da consentire agli interlocutori di poter usufruire di una possibilità di replica, anch’essa meditata e pacata. Non è un caso, dunque, che le riviste lascino ampio spazio a “discussioni”, “recensioni”, “note”, cioè a quelle rubriche che stimolano e alimentano la libera discussione critica.

Con questo spirito aggiungiamo a tante altre autorevoli riviste scientifiche questa che, pur ruotando attorno a un nome, si propone di portare la propria parte di lievito per fermentare e alimentare il dibattito italiano e internazionale su tutte quelle tematiche che costituiscono i problemi tipici del nostro tempo.

  1. Per le sole monografie rimando a F. Gembillo, Settant’anni di studi su Benedetto Croce in più di cinquecento libri, in «Complessità», 2, 2021, pp. 228-87.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)

Le dediche dei libri di Benedetto Croce

Author di Paolo D'Angelo

È molto difficile pensare che la dedica di un libro possa contribuire in qualche modo alla comprensione del libro stesso, e ancora più strano parrebbe credere che dall’insieme delle dediche dei libri di un autore si possa ricavare qualcosa di interessante sulla sua fisionomia intellettuale. Tutto questo è pacifico per le dediche di esemplare, cioè per quelle dediche che l’autore appone sulla singola copia all’atto della consegna o dell’invio ad altri. Oltre al fatto che è obiettivamente molto difficile rintracciarle, esse interesseranno al massimo qualche bibliofilo in cerca di copie autografate. Ma la stessa cosa sembra valere anche per le dediche d’opera, cioè quelle dediche che appaiono nella versione a stampa, di solito subito dopo il frontespizio. Anch’esse, se pur facilmente documentabili, non sembrano aprire nessuna via aggiuntiva di accesso all’opera, e rimanere irrimediabilmente chiuse nell’ambito dei rapporti personali, familiari o di amicizia.

Questa sostanziale irrilevanza della dedica ai fini dell’interpretazione dell’opera sembra confermata dalla scarsissima attenzione che le dediche, anche d’opera, hanno sempre suscitato, e che trova eccezioni quasi solo quando una dedica è stata aggiunta o cancellata, come nei casi a loro modo celebri della dedica a Napoleone del Génie du Christianisme di Chateaubriand introdotta nella seconda edizione o quella simmetrica della dedica a Husserl di Sein und Zeit, cancellata da Heidegger dopo la promulgazione delle leggi antisemite in Germania. Tanto è vero che l’unico studio specifico della funzione della dedica – almeno l’unico di cui sono a conoscenza – è quello contenuto in Soglie di Gérard Genette, libro che studia i «Dintorni del testo», come i titoli, le epigrafi, le prefazioni, le note e, appunto, le dediche. E proprio da Genette ho tratto la prima distinzione, tra dediche d’esemplare e dediche d’opera, facilitata in francese dal fatto che quella lingua ha due verbi diversi per l’una e l’altra operazione: si dice dédier per la dedica d’opera e dédicacer per la dedica d’esemplare[1].

Nonostante tutto ciò, credo che prestare un po’di attenzione alle dediche con le quali Croce ha accompagnato parecchie delle sue opere abbia qualche importanza, almeno nel senso che ci restituisce alcuni tratti non secondari della sua psicologia e della sua umanità. Certo, sono il primo a pensare che occuparsi delle dediche di Croce non serva a nulla per entrare nelle sue teorie e per capire la sua filosofia, ma ritengo che per lo meno dal punto di vista biografico esse abbiano un interesse non secondario. Sicuramente lo hanno per me, che, avendo appena pubblicato per l’editore Il Mulino una biografia di Croce, potrei dire, parafrasando l’«io non sono che un critico» pronunciato da Iago in Shakespeare, di non essere che un biografo[2].

La prima osservazione che farei è che Croce utilizza moltissimo le dediche. Praticamente tutte le opere di Croce che non sono raccolte di saggi (e anche alcune che lo sono) portano in esordio una dedica.

Le raccolte di saggi non sono di solito dedicate, e il motivo è abbastanza intuibile, trattandosi di saggi per lo più scritti in tempi e circostanze diverse. Non recano dedica, ad esempio, i volumi della Letteratura della Nuova Italia, di Poesia e non Poesia, di Poesia antica e moderna. Non hanno dedica Una famiglia di patrioti ed Etica e politica. Anche nel caso delle raccolte di saggi ci sono, tuttavia, notevoli eccezioni: i Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana usciti in prima edizione nel 1910 recano una dedica ad Antonio Fusco, «morto in Messina il 28 decembre 1908», cioè perito nel terribile terremoto di Messina e Reggio. Antonio Fusco era particolarmente caro a Croce. In una lettera a Vossler Croce scriveva: «il povero Fusco sembra sia rimasto sotto le macerie […] e per me la perdita di Fusco è come la perdita di in figlio», e a Fusco Croce aveva dedicato un commosso ricordo su «La Critica» del 1909. Di lui lo colpiva certamente la dignità con cui affrontava le molte difficoltà di una vita irta di ostacoli. Fusco era stato sacerdote (aveva abbandonato l’abito talare non molto tempo prima di morire), proveniva da una famiglia semplice, aveva studiato a Napoli senza gran frutto e poi si era trasferito in Germania cercando di migliorare la sua preparazione, aveva lavorato come precettore in case private fino a quando, anche con l’aiuto di Croce, non aveva potuto vincere un posto pubblico nella scuola di Sciacca, dove però aveva dovuto sopportare le ristrettezze economiche, le prepotenze dei locali, la miseria intellettuale dei colleghi. Croce era riuscito a farlo trasferire a Messina nel 1906 (qui aveva trovato un ambiente migliore, legandosi anche a docenti dell’università) e aveva fatto pubblicare diversi suoi lavori, da quelli su Castelvetro fino al saggio su Flaubert.

Il filosofo aveva vissuto da adolescente la perdita del padre, della madre e della sorella nel terremoto di Casamicciola del 1883, e ne rimase segnato tutta la vita. Il disastro del 1908 a Messina suscitò in lui un’emozione enorme, riaccendendo i ricordi della propria personale tragedia. La preoccupazione per la sorte degli amici, come Giuseppe Lombardo Radice, e anche di studiosi a lui meno legati, come Gaetano Salvemini (che a Messina perse la moglie e i cinque figli: e Croce, negli anni immediatamente successivi, gli fu vicino come mai lo era stato e come non lo sarebbe stato in seguito), ha un preciso riscontro nella chiusa del ricordo di Fusco affidato a «La Critica»:

Quando mi giunse a Napoli la notizia del terremoto di Messina, tra le immagini che mi si affollarono rapide alla fantasia fu, tra le prime, quella del Fusco, con quel suo volto malinconico, con quella sua aria trepida e spaurita come di chi sia sempre in sospetto di qualche colpo della sventura; e subito mi sorse in cuore, irrefrenabile, il presentimento, anzi la desolata certezza della sventura. […] Per più giorni io e altri amici domandammo e cercammo dappertutto, e facemmo cercare. […] Una fallace notizia, comparsa sui giornali, ci ridette, crudelmente, la vana speranza per qualche istante. Ma nessuno l’aveva visto, nessuno sapeva di lui. Vissuto nel dolore, era dileguato nel silenzio[3].

Il caso della dedica a Fusco di una raccolta di saggi, per quanto dettato dalle circostanze particolarissime che abbiamo appena visto, non è tuttavia isolato. Anche gli Ultimi saggi recano una dedica, quella a Julius von Schlosser, lo studioso austriaco coetaneo di Croce e traduttore di alcune sue opere in tedesco. Ma di lui parleremo dopo, quando ci occuperemo di un’altra tipologia di dediche crociane, quella delle dediche a personaggi stranieri famosi.

Restando, invece, nella categoria “dediche di raccolte di saggi”, vorrei segnalare due eccezioni. La prima è quella di Uomini e cose della vecchia Italia, dedicato a Francesco Ruffini fin dalla prima edizione del 1926. Anche lui coetaneo di Croce, giurista e docente universitario, Ruffini conosceva il filosofo da tempo, ma i rapporti tra i due, inizialmente non del tutto armoniosi, si erano rinsaldati soprattutto nel periodo di ascesa del fascismo, verso il quale Ruffini aveva manifestato fin da subito profonda avversione. E con Ruffini Croce si sarebbe incontrato molto spesso, durante i soggiorni in Piemonte, negli anni successivi. Dopo la sua morte, sulla «Critica» del 1934, Croce ne avrebbe scritto un ricordo commosso, nel quale leggiamo questa frase significativa: «quel che davvero unisce gli esseri umani è qualcosa di più profondo che non il consenso delle idee: è il consenso nel sentimento verso la vita vissuta»[4].

L’altra è quella della dedica del libro estremo di Croce, le Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, apparso l’anno stesso della morte di Croce, il 1952, e che reca la dedica al banchiere Raffaele Mattioli, motivata nell’Avvertenza con queste parole: «Dedico questo volume a Raffaele Mattioli, che mi ha dato e mi dà continue prove della sua amicizia in questa età della vita in cui dell’amicizia si sente più forte il bisogno ed essa torna più cara».

Se quelle appena viste sono le principali eccezioni alla regola secondo la quale Croce non dedica le raccolte di saggi, val la pena qui di segnalare subito l’eccezione simmetrica di un’opera monografica, importante, e priva di dedica: la Storia d’Italia del 1928, forse perché troppi sarebbero stati i dedicatarii possibili, o forse per non creare possibili imbarazzi a qualcuno, dedicandogli un’opera che sarebbe subito apparsa come una critica al regime da poco instaurato.

Subito dopo la distinzione tra dedica d’opera e dedica d’esemplare, Genette ne introduce un’altra, quella tra la dedica moderna, diciamo così, disinteressata, e la dedica in uso fino al Settecento, quando spesso la dedica a un nobile o a un potente serviva per ottenere privilegi e al limite un finanziamento per la stampa. Ovvio che di questo secondo tipo di dedica, nella quale il dedicatario svolge un ruolo paragonabile a quello di un committente, non si trovino esempi in Croce, come praticamente in tutti i libri dell’età contemporanea. Se proprio volessimo trovare una corrispondenza – lo ammetto, parecchio tirata per i capelli – con le dediche di Croce, potremmo tentarla con le dediche apposte a plaquettes per nozze: usanza ancora molto frequente, nelle classi elevate, all’inizio del Novecento. Ricordo due opuscoli per nozze ai quali Croce, che non amava questo tipo di scritti di occasione, non sottrasse la propria collaborazione.

Il primo è quello a Onorato Fava, poeta e scrittore – uno dei “Nove Musi”, tra cui Croce, che usavano riunirsi in una trattoria del Vomero –, a lui dedicato in occasione del matrimonio con Giulia Massucci, Donne in pittura e matrimoni in poesia (1891):

Ma perché, mio caro Fava, io sto qui a parlare dell’Olanda, delle Fiandre, delle mogli, e della vita coniugale dei grandi pittori di quei paesi? Perché, all’annunzio del tuo matrimonio, il mio pensiero s’è portato verso l’Olanda? Ritrovare i legami di un’associazione d’idee non è sempre facile: saranno stati questa volta i tuoi libri tradotti in olandese, e stampati ad Arnheim o a L’Aja? Comunque, giacché sono in Olanda, ci resto ancora …[5].

Si noti l’accenno personale, e il legame autobiografico. Il riferimento all’Olanda, infatti, è e non è metaforico: Croce aveva viaggiato in Olanda proprio nel 1891, e il suo pezzo si chiude con la citazione di un poeta olandese in lingua originale.

Molti anni dopo, Croce dedicherà a Giuseppe Lombardo Radice e a sua moglie Gemma Harasim, in occasione delle loro nozze, avvenute nel 1910, una raccolta dei propri scritti composti quando era ancora uno scolaro, prima del terremoto di Casamicciola, nel 1882, intitolandoli Il primo passo:

A Giuseppe Lombardo Radice e alla sua gentile sposa, della quale non da ora io pregio il fine ingegno e il nobile cuore di educatrice, mi permetto di offrire nell’occasione delle loro nozze, invece di un testo inedito o di una dotta dissertazione, quei quattro articoli dell’«Opinione letteraria», che furono i miei primi – il mio primo passo – ristampati senza mutarvi parola e senza ritoccarne i tratti puerili. Accolgano essi, e guardino con un sorriso, questa ingiallita fotografia, ripescata tra vecchi ricordi, che ritrae il loro amico qual era ai suoi sedici anni[6].

Si tratta di Le Lettere Virgiliane del Bettinelli; Bettinelli e Dante; la Canzone Alla Fortuna del Guidi; Didone, tutti pubblicati da Croce nel 1882 su «L’Opinione letteraria», supplemento letterario del settimanale «L’Opinione» del marchese D’Arcais. Nell’opuscolo Croce ricorda:

Tra gli scolaretti di Liceo che rivolsero le loro vergini forze all’Opinione letteraria […] fui anch’io. Il quale, tra l’estate e l’autunno del 1882, mandai al D’Arcais, con molta trepidazione, quattro articoli, che per l’appunto erano stati prima componimenti di scuola, presentati in terza liceale all’insegnante di lettere italiane, Ferdinando Flores. Il Flores (che era insieme professore di Letteratura Greca nell’Università di Napoli) lasciava volentieri che i suoi alunni si sbizzarrissero in temi di libera elezione, suggeriti dalle personali letture e impressioni. Così si spiega come io, che passavo per l’erudito della classe, prendessi a trattare del Bettinelli e di Alessandro Guidi[7].

Può essere curioso ricordare che Croce fece qualcosa di simile anche in occasione del proprio matrimonio con Adele Rossi, nel 1914, facendo stampare da Laterza una plaquette intitolata Iuvenilia, nella quale raccolse i primi frutti della sua attività erudita successiva alla catastrofe. La dedica alla moglie è singolarmente interessante:

Qualche anno fa, ristampai per le nozze di un amico quattro miei articoli critici del 1882, che furono il mio “primo passo”. Ed ora raccolgo in questo fascicoletto alcuni scrittarelli da me pubblicati tra i diciassette e i ventun anni, e li dono a te, cara Adele, che avrai piacere di leggermi qual ero allora, e sei fortunata, vorrei aggiungere, di non avermi conosciuto allora, in quella travagliosa tristezza che si chiama gioventù[8].

Gli scritti sono: Ranuccio Farnese e Sisto V; Una vecchia questione, Arte e morale; Dante Alighieri, poeta latino del secolo XV; Pensieri sull’arte; La poesia didascalica.

Si tratta di una scelta tra i lavori composti in quegli anni giovanili; altri, infatti, sarebbero poi stati ristampati in altre raccolte. Croce qui scrive di escluderli «perché non aggiungerebbero nulla ai tratti fisionomici, che si desumono dagli scritti che ho qui raccolti. Parlo della fisionomia “intellettuale”: ché, se poi vuoi vedermi anche nel mio aspetto fisico di allora, guarda l’unico ritratto, che è di quegli anni».

È oltremodo interessante osservare che questa dedica è praticamente l’unica dedica a familiari e insomma a persone cui Croce è legato da una relazione personale, intima, assieme a quella che si legge in apertura dell’opera filosofica probabilmente più famosa e influente tra quelle scritte da Croce. Stiamo parlando, lo si sarà già intuito, della dedica che campeggia sul quarto foglio dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: «Alla memoria dei miei genitori Pasquale e Luisa Sipari e di mia sorella Maria». Ed è difficile trattenersi dal pensare che per dedicare un libro ai familiari scomparsi Croce abbia atteso il libro di cui già intuiva, se non il successo pubblico (che infatti in parte lo sorprese), certo l’importanza decisiva nel suo percorso intellettuale e in qualche modo quello fondativo della sua filosofia.

Si tratta anche di uno dei rari casi di dediche a persone scomparse. Le dediche “in memoria” sono infatti molto poche: singolare tra tutte quella retrospettiva a Francesco De Sanctis e a Giosuè Carducci che campeggia su La poesia, libro pubblicato nel 1936 quando il primo era scomparso da oltre cinquanta anni e il secondo da quasi trenta. Al di là di questo omaggio a distanza, andranno ricordate quella a Bartolommeo Capasso in Storie e leggende napoletane, e soprattutto quella ad Antonio Labriola nella seconda edizione di Materialismo storico ed economia marxistica (che così viene ad essere un’altra delle raccolte di saggi che recano una dedica). Ma la prima edizione non aveva dedica e la seconda seguiva di poco la scomparsa, nel 1904, dell’unico maestro che Croce abbia avuto: «Alla memoria di Antonio Labriola Che m’iniziò a questi studi».

Con queste dediche siamo già, però, entrati nel campo della “dedica motivata”, alla quale appartengono la gran parte delle dediche crociane. Genette la descrive così:

La dedica d’opera […] mostra una relazione, intellettuale o privata, reale o simbolica, e questa esibizione è sempre al servizio dell’opera, come argomento di valorizzazione o tema di discussione” […] La sua propria funzione, non per questo trascurabile, si esaurisce in questa esibizione, esplicita o meno. Il ruolo di patrocinio o di cauzione morale, intellettuale o estetica si è essenzialmente preservato: non si può, alla soglia o alla fine di un’opera, menzionare una persona senza in qualche modo invocarlo […] e dunque implicarlo come una sorta di ispiratore ideale[9].

La motivazione della dedica rivolta ad amici che sono stati anche compagni di studi e di ricerche è talvolta esplicitata direttamente nella dedica, come nel caso della Storia del Regno di Napoli indirizzata a Michelangelo Schipa, anch’egli uno del “Nove Musi” e collaboratore di «Napoli Nobilissima»: «All’amico Michelangelo Schipa che l’intera vita ha consacrata a illustrare la storia del mezzogiorno d’Italia»; o in quello della Rivoluzione napoletana del 1799 a Giuseppe Ceci (il “decimo Muso” dell’epigramma «Al grato arrivo di Peppino Ceci/i nove Musi diventaron dieci»): «All’amico Giuseppe Ceci in ricordo di comuni studi giovanili». In altri, nella scelta del dedicatario è implicita la motivazione, anche se alla radice della dedica c’è sempre un rapporto personale di amicizia: così nel caso della dedica all’ispanista Eugenio Mele di La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, o in quello del saggio su Goethe del 1919 al germanista Arturo Farinelli «All’amico Arturo Farinelli in ricordo dell’inverno torinese 1917-1918». Altre volte il legame motivazionale è più debole, come nella dedica al grande amico conte Alessandro Casati delle Vite di avventure, di fede e di passione, o assente del tutto come in quella all’amico di gioventù Pasquale del Pezzo, duca di Caianello, del volumetto edito da Loescher in cui veniva ripubblicata e ampliata la memoria sulla storia del 1893 (Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte, 1896).

Tra le dediche amicali spiccano, per ragioni diverse, quella a Gentile della Bibliografia Vichiana del 1904 e quella a Francesco Torraca dei Teatri di Napoli nell’edizione Laterza del 1916. Nel primo caso, la dedica è senza dubbio calorosa: «All’amico Giovanni Gentile come a un di coloro che con Vico sentono non doversi altrove il fine degli studi riporre che nel coltivare una specie di divinità nell’animo nostro», ma a voler essere maligni si potrebbe notare che Croce dedica a Gentile un lavoro bibliografico e non un testo filosofico, quasi a rimarcare la distanza tra le loro posizioni in questo campo, allora ancora sottotraccia ma destinata a emergere rapidamente. La dedica a Torraca dei Teatri è, invece, l’unico caso di mutamento di destinatario della dedica che ho avuto modo di riscontrare. Infatti, la prima edizione era dedicata ad Alessandro Ademollo, lo storico che aveva compiuto una ricerca simile a quella crociana per i teatri romani, ma era ormai scomparso da parecchi anni, mentre la seconda viene da Croce dedicata allo storico della letteratura col quale era da tempo in rapporti epistolari e personali.

Una dedica amicale singolare, perché diretta genericamente «ai miei amici», è quella di Poesia popolare e poesia d’arte, ma che, visti i versetti da una parafrasi dell’Apocalisse che la accompagnano, si spiega forse con il momento storico in cui fu scritta: «Ai miei amici Questo libro sull’antica poesia italiana. Vedralli il mondo e li dirà simili / ad olivi che han fronde ai mesi algenti / a lampade le cui fiamme gentili / Estinguere non può l’ira dei venti».

Alcuni dei libri di Croce hanno come dedicatarii personaggi stranieri famosi. Non necessita spiegazioni la dedica a Wilhelm Windelband – anzi a Guglielmo Windelband – della Filosofia di Giambattista Vico, dato che lo storico della filosofia tedesco aveva inserito Vico nella seconda edizione della sua Geschichte der neueren Philosophie. Ma altre dediche sono accompagnate da una lettera, che diventa così una vera e propria epistola dedicatoria, rinverdendo una tradizione ormai obsoleta e rara nelle dediche degli autori novecentesche. Così nel caso dello storico zurighese Eduard Fueter, al quale è dedicata la Storia della storiografia italiana del secolo decimonono:

Gentile amico, ricorderà un giorno del gennaio 1914, in Zurigo, in cui, tornando insieme in battello dalla sua casa campestre, e discorrendosi dell’edizione francese che allora si preparava della sua Storia della storiografia moderna, io le facevo notare che nel suo libro, così bene informato delle cose italiane fino al secolo decimottavo, c’era una lacuna per quel che concerneva la storiografia italiana del secolo decimonono, del periodo del Risorgimento. Ed ella conveniva con me circa questa lacuna, ed io allora le dissi che mi sarei adoperato a riempirla con uno speciale lavoro. Quel lavoro forma ora questi due volumi, e a me viene spontaneo il pensiero di dedicarlo a Lei, anzitutto come attestato di stima per così valoroso compagno nelle indagini storiche, e poi anche per una ragione sentimentale. Il breve soggiorno che feci a Zurigo, in quell’inverno del 1914, mi è rimasto nell’anima come un dolce momento idillico della mia vita, e, direi, della vita della società contemporanea. C’intrattenemmo, allora, amichevolmente, di letteratura e filosofia, e tutti noi, svizzeri e italiani e tedeschi e francesi, e ci sentivamo tranquilli, affratellati nei comuni studi; e nei nostri discorsi non s’interpose un qualsiasi sospetto che di lì a pochi mesi, saremmo stati violentemente divisi, gettati di qua e di là dalla feroce forza delle cose, e costretti a udire, e forse taluni di noi perfino a dire, aspre e ingiuste parole. Quante volte, nel corso della guerra, sono tornato come a rifugio e a riposo all’immagine di Zurigo, bianca di neve, del gennaio 1914, e alle sembianze degli amici, coi quali allora conversai! E vi torno anche ora, e da quel passato mi piace trarre un augurio per l’avvenire.

Anche la dedica a Carl Vossler, l’amico tedesco col quale Croce fu in corrispondenza per un cinquantennio, della Storia dell’età barocca in Italia, si appoggia a una epistola dedicatoria, anche se più breve:

Ti dedico questo libro nella ricorrenza del trentesimo anno da quando ci conosciamo. Avevo letto nei Literaturblatt für germanische und romanische Philologie una recensione, segnata col tuo nome, di un mio saggio riguardante la commedia dell’arte, quando, nell’estate del 1899, c’incontrammo a villeggiare insieme a Perugia, e passammo alcuni mesi tra lunghe e confidenti conversazioni e discussioni, che molte volte si sono rinnovate nel corso di questo trentennio. Né solo la filosofia del linguaggio e quella dell’arte e la metodologia della storia e le ricerche e i giudizi di storia letteraria e culturale sono stati i punti della nostra unione spirituale, ma, cosa più essenziale, il modo di concepire e sentire la vita; e tanti avvenimenti e mutamenti sono accaduti da quel tempo, per tante gravi prove siamo passati, e pure quell’intendere agli stessi segni, e la nostra amicizia, sono rimasti costanti. E non è mancato a farli saldi il necessario elemento di diversità, che a noi viene soprattutto dai paesi a cui apparteniamo, dai loro particolari atteggiamenti e dalle loro particolari tradizioni di cultura: diversità, che ha efficacia di stimolo e di arricchimento scambievole.

Gli Ultimi saggi del 1935, che abbiamo già ricordato come eccezione alla regola per cui Croce di solito non dedica raccolte di saggi, sono dedicati a un altro grande amico e divulgatore delle idee di Croce nei paesi tedeschi, lo storico dell’arte austriaco Julius Schlosser, con queste parole: «A Giulio Schlosser, nel cui vivo e limpido intelletto questi miei pensieri sanno di ritrovare una rinnovata fecondità» (e infatti non pochi degli Ultimi saggi avevano argomento estetico, a partire dall’Aesthetica in nuce che li apre.

Ma il più famoso dei dedicatari stranieri di un’opera crociana è senz’altro il grande scrittore Thomas Mann. All’autore dei Buddenbrook Croce dedicò, e non c’è bisogno di insistere sul valore civile e simbolico di questa dedica, la Storia d’Europa, con un’epigrafe dantesca: «Pur mo’ venian li tuoi pensier tra i miei / con simil atto e con simile faccia, sì che d’entrambi un sol consiglio fei». Le lettere scambiate tra i due a proposito dell’intenzione di Croce di dedicare il libro sono state ristampate da poco nel volumetto di scritti autobiografici di Croce Soliloquio[10]:

Vorrei concludere con una curiosità. Tra tutti i tipi di dedica, inclusa la dedica di esemplare, la più rara è senza dubbio l’autodedica, la dedica indirizzata dall’autore a sé stesso. Io conosco solo un caso, quello di una pièce giovanile di Joyce, intitolata A brilliant Career. Ma ne posso aggiungere uno tratto da quello che rimane il più singolare degli scritti eruditi giovanili di Croce, la Lucrezia d’Alagno, consacrato alla giovane di nobile famiglia che divenne, diciottenne, la favorita del re Alfonso D’Aragona, allora cinquantaquattrenne. Lo scritto è notevole soprattutto perché esibisce un tono disinvolto, conversativo. È un Croce stranamente a metà strada tra la congerie di fatti eruditi, che rischiano di sommergere la narrazione, e la spigliatezza dal narratore, che non può sottrarsi all’aspetto pruriginoso della vicenda: se Lucrezia fosse l’amante del re o se, come ella sostenne, si fosse sempre negata allo spasimante in attesa delle nozze regali. Labriola, spiccio come al solito, liquidava la questione in questo modo: «Ho letto la vostra biografia di quella tale sgualdrina». Lo scritto venne pubblicato da Croce su «La rassegna pugliese», e venne firmato con lo pseudonimo Gustave Colline, il filosofo squattrinato Delle scene della vita di Bohème di Henry Murger (che poi diventerà il basso che canta Vecchia Zimarra nell’opera di Puccini). Ebbene, a chi è dedicata la Lucrezia d’Alagno? «A G. C.» ovvero a Gustave Colline, cioè a Croce stesso.

  1. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 115 e sgg.
  2. P. D’Angelo, Benedetto Croce. La biografia I. Gli anni 1866-1918, Bologna, Il Mulino, 2023.
  3. B. Croce, Antonio Fusco, in «La Critica», 1909; poi in Id., Pagine sparse, vol. II, Napoli, Ricciardi, 1943, pp. 48-58.
  4. B. Croce, Francesco Ruffini, in «La Critica», 1934, pp. 229-30.
  5. B. Croce, Mogli in pittura e matrimoni in poesia, in Id., Aneddoti di varia letteratura, Napoli, Ricciardi, 1942, vol. II, pp. 61-64.
  6. B. Croce, Il primo passo, in Id., Pagine sparse, vol. I., Napoli, Ricciardi, 1943, p. 420.
  7. Ibidem.
  8. In B. Croce, Pagine sparse, vol. I cit., p. 441.
  9. G. Genette, Soglie, op. cit., p. 133.
  10. B. Croce, Soliloquio e altre pagine autobiografiche, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 2022.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)