Anselmo Bucci, nell’agosto del 1917, scriveva della sua esperienza di pittore di guerra:
Tutti sanno meglio di noi, che l’abbiamo guardata da vicino, che la guerra è invisibile. È arcinoto che questa guerra plasticamente, graficamente non esiste: è dramma musicale non è spettacolo. Essa non può divenire un pretesto pittorico: le lance e i gonfaloni di Paolo Uccello sono relegati coi pennacchi di Meissonier e le nappine di Detaille nello stesso passato vertiginosamente lontano. Nella raffigurazione di questa guerra dovrà scomparire molto. Scomparirà forse il visibile. L’Invisibile dovremo dipingere[1].
Da pittore, deciso a seguire la guerra e a disegnarla o dipingerla (grazie a lui abbiamo disegni e incisioni di Boccioni fuciliere; Marinetti e Sant’Elia in trincea e degli altri futuristi arruolati), Bucci si era posto il problema dell’invisibilità, del fatto che l’esperienza diretta della guerra non colloca in alcuna prospettiva privilegiata il singolo combattente, se non per la porzione assai parziale e frammentaria di percezione del conflitto. Sia che vi siano nemici sia che non vi siano, il rapporto con il nemico è sempre un rapporto misterioso e irrisolvibile. Già Franz Marc in una lettera del settembre 1914 affrontava nei dettagli questo problema:
Le battaglie, le ferite, tutti i movimenti producono un tale effetto di misticismo, d’irrealtà, come se significassero tutt’altra cosa di ciò che dicono i loro nomi. La guerra è irreale come se eccedesse così tanto dall’orizzonte della percezione consentita da non poter essere percepita nella sua rappresentazione[2].
Il problema in Gadda non si pone esteticamente ma tecnicamente, e consiste nell’impossibilità logistica di capire e di gestire la battaglia. La memorialistica di guerra di Carlo Emilio Gadda è una reale redazione in presa diretta dell’esperienza del primo conflitto mondiale, una narrazione per uso personale, scrupolosamente veridica. Gadda parte per la guerra (V Reggimento Alpini) senza alcun senso critico, poco più che ventenne, sensibile alla propaganda interventista: è eccitato, fervente, entusiasta, voglioso di eroismo e sacrificio. È stato formato alle virtù della patria, all’obbedienza militare, all’ordine e alla disciplina, al coraggio e all’abnegazione. La guerra è l’utopia dove può dimostrare il proprio idealismo patriottico, anche se presto scoprirà che proprio i principi di eroismo e patriottismo si trovano a essere impraticabili nelle condizioni e nel teatro di guerra in cui si trova a combattere. Dal 24 agosto 1915 al 31 dicembre 1919, tutto quello che accade, tutto quello che vede e comprende (impressioni, riflessioni, critiche ma anche schemi, calcoli strategici, formule, aspetti logistici come trinceramenti e reticolati, posizioni occupate) Gadda lo documenta minuziosamente e diligentemente nel proprio diario.
La nuova edizione proposta da Adelphi a cura di Paola Italia è la prima a presentare il Giornale di guerra e di prigionia nella sua versione completa, corredato cioè delle diverse aggiunte che hanno seguito la prima pubblicazione del 1955 ad opera di Sansoni. Nel suo insieme il Giornale permette non solo di comprendere appieno l’esperienza vissuta da Gadda, ma di leggervi i germi della produzione futura in termini tematici e stilistici. La realtà della guerra significherà per Gadda l’umiliazione della resa e della prigionia (dopo il 24 ottobre 1917, giorno della disfatta di Caporetto): infatti, il diario di guerra è da un certo punto in poi un diario di prigionia, il memoriale della “mia guerra” diviene un diario delle “mie prigioni”.
In verità, Gadda parla di guerra sempre al plurale; la guerra è una realtà duale e le guerre combattute e perse sono due: la guerra interna, quella con sé stesso, riprendendo un’antica modalità di combattimento spirituale; e una guerra esterna, contro il nemico stabilito. Pertanto, si affrontano due combattimenti. Il combattimento interiore è la difesa della propria dignità militare di perfetto soldato rispetto a commilitoni indegni, inetti, balordi, codardi e “deficienti”; e a comandanti meschini, inadeguati, impreparati, corrotti e debosciati. In questo tipo di lotta sono da elencare anche le tentazioni della propria diserzione emotiva, perciò un vero proprio combattimento con i peccati antimilitareschi: nostalgie di casa, ripugnanze, paure, fobie, rassegnazione, noia, irritazione per la vita di truppa. La sua sconfitta morale è esplicitamente dichiarata; egli si scopre “debole come il più debole degli uomini”, incapace di tradurre in atto le aspirazioni di gloria, ritrovandosi totalmente annullato sul piano spirituale e morale: «Le condizioni spirituali sono terribili: la mia vita morale è finita: non ne parlerò neppure: è inutile»[3].
Il fanatismo di Gadda soldato conduce a una spietata registrazione del disordine, dell’improvvisazione e dell’impreparazione di un intero esercito. Pur in mezzo alla battaglia, prima, e poi in prigione, ciò che più rammarica Gadda è l’impossibilità di essere eroi. Le premesse vi erano tutte, cioè una vera guerra in atto cui si partecipa e dei nemici reali, pericolosi, ma il caos che vige, la disorganizzazione, la mancanza di lucidità e di visione fanno sì che divenga impossibile un’azione eroica evidente, chiara e distinta, per eccesso di meschineria, di impaludamento, di ottusità e assenza di responsabilità di ogni singolo soldato e di tutta l’Italia (la “Povera Italia”). Anche l’ambizione della via dell’onore (il voler combattere in prima linea per ottenere una “morte utile e bella”) è assurdamente impedita da continui disguidi burocratici:
Che porca rabbia, che porchi italiani. Quand’è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi, di tutti i ceti, impareranno a tener ordinato il proprio tavolino di lavoro? A non ammonticchiarvi le carte d’ufficio insieme alle lettere della mantenuta, insieme al cestino della merenda, insieme al ritratto della propria nipotina, insieme al giornale, insieme all’ultimo romanzo, all’orario delle Ferrovie, alle ricevute del calzolaio, alla carta per pulirsi il culo, al cappello sgocciolante, alle forbici delle unghie, al portafogli privato, al calendario fantasia? Quand’è che questa razza di maiali, di porci, di esseri capaci soltanto di imbruttire il mondo con il disordine e con la prolissità dei loro atti sconclusionati, provvederà alle attitudini dell’ideatore e del costruttore, sarà capace di dare al seguito delle proprie azioni un legame logico?… Porci ruffiani, capaci solo di essere servi, e servi infedeli e servi venduti, al diavolo tutti[4].
In questo senso per Gadda l’esercito italiano non solo merita di essere sconfitto ma paradossalmente non viene ammesso alla comprensione della battaglia: mancherà la cognizione della guerra per poter partecipare anche all’epica di una sconfitta. In ciò la pagina di guerra gaddiana rispecchia quell’impossibilità di glorioso conflitto che si ritrova all’interno del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati: all’interno della Fortezza Bastiani, Giovanni Drogo e i suoi commilitoni – e molte generazioni di soldati prima di loro – attendono un nemico che non giunge mai, nella vana speranza di uno scontro epico che dia senso alla loro attesa. Non di rado, il testo buzzatiano presenta un giovane Drogo assorto nei propri pensieri e intento a immaginare sanguinose battaglie, poiché alla Fortezza Bastiani l’azione è stata sostituita dal sogno dell’azione. Talvolta persino i sogni vengono ridimensionati, si è disposti anche ad avere un ruolo marginale, purché lo scontro avvenga:
Certe volte si accontentava di molto meno, rinunciava ad essere solo lui l’eroe, rinunciava alla ferita, rinunciava anche al Re che gli diceva bravo. In fondo sarebbe stata una semplice battaglia, una battaglia sola ma sul serio, caricare in grande uniforme ed essere capace di sorridere precipitando verso le facce ermetiche dei nemici. Una battaglia, e dopo forse sarebbe stato contento per tutta la vita[5].
Gadda e Buzzati giungono, però, alla rappresentazione del desiderio di conflitto tramite strade ben diverse. Com’è noto, lo scrittore bellunese non attinse da un’esperienza o da un immaginario di tipo bellico, ma dalla sua esperienza di redattore del «Corriere della Sera»: costretto a una routine in cui il susseguirsi di notizie ne annullava quasi il senso, Buzzati sentiva di vivere come in costante attesa di un evento glorioso che meritasse di essere riportato e ricordato nei secoli. Le giornate che trascorrevano tutte uguali annullavano, a suo dire, la percezione dello scorrere del tempo, e la vita fatta di orari fissi, regole e burocrazia si svuotava di ogni contenuto a favore di forma e formalità. Era una vita priva di gloria, priva di epos. Intervistato da Alberico Sala, Buzzati avrebbe spiegato le ragioni che lo avevano spinto a non ambientare il romanzo appunto nella redazione di Via Solferino:
Probabilmente la cosa era possibile. Ma l’ambiente militare, specificatamente quello di una fortezza al confine, mi offriva due grandi vantaggi. Primo, quello di esemplificare il tema della speranza e della vita, che passa inutilmente, con una maggiore evidenza, perché la disciplina e le regole militari erano assai più lineari, rigide e inesorabili di quelle instaurate in una redazione giornalistica. Pensavo, insomma, che in un ambiente militare, la mia storia avrebbe potuto acquistare perfino una forza di allegoria riguardante tutti gli uomini. Secondo motivo, il fatto che la vita militare corrispondeva alla mia natura. Mi era bastato il normale servizio di allievo ufficiale e sottotenente di complemento […], per sentirmi attratto profondamente, per assimilare, credo, fino in fondo, lo spirito di quel mondo che oggi sembra così screditato[6].
Rigidità delle regole e affinità a quel contesto, dunque, ma è evidente che la proiezione della monotonia provata nel quotidiano in un ambiente militare rende ancora più frustrante la mancanza di epicità e più trepidante l’attesa del grande evento. Il mancato scontro, l’impossibilità di diventare eroi sono, in questo spazio, assoluti protagonisti. L’evento bellico è, infatti, destinato a non realizzarsi ma, se anche questa guerra è invisibile, non è più per via dello straordinario e trascendentale stato d’eccezione, senza contorni, senza proporzioni figurative e punti di fuga del campo di battaglia cui si riferiva Bucci e per il quale sarebbe stata necessaria un’arte astratta e informale e non più una predisposizione illustrativa, né per l’impossibilità tecnica di uno sguardo consapevole e lucido come per il caso di Gadda. Al contrario, Buzzati difese fino ai suoi ultimi giorni, in anni in cui ormai tale opinione era molto impopolare, l’importanza del dato estetico della guerra, anche a seguito della propria esperienza da corrispondente di guerra per la marina militare. Certamente di tale aspetto bisogna tener conto nell’analisi dell’ambientazione del romanzo:
Beh… la bellezza dell’avventura, il rischio, l’azzardo, no? E poi la bellezza di certi spettacoli, che esteticamente sono degli spettacoli meravigliosi. Io ho assistito a delle cose terribili durante la guerra […]. Ma ho assistito a delle catastrofi, vere e proprie catastrofi, di una bellezza tale che riempivano l’anima di ammirazione, proprio. Ché la bellezza estetica delle cose che si vedono in guerra è una cosa meravigliosa[7].
Se in Buzzati lo scontro è invisibile, ciò è piuttosto emblema dell’impossibilità – tutta esistenzialista – di trovare qualcosa che giustifichi il proprio passaggio sulla terra. L’interventismo di Gadda è, invece, attivo e militante, concreto: non vi è desiderio di rappresentazione metaforica o generalizzante. Il suo diario non è pensato per la pagina letteraria, ma come pura e semplice raccolta e descrizione degli eventi vissuti personalmente. L’esperienza della trincea deve avere però, a ragion veduta, eliminato il fascino estetico dello scontro bellico.
Si nota, dunque, nel diario gaddiano e nel capolavoro dello scrittore bellunese un comune desiderio frustrato, un atto mancato che affligge i loro animi, ma che proviene da matrici ben lontane e distinte. Buzzati, pur non esimendosi dallo scrivere articoli di propaganda tra il 1939 e il 1943, non crede realmente nella possibilità dell’atto eroico né mostra verso la guerra l’entusiasmo partecipativo di un Gadda o dei futuristi[8]. Il contesto marziale nel quale Buzzati cala i personaggi è, come visto, simbolico ed estetico, usato per poter ben rappresentare l’insieme di rigide norme che regolano la vita, la noia della monotonia e assieme la bellezza dell’universo marziale.
Tuttavia, anche in Gadda si registra la contraddizione tra un’aspirazione all’ordine chiaro e distinto della strategia, e dell’azione logicamente consequenziale, e la realizzazione aberrata, assurda, caotica di ogni principio conduttore. Per Gadda il desiderio di arruolarsi per andare alla guerra, il sogno della trincea hanno una matrice fortemente letteraria. È l’interesse per gli studi storici (propriamente ginnasiali), per autori come Cesare, Tacito e Svetonio a trasmettergli la sensazione che ci sia stato un momento della conoscenza umana in cui la storiografia non era menzogna né propaganda e in cui la vita umana coincideva totalmente con la vita militare e con la guerra. È come se Gadda stesse cercando una propria battaglia (quali furono Canne e Metauro) con cui identificarsi ed essere identificato. Non si tratta della generale aspirazione a un combattimento contro un nemico, ma del desiderio di appartenere a un luogo epico.
È quanto si ritrova anche nel testo buzzatiano: lo scontro con i Tartari è agognato anche e soprattutto per via della loro dimensione mitica. La loro esistenza in quelle terre è avvolta dalla leggenda: più verosimilmente, nessuno è mai passato di lì e nessuno mai vi farà ritorno. Sebbene tempo e luogo dell’ambientazione buzzatiana non siano specificati, si sa di un non meglio definito “esercito del Nord” che confina con l’area adiacente alla Fortezza. Tuttavia, sebbene si colgano tensioni nel rapporto con tali truppe (ad esempio per la questione relativa al collocamento delle linee di confine), lo scontro con loro non è agognato, non è nemmeno preso in considerazione. Sarebbe una questione di burocrazia, regolare amministrazione bellica. Ciò che, invece, è nell’animo dei soldati della Fortezza Bastiani è il desiderio di uno scontro con un nemico epico, che giustifichi il senso della loro vita, l’appartenenza del loro nome alla storia; in ciò essi si fanno portavoce di una sorta di memoria collettiva: la battaglia con i Tartari dimostrerebbe che le generazioni passate non hanno atteso invano, che l’esistenza di quell’avamposto era sempre stata giustificata perché il pericolo del ritorno del nemico era concreto. Non solo; anni di fedele attesa hanno ormai conferito un valore sacrale alla speranza dell’arrivo dei Tartari:
Per i Tartari hanno alzato le mura della Fortezza, consumano lassù larghe porzioni di vita, per i Tartari le sentinelle camminano giorno e notte come automi. E chi questa speranza alimenta ogni mattina di nuova fede, chi la conserva nascosta nel fondo, chi non sa neppure di possederla, credendo di averla perduta[9].
Così quel luogo impervio e desolato, inutile e ormai decaduto – anche nelle stesse gerarchie di assegnazione dei soldati – potrebbe acquisire una gloria mai avuta prima, diventando teatro di uno scontro epico che sarebbe scontro tra leggenda e storia e coinvolgerebbe diverse generazioni passate. I soldati della Fortezza Bastiani sono convinti di appartenere a un “luogo” di guerra, ma solo l’arrivo dei Tartari può dar loro ragione: «I soldati erano fermi come statue, i loro volti militarmente chiusi. No, certo essi non si preparavano ai monotoni turni di guardia; con quegli sguardi da eroi, certo – pareva – andavano ad aspettare il nemico»[10].
Per Gadda anche il lungo, estenuante assedio di Troia è giustificato dal fatto che assediati e assedianti percepivano di appartenere a un luogo di guerra. La geografia in questo caso determina la storia dell’evento. La disfatta di Caporetto è un’umiliazione che poteva recare in sé la consolazione di appartenere a una battaglia storica? Purtroppo le velleità eroiche e le fantasie strategiche di Gadda determineranno l’incomprensione dell’occasione di Caporetto, e la vergogna e la beffa di appartenere a una battaglia degradante. Le pagine relative alla frustrazione e all’umiliazione della prigionia sono tra le più struggenti e ben dimostrano il dolore del sogno infranto:
Rispetto al vorticoso, tragico ed esaltante, tempo dell’azione militare, nell’umiliante tedio di miserevoli condizioni di vita, gli appunti del prigioniero Gadda si fanno intensi attorno all’idea di una vergogna immedicabile, almeno a livello personale, non scalfita affatto dalla vittoria «mutilata» della Patria[11].
Il Giornale di guerra e di prigionia registra l’immobilità, la mancanza di azione, l’inquietudine di non produrre tumulto, la sensazione di non agire per la madrepatria, e l’inedia, il grigiore dell’attesa, ma ciò che angoscia Gadda è il non determinarsi di una battaglia che sia in grado di dare un nome alla sua guerra. Questo principio resta “sfigurato” tra gli sfoghi diaristici: il dispetto per i commilitoni pavidi, per la disorganizzazione e l’improvvisazione, l’irritazione per l’altezzosità, l’ignoranza e l’insipienza degli ufficiali, imparagonabile all’ammirazione letteraria per l’intelligenza bellica di Cesare, per la sua capacità sistematica di ragionare e agire. È la conoscenza meccanica e strategica della realtà a determinare la discrepanza tra condottieri: tutto ciò inerisce alla mitologia dei condottieri stessi. La disfatta di Caporetto confermerà il giudizio di Gadda sui ranghi militari, ma non gli permetterà di accedere alla grazia storica di “appartenere a una battaglia”, e quindi non più a un esercito o a una nazione. Il taccuino e il memoriale di Caporetto registrano l’ordine scioccante della ritirata, l’angoscia della prigionia; il toponimo “Caporetto” compare di rado nei testi di guerra di Gadda e col tempo scompare definitivamente dai suoi scritti, se non come generico rimando: fondamentalmente ne viene dannata la memoria. Analogamente, nel capolavoro buzzatiano, sembra che il nome dei Tartari sia stato bandito. Le illusioni dei più giovani vengono scoraggiate e messe a tacere da chi ha più anni ed esperienza, e garantisce che i Tartari non arriveranno (pur tradendo il desiderio di sbagliarsi):
Era bastato uno sparo, un modesto colpo di fucile, e la Fortezza si era svegliata. Per anni c’era stato silenzio – e loro sempre tesi al nord per udire la voce della guerra sopraggiungente – troppo lungo silenzio. Adesso un fucile aveva sparato – con la sua carica di polvere prescritta e la pallottola di piombo di trentadue grammi – e gli uomini si erano guardati a vicenda come se fosse stato quello il segnale. Certo anche questa sera nessuno, tranne qualche soldato, pronuncia il nome ch’è nel cuore di tutti. Gli ufficiali preferiscono tacerlo perché proprio quella è la speranza. […] Ma nessuno ha il coraggio di parlarne; sembrerebbe di malaugurio, soprattutto parrebbe di confessare i propri pensieri più cari e i soldati di questo hanno vergogna[12].
In assenza del nemico, l’unico elemento che consente di attribuire allo spazio buzzatiano una parvenza di aspetto marziale è la forma: il rispetto maniacale del regolamento, dei turni, delle gerarchie. Un esempio emblematico è il celebre passo in cui il soldato Lazzari viene freddato da un amico e commilitone perché, di fronte alla porta della Fortezza, non ha pronunciato la parola d’ordine per entrare. La logica spaziale gioca in questo caso un ruolo chiave: la sentinella si trova all’interno delle mura della fortezza, calata quindi nel chiuso universo marziale dove vige il rispetto rigoroso del regolamento. Non pronuncia, infatti, parola che non sia del vocabolario marziale, fedele al suo ruolo. L’ingenuo soldato Lazzari, invece, tenta di instaurare una conversazione di natura non formale, invitando l’amico a riconoscerlo e a farlo entrare a discapito delle regole: la sua collocazione fuori dalla fortezza, dovuta peraltro a una precedente infrazione del regolamento, lo umanizza, ne smorza l’appartenenza all’universo militare. La pena capitale non può che essere la punizione che gli spetta: in assenza di un nemico da combattere, l’unico elemento a giustificare l’esistenza stessa dei soldati della Fortezza Bastiani è la loro obbedienza al regolamento. Si tratta dell’esasperazione del concetto di rigidità formale, di «una dilatazione a punti improbabili o impossibili dei paradigmi di realtà fisici e culturali»[13] tipica nell’opera buzzatiana, che fa oscillare verso l’assurdo la storia narrata. Nel diario di Gadda, invece, questo rigido ordine è carente: viene continuamente invocato, a tratti rimpianto, nella certezza che la vita militare esiga ordine esterno e ordine (rettitudine e fortezza) interiore. Ha notato Luigi Matt che tale aspetto della poetica gaddiana che emerge dal Giornale ‒ seppure in pagine scritte di getto e senza la maniacale revisione che, in seguito, gli sarà propria ‒ diventerà una costante della sua narrativa:
Ritornano continuamente le manifestazioni di un disagio esistenziale causato dall’ipersensibilità verso tutto ciò che nel mondo non gira per il verso giusto: la dialettica tra l’imperativo categorico dell’ordine e la constatazione dell’onnipresenza del caos crea un ricorrente stato di collera (ma non la collera liberatoria di un certo tipo di iracondi, bensì quella frustrante di chi sconta, soffrendo, ogni ingiustizia vera o percepita). Si palesa con grande evidenza quel senso di inadeguatezza da cui l’autore non potrà mai liberarsi[14].
Ora il paradosso che ne scaturisce è il seguente: in Buzzati la perfezione del protocollo militare è il riflesso, fino al manierismo, dell’assenza di un nemico esterno. È come se un nemico, una guerra procedessero dal caos. Lo svilupparsi di un conflitto bellico è l’emanazione di uno stato di cose caotico, in subbuglio, informale. Come intuisce Gadda, «la guerra è cozzo di energie spirituali non materiali»[15]. Ora, quanto più la situazione di un esercito moderno è compromessa dall’ignavia, dalla confusione, dall’inadeguatezza tanto più crescerà la guerra. I difetti morali dell’esercito, in termini squisitamente militari, ne causano la disfatta ma, se la guerra è cozzo di energie spirituali, sono proprio i difetti morali degli eserciti ad alimentarla.
Ordine e disciplina, per Buzzati, sono le forze spirituali che, per paradosso, non consentono il generarsi di una guerra, perché la guerra si nutre di caos. L’esercito di Buzzati esclude un nemico con la sua stessa presenza rigorosa, con il suo ineccepibile protocollo di vigilanza. Gadda accenna a un “fuoco di presenza” che non serve a combattere ma a far sì che l’avversario non sia molesto: questo fuoco di presenza arriva in Buzzati non solo a rendere innocuo il nemico, ma ad annullarlo. Alla fine la sconfitta di Drogo sarà forse solo parziale, per quel sorriso di fronte alla morte incombente che sancisce l’accettazione del proprio destino, ma ciò non basta a colmare la lacuna di un sogno di eroismo perseguito invano. La vita di Drogo mancherà l’incontro con il proprio destino; l’attinenza alle norme marziali, com’è stato notato da certa critica, non è sufficiente a fare di lui un soldato:
Giovanni è stato un soldato inesistente lungo tutto il romanzo, un soldato impossibilitato ad assolvere la sua funzione di soldato, seppure obbediente alle regole che scandiscono la sua vita, poiché è teso verso un fine eroico che non può più esistere. […] In quest’ottica Il deserto dei Tartari, facendo del soldato un automa, essere umano svuotato e robotico, sottoposto a rigido controllo e autocontrollo e teso verso un futuro “mitico” ed inattuabile, inverte una tendenza letteraria che vedeva nel soldato un simbolo di forza virile e di conquista[16].
Non solo l’atto eroico non si compie, ma emerge dal romanzo una forte critica alla figura dell’eroe militare. L’effetto dell’adempimento alle regole della vita da soldato è quello di una sostanziale de-umanizzazione, di uno straniamento che svuota di ogni empatia. Come nella già citata scena dell’uccisione del soldato Lazzari da parte del commilitone, a prevalere è l’uniforme, non il suo “contenuto”:
Ma la sentinella non era più il Moretto, era semplicemente un soldato con la faccia dura che adesso alzava il fucile, mitrando contro l’amico. […] Ma la sentinella non era più il Moretto con cui tutti i camerati scherzavano liberamente, era soltanto una sentinella della Fortezza, in uniforme di panno azzurro scuro con la bandoliera di mascarizzo, assolutamente identica a tutte le altre nella notte, una sentinella qualsiasi che aveva mirato ed ora premeva il grilletto[17].
Cosa resta, dunque, del mancato destino del soldato Gadda e del tenente Drogo? Entrambi hanno atteso l’arrivo di una possibilità di gloria, ma senza riuscire ad adempiere al loro compito: Gadda per la debolezza sua e soprattutto dei suoi superiori, che non si sono mostrati in grado di organizzare in maniera ordinata ed efficiente un esercito in battaglia; Drogo perché “attaccato” a una chimera e perché, nell’attesa che la leggenda divenisse storia, si è inabissato nel torpore delle abitudini, consolato nella familiare monotonia dei turni, illuso di essere un militare per la sua uniforme e per la sua obbedienza al regolamento. D’altra parte, notava già Panafieu, non vi è eroismo nell’adagiarsi in un’attesa caratterizzata da abitudini e semplici formalità da adempiere[18]. L’esperienza di entrambi, dunque, con le dovute differenze, è deludente; così, infatti, Gadda:
L’intelligenza mi vale soltanto per considerare e soffrire; gli slanci del sogno, l’amore della patria e del rischio, la passione della guerra mi hanno condotto ad una sofferenza mostruosa, a una difformità spirituale che non può avere riscontri. Sentii in quel momento, con l’intensità di un’asceta, il vuoto, l’orribile vuoto della mia vita, la sua brevità, la sua fine. Che cosa avrò fatto per gli uomini, che cosa per il mio paese? Niente, niente[19].
- L. Angelini, Disegni di guerra (Il pittore Anselmo Bucci), in «Emporium», Vol. XLVI, 272, agosto 1917, p. 107. ↑
- P. Dagen, Le silence des peintres. Les artistes face à la Grande Guerre, Paris, Fayard, 1996, p. 137. ↑
- C. E. Gadda, Giornale di guerra e prigionia, in Id., Saggi, giornali e favole, vol. II, a cura di Claudio Vela, Giammarco Gaspari, Giorgio Pinotti, Franco Gavazzeni, Dante Isella, Maria Antonietta Terzoli, Milano, Garzanti, 1992, p. 669. ↑
- C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Torino, Einaudi, 1965, pp. 142-43. ↑
- D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Milano, Rizzoli, 1940, p. 74. ↑
- D. Buzzati, Intervista rilasciata ad Alberico Sala, in M. Mignone, Anormalità e angoscia nella narrativa di Dino Buzzati, Ravenna, Longo, 1981, p. 114. ↑
- D. Buzzati, Autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu, Milano, Mondadori, 1973, p. 118 ↑
- Cfr. E. Mattiato, ‘L’indispensabile nemico’: Marinetti-Buzzati, due Strutture Polemologiche a confronto. Con due lettere inedite di Marinetti a Mussolini, in Figure de la crise et crise de la figuration dans l’œuvre de Dino Buzzati, a cura di C. Vignali-De Poli, Chambéry, Université Savoie Mont Blanc, 2018, pp. 113-32. ↑
- D. Buzzati, Il Deserto dei Tartari, op. cit., p. 85. ↑
- Ivi, p. 38. ↑
- F. Pierangeli, I “destini glaciali” e la voce della pietà. Gadda, il Nunzio Pacelli e altri testimoni da Cellelager, campo di prigionia della Grande Guerra, in L’ordalia della Grande Guerra. Poeti, interventisti, cappellani di fronte all’“inutile strage” (Gadda, Ungaretti, Rebora e altri), a cura di F. Pierangeli, in «Studium», gennaio 2015, Vol. 1, pp. 40-56. ↑
- D. Buzzati, Il Deserto dei Tartari, op. cit., p. 86. ↑
- M. Reza, Oltre il confine: la dilatazione dei paradigmi di realtà nei racconti fantastici di Dino Buzzati, in «Italianistica: rivista di letteratura italiana», XLIV, 3, 2015, pp. 127-40. ↑
- L. Matt, La prima (grande) opera di Gadda. Sulla nuova edizione del Giornale di Guerra e di prigionia (Adelphi, 2023), in «Percorsi» Treccani, 11 aprile 2023; cfr. l’URL: https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_454.html (ultima consultazione: 31 luglio 2023). ↑
- C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Milano, Garzanti, 1999, p. 290. ↑
- D. Vitagliano, “Il soldato inesistente” ne Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, in «Italies», 19, L’immage du soldat au XX siècle, 2005, p. 312. ↑
- D. Buzzati, Il Deserto dei Tartari, op. cit., p. 95. ↑
- Y. Panafieu, L’intemporalité et l’histoire dans Le désert des Tartares, in Lectures de Le désert des Tartares : thème, la fuite du temps, Paris, Belin, 1981, p. 43. ↑
- C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, op. cit., p. 819. ↑
(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)