Trattare coi fantasmi. Modi della rielaborazione nel saggismo di Ripellino

Author di Giovanni Salvagnini Zanazzo

Vi sarebbero dei Fantasmi di scrittura:

prendere l’espressione nella sua forza desiderante.

(R. Barthes, La preparazione del romanzo)[1]

*

Noi abbiamo questo fantasma […]

e non ci sarà mai nessuna storiografia

che ridarà vita a questo fantasma.

Trascriverà la supposizione di questa vita in altri fantasmi.

(C. Sini, Diventa ciò che sei)[2]

*

Sull’influenza dell’Antico.

Questa storia è fiabesca da raccontare.

Storia di fantasmi per adulti.

(A. Warburg, Mnemosyne. Grundbegriffe, II)[3]

Questo sommario elenco di epigrafi mortuarie potrebbe forse essere allungato, ma quel che conta è il comune campo semantico che esse chiamano in causa (che “evocano”) per definire metatestualmente la natura della loro operazione critica. Suggeriscono che l’attività interpretativa abbia a che fare con i morti, instaurando uno stretto rapporto di affinità tra la critica letteraria e il paranormale.

Non a caso, quest’ultimo era il tema che il Manganelli di Agli dèi ulteriori assegnava al dotto io narrante del Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti, sancendo una confidenza emblematica tra «ingegnosità» dei ricercatori e «smozzicati […] sospiri»[4] degli spiriti.

Ciò che si evoca non è mai una datità statica, dice Carlo Sini, ma piuttosto una “presenza” che entra nel nostro discorso. Lo statuto di “fantasmi” implica un certo grado (variabile) di malleabilità della materia trattata, intangibile e priva di consistenza: divergente rispetto alla positività di un corpo in azione, del quale limitarsi ad annotare scrupolosamente i movimenti. La proposta di questo saggio è che sia possibile campionare in questa direzione la saggistica di Ripellino.

Poetica

Ripellino stesso ha potuto tematizzare in questo senso il rapporto prospettico che viene a instaurarsi fra critico e autore. Particolarmente esplicito al riguardo è il prologo al Trucco e l’anima:

Che cosa è dunque rimasto del teatro russo dei primi trent’anni del secolo? Va ormai svaporando il ricordo di quelle invenzioni […] Cattedrali sfarzose e lucenti si mutano nella memoria in infilate di immense stanze deserte, in cui la voce dell’organo echeggia come squittío di fantasmi.

Perciò, raccattando con affettuosa pazienza i materiali dispersi, ricomponendo ragguagli e testimonianze come i tasselli d’un mosaico e reinventando le fredde notizie nella mia fantasia, ho deciso di risuscitare quell’epoca, di ridar vita alle ombre dei suoi personaggi[5].

Nell’introduzione a Letteratura come itinerario nel meraviglioso, altro testo «auto-esegetico e programmatico»[6], Ripellino parla ancora in questi termini del proprio meccanismo compositivo: «di saggio in saggio […] si va radunando una sempre più fitta famiglia di “figurine” […] tutte pedine d’un giuoco illusivo, germogli del linguaggio»[7].

All’interno di questo campo semantico dell’artificio e della manomissione, l’operazione rielaborativa può assumere connotati sempre più distanti da un intento di “neutralità” scientifica: «il critico dissimula una parte di sé e trucca a suo modo in parte gli autori che si studiano»[8].

La sua critica si impegna in un’operazione di “sgancio”, in cui il piano degli input provenienti dall’esterno si scolla più o meno percettibilmente rispetto agli “output” che scaturiscono dall’atto ermeneutico: essa è «sempre […] legata al suo oggetto, ma […] anche crea un mondo autonomo, che da quell’oggetto […] si diparte per vivere di vita propria»[9].

In questo senso va letta l’intrusione di figure del travestimento[10], che riproducono l’applicarsi della fantasia dell’autore sul volto dell’attore sottostante. Si veda a tal proposito la collezione di maschere con cui si apre il saggio Per Pasternàk: «quanti personaggi nella poesia di quegli anni: Blok con le sue laceranti romanze zigane sullo sfondo gelido di Pietroburgo; Chlébnikov, simile a un grande uccello di palude, vagabondo bislacco e squattrinato […] e Brjusov […] e Belyj»[11].

Emblematico è l’imperativo che campeggia all’inizio di un saggio, rimasto allo stato incompiuto, su Esenin: «vedere i poeti nella loro maschera […] figurarsi uno di questi poeti»[12], ovvero fabbricarsene una versione propria, concepirli sotto la forma di una “funzione” più che di un individuo.

Questo “amore per i pretesti”[13] potrebbe riecheggiare l’accezione euristica propria dell’atteggiamento di Piovene: «io amo i pretesti perché punto alla verità»[14]. Eppure il termine “pretesti”, nel caso di Ripellino, è probabilmente eccessivo: non ci troviamo infatti dalle parti del Leonardo “inventato” di Paul Valéry né si tratta di mettere in discussione il rigore filologico o la conoscenza dell’argomento[15]: «la letterarietà della prosa […] non pregiudica il rigore scientifico»[16]. Qui, la presenza del commentatore si gioca su linee più discrete, sottili: non occupa il centro della scena.

Stile

Il «quoziente di intrusività»[17] esplicita dell’io di Ripellino non sembra essere il tratto decisivo per spiegare la tanto marcata “personalizzazione” in atto nelle sue pagine. Le citazioni e i commenti analitici vi mantengono la parte predominante: la postura con cui il discorso è condotto «si sforza […] di essere impersonale»[18], al di là delle ricorrenze di inserti soggettivi[19] e dell’indicazione delle proprie preferenze estetiche[20].

Se la postura del discorso si mantiene distante dal punto di sovvertimento[21], a essere personale è piuttosto la grana del discorso stesso. Ripellino rivendica, così, in Praga magica la propria attenzione alla scrittura: «io che amo limar le parole come pietre dure»[22].

Il barocco[23] e la pittura[24] sono stati evocati come riferimenti di uno stile concordemente ritenuto “esuberante” già in àmbito poetico, ma che lo diventa ancor più se si prende come orizzonte di attesa la «saggistica di un professore universitario»[25], all’interno dei cui confini Ripellino inietta un sistematico intento modellizzante che rifugge dal rischio della sciatteria: «voglio schivare l’informe»[26].

Non sembra qui, dunque, il caso di insistere ulteriormente sul close reading di un dettato del quale sono già state riconosciute[27] le peculiarità ormai «famos[e]»[28]. Piuttosto, interessa sottolineare la funzione complessiva di questa alterazione, in cui lo stile viene a rappresentare un tratto di indiscutibile personalizzazione del dettato, sfruttando i presupposti di quella linea di «literal meaning» che David R. Olson fa risalire alle esigenze dell’ermeneutica testamentaria del XIII secolo, la quale «rivolse l’attenzione alle parole, alla forma verbale di un testo. L’interpretazione letterale […] dipendeva crucialmente da quali parole erano state usate»[29].

Veicolati dallo stile, sopravvivono così sulla pagina di Ripellino nuclei tematici forti[30] come quelli della giocoleria buffonesca o «clownerie»[31], mimata dalla ridondanza e dall’affastellamento degli aggettivi: all’insegna del “siate buffi”, come titola la raccolta postuma delle sue recensioni per «L’Espresso»[32].

Per usare un’espressione di Guido Ceronetti[33], lo stile è come una “vendetta”[34] impertinente al dato della realtà: certamente lo è sul piano politico[35], ma nella misura in cui esso si interseca con la vocazione esistenziale all’ulissismo intellettuale[36], alla comparazione[37] e al superamento delle barriere (anche disciplinari).

Ma lo stile è soprattutto territorio del poeta, a prescindere dal genere letterario frequentato[38]. Quella sua sensibilità attecchisce e si radica lì dove «iridate metafore si aprono come code di pavoni»[39], come scrive Ripellino stesso, riferendosi alla poesia di Gavriil Deržavin – realizzando così una dichiarazione indiretta della “propria” poetica e contemporaneamente una sua messa in pratica, attraverso la definizione lirico-metaforica di un dato critico relativo all’autore russo. Viene in tal modo operato una sorta di contagio fra scritture in cui il critico gareggia con il criticato, «mimeticamente ispirandosi ai modi dell’autore studiato»[40]: nella saggistica di Ripellino poesia si assomma a poesia, in un simpatetico gareggiamento di voci.

Se lo stile è uno “scarto” dalla norma e dall’impersonalità, esso è anche un modo per far sentire la presenza di un’entità scrivente al di dietro (e al di sopra) della materia scritta. «“Individuum non est ineffabile”, rispondeva Spitzer a Croce»[41]: vale a dire, non risiede (solo?) in un’ipotetica essenza (l’“ispirazione” crociana) al di fuori del testo, ma sedimenta nello stile, e attraverso lo stile si fa conoscere. Esso è la maniera concreta, leggibile, attraverso cui fa sentire la propria voce, si “appropria” della materia che tratta – nel senso in cui Matteo Marchesini parla per Arbasino, anche causticamente, di un «arbasinage» o «arbabesco»[42]. Un trattamento dei fatti che trascende i fatti stessi, che non è contenuto in essi ma che piuttosto li contiene: l’istituzione di una “voce” riconoscibile localizzata sul piano della «magica iridescenza del tessuto»[43], secondo una formula di Debenedetti per Proust.

I fantasmi (perlopiù) non si ribellano alla torsione.

Narratività e retorica

A livello di dispositio, il critico «diventa regista e cerimoniere»[44] – è il burattinaio dei suoi personaggi, colui che ne muove i fili come una sorta di centro occulto. Tanto più che per Ripellino «il teatro è la radice e la matrice del nostro vivere»[45]: e l’onnipresenza fulcrale della teatralità invade e informa di sé anche il testo saggistico, il «grande circo in cui [Ripellino] gioca tutti i ruoli»[46].

Segmento privilegiato per esporre questo tipo di meccanismo sono i tratti narrativi presenti nel Trucco e l’anima, definito, certo forzando un po’ la mano, un «romanzo-saggio» già dalla quarta di copertina dell’edizione einaudiana attualmente in commercio[47].

In questo volume, Ripellino ricostruisce le vicende dell’avanguardia artistica russa di inizio Novecento con particolare attenzione all’arte del teatro, facendo sfilare una galleria di attori, scrittori e “maestri della regia”, da Konstantin Stanislavskij a Vsevolod Mejerchol’d[48].

Il testo scatta subito in medias res: fornendo l’indicazione di coordinate temporali e geografiche precise, ossatura di una “scena” dall’impatto fortemente visualizzabile (alla Foucault in Sorvegliare e Punire, con il supplizio del corpo di Damiens): nel primo capitolo l’obiettivo è puntato sul Teatro d’Arte di Mosca, il 17 dicembre 1898, e più particolarmente su «Una panchina lungo la ribalta, dinanzi alla buca del suggeritore»[49], aderente alle esitazioni, ai «torment[i]», quasi ai sospiri[50] degli attori in attesa. L’attenzione di Ripellino, prima ancora che alla messa in campo di concetti, è dedicata all’instaurazione dell’atmosfera appropriata, funzione che per Alessandro Piperno è tipica degli incipit romanzeschi[51]: «il palcoscenico era immerso nel buio. Nelle pause […] pareva di sentire il respiro, la musica pigra d’una sera d’estate»[52]. Ciò si ripete in incipit d’ambiente come quello che, nel terzo capitolo, inquadra la città di Mosca (“à vol d’oiseau”, direbbe l’Hugo di Notre-Dame de Paris): «la parte più alta d’una città – guglie, cupole, campanili, miele denso di tetti – dorme; nel sottosuolo, in cunícoli e cave […] ingannano la notte i cabarets»[53]. Per l’importanza del sostrato intensamente immaginativo che nel Trucco e l’anima precede, prepara, il dato scientifico, valga però su tutti il fulminante incipit nominale del secondo capitolo: «Anzitutto i suoi occhi. Gli occhi di Vera Fëdorovna Komissaržèvskaja»[54]: anzitutto visualizzare, vedere. Da informazioni biografiche, gli autori analizzati sono «sempre disposti a far[si] personaggi»[55], ad animarsi: fanno delle cose, si legge nei loro pensieri attraverso il modulo della psiconarrazione[56], si «manifestan[o] come un composto di realistica carnalità»[57]. Ecco, così, un Anton Čechov scornato dal fiasco letterario: «quella notte la disperazione lo aveva sospinto a vagar senza mèta nel freddo di Pietroburgo: esausto, con gli occhi annebbiati, come un automa»[58].

A segmentare e delimitare i confini delle singole scene non esitano a intervenire ellissi temporali, le quali implicano un intervento arbitrario dell’intreccio a scapito dell’ordine lineare della fabula, istituendovi delle “anacronie”[59]: così, nell’esordio del primo capitolo, alla scena del Gabbiano di Stanislavskij e Dančenko subentra, a mo’ di flashback, l’episodio del fiasco del Gabbiano di Aleksandrinskij, di due anni precedente (17 ottobre 1896). È lo stesso Ripellino a connotare in termini narrativi questa artefazione della temporalità, con piglio da novelliere: «narreremo anche noi»; e intitolando il paragrafo dedicato, dopo un opportuno bianco tipografico, «Storia di un insuccesso»[60].

Alle frasi scattanti di inizio capitolo rispondono periodi solenni alla fine, a sancire anche retoricamente il momento della chiusura. Istruttivo è mettere in fila i periodi conclusivi di ciascuno dei sette capitoli: i termini che vi compaiono afferiscono tutti[61] al campo semantico dei “grandi temi”: «solitudine»[62], «precipizio»[63], «vita»[64], «morte»[65], «inesistente»[66] e di nuovo, infine, «morte»[67]. Così era del resto anche nel periodo conclusivo di Majakovskij e il teatro: «Il carosello delle metafore simili a specchi deformanti e il trasformismo irrequieto dei personaggi si placano infine nell’immensità misteriosa dell’universo»[68]. Qui, stile e dispositio si uniscono secondo le esigenze del microcosmo della clausola.

In Praga magica

Nel libro su Praga, riconosciuto come a sé stante rispetto all’insieme dei testi precedenti[69], questi procedimenti (dichiarazioni di poetica, stile, narratività e retorica) trovano realizzazione compiuta e simultanea, in un’apoteosi della personalizzazione della saggistica critica.

Spia primaria di questa apicalità è la “presa di potere” e di campo da parte dell’io, che si ricorda di un passato («ora che ne sono lontano»[70]), lo rievoca («ogni notte, camminando nel sogno»[71]), cerca di indovinare sé stesso tra le ipotesi di precedenti reincarnazioni praghesi («anch’io ho la certezza di avervi abitato in altre epoche»[72]): come disegnando, nella soglia delle prime pagine, i contorni di una sorta di “patto autobiografico”. In effetti, la materia trattata non è più presentata solo come materia critica, ma anche come materia vissuta, tessuto di ricordi che legano l’identità dell’autore a quella della città.

Questa connessione accentua un procedimento già attivo negli altri libri di saggi, alla cui origine esisteva sempre un saldo legame “oggetto particolare-grande verità esistenziale”, ad esempio col teatro russo del Trucco e l’anima che diventava «per me come l’allegoria d’un mondo-teatro»[73]. Il filo diretto tra particolare e generale, tra oggettività e astrazione, fa sì che il paesaggio di questa Praga appaia «paesaggio intriso di un lutto cosmico»[74], ovvero che passi attraverso un filtro universalizzante implicando un processo di trasfigurazione del dato particolare sussunto in un sistema, e comportando l’emersione di una quota palpabile di onirismo e derealizzazione.

«Mi chiedo se Praga esista davvero o se piuttosto non sia una contrada immaginaria»[75], incalza Ripellino dando corpo alla confusione, alla sovrapposizione tra luogo geografico e luogo dell’anima, nel cui contesto Praga diventa l’unico sinonimo possibile «per dire arcano»[76]: ovvero per significare una parola astratta, gettando un ponte fra le due macroaree semantiche del materiale e dell’immateriale.

Ciò che si configura è allora, come al solito ma più del solito, lo spazio di una convocazione di fantasmi[77], di “morti” alla Manganelli: la città è un libro, un «antico in-folio dai fogli di pietra»[78] di cui ciascuno degli autori via via citati ha scritto una piastrella, come in un equivoco tra supporti, in un’in-distinzione tra pietra e fantasia che spezza la «dialettica lacerante»[79] del “fuori” e del “dentro”, spingendo alla configurazione complessa di quel “terzo spazio” testuale (che in Praga è anche veramente toponomastico) di cui si è potuto parlare a proposito di un altro saggista come Cesare Garboli[80]: spazio dell’illusione ottica e della deformazione anamorfica.

La città assume, allora, la funzione di prisma scopico, attrattore di immagini: nello sguardo che si posa sui monumenti della città le associazioni di idee e la stratificazione delle memorie presiedono allo sguardo, come spiegato nella presentazione metaletteraria del settimo capitolo, in cui si rifugge dall’organicità dell’impianto: «vado […] intessendo un libro a capriccio, un agglomeramento di meraviglie»[81].

Trasfigurata in un «labirinto onirico»[82], Praga viene percorsa secondo il principio espressamente citato[83] di una flânerie divagante, qui più che mai incline a diventare rêverie[84] di bachelardiana memoria. Anche l’episodio aneddotico vissuto (?) con la scrittrice Věra Linhartová – che sembra inizialmente il resoconto di un’esperienza oggettiva, di un tragitto compiuto insieme per riaccompagnarla nella sua casa di Roma – diventa mattone del labirinto onirico: «mi accorsi che era anche lei [Věra] un personaggio della mia Praga magica e picaresca, della compagnia di alchimisti […] che vi tiene spettacolo»[85].

Nel turbinio del movimento e della scrittura, Roma diventa Praga, Praga o Roma, «che importa»; e, rivolgendosi sempre a Věra: «avete scritto voi stessa che ognuno è il portatore del proprio paesaggio»[86]. Non è la geografia fisica a contare, quanto piuttosto la sua tangenza con il sentimento dell’«immensità intima»[87] descritta ancora da Bachelard. Se per il filosofo francese tale stato di «contemplazione originaria» si ottiene calando l’istanza di «immaginazione» in un «altrove […] naturale»[88], in Ripellino l’altrove si fa invece patrimonio quantomai artificiale, antropizzato, cólto.

«Tutto ciò ritorna la notte a ingombrare le insonnie»[89], che sono contemporaneamente le insonnie dell’io e le insonnie della città, tormentata dalle vestigia di un “mito” che la decadenza presente ha separato da lei[90]: «anche lui [Ripellino] talvolta non sa più se parla della città o di se stesso»[91]. Questa confusione[92] non avviene soltanto secondo il fisiologico “sistema di specchi” in virtù del quale ogni osservazione critica è insieme esposizione autobiografica[93], ma è tematizzata e suggerita insistentemente dalla “voce” del testo: che sfoglia, rifratta e rifranta, gli ipotetici avatar di «se stesso come ‘personaggio’ dell’infinito teatrino storico-artistico praghese»[94]; che si conta dentro lo «sciame di fantasmi della diàspora»[95], includendo la sua prima persona nella collettività di un «noi».

Praga è il luogo in cui si convogliano le intuizioni del metodo-Ripellino. La realtà del toponimo concreto si fonde alla “magia” programmaticamente evocata dal suo aggettivo, scontornando un luogo della critica che è una stazione intermedia fra la realtà del mondo e la realtà «dell’anima».

  1. R. Barthes, La preparazione del romanzo, trad. it. di E. Galiani e J. Ponzio, Milano-Udine, Mimesis, 2010, p. 79.
  2. C. Sini, sessione 1 del Seminario di filosofia Diventa ciò che sei, 2015; cfr. l’URL: http://www.archiviocarlosini.it/audio/mecri20152016%20%281%29.mp3, min 30:12 (ultima consultazione: 25/05/2023).
  3. A. Warburg, Mnemosyne. Grundbegriffe, II (1929), cit. da G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta, trad. it. di A. Serra, Torino, Bollati Boringhieri, 2006, p. 9.
  4. G. Manganelli, Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti, in Id., Agli dèi ulteriori, Milano, Adelphi, 1989, pp. 133-65: 164.
  5. A. M. Ripellino, Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, Torino, Einaudi, 1965, p. 11.
  6. G. Traina, Materiali per uno studio sul Ripellino saggista, in Angelo Maria Ripellino e altri ulissidi, a cura di N. Zago, G. Traina, A. Schininà, Leonforte, Euno, 2017, pp. 59-75: 65.
  7. A. M. Ripellino, Introduzione a Id., Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi, 1968, pp. 5-11: 9.
  8. A. M. Ripellino, Esenin, in Id., L’arte della fuga, Napoli, Guida, 1987, pp. 155-225: 158.
  9. A. Lombardo, Prefazione ad A. M. Ripellino, Siate buffi. Cronache di teatro, circo e altre arti («L’Espresso» 1969-77), Roma, Bulzoni, 1989, pp. 27-30: 30.
  10. «La critica è un “travesti”»: A. M. Ripellino, Esenin, op. cit., p. 158.
  11. A. M. Ripellino, Primo tentativo di interpretazione della poesia di Pasternàk, in Id., Letteratura come itinerario nel meraviglioso, op. cit., pp. 215-40: 217.
  12. Ivi, p. 155.
  13. La slavistica è per Ripellino «pretesto di comparazioni»: A. M. Ripellino, Introduzione a Id., Letteratura come itinerario nel meraviglioso, op. cit., p. 5.
  14. G. Piovene, Le Furie [1963], Milano, Mondadori, 1975, p. 17.
  15. Quella che a Valéry, per sua stessa ammissione, difettava: «Sapevo fin troppo che alla mia ammirazione per Leonardo non corrispondeva affatto la conoscenza che avevo di lui»: P. Valéry, Nota e digressione [1919], trad. it. di S. Agosti, in Id., Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, Milano, Abscondita, 2007, pp. 66-67.
  16. U. Brunetti, Introduzione ad A. M. Ripellino, Iridescenze, Torino, Aragno, 2020, pp. XIX-XLIII: XXIII.
  17. F. Secchieri, L’artificio naturale. Landolfi e i teatri della scrittura, Roma, Bulzoni, 2006, p. 144.
  18. G. Traina, Materiali per uno studio sul Ripellino saggista, op. cit., p. 63.
  19. Ivi, p. 64.
  20. A. Nicastri, «I sogni dell’orologiaio»: Ripellino e le arti visive, in Id., Ars una. Angelo Maria Ripellino e gli artisti di Forma 1, Salerno, Ripostes, 2005, pp. 21-53: 23.
  21. Sulla distanza che separa il Ripellino-poeta dall’arte “industriale” ed elencatoria di un Sanguineti cfr. F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro. Piccolo, Cattafi, Ripellino, Torino, Tirrenia, 1996, pp. 113-14.
  22. A. M. Ripellino, Praga magica [1973], Torino, Einaudi, 1991, p. 7.
  23. Cfr. A. Fo, La poesia di Ripellino, in A. M. Ripellino, Poesie, Torino, Einaudi, 1997, pp. V-XXXIX: VI; F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro. Piccolo, Cattafi, Ripellino, op. cit., pp. 113-46, che inscrive Ripellino in una linea “neobarocca”.
  24. Cfr. A. Nicastri, «I sogni dell’orologiaio», op. cit., pp. 33 e sgg.
  25. Ivi, p. 37.
  26. A. M. Ripellino, Di me, delle mie sinfoniette, in Id., Scontraffatte chimere. Poesie, Roma, Pellicano, 1987, pp. 17-18.
  27. Cfr. ad esempio A. Fo, La poesia di Ripellino, op. cit.; F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro, op. cit., pp. 138-40.
  28. A. Fo, Non esistono cose lontane. Ripellino e il teatro su «L’Espresso», in A. M. Ripellino, Siate buffi, op. cit., pp. 33-59: 53.
  29. D. Olson, The World on Paper. The Conceptual and Cognitive Implications of Writing and Reading, Cambridge, UP, 1994, p. 151, corsivo nostro.
  30. La cui coerenza permette «di rilevare con esattezza la planimetria della critica ripelliniana […] di identificare il punto ideale da cui egli osserva i fenomeni letterari e culturali»: R. Giuliani, Introduzione ad A. M. Ripellino, L’arte della fuga, op. cit., pp. 5-24: 23.
  31. A. Fo, La poesia di Ripellino, op. cit., pp. VII-VIII.
  32. A. M. Ripellino, Siate buffi, op. cit. Sulla critica teatrale di Ripellino cfr. L. Cardilli, Il critico empatico: stile e argomentazione nelle cronache teatrali di Ripellino, in Itinerari della critica teatrale italiana del Novecento, a cura di M. Cambiaghi, G. Turchetta, Milano-Udine, Mimesis, 2020, pp. 111-43.
  33. Che a Ripellino ha dedicato l’articolo Ripellino poeta, in «Paragone Letteratura», 252, 1971, pp. 7-23.
  34. Cfr. A. Castronuovo, Lo stile come vendetta, in Pareti di carta. Scritti su Guido Ceronetti, a cura di P. Masetti, A. Scarsella, M. Vercesi, Mantova, Tre Lune, 2015, pp. 71-77.
  35. G. Traina, Materiali per uno studio sul Ripellino saggista, op. cit., pp. 60-63. Cfr., per questo filone, la raccolta di cronache giornalistiche I fatti di Praga, Milano, Scheiwiller, 1988.
  36. R. Giuliani, La lezione slavistica di Angelo Maria Ripellino, in Angelo Maria Ripellino e altri ulissidi, op. cit., pp. 11-26.
  37. G. Traina, Materiali per uno studio sul Ripellino saggista, op. cit., pp. 68 e sgg.
  38. Cfr. il canonico «Non c’è divario tra i miei saggi, i miei racconti, le mie liriche»: A. M. Ripellino, Di me, delle mie sinfoniette, op. cit., p. 17.
  39. A. M. Ripellino, Variazioni sulla poesia di Deržavin, in Id., Letteratura come itinerario nel meraviglioso, op. cit., pp. 15-38: 17.
  40. A. Cortellessa, Rivestire di nomi l’abisso. Note per un itinerario in Ripellinia, in «Ermeneutica Letteraria», V, 2009, pp. 115-34: 119.
  41. P. Citati, Introduzione a L. Spitzer, Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna, Torino, Einaudi, 1959, pp. VII-XXX: XX.
  42. M. Marchesini, Nati dal boom: Arbasino ritratto col suo stile, in Id., Casa di carte. La letteratura italiana dal boom ai social, Milano, Il Saggiatore, 2019, pp. 91-98: 94.
  43. G. Debenedetti, Rileggere Proust [1982], in Id., Proust, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 137-87: 141.
  44. A. M. Ripellino, Introduzione a Id., Letteratura come itinerario nel meraviglioso, op. cit., p. 9.
  45. A. M. Ripellino intervistato da R. De Vito, Un forziere, in «Il Veltro», XIX, 3-4, 1975, pp. 361-65; cit. da A. Pane, Invio (come nei voti, lieve), in A. M. Ripellino, Fantocci di legno e di suono, Torino, Aragno, 2021, pp. V-XI: VII-VIII.
  46. G. Traina, Materiali per uno studio sul Ripellino saggista, op. cit., p. 69.
  47. Torino, «Piccola Biblioteca Einaudi», 2002.
  48. E lo fa battendo in questo modo un sentiero di ibridazione fra tratti letterari e dati di realtà all’interno dello stesso testo, che nel quadro del campo narrativo nostro contemporaneo appare ormai piuttosto normalizzato, anche per quanto riguarda il genere delle biografie a vario grado romanzate, basate sulla ricostruzione (fantasmata) della vita di personaggi del passato. Cfr. il capitolo La biofiction di R. Castellana, in Id., Fiction e non fiction. Storia, teoria e forme, Roma, Carocci, 2021, pp. 157-82.
  49. A. M. Ripellino, Il trucco e l’anima, op. cit., p. 15.
  50. Per Arbasino la “ricostruzione” del Trucco e l’anima è svolta non attraverso il canonico distanziamento critico, bensì «come da una poltrona in prima fila nei teatroni e nei cabaret»: A. Arbasino, Angelo Maria Ripellino, in Id., Ritratti italiani, Milano, Adelphi, 2014, pp. 434-35: 434.
  51. A. Piperno, L’incipit o l’arte di connettersi al lettore, Festival della Comunicazione Camogli, 2017; cfr. l’URL: https://www.youtube.com/watch?v=ODz7P7GYkEo, min 6:20-7:40 (ultima consultazione: 25/05/2023).
  52. A. M. Ripellino, Il trucco e l’anima, op. cit., p. 16.
  53. Ivi, p. 191.
  54. Ivi, p. 103.
  55. A. M. Ripellino, Introduzione a Id., Letteratura come itinerario nel meraviglioso, op. cit., p. 9.
  56. D. Cohn, Transparent Minds. Narrative Modes for Presenting Consciousness in Fiction [1978], Princeton, UP, 1983, pp. 21-57.
  57. C. Lombardi, Introduzione a Il personaggio. Figure della dissolvenza e della permanenza, a cura di C. Lombardi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2008, pp. XV-XLII: XVII.
  58. A. M. Ripellino, Il trucco e l’anima, op. cit., p. 19.
  59. G. Genette, Figure III. Discorso del racconto [1972], trad. it. di L. Zecchi, Torino, Einaudi, 1986, pp. 83-95.
  60. A. M. Ripellino, Il trucco e l’anima, op. cit., p. 17.
  61. È escluso il terzo capitolo, che si conclude con una citazione di Aleksandr Blok.
  62. A. M. Ripellino, Il trucco e l’anima, op. cit., p. 102.
  63. Ivi, p. 190.
  64. Ivi, p. 272.
  65. Ivi, p. 344
  66. Ivi, p. 379.
  67. Ivi, p. 414.
  68. A. M. Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Torino, Einaudi, 1959, p. 270.
  69. G. Traina, Materiali per uno studio sul Ripellino saggista, op. cit., p. 60.
  70. A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., p. 13.
  71. Ibidem.
  72. Ivi, p. 6.
  73. A. M. Ripellino, Il trucco e l’anima, op. cit., p. 11.
  74. A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., p. 11.
  75. Ivi, p. 13.
  76. Ivi, p. 10.
  77. Il libro ispira, in effetti, alla critica un corredo di immagini mortuarie: esso tematizza la «distanza incolmabile tra l’io e i fantasmi» (A. Gialloreto, Partiture liriche di Angelo Maria Ripellino da Dobříš a Praga, in Notturni e musica nella poesia moderna, a cura di A. Dolfi, Firenze, UP, 2018, pp. 565-76: 568); è una forma di «esorcismo» (G. Immediato, La poesia in ballo. Angelo Maria Ripellino poeta, Messina, Sicania, 1992, p. 26). Praga vi si configura come un «funerario scrigno barocco» (V. Meucci, Ripellino a Praga: l’autoritratto del viandante, in «Studi (e testi) italiani», 11, 2003, pp. 177-86: 177); è «il diario di un poeta-pellegrino […] alla ricerca di fantasmi» (G. Spagnoletti, Ripellino, sulla “scialuppa della fantasia”, in Id., I nostri contemporanei. Ricordi e incontri, Milano, Spirali, 1997, pp. 225-29: 229).
  78. A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., p. 8.
  79. G. Bachelard, La poetica dello spazio [1957], trad. it. di E. Catalano, Bari, Dedalo, 2006, p. 247.
  80. P. Gervasi, Anamorfosi critiche. Scrittura saggistica e spazi mentali: il caso di Cesare Garboli, in «Ticontre», 9, 2018, pp. 45-65; cfr. l’URL: https://teseo.unitn.it/ticontre/article/view/1084.
  81. A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., p. 23.
  82. V. Meucci, Ripellino a Praga, op. cit., p. 179.
  83. A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., p. 21.
  84. A. Nicastri, «I sogni dell’orologiaio», op. cit., pp. 50-51.
  85. A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., p. 17.
  86. Ibidem.
  87. G. Bachelard, La poetica dello spazio, op. cit., pp. 217 e sgg.
  88. Ivi, p. 218.
  89. A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., p. 21.
  90. C. Cases, Praga la maga, in Id., Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, Torino, Einaudi, 1985, p. 440.
  91. Ivi, p. 439.
  92. Complicata e ulteriormente sfaccettata dalla comparsa di una seconda persona singolare, un vago “tu”: «ricordi le gèlide sere…»: A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., pp. 19 e sgg.
  93. U. Brunetti, Introduzione ad A. M. Ripellino, Iridescenze, op. cit., pp. XIX-XXI. Cfr. anche A. Fo, La poesia di Ripellino, op. cit., p. XXVI.
  94. G. Traina, Osservazioni su Praga magica, libro-specchio di Angelo Maria Ripellino, in Maestra ironia. Saggi per Luca Curti, a cura di F. Nassi, A. Zollino, Lugano, Agorà & co., 2018, pp. 191-99: 198.
  95. A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., p. 14.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023, vol. II)

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