1. La cura Goethe
Basta scorrere quell’anacronistico – per alcuni – strumento bibliografico che è l’“indice dei nomi” per accorgersi di quanto Goethe fosse citato da Croce, e non soltanto nelle opere di poesia, estetica e critica letteraria, ma negli scritti di etica, in quelli di politica, in quelli di storia – e la circostanza stupisce non poco, visto che, per ammissione dello stesso Croce, le competenze del Consigliere e Ministro del Duca di Weimar difettavano non poco in quei campi. Anzi, aggiunge il filosofo, egli aveva scarsissimo senso storico e politico e la sua teoria etica, pur ricca «di saggezza e di bontà», pativa il peso del suo «antistoricismo», spingendo il «suo eroe Faust» verso «una certa torbidezza mistica»[1. B. Croce, Storicismo e vita morale (1947), in Id., Filosofia e storiografia (1949), a cura di S. Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005, pp. 163-167, in part. p. 167.]. Eppure era un “conforto” a Croce proprio negli anni delle sue maggiori pene storico-politiche. Come a dire: maggiore il dolore, tanto più forte la cura.
Quell’“amore per il libro tedesco”, che, nel Contributo alla critica di me stesso, Croce ricorda come una delle più importanti scoperte che egli doveva a Antonio Labriola, riguardava probabilmente Goethe, prima ancora che il suo “amore e cruccio” filosofico, e cioè Hegel. Diversamente dal filosofo, il massimo poeta tedesco gli arrecava soltanto gioie e in lui riconosceva il perenne maestro, il complice amico, l’autorevole precedente. Goethe era infatti un fenomeno esente da patologie: non recava con sé morbi perché dispensava soltanto generosi lenimenti. Tra i molti, quella fortunata formula, “poesia da lazzaretto”, che non soltanto era utile a Croce per etichettare la produzione sentimentalistico-romantica (contro cui storicamente sorge) ma in genere la letteratura cosiddetta “decadente” o “nichilistica”, nonché il soggettivismo estremo di una cultura “confessionale” in cui l’Io diventa sì, agostinianamente, un problema a se stesso, ma anche nel senso che ingombra il campo e impedisce la creazione dell’opera. Molta salute passa dunque per Goethe. L’unica malattia che forse gli si può addebitare, e che comprendono coloro i quali, una volta conosciutolo, non riescono più a farne a meno, è un fenomeno di dipendenza spirituale. Goethe dona salute anche quando fa “ammalare”, perché l’unica malattia di cui egli è portatore sano è “malattia di vita”, quella stessa che spinse il poeta verso il cambiamento incessante, la continua rinascita, fino al limite del mimetismo. Il suo Faust non è altro che il compendio poetico di questa benefica malattia di vita che, come il vitale crociano, se indomata, produce effetti patologici[2. Per un recupero di questa attitudine terapeutica di Goethe rinvio al lavoro, che certamente Croce avrebbe approvato, di P. Hadot, N’oublie pas de vivre. Goethe et la tradition des exercices spirituels (2008), tr. it. di A. C. Peduzzi, Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, Milano, Raffaello Cortina, 2009.].
Croce, dunque, con chiaro espediente retorico, non manca mai di richiamare l’autorità del poeta tedesco a sostegno delle sue tesi. Tra i molti luoghi che si potrebbero citare a conforto di questo procedimento crociano, due mi sembrano particolarmente significativi per introdurre il presente lavoro. Il primo è l’epigrafe che, nel già citato Contributo del 1915, Croce ricava da Goethe: «Perché ciò che lo storico ha fatto agli altri, non dovrebbe fare a sé stesso?»[3. Cfr. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso (1915), in Id., Etica e politica (1931), Bari, Laterza, 1967, pp. 309-377; si veda l’edizione curata da G. Galasso, Milano, Adelphi, 2000.]. Qui risulta chiaro che Croce non soltanto si serve tecnicamente di Goethe ma fa di lui stesso, della sua concezione e del suo modo di condurre la vita, uno specchio: tra Goethe e Croce si produce un autentico fenomeno psicologico di “rispecchiamento” che va ben oltre il riconoscimento reciproco nel kantiano sovratemporale “regno degli spiriti”. La citazione merita di essere messa a confronto con una più articolata riflessione teorica, cioè col capitolo della Storia come pensiero e come azione, quello in cui Croce discute della “liberazione” dalla storia attraverso la storiografia e che ha un’ispirazione profondamente goethiana. Il Goethe che gli gridava «Via dalle tombe!» e «Viva chi vita crea» gli suggeriva al contempo un rimedio teorico che da solo meriterebbe la riapertura delle ostilità tra Croce e la psicologia e stavolta per una ricomposizione positiva del conflitto[4. Si vedano diffusamente i molti luoghi in cui Goethe si trova citato nella Storia come pensiero e come azione (1938), a cura di M. Conforti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002.].
Il secondo luogo significativo si ricava anche esso dal libro sulla Storia del 1938 e che chiude l’Avvertenza col richiamo «al profondo laborioso “regno delle Madri”»: qui vien fatto ricorso a uno dei più potenti simboli creati o recuperati da Goethe per un’ulteriore più profonda ri-creazione, le “Madri”, alle quali Faust, nella “seconda parte della tragedia”, scende per strappare loro l’“idolo” di Elena, cioè la sua “figura” (eidolon in greco, Idol in tedesco). Per la forza dell’immagine poetica goethiana, e per l’uso che ne fa Croce, conviene attardarsi su questo riferimento.
Le “Madri”. Goethe era particolarmente infastidito dai “misteri” ed era sgarbatamente reticente a parlare di quelli da lui creati. Quando, infatti, il buon Eckermann gli chiedeva chiarimenti in merito alla definizione di questo potente simbolo cui Faust ricorre, egli o citava i propri versi («Madri, Madri, che strano suono ha la parola») o semplicemente gli porgeva il testo dicendogli «Aggiustatevi!»[5. Cfr. R. Friedenthal, Goethe: sein Leben und seine Zeit (1963), tr. it. di E. Croce, Wolfgang Goethe. Biografia critica, Milano, Mursia, 1974, pp. 491 e 506. Si veda pure B. Croce, Filosofia e storiografia, op. cit., p. 47.]. Sia le “Madri” sia l’Ewig-Weibliche, di cui si dirà a breve, costituiscono due misteri che appena appena possono subire accenni poetici e certo mai dimostrazioni di scienza. E in questo principio, dice Croce mentre nell’ultimo anno di vita sta nuovamente “riformando” la lettura della dialettica hegeliana, egli si mantiene fedele al suo «maestro Volfango Goethe», che gli aveva insegnato a comprendere la vacuità dei tentativi di «fare l’errata-corrige del mondo» al fine di «togliere la morte o il dolore o il male dal tessuto della vita»[6. B. Croce, Hegel e l’origine della dialettica (1951), in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1951), a cura di A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, 1997, pp. 37-59, in part. p. 40.]. Chiariamo subito che le Madri goethiane sono sicuramente ricalcate sul seducente prototipo delle scienze psico-etno-antropologiche della “Grande Madre” che ancora continua a irradiare un fascino enorme nella cultura e nella mentalità contemporanee[7. Si veda, per ultimo in campo figurativo, il catalogo della recente mostra milanese La Grande Madre. Donne, maternità e potere nell’arte e nella cultura visiva, 1900-2015, a cura di M. Gioni, Ginevra-Milano, Skira, 2015, a cui possono essere ricollegati anche i lavori sulla “Patartemide” di Rosaria Matarese esposti, fino allo scorso gennaio, al Museo Archeologico Nazionale di Napoli per la cura di Dario Giugliano.]. Essa simboleggia non a caso il mistero della nascita e della generatività e psicologicamente indica il desiderio di ritorno nel grembo materno. Tuttavia, a differenza del simbolo primitivo e tellurico della “Grande Madre”, recuperato dalle religioni orientali e dai culti pagani, elemento terrigeno di nascita e rinascita, espressione dell’enigma della generazione in senso lato, infine principio di fecondità, le Madri goethiane appartengono a un altro regno: a quello platonico delle pure idee. Esse, infatti, sono Madri isterilite o semplicemente invecchiate. Non sono, dunque, le generatrici della realtà quanto piuttosto le loro custodi. Le Madri faustiane hanno smesso di generare e hanno posto questo fardello nelle mani degli umani, pur mantenendo intatta un’altra specifica funzione del femminile, che è quella del custodire: esse forniscono soltanto le “forme”, che ruotano in vortice attorno alle loro teste, ma la “materia” non appartiene al loro mondo. Per questo, quando Faust vi scende, ne ricava soltanto la “possibilità” di Elena, non di più. Il loro è, insomma, come scrive Croce nella Storia, un laboratorio operoso, in cui non tutto quel che può essere sarà ma che, per essere, deve necessariamente completare la propria nascita altrove e per mezzo di altra mano (come l’Homunculus concepito in provetta dal famulus Wagner).
Non è del resto questo il destino che ci viene messo in mano dalla nostra vera madre quando involontariamente nasciamo? Poter essere qualunque cosa soltanto per poter essere alfine noi stessi attraverso le nascite da noi scelte. È singolare che per metaforizzare la nascita, ad esempio, venga usata l’espressione “venire alla luce”: certamente si viene alla luce del sole, ci si espone al mondo – come la filosofia novecentesca non ha mancato di ripetere. Ma se si viene “in chiaro” in mezzo agli altri, si nasce “all’oscuro” di se stessi: non se ne ha consapevolezza e non si sa chi si è. E ciò talvolta per un tempo indeterminabile. A questo solenne e mai solubile arcano risponde il verso profetico di Faust, quando comincia il suo viaggio nelle profondità del “materno”: in quel “Nulla” – così chiamato da Mefistofele e così percepito dai più – egli spera di trovare il suo “Tutto”[8. Nuova linfa a questo “platonismo” delle Idee-Madri goethiane sarà infusa da Walter Benjamin nella Premessa gnoseologica (introdotta da una citazione goethiana tratta dalla Farbenlehre) alla Ursprung des deutschen Trauerspiels (1928), tr. it. di F. Cuniberto, Il dramma barocco tedesco, nuova edizione a cura di G. Schiavoni, Torino, Einaudi, 1999, in part. p. 10. Sul “goethismo” di Benjamin si veda anche H. Arendt, Walter Benjamin. 1892-1940 (1968), tr. it. di M. De Franceschi, a cura di F. Ferrari, Milano, SE, 2004.].
Le Madri goethiane non sono mai disgiunte da una forma di viscerale razionalità. Ha scritto l’antropologo Ernesto De Martino, infedele e fedelissimo discepolo di Croce: dobbiamo «ritrovare la madre con la ragione». Tutti nasciamo e, con la nascita, ci perdiamo nel mondo e coltiviamo l’inconscio desiderio di far ritorno nel grembo materno: questo “inabissamento” è però una forma di inattuabile regressione all’inizio. Come non si può mai completamente ritornare nell’innocenza barbarica una volta che si è pervenuti alla civiltà, o bambini una volta divenuti adulti, così il regresso all’“elemento materno” deve arricchirsi di una nuova e matura consapevolezza: la “madre” che noi possiamo e dobbiamo ritrovare non è dietro ma dinanzi a noi. Essa corrisponde, in simbolo, alle innumerevoli operazioni di rinascita individuale cui, volenti o meno, siamo esposti nel lungo o breve corso della vita e ha a che fare, come dimostrano le “Madri” goethiane e crociane, col primitivo sì, ma certo non con l’a-logico[9. Cfr. E. De Martino, Scritti filosofici, a cura di R. Pastina, Bologna, Il Mulino, 2005.].
Molti altri sono i luoghi crociani – e di alcuni ancora si darà conto nei prossimi paragrafi – che possono essere richiamati alla memoria per rendere conto di quella che chiamo la “cura Goethe”, vale a dire espressione di un “conforto” – così lo chiama Croce – per un dolore che è sempre biografico ma innanzitutto storico-politico e che è all’origine della nascita della monografia goethiana. Goethe è infatti il titolo di un’opera di Croce. I due volumi, che noi oggi leggiamo ancora nell’ultima edizione laterziana del 1959, hanno una genesi molto complessa e, come spesso accade per le opere crociane, stratificata nel tempo. La prima edizione è infatti del 1919, ed è stata concepita tra il 1917 e il 1918, col chiaro intento di trovare nell’opera goethiana – si legge nella Prefazione – «lenimento e rasserenamento» nei «cupi giorni della guerra mondiale». Merita un cenno anche la nota che Croce fa seguire sulla scelta di tradurre alcune liriche goethiane, lui che, nell’Estetica del 1902, aveva sostenuto la tesi dell’“intraducibilità” della poesia: se si è deciso, è soltanto per accrescere quel lenimento e ricavarne una forma di piacere, «carezzare la poesia che ci ha recato piacere» – scrive –, pur nella consapevolezza che qualche volta quelle “carezze” esercitano sull’oggetto amato una specie di «maltrattamento o tormento». Per chiudere e meglio giustificare la sua ardita scelta – che pur gli costò alcuni dissapori in ambito germanistico: la polemica con Guido Manacorda, ad esempio, con la cui traduzione del Faust lo stesso Croce fu del resto molto spietato – il filosofo riconosce di aver ricavato dalla traduzione un «vantaggio critico»:
considerare più da vicino, di quel che mercé della semplice lettura non avrei forse fatto, la struttura intima della poesia goethiana, e venirne riconoscendo, e quasi toccando con mano, la mirabile solidità[10. B. Croce, Prefazione a Goethe, Bari, Laterza, 1959, vol. I, p. IX.].
Sembra, insomma, che, traducendo, Croce sia penetrato nell’officina goethiana, come ricorda quel “toccare con mano” – chiara allusione a un verso della Quinta Elegia romana –, per osservare dal vivo il processo di composizione poetica.
Il libro goethiano ha avuto una seconda edizione nel ’21 e una terza nel ’38: quest’ultima era stata accresciuta da un nuovo volume che Croce aveva già aggiunto nel ’34 di “nuovi saggi goethiani”. L’ultima edizione seguita da Croce in vita, quella che ha aggiunto una terza serie di saggi goethiani, reca la data del 1944: allora il filosofo si è trovato a dover nuovamente ricorrere al suo poeta per lenire i mali della storia che, questa volta, producono ferite molto più dolorose da sanare e riguardano in primo luogo il rapporto tra Italia e Germania, quando – in quel 21 ottobre, a Sorrento – Croce termina la prefazione alla quarta edizione. Questo testo è un documento di altissima umanità e merita di essere citato quasi nella sua completa interezza:
Le opere del Goethe mi furono conforto nell’ultimo anno della prima guerra mondiale; me ne porsero di nuovo nel più triste tempo del regime di oppressione e di vergogna in cui l’Italia era caduta, quando già si presentiva la guerra alla quale sarebbe stata trascinata, così diversa dalla precedente che fu per la libertà europea, e quando vieppiù si stringeva il pactum sceleris tra i due regimi e i loro due capi. Questi “terzi” saggi mi hanno procurato alcune ore di svago e di sollievo nella tesa angoscia da cui l’animo è preso allo spettacolo della ferocia devastatrice tedesca, che si è rivolta ora sull’Italia con stragi, torture, deportazioni d’italiani, rapine dei frutti del nostro lavoro, con le metodiche distruzioni delle nostre culture agricole e dei nostri impianti industriali per toglierci forze di vita nell’avvenire; e coi bruciamenti di archivî e biblioteche, gli abbattimenti di monumenti, le dispersioni e trafugamenti di opere dell’arte, per cancellare altresí le testimonianze del passato nostro glorioso e avvilirci moralmente. “Come hai il cuore (mi dice qualche amico), in questi tempi e avendo innanzi agli occhi il corso che ancora dura di questi fatti, di leggere e amare un poeta che canta in lingua tedesca?”. E io rispondo che, appunto perché non ho il cuore degli odierni barbari, rispetto ed amo gli uomini di genio che nacquero in mezzo a quel popolo o in qualsiasi altro popolo; e quanto alla lingua, soggiungo, per paradossale che il detto possa suonare, che la lingua in cui sono scritte le opere del Goethe non è tedesca, ma è la lingua di Volfango Goethe. Non mai come in questa occasione ho veduto rifulgere in me la spesso disconosciuta verità di filosofia del linguaggio: che la parola è creazione sempre nuova e propria della personalità del parlante. Nel leggere le pagine del Goethe, sentivo la sua parola tutt’una con l’anima di lui; e lui, con la sua larga umanità, unicamente mi stava davanti nella bellezza delle immagini, nel battito degli accenti, nell’incanto degli svariatissimi ritmi del suo poetare[11. Ivi, pp. X-XII. Sulla genesi “curativa” della monografia goethiana e sulle rielaborazioni goethiane di Croce – non ultima la soluzione della “questione ebraica”, che si potrebbe derivare dalla lettura dei Wilhelm Meisters Wanderjahre – rinvio a G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 92-93, 126-129, 176-217. Sulla “germanicità” di Goethe in chiave nazionalistica si veda, a mo’ di esempio, il duro giudizio di Croce in Storie nazionalistiche e modernistiche della letteratura, in Id., Nuovi saggi di estetica, Bari, Laterza, 1969, pp. 181-197.].
Goethe non era la Germania e soprattutto la Germania non era la patria dei “barbari odierni”. Essa rimaneva, pur nella barbarie, la patria spirituale dell’Europa e della “letteratura mondiale” (Weltliteratur) che Goethe aveva contributo a creare. Certamente erano impazziti gli uomini, verrebbe da dire con Hannah Arendt, ma la lingua, la lingua che era la sua materna e che lei non poteva non continuare a parlare, anche abbeverandosi spesso alla fonte del suo poeta, la lingua non era impazzita. A questa Germania era ancora possibile continuare a “dare il proprio cuore”.
In conclusione dovrebbe risultare ormai chiaro che Croce si è spesso servito di Goethe come di un suo alter ego poetico e gli ha dato enorme credibilità in ambito filosofico, appunto perché – come scriveva nell’introdurre il Breviario di estetica del 1913 – l’estetica, e in genere la poesia, l’arte, costituisce, specie per le giovani generazioni, la via d’accesso privilegiata a questioni di alta speculazione teoretica[12. B. Croce, Breviario di estetica. Aesthetica in nuce, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, p. 13.]. L’indirizzo delle letture crociane contrasta apparentemente con l’interesse delle nuove generazioni che vedono in Goethe, sì, il massimo poeta della letteratura tedesca, anzi il suo fondatore (la Arendt ricordava, ad esempio, che quando Goethe aveva diciotto anni la letteratura tedesca non ne aveva di più); ma anche appunto l’“olimpico” saggio, appesantito da un classicismo “antiquario” e “funerario” (le definizioni sono del germanista Ladislao Mittner) – specie dopo il ritorno dal viaggio in Italia – incapace di interpretare le passioni del mondo contemporaneo. Singolare destino quello che apparenta i nostri due “cercatori del vero” che, non senza autocompiacimento, si lasciavano definire “olimpici”: ma quella che è in fondo soltanto una relativa e narcisistica formuletta storiografica ha finito per ritorcersi contro di loro e, peggio, nascondere la vitalità ancora presente nelle loro opere.
Come Croce, pure Goethe è stato da subito molto amato e molto odiato: se già alla fine del Settecento esisteva un “culto” di Goethe (ad esempio, nei salotti berlinesi di Rahel Varnhagen e Bettina Brentano), dall’altro si registrava l’odio viscerale della nuova “gioventù tedesca”: «Da quando vivo odio Goethe; da quando penso, so perché lo odio», diceva Karl Ludwig Börne[13. Per questi riferimenti si veda L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. II Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), t. II, Torino, Einaudi, 1971, p. 327.]. Tra i documenti più preziosi del furore anti-goethiano si può leggere, ancora nel Novecento, il racconto di Thomas Bernhard Goethe muore (1982), dove la “morte” di Goethe è in simboli presentata come la morte – o l’insufficienza – del discorso poetico nei confronti della nuova filosofia analitica, anch’essa espressa simbolicamente dall’autore nel personaggio filosofico di Wittgenstein[14. Th. Bernhard, Goethe schtirbt (1982), Goethe muore, tr. it. di E. Dell’Anna Ciancia, Milano, Adelphi, 2013. Il testo letterario di Bernhard esprime molto bene lo spaesamento (“complesso di inferiorità”?) tipico della letteratura non tedesca in lingua tedesca, che ha raggiunto la sua massima espressione in Franz Kafka: quasi obbligato, dunque, il “parricidio” romanzato del “grande padre” che, proprio in virtù e a causa della sua grandezza, ha reso “infelice” la successiva letteratura.]. Ad aggravare l’“inattualità” di Goethe si aggiunge la temeraria lotta dello “scienziato” che, seppur con la sua concezione materialistica della natura, refrattaria all’ipotesi teleologica, abbia anticipato l’evoluzionismo di Darwin, si schiera in campo come il più fiero avversario della scienza newtoniana con la sua teoria, ad esempio, del “fenomeno originario” (Urphänomen), considerato dallo stesso Hegel un reperto di antiquariato scientifico. Nel quadro di questa breve “liquidazione” goethiana – e che per molti versi ricorda il destino subito dall’altrettanto “olimpico” e “superato” Croce – merita un cenno anche il testo di una conferenza di Karl Jaspers del 1947, pronunciata tra l’altro in occasione del conferimento all’autore del Premio Goethe, Unsere Zufunkt und Goethe (Il nostro futuro e Goethe), dove il pur strenuo difensore dell’umanesimo tedesco contro la barbarie totalitaria riteneva ormai esaurito il tempo e la missione della Goethezeit, quasi una sorta di età dell’oro dello spirito tedesco[15. K. Jaspers, Unsere Zukunft und Goethe, in «Die Wandlung», 2 (1947), pp. 559-78, poi ripubblicato in vari altri volumi jaspersiani.].
Indubbiamente il “paludamento” di Goethe, che in qualche misura favorisce egli stesso, appesantisce anche la monografia crociana sul poeta. In un certo senso ha ragione Paolo D’Angelo, quando definisce “secche” e “laconiche” alcune parti del libro, in particolare i saggi già presenti nell’edizione del 1919, in virtù del loro contenuto o per «quel che di angusto e tribunalizio» c’era nella teoria crociana del giudizio; è vero altresì, come riconosce lo stesso studioso, che i “nuovi saggi goethiani” delle successive edizioni godono di maggiore vitalità[16. P. D’Angelo, Croce e Goethe, in Id., Il problema Croce, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 177-93.]. Non a caso essi nascono nella fucina teorica che porterà Croce a una profonda revisione della sua riflessione filosofica e i cui passi fondamentali, come sanno i conoscitori di Croce, si possono sintetizzare nei libri sulla Poesia e sulla Storia del ’36 e ’38, nelle grandi opere di “storiografia etico-politica”, infine negli ultimi lavori, come Filosofia e storiografia del ’49 o Indagini su Hegel del ’51, dove tra l’altro si leggono le importanti pagine sul “vitale” che saranno riprese avanti proprio per una più precisa e filosofica determinazione dell’eros goethiano.
Le accresciute riedizioni del testo crociano ci pongono dinanzi un notevole saggio, apparso per la prima volta nel 1933 in «La Critica» – la nota rivista fondata da Croce nel 1903 e da lui diretta fino alla morte – e intitolato La scena finale del “Faust”. Questo saggio sarà il nostro taccuino nel viaggio che stiamo per iniziare alla scoperta del “paradiso” goethiano, delle sue moderne tecniche di “imparadisamento”, di una nuova concezione del “femminile” – e, al suo interno, dell’eros – che risulta straordinariamente utile ancor oggi per frenare, da un lato, certi ingenui impeti femministi, dall’altro il pregiudizio – avallato spesso da entrambi i sessi – di una certa estraneità dell’“elemento femminile” alla razionalità e il suo conseguente appiattimento sul primitivo, sul tellurico, sull’istintuale o, peggio ancora, sull’irrazionale. Le vie dell’emancipazione femminile – là dove ce ne fosse ancora bisogno –, e di qualunque individuo in “stato di minorità” (fisica, psicologica, sociale, politica o economica), come quelle del “materno” prima ricordate, non conducono fuori del logos: anzi, come suggerisce Goethe, portano esattamente nel cuore del logos.
A garanzia di un approccio comunque “al femminile” e per fugare ogni estremismo di genere (di qualunque genere), si specifica che le pagine che si leggono sono scritte da una donna che, pur subendo il fascino perenne di Goethe, non ha assunto mai le pose delle sbeffeggiate – da Croce – “Faust in gonnella”, “titanesse” o “valchirie” che, nel loro prospettivismo unilaterale, potrebbero essere contagiate, sul fronte opposto, dalla malattia, tipicamente maschile, del “faustismo”. Ella ha preso molto sul serio i beneficii terapeutici della “cura Goethe”, trovando spesso nell’operosità goethiana e crociana “conforto”, “lenimento” e “vigilanza” all’umanissima angoscia della quotidiana vita individuale. Con spirito sicuramente femminile ha seguito Goethe fino alle soglie dell’intuizione di un “principio di femminilità” dal poeta sempre anelato e intuito nel cuore dell’essere.
Le pagine seguenti si pongono nel solco di un’apertura di Croce a problemi che egli stesso non ha affrontato ma che, per la forza di alcune sue teorie (in primo luogo la storicità della verità), meritano di essere a lui ricondotti: l’estetica e la gnoseologia storica crociana possono essere messe beneficamente a confronto con le più moderne forme di creazione artistica (il cinema, in primo luogo, e la musica, come già aveva provveduto a fare il dimenticato Alfredo Parente). Sia l’uso che Croce fa della poesia sia la sua concezione filosofica di critica letteraria possono trovare piena legittimità nel contesto del cosiddetto “pensiero poetante” che tanto affascina l’inquieta anima moderna e che, non bisogna dimenticarlo, nasce dalla reazione anti-metafisica novecentesca, di cui Croce è non soltanto figlio ma autentico progettista. Da incoraggiare è pure il dialogo con alcuni autori che a prima vista sembrano irriconducibili al gusto crociano (un nome su tutti: Walter Benjamin che, opportunamente svecchiato da fuorvianti e ormai inattuali clausure politiche e teologiche, può essere uno dei principali interlocutori di Croce su questioni di teoria storica). Soltanto osando questo genere di postume conversazioni si può ancora lasciar cantare, con voce propria, quell’ode allo “spirito della modernità” che è del pensiero crociano e del suo maggior poeta e “terapeuta”, Johann Wolfgang Goethe.
2. Il paradiso dei moderni
Nell’estate del 1831 Goethe mette i sigilli al Faust, lavoro che lo aveva accompagnato per circa sessanta dei suoi ottantatré anni. Lo sigilla per non aver più la tentazione di rimaneggiarlo. Invece, nel gennaio del ’32 – due mesi prima di morire – si lascia sedurre un’ultima volta, forse anche per rivedere la scena finale in cui si narra e descrive, con un’insuperata vigoria plastico-poetica, la “redenzione” di Faust. Sull’argomento sono stati versati, qualche volta a proposito, qualche volta a sproposito, fiumi di inchiostro. Come ha ricordato Richard Friedenthal, nel suo lavoro biografico certamente datato ma ancora molto attraente – tra l’altro splendidamente tradotto in italiano da una delle figlie di Croce, Elena –, la “tragedia” goethiana è stata da subito “trattata” e “maltrattata” dai filosofi. Al cospetto delle arroganti pretese di chi sa di possedere la verità ultima sui misteri goethiani, qui si fa professione di barbarica liberalità e si rivendica il valore universale del “liberamente tratto” non soltanto per gli adattamenti artistici – musicali, teatrali e cinematografici – ma anche per la rielaborazione filosofica[17. Goethe attraverso il cinema sarebbe un altro capitolo da scrivere. Per ora rinvio a due delle più notevoli letture cinematografiche: Falsche Bewegung di Wim Wenders (ed. it. Falso movimento, Germania 1975) che, con l’aiuto di Peter Handke, attualizza il Wilhelm Meister, e il complesso Faust di Alexander Sokurov (Russia 2011).]. Perché di una “lettura filosofica” del Faust si leggerà da qui in avanti. Chiudo, perciò, in anticipo la partita coi legalisti della “lettera”: a ciascuno il suo Goethe. E a ciascuno il suo Faust.
La salvazione di Faust, ovvero la sua “ascesa a” o “riconciliazione con” il paradiso, si ambienta su “burroni montani” – questo il nome dell’ultima scena, ma va notato che tutte le palingenesi faustiane avvengono in montagna, quella stessa che Goethe amava ascendere. Nella lettura della scena si rimane colpiti da molte cose, ma innanzitutto dal fatto che la redenzione si compie senza un redentore. In questo Goethe lascia che Faust rimanga, come a ragione e per più di una ragione è stato detto, l’eroe dell’età moderna: non tanto per il “titanismo”, quanto perché egli rappresenta un’idea umanistica di umanità, un’umanità cioè progrediente perché sitibonda, un’umanità che di divenir umana non ne ha mai abbastanza. Quando sigla il patto con Mefistofele, infatti, egli non chiede – come il suo omonimo dei Puppenspiele e delle farse – la crapula interminabile: chiede di sentirsi umano, di passare attraverso la gioia estatica e il dolore più feroce. Un uomo lavorato attraverso queste esperienze estreme non ha bisogno di chi lo salvi: sa salvarsi da sé. Questo il primo dato.
Il secondo serve meglio a inquadrare l’interpretazione che, sulla scia di Croce, qui si sosterrà: vale a dire la rappresentazione tutta erotico-femminile del paradiso goethiano e delle tecniche di “imparadisamento” faustiane che – essendo Faust il rappresentante moderno dell’umanità – possono essere molto più comuni di quel che si pensi. Che questo paradiso sia sfoggio estremo della carnalità goethiana e della fedeltà alla “legge della terra” è dimostrato dal fatto che la prima immagine cui ricondurlo è un harem abitato da madri indulgenti e donne di mondo, peccatrici penitenti. Ma, poiché lo spirito goethiano è, sì, in fondo, ammaliato da certe grazie orientali ma nella sostanza intriso di Occidente, allora impensabile appare non ricondurlo al paradiso del cristianesimo e alle sue rielaborazioni cattoliche. Ha goduto di larga fama l’idea che il Goethe morente abbia, sul limitare dei giorni, ripudiato il suo credo immanentistico per abbracciare il sommo mistero della trascendenza. Così come ha avuto fortuna l’idea che, dovendo rappresentare il paradiso in verso ma pur sempre attraverso figure, Goethe abbia fatto tesoro delle sue memorie pittoriche e abbia preso a modello gli affreschi del camposanto di Pisa o, come sostiene Croce, ma ignaro se Goethe conoscesse o no il dipinto, la tela di Carletto Caliari, figlio del Veronese, l’Apparizione della Vergine[18. B. Croce, La scena finale del “Faust”, in Id., Goethe, op. cit., vol. II, p. 49 (dove si trova riprodotto anche il quadro).]. Certamente la libertà della poesia a qualche ricordo plastico doveva pur appoggiarsi. Tuttavia non è sulla questione dell’antecedente che occorre attardarsi, ma sul fatto che Goethe stesso crei un antecedente: come ha scritto Mittner, il paradiso goethiano non è né medievale né barocco perché pienamente e autenticamente goethiano. E questa rivendicazione vale sia nei confronti delle rielaborazioni figurative quanto di quelle spirituali. Perché il paradiso goethiano non è nemmeno il paradiso cristiano. Questo, quantunque il cristianesimo fornisca materia concettuale e visiva di primissimo ordine, suggerendo appunto un recupero della “mistica”. Ma di una mistica sui generis, dice Croce: una “mistica erotica”. Dal momento che Goethe e il suo eroe sono figli dell’Occidente anche per un altro motivo, assieme a quello indiscutibile delle “radici cristiane”: sono figli della razionalità occidentale e del pensiero dialettico, di quel pensiero, cioè, che conosce i contrari e tende a conciliarli in sintesi sempre nuove. Moderni, infine, di una modernità estrema, barbarica (come Goethe stesso la definiva), che si esprime nel gesto arrogante, irriverente, blasfemo e quasi diabolico di mettere le mani su un rispettabilissimo patrimonio liturgico e teologico per reclamarne un legittimo possesso. Del resto, lo stesso Croce era assiduo in queste operazioni quando si appropriava delle parole della fede (“redenzione”, “breviario”, “religione”), ripetendo, nella sostanza, il gesto del libertino Casanova che reclamava davanti al tribunale il diritto di ogni uomo sulle lettere dell’alfabeto, compreso quello divino. Esempio felice di questa coraggiosa appropriazione è l’ancora attualissimo saggio sulle «scienze mondane» (estetica e politica), che aveva messo insieme l’anima e il corpo, il cielo e la terra, parlando di «redenzione della carne»[19. B. Croce, Le due scienze mondane. L’estetica e l’economica (1931), in Id., Breviario di estetica, op. cit., pp. 169-190, in part. p. 177.]. Proprio una simile “redenzione della carne”, con tutto il bagaglio di riferimenti teorici cui essa allude, è all’opera nella scena finale del Faust. Poiché Goethe questo fa: porta la carne in cielo, innanzitutto perché, per lui, al di fuori della “carne” – in senso crociano – è inconcepibile qualunque forma di imparadisamento; al tempo stesso, dialetticamente, fa scendere il paradiso nella carne. Spiritualizza il senso e sensualizza lo spirito, come scrive Croce con molta più eleganza. La “mistica erotica” di cui qui si discute interpreta questo complesso lavorio poetico e filosofico insieme.
Per dimostrarlo basta seguire le tappe dell’ascesa di Faust. Abbiamo parlato già di una redenzione senza redentore, e, aggiungiamo ora, di un paradiso al cui vertice Goethe non pone Dio ma un principio femminile. È quello che nel testo goethiano si trova indicato come Ewig-Weibliche e che in italiano ha suggerito diverse traduzioni: da “femmineo eterno” o “eterno femminino”, sino all’ultimo, più appropriato – proposto da Franco Fortini –, di “eterno elemento femminile”. L’ascesa di Faust o, meglio, di ciò che rimane di Faust, vale a dire della sua «parte immortale» (Unsterbliche), verso questo principio o elemento, è un’ascesa attraverso i gradi dell’Amore (Liebe): «amore eterno» lo chiamano i Santi anacoreti (il Pater Ecstaticus e il Pater Seraphicus, mentre quello Profundus lo definisce «amore onnipossente»). Che sia Amore la forza attiva di questo cielo localizzato sul tetto del mondo è dimostrato dalla scena, esilarante, al limite del farsesco e intrisa di omosessualità, in cui si descrive la sconfitta di Mefistofele, il fatto, cioè, che si lasci sfuggire l’“animuccia” di Faust perché irretito dalle grazie degli angeli che, scendendo dall’alto e spargendo rose e profumi, hanno appunto lo scopo di distrarlo. Quel principio è la medesima segreta legge del cosmo ma, man mano che scende verso il basso e si rivolge a figure “diaboliche”, guadagna in sensualità. Mistica, allora, significa per prima cosa trasformazione di quell’Eros pagano che le sirene salutano come principio cosmico alla fine della Classica Notte di Valpurga, in Liebe, ‘Amore’. Eros e Amore, l’amore carnale e quello spirituale, nella prospettiva goethiana, non sono forze confliggenti ma cooperanti: lo cantano gli angeli che vanno a prendere Faust («solo gli amanti / accoglie Amore», vv. 11.751-52) e lo dimostrano le celesti donne goethiane.
L’anima o entelechia di Faust giunge al cospetto della Mater Gloriosa dopo essere passata accanto a figure maschili o asessuate: i tre Anacoreti; i “fanciulli” – i bimbi nati morti – che ricordano, però, anche i “figli” di Faust: quello reale, ucciso dalla Gretchen abbandonata, quello creato in provetta da Wagner, Homunculus, e infine quello “ideale”, Euforione, concepito con Elena; ma “bimbo” in fondo è tornato a essere lo stesso Faust in questa sua ultima estrema rinascita (Puppenstand è chiamato al v. 11.982, ossia ‘crisalide’; ma il richiamo a Puppe fa pensare a quelle marionette che da bambino avevano introdotto Goethe al personaggio Faust): non va trascurato che in una delle scene iniziali della tragedia Faust è dissuaso dal suicidio perché sente il suono delle campane e voci angeliche che lo riportano nostalgicamente all’infanzia come autentico “tempo della preghiera”: come allora la preghiera, “gioia che infiamma”, gli restituisce la certezza di “riappartenere alla terra” , e quindi alla vita[20. J. W. Goethe, Faust, vv. 763-784. Per le traduzioni italiane ho fatto riferimento a quella di Franco Fortini (Milano, Mondadori, 1987) e a quella di Guido Manacorda (Milano, BUR, 2013) – seppur questa versione sia stata duramente criticata da Croce: sull’aspra polemica che ebbe con Manacorda rimando a P. D’Angelo, Croce e Goethe, cit., in part. le pp. 191-193.].
Passa in ultimo l’anima davanti agli angeli androgini che avevano sedotto Mefistofele: sono infatti costoro che recano la “parte immortale” di Faust dinanzi alla “Grande Madre”, «madre, vergine, regina», com’è chiamata nell’invocazione del Doctor Marianus – ultima figura maschile del paradiso goethiano e interamente consacrato a Maria. Poiché, tuttavia, il “resto immortale” di Faust non è ancora completamente purificato, notano “i più perfetti angeli”, allora ecco che fa ingresso sulle tavole di questo paradiso teatrale la meravigliosa triade delle peccatrici penitenti che attorniano la “Madonna” goethiana. Comincia qui la grande sinfonia goethiana del femminile.
Le tre grandi peccatrici sono: la Magna peccatrix del Vangelo di Luca (VII, 36), poi identificata con la Maddalena, colei che in qualche modo “seduce” Gesù, ottenendone il perdono, per la sua ars amandi fatta di balsami, profumi, lavande, capelli, ma anche lacrime, tenerezza e devozione. La Mulier Samaritana del Vangelo di Giovanni (IV, 1-26), compagna di molti uomini e moglie di nessun legittimo marito, che disseta Gesù al pozzo di Giacobbe: rivolgendole la parola, fermandosi a parlare con lei in pubblico e promettendole “acqua viva”, Gesù scandalizza la morale dominante. Infine Maria Aegyptiaca, che negli Acta Sanctorum dei Bollandisti (I, 69), sotto la data del 2 aprile, è ricordata come una prostituta che, volendo un giorno entrare nella Chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, fu violentemente respinta da un mano invisibile; fuggì, allora, nel deserto e vi rimase penitente quarantotto anni; al momento della morte scrisse il proprio nome sulla sabbia, raccomandandolo nelle pregherie al monaco Zosimo[21. Per più precisi riferimenti rimando al commento di Manacorda all’edizione già citata del Faust da lui tradotto, p. 1056.].
«È noto il detto che i grandi peccatori fanno grandi i santi», è il caso di convenire con Croce[22. B. Croce, Hegel e l’origine della dialettica, cit., p. 55. Val la pena di ricordare, a questo proposito, anche il saggio Un episodio dei Vangeli. Gesù e l’adultera (San Giov., VII, 3-11), in Id., Poesia antica e moderna. Interpretazioni, Bari, Laterza, 1966, pp. 118-123.]. Le tre somme penitenti sono tre donne, dunque, o tre funzioni del femminile – curare, nutrire, attendere – a loro modo esperte nell’arte di saper amare un uomo e non ancora dimentiche, pur nella condizione di beatitudine, «della loro esperienza e sapienza di come si faccia girare la testa agli uomini, turbando i loro sensi»[23. B. Croce, La scena finale del “Faust”, cit., p. 44.]. La grandezza del loro perdono, riconosce Gesù nel Vangelo di Luca, è nell’aver molto amato. Tutte e tre intercedono presso la Mater Gloriosa, indulgente perché Madre dello stesso uomo che le penitenti hanno amato, perché accolga la preghiera di “una di loro”, Una Poenitentium, un’altra peccatrice-penitente, un tempo chiamata Gretchen. Finalmente l’attesa si è compiuta: la fanciulla che conosceva l’uomo appena giunto fin dai tempi dell’Urfaust (1775) e del primo Faust (1808), dove gli aveva dato quello struggente ultimo appuntamento («Noi due ci rivedremo, ma non al ballo»), finalmente vede «qui venire» quell’«un giorno amato / ed or purificato» (12.073-74), mondo anche dal “peccato” di averla sedotta e abbandonata a un destino di morte, sicuramente da lei già perdonato. La figura della piccola tenera Gretchen è uno dei capolavori goethiani e a nulla valgono le rimostranze dell’impetuoso Carducci, che la trovava senza carattere poetico, una noiosa fanciulla che va con il primo venuto, si fa mettere incinta, uccide il bambino e va in paradiso: in lei confluivano, invece, tutte le riflessioni goethiane sull’essenza della femminilità, i suoi tentativi di espiazione da colpe proprie e altrui, dal momento che nella “sua” Gretchen Goethe emenda le condannate da una morale rigorista e legalista. È noto che Goethe, molto giovane, assisté alla decapitazione di una giovane accusata di infanticidio a seguito di una relazione illegittima. Ma quanto egli stesse dalla parte della comprensione e non della condanna, e quanto “luciferino” fosse invece il rigorismo morale, è dimostrato proprio dalla scena finale del primo Faust, quando Mefistofele – che qui rappresenta proprio la morale bigotta – esclama «è condannata» e una voce proveniente dall’alto lo corregge: «è salva». Salva era già dunque Gretchen in paradiso prima dell’arrivo di Faust, ma probabilmente non era stata ancora completamente perdonata perché anche la sua “parte immortale” non si era ancora del tutto purificata dalla terrestrità, dal ricordo, dal desiderio, dall’attrazione per l’uomo amato. Per questo, una volta arrivato Faust in cielo, lei si precipita ai piedi delle penitenti e chiede loro di intercedere presso la Madre: prega perché sia lei stessa a istruire e guidare l’anima del suo uomo in questa «nuova vita», perché i suoi occhi non siano troppo abbagliati dal «nuovo giorno». E la Madre, compassionevole e misericordiosa come il Figlio che concesse il perdono alla “grande peccatrice”, mettendo a tacere i moralisti – ella ha molto peccato perché ha molto amato –, ma anche, dice Croce, grande «esperta nelle cose di amore»[24. Ivi, p. 47.], glielo concede: se ti intravede, le dice, che ti segua per sempre in queste sfere celesti.
Ottenuto il perdono, il Doctor Marianus chiama a raccolta tutte le «dolci penitenti» e il Coro Mistico (Chorus mysticus) intona la sua lode all’Ewig-Weibliche:
Ogni cosa che passa / è solo una figura. / Quello che è inattingibile / qui diviene evidenza. / Quello che è indicibile / qui si è adempiuto. / L’eterno Elemento Femminile / ci trae verso l’alto. (vv. 12.104-111, trad. di Fortini).
Il principale problema filosofico di Goethe è: come un uomo moderno può ottenere il paradiso? Le strade della mistica non appagano più, ma neppure l’eros idealizzato, quello per intenderci del Paradiso dantesco. Si è fatto un bel discutere sul confronto tra il Faust e la Divina Commedia: di sicuro le due opere condividono l’“epocalità”, il fatto cioè di incarnare, attraverso i loro rappresentanti, Faust e il Dante personaggio, lo spirito del loro tempo o, meglio, come scrive János Kelemen, «individui universali». Riconoscimento che, malgrado le pesanti riserve di cui innanzi leggeremo riguardo alle tecniche di “imparadisamento”, troviamo implicitamente riconosciuto anche in Croce:
In Faust si rispecchia in modo prossimo la crisi del pensiero moderno, dopo che, disfattosi delle tradizionali credenze religiose, cominciava ad avvertire il vuoto della scienza intellettualistica, che aveva preso il luogo di quelle: e si rispecchia insieme un momento eterno dello spirito umano, il momento in cui il pensiero critica sé stesso e viene vincendo le proprie astrattezze[25. B. Croce, La prima parte del primo “Faust”, in Id., Goethe, op. cit., vol. I, pp. 34-35. Per un confronto tra il Faust e la Commedia rinvio a M. Verdicchio, Faust and Dante: knowledge and allegory, in «Neohelicon», 39, 1 (2012), pp. 31-38, ma soprattutto al saggio del già citato Kelemen che ricostruisce pure i tratti più salienti delle letture filosofiche del Faust: J. Kelemen, „Mein eigen selbst su ihrem selbst erweitern” (Dante e Averroe, Goethe e Hegel): ivi, pp. 1-13.].
Faust è eroe moderno perché incarna il dramma dello spirito moderno, così ben descritto da Croce – l’inquietudine che nasce dal disincanto mitico-religioso del mondo, ma pure dall’inappagabilità della nuova scienza baconiana, anti-idolistica, che sostituisce la magia. Ma Goethe non è più Dante: certamente l’anelito «di salvazione e d’imparadisamento» è il medesimo, ma quello goethiano è il paradiso dell’uomo moderno nel quale trova posto anche una nuova funzione del femminile. Il verbo “imparadisarsi”, che Croce utilizza nel suo commento nella forma sostantivata “imparadisamento” e che ha offerto il titolo a questo lavoro, è tolto, com’è noto, da Dante, che lo rivolge a Beatrice come a colei che «’mparadisa la mia mente» (Paradiso XXVIII, 3). Ma la torsione “riflessiva” che subisce non è casuale: se in Dante è la donna a “imparadisare”, in Goethe l’uomo faustiano è colui che “si imparadisa da sé” o, come le peccatrici da lui evocate, conosce tutte le tecniche per farlo. Significativo – scrive ancora Croce – che i bambini nati morti, che vedono passarsi davanti Faust, riconoscano in lui chi «ha imparato» e «c’istruirà». Istruire in cosa?, chiede Croce con apparente ironia e profonda serietà: «Forse a fare all’amore, e la casistica e gli aneddoti del modo vario in cui gli uomini fanno all’amore?»[26. B. Croce, La scena finale del “Faust”, cit., p. 51.]. La “soluzione” goethiana al problema filosofico dell’opera ultima – ottenere il paradiso, pur mantenendosi integri nella fedeltà alla terra – non è più insomma quella dantesca perché in Dante c’è «un farsi divino dell’umanamente amato, Beatrice (…); in Goethe, un farsi umano del divino e del sacro»[27. Ivi, pp. 36 e 50. Su questo canto dantesco si veda anche il saggio crociano Dante. L’ultimo canto della “Commedia”, in Id., Poesia antica e moderna, cit., pp. 153-163.].
Che il pur mistico paradiso goethiano sia intriso di eros dovrebbe ormai esser cosa evidente, per due ragioni: perché si conquista attraverso un’ascensione attraverso i gradi dell’amore, compreso il non trascurabile passaggio per le “dodici categorie dell’eros”. In secondo luogo, e certo non secondariamente, il mistico-erotico paradiso goethiano è abitato da peccatrici, cioè da donne che il mondo lo hanno conosciuto, e bene, e che non lo dimenticano, esattamente come Faust/Goethe non dimentica la terra nemmeno in cielo. Le penitenti sono figure di grazia soave ma rimangono, pur nella loro componente mistica, estremante terrigene: sono coloro in cui l’Amore eterno meglio si incarna perché esse quel medesimo amore lo hanno conosciuto da sempre. La donna cooperatrice all’opera di redenzione non è più l’angelica signora di marca stilnovistica e pure romantica e neoromantica: è donna in carne e ossa, preferibilmente adultera agli occhi del mondo. Le madonne peccatrici penitenti sono l’ultima parola sul femminile del vecchio Goethe: lui, che aveva conosciuto la variante romantica, la variante classica e infine quella orientale (a questi prototipi corrispondono le donne di Faust, Gretchen e Elena) non aveva da cimentarsi che con la “mistica”, ma semplicemente perché – ricorda Croce l’opinione goethiana – «in vecchiaia si diventa mistici»[28. B. Croce, La scena finale del “Faust”, cit., p. 41.], per forza di cose. Le “madonne” disegnate da Goethe aggiungono appunto una componente mistica all’irriducibile elemento terrigeno.
Un’ultima annotazione finale sul verso di chiusura e in particolare sulle capacità di “elevamento” dell’Elemento femminile. Si sbaglia a voler leggere nell’Ewig-Weibliche la sembianza di un’unica donna: esso è piuttosto l’insieme e la rarefazione originaria di tutte le donne. Se il giovane Goethe si vantava di amare «les filles toutes ensemble», nel Faust sarà Mefistofele a vantarsi di “prendere le belle tutte insieme”, lui che disprezza e deride quell’elemento d’amore (Liebeselement, v. 11.784) nelle cui trame rimarrà alla fine adescato come un ingenuo ragazzo alla prima esperienza erotica. L’Eterno Elemento Femminile è in fondo un Originario Elemento Femminile, Ur-Weibliche, non foss’altro perché quel cercatore di originario che era stato il Goethe scienziato e naturalista non poteva non produrre risultati diversi in ambito erotico-poetico. La lingua tedesca aveva messo in mano a Goethe questo magnifico prefisso dell’originario (Ur-) e Goethe ne aveva fiutato le tracce ovunque: si era messo alla ricerca della “pietra originaria”, della “pianta originaria”, dell’“osso originario”, del “fenomeno originario”, e sicuramente, nella sua lunga e complicata vicenda erotica, si era messo a cercare pure la “donna originaria” (Ur-Weib). Ma di questo parlerò nel prossimo paragrafo. Per ora occorre notare questo: la scena finale del Faust può essere considerata una riscrittura del Genesi. Dal momento che è in poesia, e non nella scienza, che si può fare a pugni con Dio, Goethe gareggia con lui fino a compiere il sacrilegio supremo: sostituisce la sua figura di Padre con quella della “grande Madre” («“ricreare il creato”, affinché non si ristagni è l’eternamente attiva funzione del vivere»[29. R. Friedenthal, Goethe, ed. it. cit., p. 454.]). A differenza di quelle “Madri” che abbiamo già incontrato e alle quali Goethe sottrae la funzione creativa, l’Elemento femminile non può non essere pure principio di generazione. In questo principio che, nel dramma finale di Faust, è un ritorno all’inizio, quasi l’inabissarsi nel mistero femminile, i contrari sembrano finalmente conciliarsi o semplicemente godere del diritto di essere posti l’uno accanto all’altro, senza confliggere: il caduco si fa eterno, l’indigente trova appagamento, l’inesprimibile reale. L’Ewig-Weibliche viene presentato da Goethe in veste “logica”, appunto come quel Logos che a Faust (e a Goethe?) piaceva pensare come “azione” (Tat), ma che è anche “ciò che raccoglie”, quanto “tiene insieme” e “custodisce”. Il mistero goethiano del femminile ha dunque un cuore tutto logico. Dal momento, tuttavia, che questa logica è comunque femminile, come essa agisce? «Zieht uns hinan», scrive Goethe, ‘ci trae in alto’, o – come suggerisce Mittner, per meglio specificare la forza attrattiva di questo “elevamento” che è spirituale in senso carnale, non celeste – ‘ci trae vicino’, ‘ci avvicina a sé’. Una traduzione che non sarebbe dispiaciuta a Croce che, nel chiudere il commento all’ultima scena del Faust, si era ricordato del frammento, da lui tradotto nella sua monografia, intitolato Ewige Jude (Ebreo errante) e dove Goethe immagina la ridiscesa del Redentore sulla terra.
Gesù, nello scendere una seconda volta verso la terra, sente “l’attrattiva dell’atmosfera terrestre”, calda e suadente, quale si prova (diceva il Goethe) “verso una fanciulla che a lungo ci succhiò il sangue e finalmente, infedele, c’ingannò” e al cui richiamo pur “si vola”.
Si direbbe che una non dissimile attrattiva, fortemente sensibile ed erotica, “ziehe hinan”, tiri in alto, Faust[30. Ivi, p. 52.].
Mentre attendeva alla composizione di questo frammento, una notte, come un invasato, Goethe – son memorie sue – balzò giù dal letto e cominciò a graffiare la carta in ogni direzione con la matita perché la penna era riottosa: ma se non avesse avuto nemmeno quella, si sarebbe messo a scrivere con un manico di scopa. Sarebbe a dir poco ingenuo, per non dire presuntuoso, pensare che il furore che lo ha scaraventato fuori dal letto rispondesse al nome di un povero ebreo errante.
3. Una natura erotica
Ne ha avute molte e non gli bastavano mai. «Ragazze, ragazze, persino alla vostra età», gli avrebbe detto il Duca Karl August, quando gli fu chiesto di recapitare alla famiglia Levetzow l’ultima proposta di matrimonio di Goethe, alla soglia degli ottant’anni. Il capitolo “Goethe e le donne” è estremamente affascinante, in prospettiva sia biografica sia poetica. Ma non è il dongiovannismo di Goethe che qui interessa quanto la sua “natura erotica”, che è una natura profondamente generosa e intensa – come ricorda il nome Hatem che il poeta-sultano sceglie per duettare con la sua Suleika nel Divano orientale-occidentale, e che significa ‘colui che dà ogni cosa’ e ‘che vive più pienamente’[31. Cfr. R. Friedenthal, Goethe, ed. it. cit., p. 435.]. Una natura siffatta, “serpentina”, perché oltremodo bisognosa di cambiamenti e rinnovamenti, di “cambiar pelle”, può pure divenire crudele, ma soltanto perché un incremento di munificenza e intensità la porta a solcare nuove strade. E spesso ogni nuova strada corrisponde a un nuovo amore e a una nuova donna.
«Il vous fait de la séduction», gli diceva Madame de Staël, ed era vero: Goethe aveva bisogno di seduzione ma della doppia polarità della seduzione, attiva e passiva, maschile e femminile, e quindi di sedurre ed essere sedotto. E, come ricorda Mittner nei suoi studi goethiani, questo «bisogno frenetico e totalitario» era al tempo stesso affettivo, culturale, sociale e cosmico, e non era mai disgiunto quindi da un complesso processo di “formazione” (Bildung, come ben dice la parola tedesca)[32. Cfr. L. Mitter, Il favorito degli dèi (1950), in La letteratura tedesca del Novecento. Con tre saggi su Goethe, Torino, Einaudi, 1975, pp. 13-43, e Storia della letteratura tedesca. II Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), t. II, cit., pp. 321-325.]. Egli, quindi, si rivolgeva alle donne non soltanto per ricavarne “occasione” di creazione lirica, ma letteralmente per farsi da loro educare, dal momento che – è questo il dato più significativo – egli riconosceva alla donna una superiorità spirituale: un messaggio di umanità destinato a vincere sulla “barbarie” maschile. Questa consapevolezza lo conduce spesso a rendere femminili alcuni personaggi maschili, a immedesimarsi in alcune sue figure femminili (su tutte la Pandora, 1808, “colei che possiede e dispensa tutti i doni”) o a fare la parte della “femmina” in alcune relazioni, sia con donne sia con alcune amicizie maschili (con Schiller, ad esempio); infine, a desiderare di essere Alcibiade con Socrate («Vorrei essere Alcibiade almeno per un giorno e una notte, e poi morire!», scrive a Herder nel 1772), di lanciarsi tra le braccia di Shakespeare («Shakespeare, amico mio, se tu fossi ancora in mezzo a noi, non potrei vivere che con te!», e, intanto, nel duetto con l’Amleto, scrive l’Urfaust del 1775) o di gareggiare e lasciarsi sottomettere, in piena età senile, dal carnale poeta persiano Hafiz[33. Per le citazioni: ivi, p. 346.]. Se Goethe “si traveste” da donna o arriva al punto di voler essere donna nel ricongiungersi al principio di ogni principio, come nella scena finale del Faust, è perché sa che soltanto una donna può educarlo e guidarlo.
Proprio nell’ultimo dramma Goethe arriva al camuffamento supremo: femminilizza la stessa Natura, ovvero porta a compimento poetico l’intuizione, già di lunga data e profondamente radicata nei suoi studi naturalistici, dell’essenza femminile della stessa natura, come ci ricordano i versi pronunciati da Faust dinanzi alla Cura (vv. 11.402-407): il sommo “mistero” in cui si può penetrare soltanto se si sta dinanzi a essa come nudo uomo (Mann) dinanzi alla propria donna, senza più sortilegi, senza più incantesimi e incantamenti reciproci; allora varrebbe, sì, la pena di essere umano (Mensch). La Natura è femmina, “grande Madre”, ma non come vogliono la scienza baconiana, polo passivo e reattivo, o le scienze psico-etno-antropologiche, fucina di istinti e selvaggi archetipi primordiali, quanto principio attivo di generazione, e quindi Logos a tutto tondo, come mormora nel suo studio Faust un attimo prima di cedere al diavolo: parola e azione, parte e tutto, ancora una volta polarità di maschile e femminile. Una volta intuito il profondo mistero cosmico della Natura, non resta che immergersi in essa e da essa lasciarsi trasformare fino alla palingenesi definitiva: diventar natura è, per Goethe, diventar femmina. Nell’ultima teatrale metamorfosi, sua e del suo eroe, questo significa immergersi estaticamente nel “femminino originario”. Il poeta, ma anche lo scienziato spinozista e anti-newtoniano, «assorbe le forze della natura e proietta nella natura le forze proprie; è un reciproco animarsi e fecondarsi, un amplesso tanto intimo che il dare e il prendere non si distinguono più: umfangend umfangen (‘abbracciando abbracciato’)!»[34. L. Mitter, Il favorito degli dèi, cit., p. 36. Ma sulle “nobili congiunzioni” si vedano pure i versi goethiani della poesia Selige Sehnsucht (Beato struggimento): «Non lo dite a nessuno, solo ai saggi, / perché la folla subito dileggia. / Voglio fare l’elogio di una vita / che agogna ad una morte nelle fiamme. / (…) Non puoi più rimanere avviluppato / nell’ombra della tenebra / e ti travolge un nuovo desiderio / di congiunzioni più nobili. (…) Finché non lo fai tuo, / questo “muori e diventa”, / non sei che uno straniero ottenebrato / sopra la terra scura»: in West-Östlicher Divan (1819), ed. it. a cura di L. Koch e I. Porena, Divano orientale-occidentale, Milano, BUR, 2008, pp. 94-97.]. Al femminile, questa volta come materno, va ricondotto anche il simbolo dell’acqua delle poesie goethiane (ad es., nel Gesang der Geister über den Wassern (Canto degli spiriti sopra le acque), 1779), nonché la grande contesa filosofica tra vulcanesimo e nettunismo del secondo Faust (1831) e che si risolve sempre a favore delle acque e nello specifico del mare, simbolo del femminile, creativo, contro quello vulcanico, distruttivo, del fuoco maschile.
L’inossidabile “femminilità” di Goethe corrisponde al bisogno di soddisfare la sua indole trasformista e mimetica: non a caso, accanto alle figure poetiche con cui egli si presenta (il viandante, il titano, l’olimpico), c’è anche quella, assolutamente non trascurabile, “da martedì grasso”: si ricordino, per inciso, quella “carnevalata” che è in fondo il sabba Notte di Valpurga del primo Faust (1808) (e che non è soltanto un anacronistico residuo di “arcaismo” sturmeriano nel Goethe già classico, come ha scritto Croce[35. Cfr. B. Croce, La prima parte del primo “Faust”, in Id., Goethe, cit., vol. I, pp. 38 e 40.]); la descrizione del carnevale romano nel Viaggio in Italia (1816); infine, il fatto che egli soprintendesse al teatro di Weimar e amasse travestirsi spesso: talvolta collaborava pure al confezionamento dei costumi, da “nipote di sarto” per parte paterna, quale in fondo egli era, attitudine che ben si sposava con la sua componente femminile. Un Goethe carnevalesco e popolare, accanto all’olimpico, saggio e equilibrato, che non disdegna il ricorso al linguaggio da farsa pur quando sta scrivendo di più aulica poesia, e che nei sogni coltivati e rimasti tali nel suo “sacco di Valpurga” aveva pure un’opera composta di sole oscenità[36. Cfr. Th. Mann, Sul “Faust” di Goethe (1939), in Id., Nobiltà dello spirito e altri saggi, Milano, Mondadori, 2015, pp. 259-311.]. Un temperamento complesso, dunque, che ha bisogno di prendere da ogni parte, dal basso e dall’alto, dal maschile e dal femminile, dal cielo e dalla terra. Una natura “classica”, in cui i contrari si bilanciano non per imposizione esterna ma per un’innata grazia, per creare quell’equilibrio perfetto, eppur al tempo stesso sempre irrequieto e incerto, che è lo “stile classico” secondo la definizione di Henri Focillon: una bilancia in equilibrio, scossa appena da un fremito, un respiro che fa sentire che essa è pur sempre cosa viva, anche sotto apparenti e pesanti coltri funerarie.
Non certo ultima testimonianza della “femminilità” di Goethe è il suo “sherazadismo”, l’attitudine al favoleggiare che aveva appreso da un’altra donna, questa volta la madre, Frau Aja, e che ben esprime il bisogno goethiano di “storie”, nel duplice senso di raccontare storie per mantenersi vivo e sedurre il suo “signore” di turno – come fa Sherazad – ma anche “storie” di vita, che soddisfino il suo ideale di “poesia d’occasione”: la poesia – dice Goethe – è sempre “d’occasione”, nasce cioè da stimoli, circostanze ed esperienze concrete, come quando, ancora ragazzo e esaltato folleggiatore, racconta di scrivere su “commissione della sua ragazza”[37. Impregnato di sheradazismo goethiano è tutto il Divan: cfr. K. Mommsen, Goethe und die 1001 Nacht, Bonn, Bernstein Verlag, 2006.]. Il dato è rilevante perché, su quello che in apparenza sembra un semplice richiamo poetico, Croce costruirà il ben più solido costrutto gnoseologico dell’“interesse” o “bisogno pratico” che produce la nascita di una storiografia viva ed etica, dimostrando dunque di prendere molto sul serio il suo “invasato” poeta. Avere, trovare l’occasione significa pressappoco individuare un proprio centro di gravità e ruotarvi intorno: non a caso allora, quando Croce in Teoria e storia della storiografia del 1915-1917, dovrà descrivere il rapporto che lega lo storico o lo scienziato in genere al suo oggetto di studio, lo paragona al trasporto erotico, a quel misto di estasi e disperazione con cui si pensa alla persona amata, magari persa per sempre eppure bisognosa di vivere ancora nella cura e nel ricordo dell’amante.
La natura erotica goethiana senza dubbio subisce un ampliamento o perviene a una nuova consapevolezza a seguito del viaggio in Italia, da dove l’uomo era tornato più “sensuale”, come gli rimproverava la signora von Stein, il più duraturo e complesso degli amori goethiani. Ma questa sensualità, divenuta plastica e consapevolmente classica e pagana, era traboccante e non solo il maschio, ma anche il poeta era diventato più sensuale: sensualizzava qualunque cosa o esperienza su cui il suo occhio e la sua mano cadessero. Ingenuo credere che Goethe abbia perso la verginità a Roma, il palindromo perfetto, come suggerisce la prima Elegia romana («Un mondo, per certo, sei tu, Roma; ma senza l’amore / il mondo non più il mondo, Roma non sarebbe più Roma»[38. J. W. Goethe, Tutte le poesie, ed. it. diretta da R. Fertonani con la collaborazione di E. Ganni, vol. I, t. I, Milano, Mondadori, 1989, pp. 300-301.]). Solo in senso simbolico questo è vero: egli ha perso a Roma la sua verginità nei confronti della sensualità della poesia, della celebrazione dell’«eros senza veli, il lieto, ritmico cigolare del letto»[39. R. Friedenthal, Goethe, ed. it. cit., p. 272.], che finalmente prendeva gioiosamente e spontaneamente corpo in verso. La Quinta delle Elegie romane – scritte comunque quando Goethe era rientrato a Weimar, nel 1795 – ripete sulla schiena della donna il ritmo dei versi, i quali alludono alla combinata azione dei sensi («vedo con occhio che sente, sento con mano che vede»[40. J. W. Goethe, Tutte le poesie, cit., vol. I, t. I, pp. 308-309.]), ed è l’esplicitazione di un equilibrio finalmente raggiunto tra il corpo e lo spirito. Egli finalmente ˗ come scriverà Croce nel saggio sulle due “scienze mondane” – può sensualizzare lo spirito e spiritualizzare il senso perché ha “redento la carne”: e per questo si fa classico nella sua barbarica modernità. La scoperta dell’amore puramente sensuale, che corrisponde all’esperienza italiana, è – come scrive Mittner – «gioia dei sensi, gioia pura, cioè soltanto gioia; ma pura anche nel senso morale della parola, perché priva di ogni sentimento del peccato»[41. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. II Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), t. II, cit., p. 502.]. E attorno alla scoperta della “sensualità” in senso extramorale, cioè al di là del bene e del male, dell’evangelica terrestrità dell’omnia munda mundis, e dell’assenso al “senso” come assenso alla vita, Goethe struttura la propria guarigione dalla “malattia romantica”: lo ha correttamente notato Pierre Hadot nella sua proposta di “attualizzazione” degli “esercizi spirituali” goethiani costruiti intorno alla massima dei Wilhelm Meisters Lehrjahre “ricordati di vivere”[42. Cfr. P. Hadot, N’oublie pas de vivre. Goethe et la tradition des exercices spirituels (2008), tr. it. cit.].
Tuttavia, non è negli amori pagani e carnali che Goethe dà il meglio del nesso apparentemente contraddittorio di eros e pedagogia, quanto nella lunga relazione che lo legò alla signora von Stein, la più grande – forse – educatrice goethiana, donna che più concretamente di altre ha saputo stabilire la conciliazione tra la donna reale e quella ideale. Funzione che un Goethe estremamente femminilizzato le riconosce, come quando, ad esempio, nelle poesie An den Mond (Alla luna, 1776-1778), la maschilinizza in “amico”, e in Warum gabst du uns die Tiefen Blicke (Perché ci desti sguardi profondi, 1776), dove, per radicare la profondità del loro amore nel destino che li ha voluti uniti, la chiama già “sorella” e già “sposa” in un tempo anteriore alla nascita[43. J. W. Goethe, Tutte le poesie, cit., vol. I, t. I, pp. 120-123, e vol. II, t. I, Milano, Mondadori, 1994, pp. 334-37.]. E non stiamo parlando di componimenti occasionali ma di due capolavori della letteratura tedesca e mondiale. Il ruolo “pedagogico” fu riconosciuto alla Stein anche dopo la fine dell’amore e dell’amicizia, quando cioè, tornato dall’Italia, il poeta modellò su di lei l’Ifigenia in Tauride (1787, ma già iniziato negli anni pre-italiani). Il dramma rappresenta lo scontro tra la civiltà umanistica e la barbarie, nel quale le ragioni dell’umanesimo sono incarnate da Ifigenia contro il barbaro Toante, e a sua volta la giovane “sacerdotessa dell’umano” ha le sembianze della “grande plasmatrice” Charlotte von Stein: come dopo la scoperta della civiltà non si potrà mai più tornare a essere completamente barbari, così dopo di lei Goethe non potrà più essere “barbaro”. Seguo, anche su questo punto, l’illuminante lettura di Mittner:
Il trionfo dell’umanità sulla barbarie è dunque in definitiva il trionfo della donna sull’uomo (…). Goethe, come Ifigenia stessa, vede nel patriarcato soltanto la barbarie di un’età già superata. (…) Goethe fa invece trionfare un principio che, se non è proprio quello del matriarcato, è specificamente femminile, perché s’incarna in una donna, nell’“anima bella”[44. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. II Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), t. II, cit., p. 508.].
Ma la Stein non è soltanto Ifigenia. Continua a dar lezione di umanità anche quando nei Lehrjahre (Gli anni di noviziato o apprendistato, ovvero, alla lettera, dell’“imparare”) e nei Wanderjahre (Gli anni di vagabondaggio), rispettivamente del 1795-96 e del 1829 (la Signora era morta nel ’27), veste i panni di Nathalie, la “purificatrice”, colei che, con Wilhelm, si fa “rinunciataria”: I rinunzianti (Die Entsagenden), è il sottotitolo dei Wanderjahre. Rinuncia alla passione e alla felicità amorosa, in nome di un più alto ideale umanitario (le deleterie conseguenze di una passione non rinunciataria si leggeranno tutte nella relazione tra Eduard e Ottilie delle Wahlverwandtschaften (Affinità elettive) 1809). La donna più amata, la più completa, è quella cui si rinuncia. La lunga liaison che legò Goethe, nel primo decennio weimeriano, alla “signora di pietra” già nel nome, animo diametralmente opposto al poeta eppure a lui complementare, rimane per più di un motivo il caso decisamente più interessante degli amori goethiani. Perché, se lei era algida, al limite dell’anaffettività, lui era indomabilmente passionale, travolgente e impulsivo. Proprio per questa loro complementarietà essi seppero intessere una complicità spirituale che, anche dopo la fine di qualunque forma di sodalizio, continuò a ispirare produttivamente, seppur nostalgicamente, Goethe.
Con questo non si vuol sostenere che senza la Stein Goethe non sarebbe stato Goethe, colui che dicendo il suo nome voleva dire tutto se stesso. Lo sarebbe stato perché già lo era. Del resto, poi, i processi di nutrizione spirituale durano fintantoché il nutrito, l’educando, si trova in una condizione di inappetenza. Ma, quando la sazietà giunge, la cura può dirsi ultimata o il palato affinato ha bisogno di sperimentare nuovi sapori. È vero quindi che, quando Goethe giunge a Weimar col successo del Werther già in tasca, è ohne Bildung: una natura erotica, sì, ma ancora allo stato brado, eppur già bisognoso di una “formazione” spirituale che lo allontani dai fumi della selvaggia Romantik. Poche anime come la sua e quella della Stein seppero, al tempo stesso, darsi tanto e negarsi tanto: lei gli diede l’“educazione”, lui la “passione” contro la quale ella recalcitrava o alla quale non si sentiva di aspirare. Questo è un dato registrato concordemente dai biografi, sebbene faccia sorridere l’ingenua indiscrezione con cui alcuni di loro si sono talvolta prodigati nell’indagare – poiché le testimonianze superstiti rimangono ambigue (le lettere della Stein sono andate perdute, da lei distrutte) – se tra loro ci sia mai stata “intimità”. Si sorride perché, considerato il temperamento goethiano, la durata della loro relazione, la frequenza quotidiana dei loro incontri, la tolleranza del marito di lei e della corte di Weimar, escluderlo corrisponde a un atto di fanciullesca innocenza. Il punto, del resto, non è questo. Se Goethe, una notte di settembre del 1786, parte in segreto e in incognito per l’Italia e scopre, nel corso del biennio italiano, diverse grazie sensuali che esporterà di lì a breve, non ancora sazio delle memorie romane, sul corpo del suo tedesco “piccolo erotikon”, la fioraia semi-analfabeta Christiane Vulpius – sua unica legittima moglie –, fugge certamente dalla Stein e va alla ricerca di una anti-Stein: tutti i cosiddetti amori sensuali di Goethe nascono come reazione a un tipo di femminilità che ha sempre ispirato il poeta, dalla giovanile fase sturmeriana sino a quella classicistica della maturità e, lo dicono la conclusione del Faust e l’ultima struggente passione per l’adolescente Ulrike von Levetzow, sino alla vecchiaia. L’evocazione finale dell’Ewig-Weibliche è però un atto di fedeltà a un ideale femminile che la Stein aveva forse incarnato nella sua forma archetipica. La grande plasmatrice erotico-sentimentale, l’amica anche, la sorella perfino, è stata l’“occasione” più duratura e travagliata della poesia goethiana, simbolo di un’umanità rischiaratrice, e non un mero “suppellettile da scrivania”, come le fa dire il drammaturgo Peter Hacks in un testo teatrale comunque notevole[45. Che purtroppo, però, si legge nella pessima edizione italiana P. Hacks, Conversazione in casa Stein in assenza del Signor von Goethe (1974), tr. it. di E. Gaipa, con fotografie di S. Governali e B. Mazzone, Palermo, Theatrum Mundi Edizioni, 1989.]. La Gretchen del Faust, colei che accoglie, perché già attende da lunga data, l’anima dell’amato in cielo, non è infatti Friederike Brion, o non solo. Gretchen è anche la Stein che, tra tutte, più di tutte, era stata adultera, peccatrice, madre suo malgrado di figli nati vivi (meno) e morti (i più), cioè donna a tutto tondo – una sfericità che certo piaceva a Goethe –, completa, eppur al tempo stesso irradiante il fascino intramontabile dell’incompletezza, della fragilità, di un’anima crepuscolare e intoccabile, e di un autentico infantile timore, che certo il suo amante non aveva, di sentir troppo viva la vita. Spietata e feroce, infine, come amante tradita quando dispone, tra le sue ultime volontà, che il suo feretro non sfili dinanzi alla casa al Frauenplan, dove il suo “infedele amico” aveva vissuto, prima e dopo il matrimonio, con la popolana Christiane, da lei percepita come il maggiore fallimento della sua opera di educatrice.
Ma Goethe non tradisce la Stein nella sostanza: simbolicamente le dona l’ultimo tributo post mortem quando su di lei e su donne della medesima sensibilità e femminilità costruisce l’immagine del paradiso faustiano. Non Dio infatti porrà in cima al cielo ma, spodestando definitivamente la teologia cristiana e maschile (e l’aveva fatto già in grande stile quando aveva posto la traduzione di Logos con Tat, ‘azione’), un «principio specificamente femminile»[46. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. II Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), t. II, cit., p. 542.]. L’Eterno Elemento Femminile che è, sappiamo, anche e soprattutto un Originario Elemento Femminile (Ur-Weibliche), in una sconvolgente varietà di significati: la “prima donna” o il prototipo ideale; la femmina completa, che è amante e madre; infine colei che conduce alla scoperta del più grande mistero dell’essere, quello della creazione, e che dunque è guida (come il personaggio Gretchen), educatrice (come la reale von Stein), in grado di produrre “elevamenti”. Questo miracolo si compie soltanto perché anche nell’aldilà ella continua ad “attrarre”, come dice Croce, con la stessa grazia con cui ci attrae quella “donna originaria” (Ur-Weib) che è stata ardentemente amata, che infedele alfine abbandona il suo uomo, e che eppure ancora lo fa volare a ogni piccolo cenno, a ogni suo irresistibile richiamo. È il cosmico, più nobile ricongiungimento (umfangend umfangen) di “chi” con “chi” sa di aver egoisticamente preso e generosamente dato.
4. Eros come vitale
Negli ultimi anni della sua vita Croce si impegna in una notevole opera di chiarificazione del suo pensiero e, nel contesto della genesi della sua seconda monografia hegeliana, le Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici del 1951, anche su sollecitazione di un fecondo dialogo con le filosofie dell’esistenza, torna su un tema che è ancora tra i più discussi e stimolanti dell’eredità crociana: il “vitale”[47. Per una lettura dell’idea crociana di “esistenza” rinvio a R. Viti Cavaliere, Saggi sul futuro. La storia come possibilità, Firenze, Le Lettere, 2015, pp. 41-57.]. Il nome, che si incontra negli “schiarimenti” cui a breve faremo riferimento, sostituisce quello di “utile”, che già nel primo decennio del Novecento, nel quadro dell’elaborazione della “filosofia dello spirito”, Croce aveva letteralmente rivoluzionato, strappandolo da un contesto riduttivamente materialistico e portandolo nell’alveo delle categorie spirituali. Nel corso degli anni, consapevole dell’equivoco che quel termine poteva suggerire, vale a dire un suo fraintendimento in chiave “utilitaristica”, egli aveva sottoposto il concetto a un ancora più attento approfondimento e aveva cominciato a denominarlo “vitale”. Con esso Croce intende riferirsi a quella «terribile forza», «cruda e verde, selvatica e intatta», «che genera e asservisce o divora gli individui, che è gioia e dolore, che è epopea e tragedia, che è riso ed è pianto, che fa che l’uomo ora si senta pari a un Dio, ora miserabile e vile»[48. B. Croce, Intorno alla categoria della vitalità (1949), in Id., Indagini su Hegel, cit., pp. 143-146, in part. p. 144, e Id., Hegel e l’origine della Dialettica, cit., p. 43.].
L’idea matura in un duplice confronto con la filosofia tedesca: da un lato il Kant della Fondazione metafisica dei costumi, al quale Croce, proprio in nome del vitale così definito, svela la natura antinomica dei cosiddetti “doveri verso se stessi”, dal momento che l’unico dovere che si ha verso se stessi non è la produzione di benessere o felicità quanto l’opera di elevamento dalla forza bruta di cui è impastato l’uomo e certo non per negarla, quanto superarla dialetticamente (aufheben), ovvero rielaborarla in forme spirituali superiori attraverso l’azione morale, la creazione artistica, l’operosità pensante. Non a caso le nuove riflessioni sulla “vitalità” si inscrivono in un rinnovato dialogo con Hegel e la sua dialettica. Dall’altro lato c’è infatti lui, il suo “amore e cruccio” filosofico, nei confronti del quale il vecchio Croce torna a ribadire il più alto riconoscimento – che già si leggeva nel Saggio sullo Hegel del 1907 – vale a dire la fecondissima scoperta di “logica filosofica” che ha nome di dialettica[49. B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel (1907), in Id., Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia (1913, 1927 II ed,, 1948 III ed.), a cura di A. Savorelli, con una nota al testo di C. Cesa, Napoli, Bibliopolis, 2006, pp. 9-145.]. Hegel – scrive nel ’51 – ha davvero «redento il mondo dal male», non perché lo abbia negato o misconosciuto, ma proprio perché lo ha riconosciuto come momento dialettico indispensabile alla generazione del bene, del bello, dell’utile, del vero. In questo modo egli ha apportato «un aiuto grandissimo a ridare alla vita umana la sua dignità». La dialettica, come legge del pensiero, ripete null’altro che la segreta legge della vita, che dalla sapienza popolare apprende non solo a “far di necessità virtù”, ma a rielaborare coscientemente perfino le forme più estreme e strazianti di dolore in atti di affermazione di esistenza: movimento dialettico non significa altro che «negare il male conservandolo e trasfigurandolo in bene»[50. B. Croce, Hegel e l’origine della dialettica, cit., p. 44.]. L’estremo tributo a Hegel è sorretto dall’identificazione dell’origine di ogni pensiero autenticamente dialettico – hegeliano e non solo – nella vitalità, vale a dire nell’«esperienza viva e diretta» del male come del bene, del falso come del vero, del dannoso come dell’utile, del brutto come del bello[51. Ivi, p. 57.]. In una parola, della vita nella sua interezza.
Il vitale, come forza in cui la vita sa mostrarsi più selvaggia e viva, persegue l’obiettivo di soddisfare desideri e volizioni individuali, e perciò ben ancora gli veste il nome di “utile”, “economico” o “conveniente”. Tuttavia – per tornare a Kant –, esso non può subire imprigionamenti morali dal momento che, fornendo «materia» e «cooperazione» ad altre forme spirituali, è al di là della morale: è «amorale», «immorale», come scrive acutamente Croce, “pre-morale” – aggiungiamo – perché essenzialmente attiene a quella vita che è al di là della morale anche perché viene prima; così come è anche, e per le medesime ragioni, “pre-estetico”, “pre-logico”, “pre-politico”[52. Ivi, pp. 43 e 42, e Id., Intorno alla categoria della vitalità, cit., p. 144.]. Ma non perciò estraneo allo spirito, né tanto meno liquidabile come “irrazionale”. A scansare questo genere di equivoco, che inevitabilmente si crea ogni qual volta si chiama in discussione la vita nella sua forma primigenia e irrequieta – vita umana che è già sempre, anche al grado più basso della bestialità e della barbarie, già sempre vita spirituale –, Croce era già intervenuto nel fatale 1933, con un saggio dal titolo Il cosiddetto irrazionale nella storia, confluito poi nella Storia come pensiero e come azione del 1938. Per salvare il “vitale” e lo stesso concetto di vita dalle derive vitalistiche, misticheggianti, panlogicistiche, irrazionalistiche di quei tempi, Croce ha bisogno di due premesse già stabilite nella pregressa pratica di storico e teorico della storia. La prima è quella della “positività” della storia («la storia si scrive – dice – di quel che l’uomo fa e non di quel che patisce») e che esclude ogni possibilità di successo alle “storie del negativo”, di ciò che non si è fatto o non è accaduto, ma pure delle cosiddette “dietro le quinte”, di ciò che, a livello di intenzioni, passioni, travagli e cedimenti, ha condotto a quel risultato[53. B. Croce, Il cosiddetto irrazionale nella storia, in Id., La storia come pensiero e come azione, cit., pp. 157-65, in part. p. 157. Sulla positività della storia Croce si era già espresso nel primo lavoro di gnoseologia storica, Teoria e storia della storiografia, a cura e con una nota di G. Galasso, Milano, Adelphi, 2001, pp. 91-102. ]. La seconda premessa, maturata al tempo dei suoi studi sul Seicento e poi sul Barocco, consiste nel molto parco impiego storiografico del concetto di “decadenza”, contrapposto a quello di “progresso”: quel che la storiografia registra e liquida come involuzione, regressione è piuttosto una sorta di riposo spirituale, un sonno ristoratore tra imprese già fatte e altre da compiersi. Ma riposo appunto, stato di quiete, e pur sempre vita e, con essa, operosità più o meno latente. Ogni storia, qualunque sia il criterio con cui sia svolta, risponde sempre a un unico concetto e in esso trova unità, perché tutte sono – scrive Croce – «storie della vitalità», di quella forza che non è ancora «civiltà» e «moralità» – ribadirà ancora più avanti negli anni – ma senza la quale «alla civiltà e alla moralità mancherebbe la premessa necessaria, la materia vitale da plasmare e indirizzare moralmente e civilmente»[54. B. Croce, Il cosiddetto irrazionale nella storia, cit., p. 161.]. La «forza poderosa» del vitale, in virtù dell’ufficio dialettico del pensiero, «è da educare e non già da fiaccare e da sopprimere», e questo perché innumerevoli sono i benefici che da essa si possono ricavare purché sia chiaro che la vitalità non è il contrario di razionalità: essendo già «spiritualità elementare», possiede «le sue ragioni, che la ragione morale non conosce»[55. Ivi, pp. 162, 164 e 161.].
A conforto della sua impresa volta alla spiritualizzazione del vitale Croce chiama nuovamente in causa Goethe, il suo “eroe” Faust e il suo ardente desiderio di una ledendige Natur (‘natura vivente o semplicemente viva’): tutto ciò nella conclusione del saggio del ’49 sulla vitalità, che ha una chiusa tutta goethiana. Essa infatti descrive molto bene l’irrequietezza faustiana che cresce in mezzo ai «barattoli» e alle «ampolle», «strumenti» e «ossame di morti»: immagine efficacissima che sembra anticipare visivamente la scena cinematografica di Alexander Sokurov, che apre il suo Faust (2011) con l’inquadratura del membro maschile di un cadavere sottoposto dal Dottore a vivisezione. Non più la scienza, in cui tanto si è istruito, dà appagamento a Faust, ma la vita: fosse pure distillata in quell’“attimo” che chiede a Mefistofele nell’atto di siglare con lui il patto. Goethe sostiene Croce per tutta la vita nel diffidare dei paradisi celesti o terrestri perché «preferibile (è) un ideale in cui si avvicendano momenti infernali e momenti paradisiaci, riconoscendo i primi come condizione dei secondi»[56. B. Croce, Intorno alla categoria della vitalità, cit., pp. 145-146.]. Ma di ciò si è già abbondantemente discusso.
Goethe sta dietro la riflessione filosofica sul vitale anche per un altro motivo. Il ricorso alle pascaliane “ragioni del cuore” sconosciute all’intelletto e alla coscienza morale ci porta al centro della nostra questione: all’intendimento dell’eros come forza vitale e che ha una matrice profondamente goethiana. I testi cui farò riferimento sono due: l’«Esempio» che Croce cita per esemplificare la trasformazione dialettica del vitale nel saggio su Hegel e l’origine della dialettica e il più antico “frammento di etica” del 1922 intitolato Eros e che, nel contenuto, può essere ricondotto alla successiva meditazione. Le future parole che Croce userà per designare il vitale sono perfettamente adeguate a descrivere l’eros che è tra le più possenti, sebbene non esclusive, rappresentazioni di quella forza primigenia che incatena e inebria le persone giovani e quelle mature, non ultimi i vecchi, «come dimostrano casi famosi di canuti suicidi per deserto amore», annota nei Frammenti di etica non senza aver in mente il canuto Goethe, schiantato dalla passione elementare per l’adolescente Ulrike[57. B. Croce, Eros, in Id., Etica e politica, op. cit., pp. 25-28, in part. p. 26.]. La composizione del conflitto tra sensualità e moralità è, in entrambi i testi cui stiamo facendo riferimento, il matrimonio o, come diremmo oggi, un’altra “unione civile”: qualunque sia la forma di una relazione stabile e duratura, certo è che essa, come dice la saggezza popolare, è la “tomba dell’amore” perché pone una pietra tombale sull’esperienza meramente sessuale dell’amore.
I Frammenti di etica, confluiti poi in Etica e politica del 1931, sono un piccolo prezioso breviario contro ogni moralismo, testimonianza di una riflessione etica di estrema laicità, di generosa liberalità e di profonda comprensione della fragilità della natura umana. Significativa l’epigrafe dal gusto goethiano con cui Croce scelse di introdurli, «quod nunc ratio est, impetus ante fuit», e dove già risulta chiaro che la “vita seconda” della morale nasce da quella “prima” fatta di passioni, logoramenti, cedimenti, perfino di barbarie. E Croce vuol dichiarare proprio questo quando, nel XXIV frammento “in difesa delle virtù imperfette”, schernisce i «rigoristi etici» che della vita come «svolgimento e contrasto» sanno nulla, persi come sono dietro l’«errore intellettuale» della virtù perfetta o della perfezione della virtù: non sanno, appunto, che «perfetto è solo il non vivente e morto», che soltanto l’«incompleto» – aveva scritto Goethe nell’Ifigenia – «è produttivo»: ma «noi che agli automi d’acciaio preferiamo gli uomini di carne e sangue, abbracciamo invece, venerandola, la sola virtù che sia reale e sia virtù, la virtù imperfetta»[58. B. Croce, Difesa della virtù imperfetta: ivi, pp. 88-92. Un’integrazione della teoria crociana delle “virtù imperfette” è quella proposta da Girolamo Cotroneo nel bel libro Le virtù minori, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014: virtù minori perché tengono dietro alle maggiori ma, proprio perché rimandano a scelte estremamente individuali e mai obbligate, forse meglio capaci di qualificare quotidianamente la moralità umana.].
Nel frammento sull’eros Croce se la prende, da una parte, coi moralisti, che tentano di vincere l’invincibile dualismo di passione e morale predicando e praticando un’«ascetica verginità», e dall’altra coi «ridicoli “scienziati”» che, per limitare l’ingerenza del sentimento nei fatti amorosi, riducono l’eros a mera «“questione sessuale”». La conciliazione è altra, dice Croce: è nella “civile unione” tra gli amanti, ma, perché il suo discorso non pecchi di moralismo, sia nei Frammenti sia nelle Indagini, introduce pure altre suppletive forme spirituali di composizione. Nei Frammenti annovera altri «sostituti» o «cooperatori», altri «modi di attività e di creazione» che sono appunto le attività morali, scientifiche, artistiche e politiche, «tutte dirette a opere d’amore». Non si tratta di una banale sublimazione di istinti perché non si tratta, come nel vitale, di negare la dirompente energia fecondatrice dell’eros quanto di impiegarla per una buona causa e nella giusta direzione. Si tratta appunto di lavorare dialetticamente quella polarità di forze agenti nell’eros – attiva e passiva, positiva e negativa, maschile e femminile – e che, se lasciate a se stesse, finiscono per distruggere e annientare là dove vorrebbero invece creare. Nel saggio sull’Origine della dialettica, invece, il troppo idilliaco superamento dialettico dei contrasti tra eros e amore coniugale è mitigato dal richiamo finale allo scritto contenuto nello stesso volume e dedicato al grande simbolo del “peccato originale”: questo, assieme alle altre efficacissime metafore del “diavolo” e dell’“anticristo”, non viene tra noi perché è sempre già in noi, nella nostra irredimibile natura di “peccatori”[59. Cfr. B. Croce, L’anticristo che è in noi (1946), in Id., Filosofia e storiografia, cit., pp. 292-298, e la traduzione e curatela crociana dell’Apologia del diavolo di J. B. Erhard (si veda l’edizione a cura di V. Gessa Kurotschka e R. Viti Cavaliere, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001): in entrambi i testi le crociane “simpatie per il diavolo” sono rivolte al goethiano “spirito che sempre nega” e che pur, a suo modo, opera il bene, non foss’altro per mantener in vita «gli stessi mezzi del suo fanatismo di distruzione».]. L’uomo e la donna sono per definizione esseri impuri, sempre a metà strada tra il cielo e la terra, l’angelico e il demoniaco, il bestiale e il morale:
ciascuno di noi sente il selvaggio che è in lui (e che forse sarebbe far torto agli animali se si chiamasse l’“animale”): lo sente fremere e ruggire (…), lo distrae in cose che gli paiono innocenti e secondarie e lo lascia così sfogare l’émpito suo. Quando altro manchi, c’è la regione dei sogni, nella quale senza attualmente peccare si accarezzano desiderî che nessuno oserebbe confessare e quasi neppure confessa a sé stesso. (…) Il filosofo osserva che su quella forza conviene usare impero ma non tirannide, perché, domata e umiliata che fosse, c’è rischio che, resa incapace di male, sarebbe inetta anche al bene[60. B. Croce, Il peccato originale (1950), in Id., Indagini su Hegel, cit., pp. 147-149, in part. p. 148.]
Con questa intensa meditazione che rende ragione dell’invincibile natura peccatorum e, tra l’altro, della cura del più maturo idealismo per la complessa e fragile umanità, in forme diverse ma certo non estranee alle psicologie del profondo, abbiamo fatto ritorno in fine all’inizio. Al paradiso goethiano abitato da peccatrici.
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(fasc. 7, 25 febbraio 2016)