Il contributo del “primo Croce” alla teoria della libertà

Author di Corrado Ocone

È opinione diffusa fra intellettuali e studiosi che quello di Benedetto Croce sia non solo un liberalismo atipico o persino “inautentico”, ma che esso sia maturato molto tardi1, dopo i tormenti della Prima guerra mondiale, a contatto con avvenimenti storici imprevedibili e quasi come sconfessione di un pensiero precedente diversamente orientato e anzi fortemente ispirato da autori di scuola opposta a quella liberale. Quest’ultima tesi, avanzata già negli anni Cinquanta del secolo scorso da Norberto Bobbio, è stata recentemente ripresa da Giuseppe Bedeschi in un articolo significativamente intitolato Liberale, ma in tarda età. In esso l’autore scrive che

il liberalismo di Croce è nato assai tardi nella sua vita intellettuale (in opposizione allo “Stato etico” di Gentile), nella prima metà degli anni Venti, quando il filosofo era ormai vicino ai sessant’anni. In realtà, la sua formazione culturale era avvenuta (come giustamente osservò Norberto Bobbio) del tutto al di fuori della tradizione del pensiero liberale.

Fra i non liberali “maestri in politica” di Croce, Bedeschi fa tre nomi, oltre a quello di Niccolò Machiavelli: primo fra tutti Karl Marx, «al quale aveva dedicato acutissimi saggi alla fine dell’Ottocento (saggi che si collocavano fra i momenti più alti del dibattito europeo sul marxismo)»; e poi anche Georges Sorel e Heinrich Treischke. «Erano ˗ ribadisce Bedeschi, riportando in maniera letterale le parole di Bobbio ˗ tutti autori estranei ed ostili alla tradizione liberale»2.

Ora, a proposito di queste osservazioni, vanno a mio avviso tenute in considerazione in primo luogo tre questioni, di cui le prime due potrebbero essere definite contenutistiche o sostanziali e la terza è prettamente metodologica.

  1. Certo, Croce si è molto occupato di Marx da giovane, prima ancora che concepisse ed elaborasse la “Filosofia dello Spirito”, cioè il suo “sistema” (le Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, in cui esso è per la prima volta abbozzato, sono del 1900). In particolare, l’inizio degli studi crociani su Marx è databile al 27 aprile 1895, allorché egli ricevette da Antonio Labriola e lesse di getto il manoscritto del saggio In memoria del “Manifesto dei comunisti”. Questi studi si conclusero nel 1899, con la pubblicazione di Materialismo storico ed economia marxistica, cioè con la raccolta in volume, «composti come in una bara»3, di tutti i saggi marxiani che Croce aveva nel frattempo scritto. Seppure risalenti a una fase aurorale dello sviluppo del suo pensiero, in essi il filosofo offre già al lettore una critica che potremmo definire “liberale” di Marx. Se si prende in mano il volume, si resta davvero impressionati: la sua critica sembra essere stata scritta oggi, puntando proprio su quegli elementi (il determinismo, l’economicismo, l’incapacità di prevedere lo sviluppo delle società capitalistiche, i limiti della teoria del valore-lavoro) su cui i liberali insistono attualmente quando intendono smontare le tesi marxiane4
  2. Fra gli autori su cui Croce si è formato e che Bedeschi sulla scia di Bobbio cita (Machiavelli, Sorel, Treitscke, lo stesso Marx da lui definito «il Machiavelli del proletariato»5), la più parte apparteneva non a caso alla tradizione del realismo politico. Lo sforzo di Croce è stato infatti sempre quello di concepire il liberalismo in stretta connessione con esso, secondo un movimento di pensiero che è stato proprio di tanti altri liberali del Secolo scorso (Raymond Aron, Isaiah Berlin, Michael Oakeshott, Bernard Williams…). Bedeschi può perciò scrivere, nell’articolo, che «Croce ebbe sempre in gran dispregio il giusnaturalismo, cioè la corrente di pensiero che aveva posto le premesse del liberalismo»6. In verità, la parola “dispregio” è troppo forte: Croce non negava, infatti, che la teoria dei diritti naturali avesse aperto la strada al liberalismo, ma riteneva semplicemente che essa non fosse più adatta a giustificarlo, essendosi col tempo esso stesso modificato o affinato7.
  3. Non è forse inutile considerare, infine, la circostanza che, da un punto di vista metodologico, per un liberale (come ci ha insegnato, ad esempio, teoricamente John Stuart Mill nel Saggio sulla libertà e con la pratica della ricerca storica su romantici, contro-illuministi e irrazionalisti Isaiah Berlin), è generalmente più importante studiare un autore che la pensa diversamente che un autore che lo conferma nelle proprie idee. Il momento “negativo”, contrastivo, dialettico è in effetti vitale per una dottrina/non dottrina, non ideologica e non sistematica, qual è il liberalismo8.

Ritornando al secondo punto, che è particolarmente importante, va osservato che per Croce, allo stato attuale, la dottrina dei diritti naturali non solo non è liberale, ma è addirittura l’opposto di una concezione spontaneistica e non deterministica della realtà e della storia. Infatti, chi crede che esistano dei “diritti naturali” o “umani” o semplicemente tali che, come “caciocavalli appesi”, per usare la celebre espressione di Labriola, pertengono agli individui in quanto tali, prima o poi crederà di averli individuati in modo definitivo e vorrà pure “applicarli” al corpo sociale. Caso mai, nella convinzione di fare il bene degli individui stessi. Che è un modo di ragionare tipico della mentalità costruttivistica dei giacobini, non di quella dei liberali. Per costoro, infatti, i diritti non vanno né fondati né promossi, esistendo solo come tensione, cioè nella lotta e nel conflitto, non certo come entità sovrastoriche.

Venendo, poi, più concretamente al contenuto di quella che può esser considerata la “prima filosofia” di Croce, che ha il suo punto più alto nell’elaborazione del “sistema” detto “Filosofia dello Spirito”, occorre considerare che essa è volta precisamente a celebrare la creatività, la spontaneità, l’originalità dello spirito umano contro ogni regola o norma astratta. E può perciò essere considerata non solamente liberale nel suo senso o significato più profondo, ma anche la premessa “teorica” delle riflessioni più concrete e specifiche della seconda fase del suo pensiero. Senza contare l’ulteriore ma importantissimo aspetto che quel “sistema” si presenta come una “teoria dei distinti”, che, come teneva a sottolineare Nicola Matteucci, è una chiara affermazione di pluralismo liberale.

L’affermazione della libertà umana contro le regole, della spontaneità individuale contro ogni forma di determinismo o meccanicismo o schematismo e contro ogni forma più o meno costruttivistica o ingegneristica del vivere sociale; l’affermazione, ancora, dell’autonomia (darsi o conquistare da sé la propria sempre provvisoria regola di vita) contro ogni forma (esplicita o mascherata) di eteronomia; in una parola, l’affermazione della vita che è (la) libertà contro le forme; tutto ciò è il motivo, la ragion d’essere del “primo pensiero” crociano. Il quale, pur presentandosi nella forma (provvisoria, dice lui stesso) del “sistema”, si conclude con un elogio della Vita, cioè della Libertà, che disfa e rifà ogni volta daccapo e in modo diverso l’ordito delle trame e delle connessioni che danno una forma compiuta alla filosofia9.

Ovviamente, per preservare la vita e la libertà contro le forme, Croce deve far propria la concezione formale o trascendentale (nel senso kantiano) del pensiero. La quale non può ridursi a contenuti concreti (né tantomeno quindi a una precettistica) validi sempre e comunque. E questo vale in ogni ambito del vivere (del pensiero) umano: nell’Estetica come nella Logica, nella Pratica al pari dell’Etica. Non è quindi senza significato il fatto che proprio nel primo saggio esplicitamente dedicato al liberalismo da Croce, La concezione liberale come concezione della vita del 1927, ci si ricolleghi esplicitamente alle precedenti acquisizioni della fase giovanile del suo pensiero (fra l’altro, esse sono per il filosofo null’altro che la chiarificazione e la precisazione del senso e del punto di arrivo dell’intera filosofia moderna). Quasi a voler sottintendere che in esse si trovano le “radici” per capire le attuali elaborazioni, le quali senza di essa semplicemente non sarebbero. È strano davvero che questo viatico tracciatoci dallo stesso Croce sia del tutto ignorato dagli studiosi, teorizzatori per la maggior parte di una presunta “svolta” (nel senso forte dell’espressione) del suo pensiero.

Scrive Croce:

La concezione liberale, come concezione storica della vita, è “formalistica”, “vuota”, “scettica” e “agnostica”, al pari dell’etica moderna, che rifiuta il primato a leggi e casistiche e tabelle di doveri e di virtù, e pone al suo centro la coscienza morale; al pari dell’estetica moderna, che rifiuta modelli, generi e regole, e pone al suo centro il genio che è gusto, delicato e severissimo insieme. Come questa estetica vuole non già servire a scuole e scolette, ma interpretare le aspirazioni e le opere degli spiriti originali e creatori, così la concezione liberale non è fatta pei timidi e pei pigri e pei quietisti, ma vuole interpretare le aspirazioni e le opere degli spiriti coraggiosi e pazienti, pugnaci e generosi, solleciti dell’avanzamento dell’umanità, consapevoli dei suoi travagli e della sua storia10.

Chiarito in questo modo il valore liberale del pensiero giovanile di Croce, e quindi anche del suo “sistema”, è importante sottolineare la rilevanza, per il discorso che andrò a fare, del IV capitolo della prima sezione di Teoria e storia della storiografia: quello intitolato Genesi e dissoluzione ideale della “Filosofia della storia”. La critica dei totalitarismi da parte dei più accorti e liberali pensatori del Novecento assumerà, a iniziare dagli anni Trenta, il carattere di una critica sia di scientismo (Scientism) e Positivismo (Positivism) sia della cosiddetta “filosofia della storia” (espressione che nella lingua inglese verrà resa comunemente con il termine Historism). Di questa doppia critica Croce, e proprio il Croce del periodo che si vorrebbe non liberale, può essere considerato il maggiore fra gli iniziatori in ambito europeo. Ad essa egli era, in effetti, condotto proprio in virtù di quello che era il suo progetto culturale: la dissoluzione dei sistemi e delle incrostazioni di pensiero che si erano create attorno alla filosofia positivista a fine Ottocento e la messa in scacco in ambito umano di ogni forma di determinismo a favore della libertà e della creatività umane.

Ma cos’ è propriamente la “filosofia della storia”? Croce, nel capitolo citato della Teoria, risponde che essa è «una determinatissima concezione della storia: la concezione trascendente». Ma se essa, in quanto rappresenta appunto la «concezione trascendente del reale», sembra opporsi a «quella immanente» di esso, cioè al determinismo, in verità si tratta di due idee convergenti. Infatti, «il determinismo è naturalismo» e perciò la sua è «falsa immanenza», che presto «si converte in trascendenza». Andare alla ricerca delle “cause” dei fatti storici, arbitrariamente (da un punto di vista filosofico) astratti dal processo reale e isolati e ipostatizzati, significa, infatti, non solo e non tanto immettersi in un processo di “cattiva infinità” (per usare l’espressione hegeliana). Significa, più radicalmente, andare alla ricerca e a un certo punto credere di aver trovata la ragione, o meglio il fine, dell’individuata catena di cause. Che ė poi null’altro che quell’insieme di leggi storiche che fanno la sostanza di ciò che chiamiamo “filosofia della storia”. In sostanza, se da un lato «il naturalismo si corona sempre di una filosofia della storia», dall’altro «ogni filosofo della storia è un naturalista, e tale è perché è dualista, e concepisce un Dio e un mondo, un’Idea e un fatto oltre e sotto l’Idea, Regno dei fini e un regno o sottoregno delle cause, una città celeste e un’altra più o meno diabolica o terrena». La filosofia della storia, scrive ancora Croce, nel suo operare «si trova innanzi fatti bruti, ai quali deve conferire… un significato, e rappresentarli come aspetti di un processo trascendente, una teofania». Essa assume, così, un «carattere poetico» che si trova «in tutte le “filosofie della storia”: sia in quelle antiche che rappresentavano gli accadimenti storici come lotte tra gli dei di singoli popoli o di singole genti o protettori di singoli individui, o del Dio della luce e della verità contro le potenze della tenebra e della menzogna; ed esprimevano così le aspirazioni di popoli, di gruppi o d’individui verso l’egemonia, o dell’uomo verso il bene e la verità; sia in quelle moderne e modernissime, che s’ispirano ai vari nazionalismi o etnicismi (l’italico, il germanico, lo slavo ecc.), o che rappresentano il corso storico come la corsa verso il regno della Libertà, o come il passaggio dall’Eden del comunismo primitivo, attraverso il Medioevo della schiavitù, della servitù e del salariato, verso il comunismo restaurato, non più inconsapevole ma consapevole, non più edenico ma umano». Passo in cui è evidente la critica in nuce che Croce compie di quei due sistemi di idee, che potremmo dire rispettivamente di “destra” e di “sinistra”, che costituiranno di lì a poco il sostrato dei due opposti ma convergenti totalitarismi (convergenza che non si può negare, ad avviso di chi scrive, né di diritto né di fatto).

«Nella poesia, i fatti ˗ continua Croce ˗ non sono più fatti ma parole, non realtà ma immagini». Ponendosi, però, queste immagini e parole come idee e fatti, esse sono ora nel concreto miti, «concepiti come motori esterni ai fatti». Al contrario, il «fatto concretamente pensato non ha né causa né fine fuori di sé, ma solamente in se stesso, coincidente con la sua reale qualità o con la sua qualitativa realtà».

Bisogna perciò eliminare «la falsa persuasione» che «la storia si costruisca col “materiale” dei “fatti bruti”, col “cemento” delle cause e con la “magia” dei fini, come con tre successivi e concorrenti metodi». Croce può così concludere che:

La negazione della filosofia della storia nella storia concretamente intesa è la sua ideale dissoluzione e, poiché quella cosiddetta “filosofia” non è altro che un momento astratto e negativo, è chiaro per quale ragione da noi si affermi che la filosofia della storia è morta: morta nella sua positività, morta come corpo di dottrine; morta, a questo modo, con tutte le altre concezioni e forme del trascendente.

Benedetto Croce, come esplicita lui stesso, intende con l’espressione “filosofia della storia” la sovrapposizione all’analisi del concreto corso storico di principi teorici astratti o presupposti. Si tratta di una filosofia sulla storia che, spezzando il nesso fra universale e concreto, risulta essere alla fine un tradimento sia della filosofia sia della storia stessa.

Alla critica crociana della “filosofia della storia” va di necessità affiancata, a mio avviso, quella, che pure emerge dalle pagine della “Filosofia dello spirito”, della filosofia politica e, in genere, della filosofia pratica. Per Croce, infatti, non si dà una filosofia che sia immediatente politica o pratica perché, appunto, non esistendo leggi del corso storico da isolare e individuare, risulta assurda la pretesa, una volta creduto di averle individuate, di “applicarle” alla realtà recalcitrante della storia che si va facendo (e che come tale è vivaddio libera e imprevedibile) attraverso le nostre azioni. Per Croce è perciò lecito parlare di una filosofia della pratica o della politica ma non di una filosofia pratica o di una filosofia politica (ove la proposizione articolata della indica, al contrario di quanto accadeva nella dizione “filosofia della storia”, l’oggetto della riflessione e non quello di una pretesa sottomissione a un principio teorico presupposto). Scartare in base ai principi la possibilità che si possa dare una filosofia immediatamente pratica o politica significa mettere in scacco la pretesa che può coltivare la (cattiva) filosofia di farsi, come suol dirsi, “normativa”: cioè in sostanza di offrire una precettistica o delle “ricette” pronte per l’uso all’azione. Quasi come se essa aspettasse da terzi, in questo caso gli esperti/tecnici/“filosofi”, delle direttive per realizzare (paternalisticamente) ciò che viene astrattamente giudicato bene, giusto, etico secondo ideali astratti e irreali (perfezionismo). Ove c’è, chiaramente, da parte di Croce, una compiuta affermazione, secondo i canoni del liberalismo, della libertà (e responsabilità) umana, ovvero di ogni singolo individuo (che certo non è eterodiretto da un’entità esterna chiamata Spirito universale!).

In sostanza, Croce critica la possibilità che si dia una filosofia politica da tre angolazioni diverse del problema:

  1. Ogni distinto spirituale, e quindi anche filosofia e politica, va considerato autonomo e separato dagli altri (pur nell’unita dello Spirito). In sé compiuto. Il filosofo che mischia perciò al problema logico (che per Croce si compie nel giudizio storico) quello politico è un cattivo “filosofo”, o meglio un predicatore che usa la cattedra (intendendo il termine in senso reale o metaforico) per raggiungere i suoi fini pratici11. Viceversa, un politico che si perde nell’elaborazione di schemi pratici e piani per l’azione è un cattivo “politico”: un dottrinario, o ideologo, non in grado di cogliere le opportunità del momento (il tempo giusto o kairos dei greci) in cui propriamente può farsi consistere la virtù politica.
  2. Più in generale, uno iato o un fossato, più o meno profondo, viene a crearsi nel pensiero crociano fra teoria e prassi, cioè fra storia pensata e storia creata. Alla luce della massima hegeliana «tutto ciò che è reale è razionale», Croce ritiene, per usare le sue stesse parole, che la storia, cioè la realtà, vada pensata come necessità e fatta come libertà.
  3. La convergenza idealistica fra soggetto e oggetto, fra io e mondo, fra pensiero e realtà, cioè fra concetti che in sé presi risultano astratti e unilaterali, impone, poi, che non si dia una “realtà” esterna da “rispecchiare” nel pensiero. Non esiste una verità da “adeguare” in teoria e da “applicare” (ingegneristicamente) nella prassi.

Sono motivi che, in varia misura, ritorneranno, dopo Croce, in buona parte del pensiero filosofico europeo, e anche e soprattutto nelle teorie dei maggiori liberali. A cominciare, direi, per parlare dei liberali, da Michael Oakeshott, la cui convergenza di fatto con le idee di Croce è molto chiara su tutti e tre i punti appena considerati.

In conclusione, last not but least, bisogna spendere qualche parola proprio sulla crociana “teoria dei distinti” a cui mette capo la “Filosofia dello spirito”. E ciò a maggior conferma della tesi che si è voluta qui argomentare: quella del significato e del carattere compiutamente liberali della filosofia anche del “primo Croce”. È stato soprattutto Nicola Matteucci che ha insistito su questo aspetto, affermando in più occasioni che, se si rinuncia alla distinzione, in nome di una qualsiasi unità, si rischia per ciò stesso di rinunciare a uno dei valori più cari al liberalismo, che è, come ha mostrato Isaiah Berlin, il pluralismo. O almeno si rinuncia a “giustificarlo” filosoficamente12.

Ecco quanto scriveva Matteucci nel 1978:

«la parte più discussa della filosofia del Croce, durante la sua “dittatura”, è stata la filosofia dei distinti: pare che speculativamente non funzionasse perché lasciava troppi dualismi (pensiero e azione) e si riduceva a una filosofia su quattro parole: bello, vero, utile, buono». Ma, «riflettendo sui problemi delle civiltà tardo-industriaIi […] con le continue minacce» di ridurre l’uomo «a una sola dimensione (vuoi tecnocratica, vuoi politica) ci si può chiedere ˗ ma in modo nuovo ˗ se la filosofia dei distinti non possa essere ripresa proprio in quanto ci dà il fondamento filosofico del pluralismo; […] In quanto ci consente di riaprire in modo corretto un problema che non si chiuderà mai, e cioè il rapporto fra ragion di Stato e moralità; in quanto ci permette di reimpostare in modo critico il nesso fra pensiero e azione, scienza e politica, sui quali i dilettanti stanno imperversando da quasi un decennio»13.

  1. Molti studiosi dividono il pensiero di Croce in due fasi cronologicamente successive. Ove la seconda sarebbe caratterizzata, a loro dire, da una radicale conversione al liberalismo, sollecitata dagli eventi storici e in particolare dal trasformarsi rapido del fascismo in un regime autoritario. Questa svolta si situerebbe pertanto intorno agli anni 1923-1924. Altri studiosi aggiungono poi addirittura una terza fase allo svolgersi storico del pensiero crociano, facendola coincidere con l’elaborazione da parte del filosofo, negli ultimi anni della sua vita, della teoria della Vitalità (la quale contiene effettivamente elementi destrutturanti del precedente impianto concettuale crociano). Le considerazioni svolte in questo capitolo tendono a smontare, o quanto meno a relativizzare, l’idea di una frattura interna (una sorta di “svolta”) nel pensiero di Croce. In tal modo, l’espressione “primo Croce”, che pure qui si conserva, ha un valore cronologico o di periodizzazione, indicando semplicemente la prima fase dello svolgersi del pensiero crociano. Essa la si fa, però, concludere nel 1915. È in quell’anno, infatti, che Croce pubblica, in tedesco, il quarto e ultimo volume della sua “Filosofia dello Spirito”. Ed è poi sempre nel 1915 che, proprio per suggellare la fine ideale di un ciclo del suo pensiero, egli scrive il Contributo alla critica di me stesso, concependolo quasi come una di quelle soste retrospettive che servono al viaggiatore per poi poter riprendere con più lena il proprio viaggio.
  2. G. Bedeschi, Liberale, ma in tarda età, in «Il Sole 24 ore», domenica 9 marzo 2014 (si tratta di una recensione al libro di Giancristiano Desiderio Vita e intellettuale e affettiva di Benedetto Croce, Macerata, Liberilibri, 2014). Norberto Bobbio aveva insistito sullo stesso argomento nel saggio Benedetto Croce e il liberalismo (1952), che si trova ora in Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955, pp. 211-268 (in particolare, le pp. 239-243). In effetti, pure la tesi dell’atipicità o anomalia del liberalismo crociano, ripresa anch’essa da Bedeschi (cfr. Storia del pensiero liberale, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 263-272), era stata impostata da Bobbio. Nel saggio citato, il pensatore torinese aveva infatti scritto che per capire «se e entro quali limiti» il pensiero crociano possa «dirsi liberale», bisogna far riferimento alla sua storia e al modello di liberalismo che da essa emerge (p. 238).
  3. L’espressione si trova in uno dei saggi che compongono il volume: B. Croce, Materialismo ed economia marxistica, Roma-Bari, Laterza, 1899 (precisamente in: Marxismo ed economia pura del 1899, pp. 151-163, a p. 162).
  4. Vorrei che qui si riflettesse sul fatto che molti pensatori liberali hanno sentito l’esigenza, come Croce, di confrontarsi con il pensiero di Karl Marx, che hanno criticato a fondo nei suoi presupposti e nelle sue risultanze ma che hanno anche apprezzato per alcune particolari acquisizioni. Basta fare i nomi, nel Novecento, di Isaiah Berlin, Karl Popper, Raymond Aron.
  5. In B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (1897), in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, op. cit., pp. 53-104, precisamente a p. 104.
  6. Anticipato anche per questa parte dal Bobbio del 1955, Bedeschi scrive fra l’altro, nell’articolo citato, che «ripudiando l’eredità del giusnaturalismo, Croce si liberò anche della teoria dei limiti e delle garanzie che lo Stato deve dare all’individuo… Del resto, nella filosofia di Croce l’individuo aveva un ruolo insignificante… Ma dire che l’unico attore della storia è lo spirito del mondo, e che sue sono in realtà le opere di quelle ombre che sono gli individui, significava riproporre (come osservò Federico Chabod) la filosofia hegeliana della storia, benché Croce l’avesse criticata». Come per i due punti successivi citati da Bedeschi nell’articolo del «Sole» (e cioè la presunta svalutazione crociana delle scienze naturali e la concezione della storia come “progresso cosmico”), anche per questo della dissoluzione o svalutazione dell’individuo, mero strumento o “marionetta” nella mani dello Spirito Universale, si può dire che si tratti di uno dei più inveterati e non verificati topoi che da sempre accompagnano l’interpretazione del pensiero crociano. Un equivoco che sorge già dalla scelta, da parte di Croce, del termine “spirito”, che ha un sapore di spiritualismo e idealismo astratto, che in realtà non pertengono alla sostanza del suo pensiero (il filosofo aveva in mente il termine tedesco Geist, con tutta la sua pregnanza contenutistica, piuttosto che quello francese di Ésprit). Lo Spirito crociano, in altre parole, coincide con concetti metacategoriali come Vita, Libertà, Storia. Insistere in questo senso sulla subordinazione della volontà individuale allo spirito non significa altro che richiamare quello scarto che sempre si crea fra la volizione-azione del singolo e i risultati da essa ottenuti e che nascono dall’intreccio con la volizione-azione di tutti gli altri soggetti storico-sociali. Con la Libertà, in questo preciso senso, Croce introduce, nella Filosofia della pratica, la distinzione fra azione e accadimento, dicendo che, mentre la prima è opera dell’uomo, la seconda è di Dio. Che è poi un altro termine immaginifico per indicare lo Spirito, e cioè la Storia. Non si forza troppo il senso effettivo del pensiero crociano affermando che lo Spirito non è altro che quell’ordine non programmato (“mano invisibile”) di cui ha parlato soprattutto Friedrich von Hayek, mettendone proprio in luce il carattere imprevedibile e sovraindividuale. Esso, in linguaggio hayekiano, è il risultato di un insieme di azioni individuali le cui conseguenze sono assolutamente inintenzionali. Ora, lungi dall’avere chi scrive una posizione crocianamente ortodossa, il filosofo, come qualunque altro pensatore, va sottoposto al vaglio continuo della critica e va anche “corretto” in più punti. Fatto sta che questi ultimi non coincidono quasi mai, a mio avviso, con quelli che la vulgata critica mette da tempo al centro della sua attenzione.
  7. Cfr. C. Ocone, L’interpretazione del diritto naturale, in Benedetto Croce. Il liberalismo come concezione della vita, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 117-124.
  8. Cfr. C. Ocone, Liberalismo senza teoria, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013. Ad esempio: le considerazioni a p. 87, nel capitolo dedicato a Piero Gobetti.
  9. Mi riferisco alle parole conclusive della Filosofia della pratica (1909), destinate a concludere più in generale l’intero “sistema” crociano (come è noto, Teoria e storia della storiografia, pur presentandosi come una sorta di ricapitolazione dello stesso, e catalogata perciò da Croce come quarto volume della “Filosofia dello Spirito”, non era stata programmata). Ecco quanto scrive Croce: «Poiché la Filosofia, non meno dell’Arte, è condizionata dalla Vita, nessun particolare sistema filosofico può mai chiudere in sé tutto il filosofabile: nessun sistema filosofico è definitivo, perché la Vita, essa, non è mai definitiva. Un sistema filosofico risolve un gruppo di problemi storicamente dati, e prepara la condizione per la posizione di altri problemi, cioè di nuovi sistemi. Così è sempre stato, e così sarà sempre» (B. Croce, Filosofia della pratica, Roma-Bari, Laterza, 1909, p. 406). Ove è da considerare, oltre la riduzione a mero “strumento di lavoro” (testuale) del suo “sistema”, l’insistenza sul concetto-chiave di esso: quello di Vita. Un concetto, in verità, che, come un fiume carsico, attraversa tutto lo svolgersi del pensiero crociano. Fino ad assumere un carattere preponderante, e forse ad esplodere, come è noto, nell’ultima fase di esso, allorquando prende il nome di Vitalità.
  10. B. Croce, La concezione liberale come concezione della vita (1927), in Id., Etica e politica, Roma-Bari, Laterza, 1931, pp. 235-243. Il passo qui citato è alle pp. 242-243.
  11. B. Croce, Genesi e dissoluzione ideale della “filosofia della storia”, in Id., Teoria e storia della storiografia. Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, primo tomo, Napoli, Bibliopolis, 2007, pp. 54-69. In verità, il discorso era stato anticipato in altri luoghi del “sistema”. Ad esempio, una critica della filosofia della storia, definita come «la scienza che si prefigga il compito di estrarre leggi e concetti universali dalla storia», è già nell’Estetica (cfr. il capitolo V della prima sezione di B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (Palermo, Sandron, 1904), Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, secondo tomo, Napoli, Bibliopolis, 2014, pp. 64-71, in particolare le pp. 64-66). Ma poi anche nella Logica, nella sezione sugli errori (la terza), e precisamente nel terzo capitolo dedicato all’errore del filosofismo, Croce critica ampiamente sia la Filosofia della storia, catalogandola, appunto, sotto la categoria del filosofismo o logicismo o panlogismo (cfr. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, primo tomo, Napoli, Bibliopolis, 1996, pp. 291-301, in particolare le pp. 292-296). Nella Filosofia della pratica il tema viene poi connesso sia a quello dell’accadimento, che è sempre imprevedibile, sia esplicitamente a quello dello svolgimento o Progresso della Storia, che è sempre cinto di “mistero” e non è pertanto predeterminabile né tantomeno irreversibile come volevano gli illuministi (cfr. il V capitolo della seconda sezione, dal titolo Lo svolgimento e il progresso, di B. Croce, Filosofia della Pratica. Economica ed etica, Roma-Bari, Laterza, 1909, pp. 166-176, in particolare il paragrafetto di p. 175 intitolato: Conferma dell’impossibilità di una Filosofia della storia).
  12. Pensare filosoficamente la molteplicità è ovviamente difficile, per alcuni addirittura impossibile, considerato che la filosofia occidentale (metafisica) si è svolta proprio come continua unificazione del molteplice. Cioè come reductio ad unum, cioè al fondamento unico, delle differenze (considerate pertanto solo “apparenti”). Sono davvero pochi, nella storia del pensiero, i tentativi fatti, almeno a un livello speculativo e non empirico, per pensare nell’essere stesso una spaccatura. A tale livello di discorso, il tentativo crociano di pensare, in modo quasi paradossale, l’unità come distinzione è sicuramente uno dei punti più alti. Interessanti sono le considerazioni, svolte in Carlo Antoni, Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, 1955, sull’idea di distinzione come cifra caratterizzante di una parte importante della filosofia italiana (in particolare il primo capitolo: La distinzione, pp. 11-24). Sul pluralismo berliniano, che fra l’altro ha avuto come esito finale quel relativismo che Croce aveva invece sempre cercato di evitare, è da leggere A. Della Casa, L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin, Napoli, Guida, 2014. Rimando infine, per le considerazioni ivi svolte sul concetto di “limite” come inerente a ogni distinzione e come consustanziale al liberalismo, all’introduzione di: C. Ocone-N. Urbinati, La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. VI-XVI.
  13. N. Matteucci, Il filosofo dei distinti, in Benedetto Croce. Una verifica, introd. di P. Battistuzzi, Roma, Edizioni de L’opinione, 1978, p. 76.

(fasc. 7, 25 febbraio 2016)