La libertà di Elena
Il primo doppio nella storia letteraria occidentale è l’Elena di Euripide. In questa singolare opera teatrale Elena non è stata mai a Troia, dove invece si trovava, costruito da Era con una nuvola, un suo doppio, «un fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo»[1]. La vera Elena era stata condotta invece in Egitto, presso il re Teoclimeno. Fra i molti aspetti originali dell’Elena euripidea spicca il trattamento del doppio, che, anziché essere una trappola identitaria, è liberazione simbolica da un’identità imposta – segnata dalla colpa dell’adulterio e dalla responsabilità della sanguinosa guerra – e preludio di una liberazione effettiva, in fuga dalla tirannia e dalle pretese dell’odioso Teoclimeno. Il topos dello smarrimento di fronte alla duplicazione identitaria è, sì, presente, ma pesa tutto su Menelao. Per Elena è relativamente facile: «il nome può stare ovunque, il corpo no»[2], afferma. Questa è la chiave simbolica della libertà di Elena: l’avere un doppio (che al momento giusto svanisce) non la turba minimamente, quando invece a Menelao appare una contraddizione e un’impossibilità sostanziale. Per Menelao, così come sarà per Sosia nell’Anfitrione di Plauto, il doppio è perturbante; per Elena è solo un gioco degli dei.
Il gioco del doppio appartiene a Elena Ferrante non meno che all’Elena di Euripide. Quando parla di sé – in particolare nella Frantumaglia[3] – Ferrante costruisce la propria biografia prendendola a prestito da quelle dei suoi personaggi: accreditando tacitamente l’opposto, cioè l’aver dotato i personaggi di elementi autobiografici. Non conoscere la direzione del riflesso crea due specchi contrapposti.
Il doppio forma, così, una fuga, una prospettiva ad infinitum. La forma fugata ha le sue ragioni in quelle stesse dell’Elena di Euripide – la possibilità che offre il gioco letterario al corpo dell’autore di essere altrove rispetto al nome: offre la libertà. Individuare una biografia reale dietro il fantasma, del resto, non ne modifica la natura di doppio né può abolirla. Per questa ragione, il sapere o il ritenere di sapere chi sia ad aver creato Elena Ferrante e i suoi testi non riesce a sollevarsi dall’ambito modestissimo e un po’ imbarazzante del pettegolezzo.
Elena Ferrante non è un comune pseudonimo, e neppure un nome-paravento dietro cui nascondersi in silenzio: è un autore, ma è fatta di nuvole non meno di Elena di Troia – è una sorta di doppio. Questa è l’unica ragione per cui non si palesa, perché non ha corpo. Ciò non è identico affatto all’essere reticenti o allo stare nell’ombra.
Doppi
Nella tetralogia il doppio rappresentato da Elena Ferrante si proietta in Elena Greco. Ad apertura dell’Amica geniale il lettore trova una citazione dal Faust di Goethe posta in esergo:
IL SIGNORE: ma sì, fatti vedere quando vuoi; non ho mai odiato i tuoi simili, di tutti gli spiriti che dicono di no, il Beffardo è quello che mi dà meno fastidio. L’agire dell’uomo si sgonfia fin troppo facilmente, egli presto si invaghisce del riposo assoluto. Perciò gli do volentieri un compagno che lo pungoli e che sia tenuto a fare la parte del diavolo[4].
Come risulterà chiaro nel corso della storia, l’esergo stabilisce un doppio parallelo fra Elena e Faust e fra Lila e Mefistofele. Questo esergo è seguito da un Indice dei personaggi, simmetrico alla Nota sull’Autrice e all’Indice, collocati alla fine del volume. Si tratta di elementi paratestuali, che isolano l’esergo dal testo, affidato per il resto interamente alla voce di Elena Greco. L’esergo non può pertanto esserle attribuito, e rappresenta così l’unico punto dei quattro volumi in cui Elena Ferrante non passa attraverso l’io narrate di Elena Greco. Nel breve capitolo 27 della Storia di chi fugge e di chi resta accade, però, una cosa strana. Lenù, riflettendo sul proprio scrivere la storia di Lila e della loro amicizia, dice:
Anche quando sono vissuta in altre città e non ci incontravamo quasi mai e lei al solito non mi dava sue notizie e io mi sforzavo di non chiederne, la sua ombra mi pungolava, mi deprimeva, mi gonfiava d’orgoglio, mi sgonfiava, non permettendomi d’acquietarmi. Quel pungolo, oggi che scrivo, mi è ancora più necessario. Voglio che lei ci sia, scrivo per questo. Voglio che cancelli, che aggiunga, che collabori alla nostra storia […][5].
Si direbbe che Elena Ferrante abbia attribuito al personaggio a cui ha affidato il racconto il punto di vista espresso dall’esergo, cioè il punto di vista autoriale sulla storia narrata. Viene, così, stabilita una particolare relazione fra autore modello e voce narrante: le due voci si sovrappongono distinguendosi, ovvero presentano un punto di vista sulla storia duplicato e gemello. Le due Elene la pensano allo stesso modo, si direbbe, eppure si disgiungono. L’esergo, infatti, avrebbe potuto facilmente essere attribuito a Elena Greco semplicemente collocandolo “dopo” e non prima dell’Indice dei Personaggi: con ciò la distinzione fra autore-modello e narratore sarebbe diventata invisibile, esistente solo sotto il profilo della teoria narratologica. Se viene, invece, messa in evidenza, ciò che spicca risulta essere l’identità del punto di vista, che si manifesta, perciò, duplicato.
Elena Greco ha a sua volta un doppio in Lila[6]. In questo caso, più che di un doppio in senso stretto, si tratta di una coppia complementare e oppositiva, analoga appunto a quella di Faust e Mefistofele, ma con un’accentuazione, rispetto a questa, del carattere speculare. Elena e Lila non provengono da due universi distinti come Mefistofele e Faust, ma dallo stesso, in una sorta di gemellarità: appartengono allo stesso rione, allo stesso ceto, sono coetanee e compagne di classe, sono unite dallo stesso destino sociale assegnato, sono amiche intime, si specchiano l’una nell’altra durante l’intera vita. Nel corso della storia si manifesta una sorta di trasfusione della genialità di Lila ad Elena, che dall’amica riceve per osmosi idee e slancio creativo. Come è stato osservato, chi sia l’amica geniale non è, però, affatto ovvio[7]. Se al principio è senz’altro Lila, poi è lei stessa ad attribuire a Lenù, esplicitamente, la qualifica di “amica geniale” (e, del resto, i fatti lo confermano).
Parallelamente, in modo inavvertito, si manifesta un’evoluzione della prospettiva di Elena su Lila. Inizialmente Lila appare come puro daimon di Elena, come presenza ambigua e inquietante, ineludibile e misteriosa, tanto che, fino a quando nel racconto la loro relazione non viene ambientata nella scuola elementare, fino a che è localizzata nel cortile dei giochi, privo di testimoni, il lettore potrebbe ipotizzare che Lila non esista affatto e sia un’immaginazione di Elena. Lila si manifesta cioè, inizialmente, come un doppio ben riconoscibile. Di conseguenza, l’originale è appunto Elena. Alla fine della storia questa certezza è messa in dubbio dalla stessa Elena: «Ecco cosa aveva fatto: mi aveva ingannata, mi aveva trascinata dove voleva lei, fin dall’inizio della nostra amicizia. Per tutta la vita aveva raccontato una sua storia di riscatto, usando il mio corpo vivo e la mia esistenza»[8]. Sarebbe, dunque, Elena il doppio segreto di Lila. Questa rivelazione è subito allontanata da un “o forse no”, caratteristico del realismo innocente che riveste, protegge e mantiene caldo e fluido il nucleo magmatico della quadrilogia.
Nel corso della vita di Elena, Lila non è solo pungolo faustiano e fonte creativa, ma anche un pericolo – sebbene manchi del tutto l’aspetto traumatico o il drammatico conflitto tipico del doppio romantico (né si può considerare la coppia Elena-Lila una sua rivisitazione ironica, come tante nel Novecento). Il pericolo passa per l’oscillazione fra due poli. Da un lato, allontanandosi da Lila, Elena teme che la propria stessa vita perderebbe di intensità e centralità; dall’altro la presenza interiore di Lila sminuisce, toglie valore a ciò che Elena via via conquista grazie alla sua caparbia volontà di successo sociale e di affermazione letteraria, tanto da indurla a bruschi allontanamenti per preservare la propria identità “originale”. Lila è una parte irrinunciabile e inquietante, pericolosa, di Elena; ma soprattutto è una parte duratura, un filo che percorre l’intera esistenza. Per Elena, Lila è fonte di inquietudine, lo è più o meno costantemente, e massimamente quando affiora il sospetto di essere un suo avatar. Le rotture punteggiamo tutta la loro relazione, ma l’unica vera interruzione è data dalla scomparsa di Lila, da cui nasce la storia. Il confronto con il daimon – con il demonico proprio di Lila – è sempre paritario, è una lotta-dialogo, spesso una trattativa segreta vagamente imparentata con quelle, descritte nella Frantumaglia, intrattenute dalle bambine con le creature della loro fantasia che popolano gli stanzini bui[9].
Lila ha una natura numinosa – una «potenza dionisiaca»[10] – e da qui proviene il suo pericolo e, assieme, la sua capacità di fascinazione[11]. Il suo stesso nome è significativo. Raffaella Cerullo è da tutti detta Lina, così come Elena è detta Lenù.
Lila non è un soprannome, è il nome con cui solamente Elena la chiama. Ma che nome è Lila? Il primo riferimento, piuttosto evidente, è a Lilith. Secondo la tradizione ebraica si chiamava Lilith la moglie di Adamo precedente a Eva, la moglie ribelle che, non volendo sottomettersi al marito, è stata da questi scacciata. Le analogie con la Storia del nuovo cognome sono piuttosto evidenti. Ma il mito di Lilith ha origini remote nella mitologia babilonese, in cui Lilith è il demone del vento di tempesta: metafora appropriata per un aspetto significativo della personalità di Lila. Da questa prima radice, Lilith è giunta a caratterizzare aspetti tradizionalmente negativi del femminile, quali adulterio e stregoneria – entrambi non estranei a Lila[12]. Lilith è, però, anche temibile per la capacità di seduzione, grazie alla quale è ricordata nel Faust di Goethe. Capacità di cui Lila dà prova con Marcello e Michele Solara, con Stefano, con Nino e perfino con il sobrio, solido, razionale, asciutto e compatto Enzo, vincolato a sé, senza concedersi, per anni.
Un altro lato della natura numinosa di Lila, più profondo forse, può essere riferito al gioco divino che in ambito induista manifesta il cosmo, detto, in sanscrito, līlā[13]. In Lila si mostra con la genialità e la creatività, così come con la sua natura metamorfica: povera, poi benestante, poi povera di nuovo, poi nuovamente benestante, da figlia di ciabattino a creatrice di moda, a direttrice di un sofisticato negozio a operaia di un salumificio, a pioniera dell’informatica e poi manager e proprietaria di un’azienda, e da qui a solitaria erudita ricercatrice di cose napoletane. Lila è la molteplicità stessa, incarna la variabilità imprevedibile dell’esistenza, specie a confronto con la coerenza del percorso di Elena. Che afferma: «Sapevo – forse speravo – che nessuna forma avrebbe mai potuto contenere Lila»[14].
La vocazione di Elena nasce e si alimenta da Lila. Ciò che Hillman ha chiamato «ghianda»[15] – quel demone che guida la crescita di ciascuno nella sua propria singolarità – per Elena si trova, in una parte essenziale, non in sé ma nella sua amica. Non va perso di vista, e va controllato. Sempre che non sia il demone stesso a esercitare il reale, segreto controllo. Da ciò il dialogo-scontro costante e insostituibile con un’alterità che è anche il proprio doppio.
Un ulteriore raddoppiamento è nella quadrilogia costituito dalla coppia di bambole: un raddoppiamento assai significativo, che fa da cornice alle storie raccolte nei quattro volumi. Una di queste, Tina, la bambola di Elena, ha inoltre lo stesso nome della figlia di Lila; entrambe scompariranno. Ci sono poi due altri accenni di duplicità: Elena ha un doppio “naturale” in sua madre – dalla zoppìa temuta, all’intelligenza che lei non vede e Pietro sì, all’energia tenace – e Lila trova un gemello segreto in Alfonso.
Il doppio letterario nella tetralogia si manifesta come metafora privilegiata di un’unità psichica fondata sulla duplicità. Questa si riverbera ovunque. Ma il carattere di paradosso drammatico, di inquietante turbamento che si accompagna al doppio – così come anche a coppie quali Faust e Mefistofele – è molto mitigato, forse perché «le donne […] hanno una lunga pratica di trattative segrete estenuanti con revenants che ti azzannano proprio mentre ti accarezzano, e non li evitano»[16]. Il rapporto delle donne con il doppio è più simile a quello di Elena di Troia che a quello di Sosia.
Una forma della psiche
Il doppio è considerato un tema letterario. Ma la sua natura è particolare: rappresenta la forma stessa della psiche.
Come sostiene Massimo Fusillo, la qualifica di doppio andrebbe riservata esclusivamente ai casi in cui «l’identità di un personaggio si duplica» in «due corpi che rispondono alla stessa identità e spesso allo stesso nome»[17]. Tuttavia, come lui stesso riconosce, il doppio in senso stretto appare come una forma cristallizzata e ben definita accanto a molte altre simili ma non altrettanto nitide. In molti casi sarebbe, infatti, più appropriato parlare di “specularità”, di “complementarità” e di “dissociazione”, tutte relazioni proprie di quell’ampio campo circoscritto dai confini del mondo di finzione che mette in rapporti chiusi, reciprocamente necessari, i personaggi che lo animano. Specularità, complementarità e dissociazione, tuttavia, non sono termini compiutamente formalizzati in categorie critiche stabili e condivise, e di fatto si ritrovano a circolare il più delle volte proprio sotto il concetto-ombrello di doppio. Di fatto, il campo in cui il doppio si colloca e da cui emerge è indefinito nei confini, fluido e sfuggente.
Per esempio, Il compagno segreto di Conrad è un caso di doppio speculare imperfetto rispetto alla definizione stretta; tuttavia in pochi, probabilmente, non penserebbero a un doppio. Ancora più incerto, spesso, il giudizio sui doppi oppositivi. Se non ci sono dubbi circa la coppia costituita da Mr. Hyde e il Dr. Jekyll, da ricondursi senz’altro a un’unità, in quella rappresentata da Sancho Panza e don Chisciotte l’uno che viene scisso non esiste come singolarità psichica ma al suo posto si forma una sorta di embrione euristico, un’unità fittizia, irrinunciabile a partire dalla necessità della coppia e dall’opposizione dei caratteri. Dove fermarsi nella ricerca di scissioni e complementarità è meno ovvio di quanto possa apparire a prima vista. Forse anche il principe Andrej e Pierre potrebbero essere considerati come un doppio, o una simile congettura è senz’altro aberrante?
L’insieme delle relazioni fra personaggi è proiezione della mente dell’autore e della sua personalità, disegna una forma della psiche. Il doppio non fa eccezione. Rappresenta una scissione, che però nella sua forma-base è alla radice dell’atto immaginativo stesso: essere un altro è all’origine dell’atto di immaginazione che crea un personaggio. Per questo il doppio ha una così grande vicinanza a molte delle altre relazioni fra personaggi – un insieme di rapporti che potremmo etichettare come “campo dissociativo”. All’interno di tale campo, il doppio rappresenta quasi un’intensificazione autoriflessiva (anche da qui, forse, la fascinazione dei romantici tedeschi per il doppio) del principio che sta all’origine della creazione di un universo di finzione. In questo senso rappresenta la psiche nel suo funzionamento immaginativo, il suo incontrare se stessa. Come avviene questo incontro, a quali emozioni è legato, perché accade e cosa significa, tutto ciò è nella storia del tema letterario del doppio.
Nella letteratura antica il campo dissociativo si presenta distinto in modelli ben differenziati. Se Elena e Anfitrione delineano il doppio vero e proprio, ci sono poi le Metamorfosi e L’asino d’oro, che offrono un differente approccio alla dissociazione. Nella letteratura antica si potrebbe, anzi, intendere il doppio come un caso periferico di metamorfosi, dovuta di regola a intervento divino o magico. Le Vite parallele di Plutarco offrono, poi, un modello rimasto paradigmatico delle analogie che attraversano i caratteri e i destini, così da metterli in un parallelismo che sottintende una specularità. Il doppio, considerato a partire dalla somiglianza esemplare, si direbbe un suo sviluppo paradossale, in cui la somiglianza satura l’identità, cancellandola. La letteratura antica offre insomma i precursori, i modelli, distinti e separati, che verranno nei secoli e millenni successivi rielaborati e fusi.
Uno snodo significativo nella storia del campo dissociativo è costituito dalla Novella del grasso legnaiuolo. Se in Euripide e in Plauto il doppio era opera di una divinità, nella Novella del Grasso è opera tutta umana. L’intelaiatura generale è quella della beffa (che si trova comunque associata al doppio già nell’Elena e, in fondo, anche in Anfitrione), ma lo sviluppo è di arditezza intellettuale inedita. Brunelleschi – così narra la novella – organizza con molti complici da lui diretti una beffa geniale e mai immaginata prima, ai danni di un ebanista di nome Manetto, detto il Grasso: una sera, al ritorno a casa, egli la trova occupata da un altro se stesso, che lo convince di essere non Manetto ma un certo Matteo. Grazie ai complici la beffa si prolungherà nel tempo, portando il Grasso sull’orlo della follia, costringendolo a pensare di aver subito una metamorfosi e a temere di non poter più tornare a essere se stesso. Alla conclusiva rivelazione dell’inganno il Grasso scapperà da Firenze, trovando rifugio in Ungheria. In questa storia il doppio diventa uno pseudo-doppio, un doppio di finzione, che ha però lo stesso effetto spaesante di quello classico; viene, inoltre, offerta al povero protagonista un’identità altrui, gli viene cioè fatto credere di aver subito una metamorfosi ed essere diventato un altro. I due temi del doppio e della metamorfosi sono così singolarmente fusi. In questa celebrazione rinascimentale dell’intelligenza e del genio creativo che è la Novella del grasso i temi classici sono ricondotti in un contesto intellettuale dove la magia e l’ultrasensibile vengono banditi e dileggiati: è la confutazione più compiuta di quanto c’è di perturbante nel doppio e contemporaneamente la prima evidenza letteraria di come doppio e follia siano congiunti. La storia del Grasso, un uomo comune condotto fuori dalla propria identità e sulla soglia della pazzia dalla beffa di Brunelleschi, è cioè la prima indicazione di come il tema del doppio e quello della metamorfosi debbano situarsi non nell’ambito del divino o del magico, ma in quello umano – in termini moderni diremmo in quello della psiche.
L’abbondante letteratura ottocentesca che elabora e incrementa di varianti il campo dissociativo utilizza spesso il fantastico per articolare tacitamente lo psichico. A metà del secolo però, Dostoevskij, con Il sosia, mette il doppio sulla scena fuori da ogni metafora e lo esplicita come un caso psichiatrico. Poco più tardi Stevenson in Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde – dove la metamorfosi, compagna storica del doppio, lo articola narrativamente – ne offre una formulazione paradigmatica. Solo nel 1914 Otto Rank organizza tale consapevolezza del doppio come figura della psiche con il famoso saggio Der Doppelgänger, uscito su «Imago»; l’anno successivo Kafka pubblica La metamorfosi. Da allora – considerando le due date una sorta di spartiacque – l’uso letterario del doppio perde definitivamente ogni tratto romantico; il campo dissociativo, inoltre, si arricchisce di un livello metaletterario e teorico. Questo trova la sua formulazione più fortunata nel 1936, quando Lacan teorizza la “fase dello specchio”: l’identità nasce nella scissione – nella restituzione, a un bambino che in sé non è ancora coeso e coerente, dell’immagine unitaria offerta dallo specchio, immagine “ortopedica” su cui egli costruisce la convinzione di un Io.
Nel corso del Novecento è cresciuta sensibilmente la complessità dell’idea di identità individuale (si pensi solo a Pirandello), la tendenza alla rappresentazione della sua frammentarietà o criticità, così come, recentemente, si va affermando l’idea di un Io assente o costituito da componenti differenziate. Questo è, anzi, un modo di concepire lo psichico oggi spesso condiviso (basti pensare a un cartone come Inside Out). Da un altro lato, il rischio della scissione o metamorfosi dell’identità, della follia, sperimentato per la prima volta dal Grasso, è diventato competenza della psicopatologia, medicalizzandosi. L’esperienza personale della frammentazione – perlopiù in quello stato ai confini fra salute e patologia che è la normalità – si direbbe, inoltre, un’esperienza diffusa. Ricordando che dietro il doppio apparso a Sosia c’era Mercurio, si può ben dire con Jung che, nel Novecento, «le divinità sono diventate malattie»[18].
L’epifania elusa
Sotto la coperta rassicurante del realismo, nel mondo di Ferrante “tutto ciò che è fisico è anche psichico”. Tutto ciò che è relazione con sé è anche rapporto con l’altro – persona, oggetto, evento, città – in un’ambiguità fluida e metamorfica delle identità e della geografia interiore[19]. Tutto ciò che è “interno” è immagine o metafora dell’“esterno” e viceversa[20]. L’intimità è il mondo – le città, gli eventi della vita privata e di quella pubblica, l’individuale e il collettivo, intrinsecamente fusi con l’identità più profonda, in cui consonanza e dissonanza, appropriazione e fuga, mediazione e correzione costituiscono, oltre che una miscela instabile, un organismo vivente in crescita e in continuo adattamento. Perciò, anche il campo dissociativo rinvia, più che allo specchio e alla ripetizione del medesimo, a un dispositivo volto a esplorare un’intimità che include tutte le relazioni significative per l’identità personale.
Il doppio potrebbe essere considerato un frattale, un elemento costitutivo che si ripete su scale diverse e dotato di proprietà ambivalenti, un po’ come quelle di una rappresentazione onirica, giocando sia a favore dell’individuazione sia contro di essa. La forma psichica che ne risulta non è la tradizionale dissociazione, in cui il doppio è fatto di materiale inconscio che ritorna, ma una costellazione assai più complessa e in evoluzione continua. Tale evoluzione richiede particolare attenzione. La vigilanza su di sé e sul proprio mondo, l’attenzione posta nello “stare svegli” rispetto all’adagiarsi, la cura a mantenere la presenza di sé viva a se stessi – di cui è parte anche la funzione mefistofelica di Lila – è chiamata da Ferrante “sorveglianza”[21]: un’attività cruciale nell’identificazione. Sorvegliarsi non rinvia allo specchiarsi, all’aggiustarsi e prepararsi davanti allo specchio, al riordinarsi in relazione all’ideale dell’Io, bensì a «una vigilanza estrema su sé stessi»[22], così da definire le esigenze di un’identità in corso di sviluppo. Inoltre, è un’attività volta a evitare la frammentazione caleidoscopica, a tenere assieme un Sé altrimenti suscettibile di disgregazione. L’identificazione parte dalla sorveglianza perché l’identità consiste in un’attività, non nell’immobilità di una fortezza.
L’Elena Ferrante fatta di nuvole, raccontando di se stessa e di sua madre sarta, ha disegnato una metafora dello scrivere e dell’identificarsi:
Ma come volevo essere? Quando pensavo a lei [la madre], una volta diventata grande, una volta lontano, cercavo la via per capire che tipo di donna potevo diventare. Volevo essere bella, ma come? Possibile che si dovesse scegliere per forza fra l’appannamento e l’appariscenza? Entrambe le vie non rimandavano allo stesso vestito suddito […], quello che ti sta addosso sempre, comunque, e non c’è modo di sfilartelo? Smaniavo in cerca di una mia strada di ribellione, di libertà. La via era […] imparare a non indossare vestiti – quelli poi verranno di conseguenza – ma il corpo? E come si faceva ad arrivare al corpo oltre gli abiti, il trucco, le abitudini imposte dal comune farsi belle? Una risposta certa non l’ho trovata. Ma oggi so che mia madre, sia nella scialbaggine dei lavori domestici, sia nella esibizione della sua bellezza, esprimeva un’angoscia insopportabile. C’era un solo momento in cui mi pareva una donna in quieta espansione. Era quello in cui curva, le gambe tirate su e unite, i piedi sul poggiapiedi della sua vecchia sedia, intorno gli scarti sfilacciati del tessuto, sognava abiti salvifici e tirava dritto con ago e filo mettendo insieme ancora e ancora i brani delle sue stoffe. Quella era l’ora della sua vera bellezza[23].
Il lavoro di sartoria è la scrittura[24]. E ogni abito cos’è, se non un doppio? Ma la propria verità interiore non è il doppio né il suo originale, bensì l’attività che crea uno, cento, mille doppi. Nella tetralogia l’attività è per Elena la tetralogia stessa. La scrittura si configura come un “mettere assieme i brani” della sua vita: se si guarda alla conformazione architettonica dei quattro volumi, si trovano storie cucite con ago e filo una all’altra, ancora e ancora. Questa successione, “in quieta espansione” come la vita stessa, è però anche una farragine, un accumulo in cui la posizione e il ruolo di ogni elemento si direbbe sfocato.
A questo proposito, il paratesto (di cui qui si presume l’autrice condivida con l’editore la responsabilità) offre nuovamente indizi che, nella loro non impossibile “casualità”, segnalano comunque dei criteri sottintesi sia alla produzione sia alla fruizione prevista per il testo. Il primo volume della quadrilogia è intitolato L’amica geniale e specifica “volume primo”, sottintendendo quindi che il volume successivo, se non anche gli ulteriori, avranno lo stesso titolo. Ma il volume successivo ha un titolo – si deve considerarlo tale in quanto equiparabile per posizione, caratteri ecc. a quello del volume precedente – del tutto differente, e però porta il sottotitolo L’amica geniale, seguito dalla specificazione “volume secondo”; analogamente gli altri. Il sottotitolo dei tre volumi successivi al primo ha lo scopo evidente di inglobare i nuovi titoli sotto il primo, richiamandone la memoria. Mai (a quanto ne so) si era visto un simile rapporto gerarchico invertito fra titolo e sottotitolo. Logica avrebbe voluto che il titolo in copertina e nel frontespizio restasse in tutti e quattro i volumi L’amica geniale, portando eventualmente in sottotitolo i titoli delle sue ripartizioni. Ma in effetti le cose sono ancora più complicate. Il risvolto di copertina ha un Indice completo dell’opera ‘L’amica geniale’, da cui si desume l’identità del titolo dell’opera completa con quello del primo volume, come fosse un doppio, ribadendo lo status di titolo dei volumi successivi. Tutti sono composti (come appare anche nell’indice finale di ciascun volume) di varie “storie” o parti (per il primo volume, ad esempio, Prologo, Storia di don Achille, Storia delle scarpe; solo il terzo è composto di una sola storia, omonima del titolo). Tali storie o parti, con l’eccezione di Prologo ed Epilogo, corrispondono a loro volta a fasi della vita: infanzia, adolescenza, giovinezza ecc. Queste fasi, e non le “storie”, sono il vero sottotitolo – presente, però, nel solo frontespizio e nel risvolto, ma non in copertina – del titolo di ciascun volume[25]. L’ordine, ovvero i rapporti che fra loro intrattengono le storie, contribuisce a determinare il senso più generale: ma il paratesto, anziché schematizzare e rendere evidenti i rapporti reciproci, offre gerarchie differenti e sovrapposte. La prospettiva della storia nel suo complesso appare, infatti, diversa se si considerano l’inizio e la genialità di Lila come il centro di gravità – così vuole la preminenza del titolo del primo volume – oppure se si guarda alla scansione delle età della vita che l’insieme propone. Nel primo caso ci si trova di fronte a una sorta di Bildungsroman anomalo, dove non si arriva alla scoperta di sé ma si parte da questa perché è tutta nell’inizio, nell’origine; nel secondo, il modello delle confessioni, con la caratteristica ricapitolazione autobiografica dei momenti cruciali di una vita, appare come un seguito di verità provvisorie. Così, ogni successo di Elena si direbbe un punto di arrivo, come ogni svolta eroica e sorprendente di Lila, dal disegno delle scarpe fino alla pionieristica acquisizione di competenze informatiche; analogamente, le rotture fra le due amiche, che hanno, ogni volta, il sapore della scoperta dolorosa e necessaria, e si direbbero condurre a una definitiva chiarezza, sono solo passi verso un nuovo equilibrio. In effetti, l’incertezza dell’accento narrativo e dunque del senso generale è diretta conseguenza della costruzione per addendi, in progress, in cui il piano dell’opera simula la fotografia di un organismo in un punto approssimativamente conclusivo della sua crescita spontanea, racchiuso nella cornice di Prologo ed Epilogo. Il senso è trovato ma provvisoriamente, e alla lunga è assai difficile dire se prevalga la somma delle scoperte o la loro labilità. Del resto, la difficoltà è insita nei “sogni salvifici” – nella provvisorietà intrinseca a un sogno.
Il fatto che la verità interiore sia un andare anziché uno stare moltiplica le rivelazioni, ma lascia sospeso il senso ultimo. Si potrebbe parlare di una poetica dell’“epifania elusa”[26]. L’epifania elusa ri-apre la storia, e lo fa a modo suo. Se il postmodernismo ironizza e svaluta l’epifania, Ferrante sostiene la sua validità, ma non la sua conclusività. Gli abiti sono salvifici finché sognati, poi il loro fascino sbiadisce in favore di una nuova forma. In Ferrante l’identità è una fuga dal medesimo verso il molteplice. Questo desiderio proliferante del molteplice può disorientare, ma è ricerca di sé.
La poetica dell’elusione si manifesta non solo sul piano strutturale, ma anche nella pagina. Può essere utile analizzare un episodio a questo riguardo rappresentativo. È quello famoso della fuga verso il mare di Elena e Lila bambine. L’episodio si colloca in un momento importante. Preceduto dai tanti incredibili successi scolastici e dalle prove di carattere di Lila, accompagna l’evento cruciale nella sua vita, cioè il rifiuto familiare di farla proseguire negli studi. Lila trascina Elena in un’avventura inaudita: uscire per la prima volta dal rione, da sole, attraversare un tunnel buio, raggiungere a piedi il lontanissimo mare che entrambe non avevano mai visto. L’immediato precedente avventuroso è rappresentato dall’incontro col terribile don Achille, immaginato come un orco, una sorta di prova estrema di coraggio e una sfida vittoriosamente superata. L’aspettativa del lettore – preparata con cura – è la riuscita dell’impresa: che Lila ed Elena raggiungano il mare. Un atto che è paradigma dell’allargamento dell’orizzonte interiore attraverso il rispecchiarsi dell’Io nella natura. Qui appare in filigrana un intertesto di buon auspicio: la fuga di Carlino fino al mare nelle Confessioni di un italiano[27]. Ma la fuga delle due bambine viene interrotta da un temporale e da una crisi di panico di Lila, che convince Elena a tornare di corsa a casa.
Se l’emblematicità dell’episodio è immediatamente evidente, non lo è altrettanto il significato. Alla prima lettura l’effetto è di sconcertata delusione. Il copione voleva che il mare venisse raggiunto: l’epifania attesa, imbastita con tanta cura, cade. Il significato si rovescia, quindi, in una metafora della forza d’attrazione del rione, del vincolo rappresentato per Lila dalle origini. E nell’immediata prosecuzione della storia ciò è confermato dall’impossibilità per Lila di iscriversi alle scuole medie – il temporale e il ritorno sarebbero, dunque, il primo disvelarsi del “restare” proprio di Lila. Elena, però, si chiede se Lila abbia voluto tornare per esporla a una punizione – quella di non essere neppure lei iscritta alla nuova scuola – oppure se il ritorno fosse al contrario per evitarle una tale punizione: «o – mi chiedo oggi – aveva voluto in momenti diversi tutt’e due le cose?»[28]. Non c’è risposta. Conducendo però a sé, ai possibili effetti su di sé, il comportamento di Lila, Elena svuota il significato dell’episodio raccontato e lo trasforma nell’ennesima variazione sul rovello circa l’atteggiamento ostile o amicale di Lila verso di lei. Anche la seconda metafora viene, perciò, elusa – rimane sì, ma misconosciuta dal testo e sospesa nel lettore. Il terzo significato dell’episodio appare solo quando nella Storia delle scarpe viene raccontata la prima smarginatura di Lila. La descrizione del momento in cui Lila decide di tornare è, in effetti, l’anticipazione, vista tutta dall’esterno, di una crisi di panico e di smarginatura:
Ciò che mi spaventò di più fu l’espressione di Lila, per me nuova. Aveva la bocca aperta, gli occhi spalancati, guardava nervosamente avanti, indietro, di lato, e mi stringeva la mano molto forte. Possibile, mi chiesi, che abbia paura? Che cosa le sta succedendo? […] La vidi agitata come non l’avevo mai vista. C’era qualcosa – qualcosa che aveva sulla punta della lingua ma non si decideva a dirmi – che all’improvviso le imponeva di trascinarmi in fretta a casa. Non capivo: perché non proseguivamo?[29]
Ma anche questo terzo significato dell’episodio non è sviluppato affatto. Resta tutto e solo dalla parte del lettore.
Il romanzo di Nievo è il precedente italiano più illustre di narrazione a cavallo fra romanzo di formazione e romanzo di confessioni (quel tipo di autobiografia che ha in Agostino e Rousseau i massimi esponenti). Sono, del resto, questi i modelli narrativi canonici dedicati alla costruzione dell’Io. La quadrilogia incrocia e ricapitola entrambi. Ma il mare che Carlino vede con tanta emozione non è raggiunto e il topos del rispecchiamento dell’Io nella vasta natura benigna è sostituito da un temporale e da una crisi di panico. L’identità contemporanea ha strade differenti attraverso cui cercarsi.
La metafora borderline
Ferrante usa due volte il termine “borderline”, sempre in relazione a Olga, la protagonista dei Giorni dell’abbandono[30]. L’uso che ne fa non è tecnico e tuttavia appropriato. Il disturbo borderline della personalità, così come è descritto dalla psicopatologia, presenta un quadro complesso ma definito; Olga non rientra in un simile quadro, ma almeno due aspetti della sua crisi fanno del termine “borderline” una metafora appropriata per la situazione psichica in cui si trova. Il primo aspetto è la dissociazione del Sé. Ciò che Olga sperimenta è una perdita di presa sulla realtà dovuta a una perdita di coesione interiore, senza che ciò sfoci in allucinazioni o delirio, cioè in psicosi, ma accompagnata da una sofferenza intensa e drammatica, simile a quella propria di una crisi di panico. Il secondo aspetto è la causa della crisi, l’abbandono. L’esperienza precoce di abbandono è alla radice del disturbo borderline – il timore massimo e segreto del borderline è di ripetere tale esperienza (tanto da sentirsi abbandonato senza affatto esserlo), le sue esplosioni di rabbia hanno qui l’origine, e la tipica ricerca della simbiosi e però dell’allentamento di ogni legame intimo, di fatto una replica e una ricerca dell’abbandono, nascono da tale dolore originario. Debole coesione dell’identità – un mosaico – ed effetto distruttivo dell’abbandono sull’identità stessa sono caratteristiche salienti del borderline.
Ferrante qualifica, però, come borderline la situazione e il percorso di Olga, non lei. Ciò è di grande importanza. Rende, infatti, il termine tecnico una metafora; “borderline” descrive non più una personalità ma appunto una situazione: diventa narrabile (senza per questo rientrare nel modello ottocentesco del “caso clinico”). Alcuni tratti caratteristici di una struttura della personalità si organizzano secondo la logica e la coerenza della narrazione, passano dalla protagonista a ciò di cui fa esperienza – se stessa, certamente, ma riordinati nella concreta articolazione narrativa delle circostanze in cui sono posti.
Una situazione borderline torna nella Figlia oscura, dove viene narrato un enigmatico lapsus d’azione, che rinvia a un abbandono fuori scena – quello di Leda, la protagonista, verso le proprie figlie, tanti anni prima dell’azione – simbolicamente riparato e ripetuto con il ritrovamento di una bimba smarrita in spiaggia e la contestuale sottrazione della sua bambola. Leda non ha il pieno controllo delle proprie azioni né ha chiaro il loro movente e significato. Così come Olga, Leda percepisce, però, la loro inappropriatezza alla realtà e la propria stessa frammentarietà. Come e più di Olga, l’essere fisicamente ferita è il prezzo per ritrovare la lucidità, per “sentirsi”. Anche Leda non si può dire sia una personalità borderline in senso proprio, ma la sua situazione esistenziale, nella particolare circostanza in cui trova emersione simbolica, così come la narra, segue la logica borderline.
Una plastica espressione in cui Elena Ferrante racchiude la natura dell’identità borderline è la “frantumaglia”:
La frantumaglia è un paesaggio instabile, una massa aerea o acquatica di rottami all’infinito che si mostra all’io, brutalmente, come la sua vera e unica interiorità. La frantumaglia è il deposito del tempo senza l’ordine di una storia, di un racconto. La frantumaglia è l’effetto del senso di perdita, quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo, un ancoraggio per la nostra vita, andrà a unirsi presto a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere[31].
La frantumaglia definisce, attraverso l’uso letterario del linguaggio comune, lontano dallo specialismo, la diffusione dell’identità caratteristica del borderline. Ma, a differenza dalla teoria psicoanalitica, non la riferisce tanto a un’organizzazione della personalità, a un essere così e così, quanto a un’esperienza interiore singolare, un preciso momento, che può ripresentarsi ma poi essere superato, in cui dentro di sé si riconosce una frantumaglia: una condizione parte della vita comune.
Un’evoluzione della frantumaglia si ha con la “smarginatura”. Questo secondo termine ferrantiano è legato al personaggio di Lila. Rispetto alla frantumaglia, che ritrae un paesaggio interiore, la smarginatura è dissoluzione della coerenza del mondo esterno. Il paesaggio interno definito come frantumaglia si proietta violentemente all’esterno e da qui torna alla psiche come un’onda sconvolgente. Rispetto alla frantumaglia, che rimane nell’ambito delle emozioni e del pensiero, cioè dell’Io, la smarginatura è una crisi dissociativa vera e propria, improvvisa e brutale, e in qualche modo una rivelazione mostruosa. La smarginatura, a differenza dalla frantumaglia, sfiora la psicosi:
Le era sembrato che tutti gridassero troppo e che si muovessero troppo velocemente. Questa sensazione si era accompagnata a una nausea e lei aveva avuto l’impressione che qualcosa di assolutamente materiale, presente intorno a lei e intorno a tutti da sempre, ma senza che si riuscisse a percepirlo, stesse spezzando i contorni di persone e di cose rivelandosi. […] Nell’occasione in cui mi fece questo racconto, Lila disse anche che la cosa che chiamava smarginatura, pur essendole arrivata addosso in modo chiaro solo in quella occasione, non le era del tutto nuova. Per esempio, aveva già avuto spesso la sensazione di trasferirsi per poche frazioni di secondo in una persona o una cosa o un numero o una sillaba, violandone i contorni. […] Ma quella notte di Capodanno le era accaduto per la prima volta di avvertire entità sconosciute che spezzavano il profilo del mondo e ne mostravano la natura spaventosa. […] Ogni secondo di quella notte di festa le fece orrore, ebbe l’impressione che come Rino si muoveva, come spandeva intorno se stesso, ogni margine cedeva e anche lei, i suoi margini, diventavano sempre più molli e cedevoli[32].
Questo tipo di crisi si collocano in un contesto che non è sicuramente di follia, ma che neppure può considerarsi banalmente nevrotico. Uno sguardo clinico probabilmente vedrebbe in Lila una personalità borderline o, almeno, candidata a rientrare in tale categoria[33]. Un simile sguardo clinico, però, non è chiesto dal testo, che anzi invita a leggere Lila in tutt’altro modo. Quelli che possono essere sintomi o tracce di una personalità borderline appartengono alla narrazione della situazione. Così i violenti litigi o i comportamenti impulsivi e rischiosi di Lila – per esempio, gli scontri coi pericolosi Solara – appaiono come un’intensificazione temeraria e intrepida della violenza tipica del rione. Analogamente, vengono proposte spiegazioni comuni per i suoi improvvisi cambiamenti di umore e per le emozioni difficili (si pensi all’ambivalenza verso la stessa Lenù). La polarizzazione fra buono e cattivo, per cui Lila è considerata da tutti e si considera lei stessa “cattiva”, si direbbe nascere dai fatti stessi – appartiene alla storia. Il non potersi quasi staccare dal rione o la difficoltà a stare da sola, così da convivere per anni in una sorta di matrimonio bianco con Enzo, sono tutti elementi lasciati all’evidenza dei fatti, per esempio le difficoltà di una madre single e povera. Allo stesso modo, la lesione della propria immagine nel pannello o la scomparsa finale non sono propriamente – lo sono solo in metafora – delle minacce autolesionistiche o suicidarie tipiche di un borderline: sono fatti narrati, fatti misteriosi senza un significato preciso. Inoltre, la discorsività a tratti quasi svagata di Elena Greco ammorbidisce, mette un velo e spiega col senso comune tutto ciò che potrebbe avere una lettura in altra chiave. Questa normalizzazione che permette alla storia di scorrere veloce, fluida e senza turbamenti intellettuali o profondità inappropriate, però, si accompagna ad altro: la smarginatura, le crisi dissociative, sono il segnale testuale – voluto – del fatto che non tutto può essere spigato attraverso il senso comune. La smarginatura è il centro di gravità della personalità di Lila, e determina l’atmosfera che la connota. È tutto l’alone che avvolge Lila a riflettere i tratti che la psicopatologia identifica come quelli di una personalità borderline, senza che la goffa e imbarazzante ombra di uno psichiatra venga a sottolineare con la matita rossa e blu l’eccentricità tutt’altro che unica – anzi comune quanto il disturbo borderline stesso – di un personaggio affascinante e per altri versi eccezionale.
Con Lila, è la narrazione a farsi borderline – a “smarginare”, come afferma Tiziana de Rogatis[34]. Ciò può avvenire grazie alla distribuzione del campo dissociativo in due metà. Lila esiste in quanto raddoppiamento complementare e oppositivo di Elena Greco, e assieme disegnano una forma psichica basata sul doppio. Il doppio – in sé una dissociazione – “contiene” il borderline come sua metà. E, in quanto dissociazione, rappresenta, porta con sé, moltiplica quel principio schizoide proprio della struttura borderline – situandolo, però, e delimitandolo. Dalla dissociazione, inoltre, nasce l’immaginazione. Questa, però, si trasferisce e cresce nell’altra metà del doppio, nella peculiare genialità dell’amica di Lila – nella narrazione di Elena. La narrazione, di per sé, tesse e ricuce, dà forma indossabile a ciò che la dissociazione separa; la smarginatura, come la frantumaglia, è infatti opposta a quell’ordine che costituisce una storia[35]. Il disturbo borderline, inserito nella forma psichica disegnata dal peculiare doppio della tetralogia, risulta, infine, la metafora che parla di come la crisi di Olga, l’atto inspiegabile di Leda, le smarginature di Lila non siano solo un disturbo ma una nuova normalità, afferrabile e ricomponibile nell’ordine della narrazione, di cui può essere il segreto principio vitale[36].
La psicopatologia è anche una mappa delle configurazioni che le emozioni assumono storicamente. Se la Belle Époque è stata l’epoca dell’isteria, e gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso sono stati l’età del narcisismo, certamente la nostra contemporaneità è quella del disturbo borderline. La quadrilogia corregge l’assunzione della psicopatologia quale ambito esplicativo privilegiato di riferimento, rappresentando la costellazione borderline non solo sotto l’aspetto della destrutturazione e dell’instabilità, ma associandolo alla singolarità, alla creatività, alla genialità secondo un modello romantico – di cui è traccia il riferimento goethiano – che pesca nelle profondità dell’immaginario mitologico. Questo elemento demonico capace di fecondare una diversa complementare personalità – dotata di tenacia, di ambizione, di capacità di auto-realizzazione e auto-affermazione, di assertività e di orgoglio – si trasforma in forza e affermazione sociale. Il doppio complementare è la forma adeguata a un simile rovesciamento: disegna una forma della psiche smarginata e, tuttavia, assertiva. Del titanismo romantico non c’è traccia, il suo ambiente è la più prosaica quotidianità, l’eccezionalità è nella misura della singolarità individuale, la genialità è nascosta. Ma dietro questa spoglia normalità è il numinoso ad agire. Si tratta di una correzione del disincantamento novecentesco, e di un’ulteriore evoluzione del modello del doppio. In esso, la metafora borderline è portatrice di una ri-mitologizzazione: riconduce gli dei, sotto forma di daimon, nella malattia, che diventa un’amica geniale. La potenza emotiva della tetralogia viene da questa restituzione del doppio – e del principio stesso della dissociazione – alle sue antiche radici metamorfiche e numinose. Attraverso un doppio, Era, assieme a Zeus sovrana dell’Olimpo, ha regalato a Elena la libertà e la dignità; non diversamente ha fatto Lila, che ha usato il corpo e l’esistenza di Elena per creare una storia di riscatto che riguarda ogni lettore.
Lo specchio vuoto
L’opposizione complementare di presenza e assenza è all’origine dell’ultimo dei doppi che innervano la quadrilogia. Non solo per transitività Lila è un doppio, oltre che di Elena Greco, anche di Elena Ferrante. Ciò che le accomuna è l’assenza. Ferrante e Lila ci sono senza essere presenti col corpo e, messe una di fronte all’altra, come un doppio, sono due specchi che si fronteggiano senza nessuno in mezzo. Entrambe si nascondono al riflesso; entrambe, su livelli differenti, sono all’origine della tetralogia. Per entrare in questa assenza occorre andare al finale.
«A che sono servite dunque tutte queste pagine. Puntavo ad afferrarla, a riaverla accanto a me, e morirò senza sapere se ci sono riuscita»[37]. La quadrilogia si conclude tornando al resoconto diaristico con cui era iniziata nel Prologo, ma senza concludere. L’esito è incerto, come del resto, nel corso delle molte storie fin lì narrate, lo è ogni punto di arrivo. L’Epilogo si direbbe destinato a spegnersi in un sussurro. È a questo punto che l’ultima pagina e mezzo si incarica di portare a compimento la storia di una vita e una narrazione di oltre 1600 pagine:
Ieri, rientrando, ho trovato sopra la mia cassetta della posta un pacchetto mal confezionato con carta di giornale. L’ho preso perplessa. […] Ho aperto con cautela un lato del cartoccio ed è bastato. Tina e Nu sono schizzate fuori dalla memoria prima ancora che le liberassi del tutto dalla carta di giornale. Ho riconosciuto subito le bambole che una dietro l’altra, quasi sei decenni prima, erano state gettate – la mia da Lila, quella di Lila da me – in uno scantinato del rione[38].
L’evento è sorprendente e merita un commento. Partendo intanto dall’involucro realistico che lo confeziona.
Lila, è detto nel Prologo, è scomparsa portando con sé tutto ciò che le apparteneva, proprio tutto, anche ciò che si trovava nello scantinato[39]. Si parla della casa dove Lila ha vissuto da piccola e che ha comprato per i suoi genitori quando ha cominciato a guadagnare con l’informatica. Perciò, quando Lila si è “smaterializzata”, ha preso con sé anche le bambole, che erano rimaste nello scantinato e che lei e Lunù bambine, durante la paurosa incursione in quella frantumaglia, non avevano trovato. Delle bambole Lila poi si era dimenticata, ma Elena le aveva ricordato l’episodio dello smarrimento quando assieme, entrambe incinte, chiacchieravano nella sala d’attesa della ginecologa[40]. Sua figlia verrà abitualmente chiamata con lo stesso nome, Tina, della bambola che Lila aveva gettato nell’oscurità.
Dopo un certo periodo di tempo – quello che è servito a Elena a scrivere le molte storie fino al primo paragrafo dell’Epilogo compreso – Lila, come ha predetto Pasquale[41], torna a farsi viva. Non spedisce le bambole per posta (si potrebbe risalire all’ufficio di provenienza) ma le porta o le fa portare dove abita Elena, a Torino, e mettere sopra la sua cassetta postale. Lila consegna ad Elena le bambole così come a suo tempo le aveva consegnato i propri quaderni: manda le bambole a Elena perché è la custode di un’intimità preziosa. Ma il gesto ha un significato ulteriore e simbolico.
La storia dell’amicizia fra Lenù e Lila è stata già scritta prima della tetralogia, è Un’amicizia, l’ultimo successo di Elena Greco. In seguito al quale Lila decide di non vedere né sentire più l’amica. Le varie storie che formano la quadrilogia (una congerie neppure destinata alla pubblicazione) non sono tanto la storia di quest’amicizia, rappresentata in modo più dettagliato, più segreto e più contorto e complicato di quanto non fosse in Un’amicizia: sono soprattutto una confutazione della smaterializzazione che Lila, scomparendo, ha fatto della vita che Elena ha condiviso con lei:
Lila come al solito vuole esagerare, ho pensato. Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia. Voleva non solo sparire lei, adesso, a sessantasei anni, ma anche cancellare tutta la vita che si era lasciata alle spalle. Mi sono sentita molto arrabbiata. Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta[42].
Elena racconta per ri-creare Lila, e preservare se stessa, la propria identità in quanto complementare a quella dell’amica. Elena ha bisogno di “essere”, come Lila di “non-essere”: il «progetto estetico»[43] di Lila – la dematerializzazione – rischia di essere il fallimento di quello di Elena. Con la restituzione delle bambole Lila nomina Elena custode della presenza, così come lei incarna ossimoricamente l’assenza, e permette alla ricostruzione di Elena di considerarsi riuscita, ne sancisce la legittimità. La restituzione salda definitivamente il doppio nella sua completezza, fondendo in un movimento unico la perdita e la restituzione – non due distinti progetti in competizione ma uno unico costituito da due momenti complementari sebbene opposti.
Il tema della presenza e dell’assenza, e del loro andare e tornare, si condensa nel finale. Il conteggio delle assenze risulta piuttosto corposo. All’origine del raccontare di Elena Greco è appunto la scomparsa di Lila. Ripercorrendo questa vita assieme a lei, Elena trova subito la prima sparizione, quella delle bambole, inghiottite dalla tenebrosa cantina (un metaforico inconscio, parente stretto degli stanzini tenebrosi già ricordati). La successiva scomparsa è quella del ritratto già semi-cancellato di Lila, bruciato per un’inspiegabile autocombustione. Scompariranno quindi i suoi diari, gettati da Elena nell’Arno. Riapparirà per subito sparire, buttato in un rogo da Lila stessa, La fata blu, il testo infantile che ha ispirato il primo libro di Elena. Scomparirà inspiegabilmente Tina, la figlia di Lila. Questo elenco non tiene conto di vari decessi e numerose perdite di altra natura[44].
Sul lato delle apparizioni o riapparizioni vanno d’altra parte conteggiati, oltre alle due bambole riconsegnate ad Elena nel finale, due libri, che narrano entrambi di Lila ed Elena, cioè il romanzo intitolato Un’amicizia e le successive storie raccolte nella quadrilogia. Al centro di tutta la narrazione c’è un’assenza senza spiegazioni, mentre il riapparire è lo scopo del raccontare così come il tema della conclusione.
Lo stesso tema è al cuore di un famoso racconto di Hawthorne, Wakefield, di cui parla Elena Ferrante in uno degli articoli raccolti nell’Invenzione occasionale. Si può riassumerlo con le sue parole:
Questo signore, Wakefield, vive nell’affollata Londra ottocentesca. Una mattina saluta la moglie e parte. Dovrebbe restare assente per pochi giorni, invece non lascia la città ma, senza una ragione, senza un progetto, va ad abitare a pochi metri da casa sua e per vent’anni, finché allo stesso modo impulsivo non fa ritorno dalla consorte, si limita a sorvegliare la sua propria assenza[45].
Ferrante è non meno determinata di Hawthorne nel mantenere un’elegante quanto risoluta discrezione sul possibile significato del racconto. Dice solo che, nel provare a riscriverlo con una donna per protagonista, si è accorta che, «quando bisogna immaginare una donna che per vent’anni resta a pochi metri dalla sua famiglia, la incrocia per strada, la vede soffrire, la osserva mentre muta fisicamente e tuttavia non recede, il racconto annaspa»[46]. Non esclude, tuttavia, sia possibile una donna-Wakefileld, che oggi «forse si spingerebbe oltre l’uomo-Wakefiled. Forse accentuerebbe l’assurdo di quel suo essere assente e insieme presente per scavare in profondità dentro una contraddizione che le è ben nota: il bisogno dell’altro e la necessità di liberarsene»[47].
«Il bisogno dell’altro» come si può qualificarlo se non come il legame definito dalla parola “amore”? Talvolta accade che si avverta la necessità di liberarsi da un simile legame. Specie quando la dipendenza – il bisogno – risulta dolorosa. E quando si presenta per la prima volta in una vita, in ogni vita, questa necessità? Quando si fanno i conti con «l’amore esclusivo per la madre, l’unico grande tremendo amore originario, la matrice inabolibile di tutti gli amori»[48].
Non può che venire in mente il piccolo Ernst, di un anno e mezzo, che Freud descrive in una famosa pagina di Al di là del principio di piacere. Ernst gioca con un rocchetto, facendolo scomparire e quindi riapparire, come se la scomparsa fosse definitiva e la ricomparsa meravigliosa. Il bambino, intuisce Freud, sta appropriandosi simbolicamente dell’abbandono che sperimenta quando la madre si allontana, provvisoriamente, da lui[49].
La madre, dunque. Il potere della madre è quello di scomparire e ricomparire, e la matrice di tutti gli amori contiene il dolore e l’elaborazione – quale che essa sia – di questo potere, con cui fare i conti. Far scomparire un oggetto transizionale come un rocchetto è un buon inizio, che può essere perfezionato. Nel raccontare il gioco del «bravo bambino», in una nota, Freud ne descrive una variante:
Un giorno la madre era rimasta fuori casa per parecchie ore, e al ritorno venne accolta col saluto “Bebi [= il bambino] o-o-o”, che in un primo momento parve incomprensibile. Ma presto risultò che durante quel lungo periodo di solitudine il bambino aveva trovato un modo per farsi scomparire lui stesso. Aveva scoperto la propria immagine in uno specchio che arrivava quasi al suolo, e si era accoccolato in modo tale che l’immagine se n’era andata “via”[50].
Dentro lo specchio vuoto c’è la mancanza e il desiderio della madre. Visto dalla prospettiva filiale, saper scomparire e ricomparire è un potere materno. Per liberarsi del bisogno dello sguardo della madre, di un amore che diventa molesto, si può imparare a svanire: uno specchio vuoto, il progetto estetico di cancellarsi, può essere il modo di appropriarsi di un potere materno di incomparabile valore. Così come la capacità di ricomparire, attraverso un proprio doppio – la propria immagine allo specchio – o eventualmente una bambola, o qualcosa di più complesso come un libro. Sparire e riapparire, come il rocchetto, come Wakefield, come le bambole di Elena e Lila. Il progetto estetico di Lila e del suo doppio assente si direbbe il perfezionamento estremo di questo gioco che si ripete, un gioco fatto su di sé, come quello del digiunatore di Kafka. E come ogni progetto estetico questo gioco chiede un pubblico. Per il piccolo Ernst, la madre; per Lila, Elena; per il doppio di Lila – il doppio di Elena Ferrante –, i lettori dell’Amica geniale.
Un simile potere materno, visto dalla prospettiva della madre stessa, si sostanzia egualmente di bisogno e di libertà. Se la responsabilità di esserci per l’altro è infatti una necessità, un bisogno e un vincolo, liberarsene è l’altra metà del proprio potere: non esserci, cancellarsi provvisoriamente, significa essere per se stesse fuori di un legame d’amore che determina e confina. Saper scomparire e ricomparire – se, quando, come, perché farlo – è il governo del legame affettivo. Ed è parte della sorveglianza con cui ci si prende cura del proprio Sé.
La madre è anche l’origine di un doppio con il quale carezze e duelli si confondono. Lo specchio, che secondo Lacan avrebbe la funzione di offrire al bambino consapevolezza della propria identità unitaria, a una donna, quando matura, può offrire un doppio inaspettato:
Una mattina ho visto me stessa allo specchio e l’ho riconosciuta, era lì, nel mio corpo [la madre]. E con sorpresa la cosa mi ha dato sempre meno fastidio, piano piano me la sono scoperta nei gesti, in un certo modo di mostrare o celare i sentimenti, nella voce. Se tornare dentro mia madre era impossibile, possibilissimo era invece che fin dalla nascita lei fosse dentro di me. E che dentro di me si trovasse anche quando mi battevo per sfuggirle, anche quando credevo di essermene liberata. Da quando mi sono resa conto che trovare me stessa significava trovare lei e accoglierla e amarla come succedeva da bambina, mi sono acquietata. A volte crediamo che la conciliazione passi per la capacità di dimenticare i torti ricevuti. E forse è vero, ma non nei rapporti con le madri. Io mi sono riconciliata con la mia quando quei torti – quelli che mi sembravano torti – li ho sentiti come parte di me, essenziali per la mia formazione, così essenziali da apparirmi ormai una mia invenzione, una mia colorita esagerazione[51].
«La vita vera, quando è passata, si sporge non sulla chiarezza ma sull’oscurità»[52]. La matrice inabolibile di tutti gli amori è anche il riferimento identitario con cui confrontarsi e da cui allontanarsi, prendendolo tuttavia con sé. Il doppio femminile non è una coppia, non solo, è una matrice di coppie, di doppi opposti e complementari, di bambole che si raddoppiano e hanno figlie, di sorelle-amiche tanto simili e così diverse, una matrice di opposizioni e affinità duali e moltiplicate. Creazione e perturbamento, identificazione e cancellatura possono essere opposizioni che si sovrappongono e si confondono. Il doppio femminile è assai più complesso del semplice, schematico doppio descritto dalla teoria letteraria, e la forma della psiche che disegna è differente.
La fortuna dell’Amica geniale è, forse, in relazione con questa particolare forma, che riconduce a unità narrativa la frammentazione e moltiplica le scissioni scomponendo in coppie l’unità psichica. Certamente una forma psichica tipicamente femminile, ma anche uno stile contemporaneo di soggettività, che in questa forma trova un modello esemplare.
- Euripide, Elena, introduzione, traduzione e note di M. Fusillo, Milano, Rizzoli, 1997 e 2018, pp. 47-49. ↑
- Ivi, p. 99. ↑
- E. Ferrante, La frantumaglia, lettera del giugno 2003 a S. Ozzola, in Ead., La frantumaglia, Roma, edizioni e/o, 2003 e 2015, pp. 93-160. ↑
- E. Ferrante, L’amica geniale, Roma, edizioni e/o, 2011, p. 7. ↑
- E. Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, Roma, edizioni e/o, 2013, p. 91. ↑
- Tiziana de Rogatis nel secondo capitolo della sua monografia su Elena Ferrante offre un ampio e completissimo riepilogo della relazione fatta di “simbiosi e alterità” che lega Lila e Lenù, interpretandola nella prospettiva dell’amicizia femminile. E afferma: «Lo ‘scarto’ continuo dall’orizzonte di attesa e dall’originaria promessa di complementarità impedisce di leggere l’amicizia come uno sdoppiamento o una gemellarità enigmatica. L’enigma, al contrario, nasce dal fatto che il passo del racconto si smargina, si rompe, denunciando continuamente il fallimento della simbiosi» (T. de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave, Roma, edizioni e/o, 2018, p. 76). In queste pagine, invece, il fallimento della simbiosi è inteso come ciò che determina la scissione in cui consiste il doppio. Il piano dell’amicizia femminile, largamente accreditato dal testo, rappresenta la traduzione realisticamente fedele e politicamente rilevante del sotto-piano mitico, psichico e simbolico che qui cerca una sua evidenza nella categoria di doppio. ↑
- Trattando della traduzione in inglese della tetralogia, Laura Benedetti osserva: «La difficoltà di decidere a chi tra le due bambine (e poi ragazze e donne) vada riferita l’espressione ‘amica geniale’ rimanda alla complessità dell’aggettivo: Lila è certo amica ma è anche rivale, ispirazione, genio. Il potere di Lila su Lenù (nonché, si potrebbe osservare, quello di Lenù su Lila, dato il gioco di specchi che si instaura tra le due) ha qualcosa di diabolico, come sottolineato dall’epigrafe faustiana» (L. Benedetti, Elena Ferrante in America, in «Allegoria», 73, 2016, p. 116). ↑
- E. Ferrante, Storia della bambina perduta, Roma, edizioni e/o, 2014, p. 451. ↑
- Cfr. E. Ferrante, La bestia nello stanzino, in Ead., La frantumaglia cit., pp. 103-16. ↑
- M. Fusillo, Tre punti-chiave per Elena Ferrante, in «Allegoria», 73, 2016, p. 151. ↑
- Scrive a questo proposito Tiziana de Rogatis: «La leggenda di Lila lampeggia sin dall’inizio con la ‘bambina terribile e sfolgorante’ (Amica geniale p. 43), e poi con il ‘bagliore che pareva uno schiaffo violentissimo’ (Amica geniale p. 260) della giovane splendida donna assimilabile a una divinità. Ferocemente determinata, cocciuta, irragionevole: per il rione diventa con il tempo ‘una specie di santa guerriera che spandeva fulgore vendicativo per lo stradone’ (Storia della bambina perduta p. 140), che emana ‘qualcosa di tremendo’ (Storia di chi fugge e di chi resta p. 188). I suoi tratti sono sovrumani: lo sguardo è acuto come quello di un ‘rapace’ (Amica geniale pp. 101, 307), il senso di sé è ‘esorbitante’ (Storia del nuovo cognome p. 120), le scelte ignorano il limite o il buonsenso (Amica geniale p. 60). Lila ha il potere di animare le cose, di travasare in esse la tensione della propria mente precoce e poliedrica (Amica geniale pp. 126, 226). Il suo corpo sprigiona una forza che Elena sente come travolgente (Storia della bambina perduta p. 253); il suo intenso erotismo, racchiuso com’è in una fisicità magra, scattante, nervosa, è in realtà potentemente antierotico o quanto meno estraneo ai canoni tradizionali del desiderio maschile» (T. de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave cit., pp. 159-60). ↑
- A seguito dell’autocombustione del pannello con l’immagine di Lila, Gigliola, accusata di averlo incendiato, si difende accusando a sua volta Lila di essere una strega. Lila con sarcasmo accetta l’accusa: «sono io che faccio del male alla gente», dice. E «su quell’ultimo punto c’era da sempre un discreto accordo», commenta Elena. Cfr. E. Ferrante, Storia del nuovo cognome, Roma, edizioni e/o, 2012, p. 141. ↑
- Cfr. F. Gallippi, L’amica geniale di Elena Ferrante: alla ricerca di Parthenope, in «Rivista di Studi Italiani», XXXV, 2017, 1, p. 211. ↑
- E. Ferrante, L’amica geniale cit., p. 261. ↑
- Cfr. J. Hillman, Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino, Milano, Adelphi, 2009. ↑
- E. Ferrante, La frantumaglia cit., p. 115. ↑
- M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Modena, Mucchi, 1998 e 2012, p. 24. ↑
- «Ciò che noi abbiamo superato sono però soltanto i fantasmi delle parole, non i fatti psichici che furono responsabili della nascita delle divinità. Siamo ancora così posseduti dai nostri contenuti psichici autonomi come se essi fossero divinità. Ora li chiamiamo fobie, coazioni e così via, in una parola, sintomi nevrotici. Le divinità sono diventate malattie, e Zeus non governa più l’Olimpo, ma il plesso solare»: C. G. Jung, Commento al “Segreto del fiore d’oro”, in Id., Opere, XIII, Studi sull’alchimia, Torino, Boringhieri, 1988, p. 47. ↑
- A questo proposito cfr. E. M. Ferrara, Elena Ferrante e la questione dell’identità, in «Oblio», VII, 26-27, 2017, pp. 47-55. ↑
- Accade talvolta che il rapporto stretto fra mondo fisico e psichico dia luogo a eventi particolari, come la pentola di rame a casa di Lila che si rompe da sola, o il pannello già ricordato che prende fuoco. In altri casi si presentano delle assonanze fra l’ambiente e lo stato interiore, come la prima smarginatura di Lila in mezzo alla battaglia dei fuochi d’artificio di fine anno o un’altra durante il terremoto del 1980. Alcune volte sembra quasi ci siano delle coincidenze segrete con eventi extra-testuali, come quando Elena getta i quaderni di Lila nell’Arno nei primi giorni di novembre del 1966 da un ponte – ponte Solferino – che, a causa dei danni riportati con l’alluvione pochi giorni dopo, crollerà; oppure la data curiosamente precisa – 9 marzo 1976 – dell’inaspettata visita di Nino che condurrà alla rottura del matrimonio di Elena, coincidente con l’imprevedibile rottura del cavo portante della funivia di Cavalese, un disastro che chi ha vissuto in quegli anni non può dimenticare. ↑
- Cfr. E. Ferrante, La frantumaglia cit., pp. 98-100. ↑
- E. Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, Roma, edizioni e/o, 2019, p. 180. Qui “sorveglianza” è sostituito da “compunzione”, con lo stesso significato e un analogo scarto semantico rispetto all’uso standard del termine. ↑
- E. Ferrante, La frantumaglia cit., pp. 158-59. ↑
- Cfr. O. Santovetti, Lettura, scrittura e autoriflessione nel ciclo de L’amica geniale di Elena Ferrante, in «Allegoria», 73, 2016, pp. 189-90. ↑
- Anche l’ipotesi – più che plausibile – di scelte paratestuali fortemente market oriented non cambia le cose. Certamente il rapporto sui generis fra il titolo del primo volume, ovvero dell’opera nel suo complesso, e i titoli dei volumi successivi al primo rende L’amica geniale una sorta di brand, sotto il quale si trovano vari prodotti testuali legati fra loro ma fruibili autonomamente, oltre che in successione. Intitolare il primo volume come l’opera (o viceversa) rende il primo volume il lancio della serie. Un accorgimento che chiaramente agevola la fruizione autonoma dei volumi è, inoltre, la lista iniziale dei personaggi, arricchita, in ciascun volume, di una sommaria descrizione che riassume il personaggio fino al punto in cui lo troviamo nel volume stesso. La ricerca del successo commerciale (che differenzia la quadrilogia dai precedenti romanzi di Ferrante) non contraddice, d’altra parte, la natura letteraria della tetralogia. L’essere avvincente è un tratto fondante della narrativa romanzesca moderna, non certo un suo tratto degradante. A tale riguardo cfr. R. Loretelli, L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa, Roma-Bari, Laterza, 2010; a proposito delle tradizionali resistenze della cultura letteraria italiana ad accogliere questo fondamentale aspetto del romanzo cfr. D. Mangione, L’esile coraggio del romanzesco. Elena Ferrante e un problema della narrativa italiana, in Nuove ricerche su Elena Ferrante, a cura di G. Traina e M. Panetta, Roma, Diacritica Edizioni, 2019, pp. 67-88; sulla “dipendenza” che accompagna la lettura della tetralogia e la struttura seriale della stessa cfr. M. Fusillo, Sulla smarginatura. Tre punti-chiave cit., pp. 148-50; sul melodramma e il feuilleton come modelli problematizzati nel ciclo dell’Amica geniale cfr. R. Donnarumma, Il melodramma, l’anti-melodramma, la Storia: sull’Amica geniale di Elena Ferrante, in «Allegoria», 73, 2016, pp. 138-47. Così Ferrante risponde a Terragni e Muraro che le chiedono cosa ci abbia trovato in «certi fondali bassi, come i fotoromanzi»: «Il gusto di avvincere i lettori. Il fotoromanzo è stato uno dei miei primi piaceri di lettrice in erba. Temo che l’ossessione di ottenere un racconto tesissimo, anche quando narro una storia piccola, mi venga da lì. Non provo alcun piacere a scrivere, se non sento che la pagina è emozionante. Una volta avevo grandissime ambizioni letterarie e mi vergognavo di questa spinta verso tecniche da romanzo popolare. Oggi mi fa piacere se qualcuno mi dice che ho scritto un racconto avvincente – per esempio – come quelli di Delly» (Il vapore erotico del corpo materno. Risposte alle domande di Marina Terragni e Luisa Muraro, intervista su «Io Donna» del 27 gennaio 2007, in La frantumaglia cit., p. 217). ↑
- Cfr. T. de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave cit., pp. 30-32. ↑
- Le confessioni di un’italiana è il titolo dato da Beatrice Manetti a un suo articolo su Ferrante (in «L’Indice dei libri del mese», XXI, dic. 2014, 12, p. 18) e ripreso da Tiziana de Rogatis nel titolo di un paragrafo (pp. 205-208) di Elena Ferrante. Parole chiave cit. ↑
- E. Ferrante, L’amica geniale cit., p. 75. ↑
- Ivi, pp. 72-73. ↑
- «Il dottore ascoltò con attenzione la mia descrizione dell’agonia e della morte di Otto. […] Anche con lui, come già col pediatra, mi venne l’impulso di raccontare la situazione borderline in cui mi ero trovata» (E. Ferrante, I giorni dell’abbandono, Roma, edizioni e/o, 2002, p. 177); «La storia di Olga è la storia di una crescente destrutturazione che arriva fin sulla soglia dell’infanticidio e della follia, poi bruscamente si ferma. Nel vortice del suo monologo l’io tritura tutto e tutti, innanzitutto il marito. Probabilmente ciò che Faenza chiama l’umanizzazione di Mario segnala solo la difficoltà di tenere insieme, sullo schermo, il realismo borghese di una comune crisi coniugale e un percorso femminile in prima persona, teso, angoscioso, borderline» (E. Ferrante, L’Olga imprevista di Margherita Buy. Risposte alle domande di Angiola Codacci-Pisanelli, intervista su «L’Espresso» del primo settembre 2005, in Ead., La frantumaglia cit., p. 178). ↑
- E. Ferrante, La frantumaglia cit., p. 95. ↑
- E. Ferrante, L’amica geniale, op. cit., pp. 85-87 e 172. ↑
- Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5), per capire se una persona soffre di disturbo borderline della personalità devono trovarsi almeno cinque di questi aspetti: un comportamento instabile, impulsivo o rischioso, esplosioni di rabbia e violenti litigi; un’immagine di sé e degli altri instabile, con oscillazioni fra l’idealizzazione e la svalutazione, e giudizi facilmente polarizzati (per esempio buono/cattivo o vero/falso); relazioni affettive intense ma instabili; marcati cambiamenti di umore; emozioni contrastanti e difficili da gestire; minacce o tentativi autolesionistici o suicidari; intensa paura di essere abbandonati; sentimenti di vuoto; difficoltà a riflettere sui propri stati emotivi e su quelli degli altri in modo coerente e lineare; sintomi dissociativi (per esempio sentirsi distaccati dalle proprie emozioni e dal proprio corpo) specie in situazioni di stress. ↑
- Cfr. T. de Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave cit., pp. 30-32. ↑
- Ciò che caratterizza la frantumaglia è che gli elementi psichici sono «senza l’ordine di una storia, di un racconto». Sono i nessi narrativi, quei legami fra intenzioni e azioni, fra stati mentali, sentimenti, emozioni e cognizioni, che formano il tessuto di una narrazione – ed è anche ciò che dà ordine all’esperienza di ciascuno. Questi nessi per il borderline risultano difficili: indovinare gli stati interiori altrui e i propri, e quindi il valore e il significato delle azioni. Così come ogni suo elemento interiore è debolmente connesso agli altri, e le gerarchie sono instabili, anche il mondo appare disordinato. I soggetti borderline hanno infatti, talvolta, qualche difficoltà nel cogliere il senso complessivo di una narrazione. La narrazione è, per così dire, un antidoto alla struttura borderline. ↑
- Sul doppio nei romanzi precedenti la quadrilogia cfr. C. Carmina, Ricomporre i frammenti: Cronache del mal d’amore, in Incontro con Elena Ferrante, a cura di D. La Monaca e D. Perrone, Palermo, New Digital Frontiers, 2019, pp. 13-26 e in particolare il paragrafo L’io, il doppio, il mondo che ribolle, pp. 19-21. ↑
- E. Ferrante, Storia della bambina perduta cit., p. 449. ↑
- Ivi, p. 450. ↑
- Cfr. E. Ferrante, L’amica geniale cit., p. 18. ↑
- Cfr. E. Ferrante, Storia della bambina perduta cit., p. 144. ↑
- E. Ferrante, Storia della bambina perduta cit., p. 449. ↑
- Cfr. E. Ferrante, L’amica geniale cit., pp. 18-19. ↑
- Cfr. E. Ferrante, Storia della bambina perduta cit., p. 433. ↑
- Di “realismo del sottosuolo” e di “mistero” parla a proposito delle sparizioni, ricorrenti nel mondo narrativo di Ferrante, Tiziana de Rogatis nella conclusione della versione inglese del suo Elena Ferrante. Parole chiave: cfr. Conclusion. Elena Ferrante and the Power of Storytelling in the Age of Globalization, in Elena Ferrante’s Key Words, New York, Europa Editions, 2019, pp. 276-91. ↑
- E. Ferrante, L’invenzione occasionale, Roma, edizioni e/o, 2019, p. 99. ↑
- E. Ferrante, L’invenzione occasionale cit., p. 100. ↑
- Ibidem. ↑
- E. Ferrante, La frantumaglia cit., p. 117. ↑
- [Il bambino] «non piangeva mai quando la mamma lo lasciava per alcune ore, sebbene fosse teneramente attaccato a questa madre che non solo lo aveva allattato di persona, ma lo aveva allevato e accudito senza alcun aiuto esterno. Ora questo bravo bambino aveva l’abitudine — che talvolta disturbava le persone che lo circondavano — di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi, talché cercare i suoi giocattoli e raccoglierli era talvolta un’impresa tutt’altro che facile. Nel fare questo emetteva un “o-o-o” forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale concordo, questo suono non era un’interiezione, ma significava “fort” [“via”]. Finalmente mi accorsi che questo era un giuoco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a “gettarli via”. Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a cui era avvolto del filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo “o-o-o”; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Questo era dunque il giuoco completo — sparizione e riapparizione — del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto. L’interpretazione del giuoco divenne dunque ovvia. […] Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia [della madre], inscenando l’atto stesso dello scomparire e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere» (S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, 9, L’Io e l’Es e altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, pp. 200-201). ↑
- S. Freud, Al di là del principio di piacere cit., p. 201, n. 1. ↑
- E. Ferrante, L’invenzione occasionale cit., p. 70. ↑
- Cfr. E. Ferrante, Storia della bambina perduta cit., p. 451. ↑
(fasc. 39, 31 luglio 2021)