Versi virali e follower, ingrate illusioni degli Instapoeti

Author di Sebastiano Triulzi

In un articolo apparso tempo fa sul «New York Times» intitolato Web Poets’ Society[1. A. Alter, Web Poets’ Society: New Breed Succeeds in Taking Verse Viral, in «The New York Times», 7 novembre 2015, consultabile su: www.nytimes.com/2015/11/08/business/media/web-poets-society-new-breed-succeeds-in-taking-verse-viral.html. Poi ripreso quasi alla lettera, o meglio un ricalco, dal «Post» col titolo Gli unici libri di poesia che si vendono, consultabile su: www.ilpost.it/2015/11/13/instapoets-poesia-successo], si sosteneva la tesi secondo cui ci troveremmo di fronte a una nuova generazione di poeti, più “furba” rispetto a quelle precedenti, che, grazie al fatto di avere centinaia di migliaia di seguaci sui social network, si sta mostrando capace di raggiungere il successo scalando le classifiche dei bestseller, di solito precluse al genere della poesia. La giornalista, Alexandra Alter, li chiamava Instapoeti perché sono soliti postare i loro versi su Instagram (o simili: usano anche Tumblr, Flickr ecc.). Il caso per lei esemplare era quello di Tyler Knott Gregson[2. Il suo profilo e i suoi versi sono consultabili su: www.instagram.com/tylerknott], che prima faceva il compilatore senza fortuna di ricettari e poi è divenuto uno scrittore ad alte tirature, potendo contare su un nutrito gruppo di sostenitori, quasi cinquecentocinquantamila follower (le sue raccolte avrebbero venduto più o meno trecentomila copie). A supporto, vengono riportati anche i dati di vendita di altri “postatori” affermati sui social network, quali Rupi Kaur[3. Consultabile su: www.instagram.com/rupikaur_], Lang Leav[4. Consultabile su: https://www.instagram.com/langleav] e soprattutto Robert M. Drake[5. Consultabile su: https://www.instagram.com/rmdrk], che ha beneficiato delle condivisioni e degli apprezzamenti pubblici da parte di Khloe Kardashian (che ha trentasei milioni di ammiratori dei suoi fotoritratti erotici e autocelebrativi).

In un successivo articolo sul «Guardian»[6. H. Qureshi, How do I love thee? Let me Instagram it, in «The Guardian», 23 novembre 2015, consultabile su: www.theguardian.com/books/2015/nov/23/instapoets-instagram-twitter-poetry-lang-leav-rupi-kaur-tyler-knott-gregson], Huma Qureshi ha raccontato la vicenda biografica ed editoriale della Leav, nata in un campo profughi in Thailandia e cresciuta in Australia e Nuova Zelanda, che è passata in soli tre anni da autopubblicarsi i libri di poesia a venderne trecentomila copie. Quando uscì la sua prima raccolta, Love & Misadventure, era seguita già da un nutrito gruppo di “amici” (cinquantamila follower) su Tumblr e riuscì a “piazzare” in un solo mese diecimila copie: a quel punto ha trovato un agente letterario e un editore negli Stati Uniti. Love & Misadventure è rimasto a lungo al primo posto per le vendite nella categoria delle poesie d’amore su Amazon. Sul sito della CBC, la televisione pubblica canadese, si può trovare anche una lista dei sette Instapoeti più celebri[7. CBC Books, When verse goes viral: 7 Instagram poets with more followers than you, 24 novembre 2015, consultabile su: http://www.cbc.ca/books/2015/11/instapoets.html], tra i quali trovano spazio anche due enfant du pays, Mustafa The Poet[8. Il suo profilo e i suoi versi sono consultabili su: twitter.com/mustafathepoet] e Adrian Hendryx, che pare abbia solo ottomila seguaci ma è molto apprezzato dai blogger.


L’assunto di fondo, probabilmente involontario, è che far credere di essere famosi rappresenta la via più rapida per diventarlo, il che talvolta si dimostra corretto: ma, a parte questo assioma, nell’articolo sono presenti alcune candide ingenuità e più di qualche pia illusione. Non è detto, infatti, che i follower siano una sorta di faro nel buio, un raggio traente di nuovi e (ap)paganti lettori, come invece sostengono i più importanti manager dell’industria editoriale italiana; il fatto di avere un seguito molto ampio su Twitter o Youtube può in questo senso aiutare a vendere tante o perfino tantissime copie di un libro (le performance in libreria di uno youtuber come Massimo Busotti sono in questo senso emblematiche); per ora almeno, però, una correlazione diretta, tranne rari casi appunto, non s’è vista. Magari accadrà in futuro, ma il futuro è, per antonomasia, incerto: la vendita di copie non è, infatti, una questione insignificante e secondaria per chi deve far quadrare i conti in una casa editrice, anche se un editore deve anche credere nei libri che pubblica

Torniamo al ragionamento dell’articolista del «New York Times», sintetizzando alcuni punti chiave che possono aiutare a comprendere ricorrenti misunderstandings sui poeti: gli Instapoeti starebbero ampliando il pubblico della poesia e in tal modo contribuendo a farla uscire dal ghetto in cui si trova rintanata da lustri; avrebbero, inoltre, aperto una strada nuova, accessibile e disponibile per tutti coloro che non riescono a pubblicare le proprie collezioni di poesia; una volta accumulate masse di cliccatori di like, infatti, è più facile invogliare un editore a scommettere sul proprio materiale poetico. Il loro esempio dimostrerebbe, poi, che il travaso di pubblico da un media all’altro non è soltanto possibile, ma automatico, diretto, e che si può, così, sfuggire all’emarginazione a cui alcuni sarebbero costretti dalla cultura dominante (e qui, evidentemente, c’è una critica al fatto che verrebbero pubblicati solo gli amici degli amici nelle collane di poesia più note); infine, e soprattutto, la fama acquisita sui social avvicinerebbe i lettori al mondo della poesia, restituendole quel ruolo di guida che aveva un tempo


Il primo e più importante equivoco è che quella dei protagonisti citati sia davvero poesia: sentimentali, stucchevoli e poeticanti, molti versi messi in rete esprimono sicuramente una sensibilità d’animo, ma non c’è una sola “frase passabile”, non una con cui si possa assaporare una qualche verità. Ecco un paio di esempi: «Giorni senza di te / ogni singola parte di me / ti sta chiedendo di tornare a casa», «Ti stringerò ancora più forte / non importa quel che succederà» (Gregson); «Non dimenticarmi mai / e io sarò sempre con te. / Terrò compagnia a tutte le cose dentro di te che si sentono sole» (Drake); «Amarti è avere di nuovo dieci anni / scalare un albero con i miei occhi luccicanti che guardano il cielo / voler salire sempre più in alto, senza pensare a come tornare giù» (Lang Leav)

Stiamo leggiamo parole che vanno a capo, più o meno spezzate: non versi, ma tenere cartoline d’amore visivamente confessionali, pensierini da adolescenti e dunque poco strutturati filosoficamente, che lusingano di fatto la vanità di chi scrive come quella di chi guarda (e legge). Così, come i primi si illudono di fare poesia, gli altri si illudono di leggere poesia. Le frasi si adattano al formato dello schermo, come una torta alla sua teglia: talvolta gli autori fingono di averle scritte con una penna stilografica su carta invecchiata, talaltra compaiono sullo sfondo immagini new age che ne rispecchiano il contenuto a basso profilo erotico-sentimentale, per cui i versi si leggono tra paesaggi paradisiaci con onde che si infrangono o spiagge solitarie dove donne bellissime sembrano assorte nella loro malinconia, tra animali selvaggi o fantastici come gli unicorni, o tra gli immancabili amanti che si abbracciano sotto il chiaro di luna. Questi versificatori dilettanti appartengono alla categoria di persone secondo cui la poesia sgorga naturalmente dall’anima: siamo nella tradizione dei Baci Perugina, per cui la poesia è un bacio, un tenero bacio al cioccolato. Autodefinirsi poeti non è, tuttavia, sufficiente per esserlo veramente: e gli Instapoeti sono come uno che scrive a caso dei numeri sulla lavagna e poi se ne va in giro dicendo a tutti di aver scoperto una nuova formula matematica.


Nella storia della letteratura c’è, però, una strana garanzia: non è mai accaduta una vera ingiustizia, cioè che un libro mediocre venisse riconosciuto come un capolavoro o diventasse un classico e sedesse nella stessa tavola vicino a Dostoevskij, a Joyce, a Proust. Gli anni, i giorni, le ore della nostra vita sono riempiti per lo più non dalla letteratura vera e propria ma dalla chiacchiera della letteratura: siamo strapieni di romanzi più o meno seri, di raccolte poetiche più o meno serie, e di tutto questo non resterà nulla. Verranno spazzati via. Se tale garanzia, o tradizione, rimane, non c’è da preoccuparsi: il tempo è inesorabile e instancabile, la sua opera di falciatura della mediocrità delle produzioni non si interrompe mai. Tutto ciò può essere considerato estremamente crudele, però ci restituisce un senso di imparzialità, di rettitudine, perfino dà uno strano sollievo. Anche persone considerate fino a ieri professionisti della letteratura, dopo la morte vengono tristemente dimenticate: chi andrebbe oggi a comprare, per dire, un libro di Alberto Bevilacqua, che ha avuto tante soddisfazioni in vita, ha fatto il pieno di medaglie e premi (Strega, Campiello, Bancarella), eppure è già scomparso come scrittore? I mercatini sono pieni di questi cimiteri di titoli che non valgono ormai nulla: possiamo trovarne uno su una bancarella con ancora la fascetta del premio vinto; sulla quarta di copertina si può leggere «Il mondo non potrà più fare a meno di questo scrittore». Ma chi è?, ci si chiede: poi lo si gira e c’é scritto Lucio D’ambra. La verità è che anche quelli bravi o molto bravi vanno via: figurarsi tutti gli altri


In un brano dello Zibaldone che potrebbe essere datato anche al 2015, Leopardi paragona la sorte di questi libri a quella di alcuni insetti chiamati effimera, che vivono poche ore o pochi giorni: «La sorte dei libri oggi, è come quella degl’insetti chiamati efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni»[9. G. Leopardi, Zibaldone. Pensieri di varia filosofia e bella letteratura, Firenze, Le Monnier, 1921, p. 891.]; e più avanti:

(Molti libri oggi, anche dei bene accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Se poi si volesse aver cura della perfezion dello stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcuna con quella della lor produzione; allora sarebbero più che mai simili [4272] agli efimeri, che vivono nello stato di larve e di ninfe per ispazio di un anno, alcuni di due anni, altri di tre, sempre affaticandosi per arrivare a quello d’insetti alati, nel quale non durano più di due, di tre, o di quattro giorni, secondo le specie; e alcune non più di una sola notte, tanto che mai non veggono il sole; altre non più di una, di due o di tre ore)[10. Ivi, p. 892.]

Rispetto ad allora si è moltiplicata la popolazione e così l’alfabetizzazione o la produzione industriale di libri, e in modo direttamente proporzionale è aumentato anche il numero di volumi che durano meno d’un battito di ciglia: il tempo, indifferente agli annunci del marketing, non ha diminuito la propria carneficina, persevera indifferente nell’opera di distruzione, e questo nonostante le possibilità infinite di immagazzinare e di rendere potenzialmente eterni i dati. Forse, volendo fare un gioco, dovremmo preoccuparci se intorno a noi tutti iniziassero ad affermare che Dante è in realtà un grande bluff o che con Leopardi la civiltà ha preso un abbaglio per secoli: penseremmo di trovarci in un romanzo di fantascienza, in uno scenario distopico, fantapoetico, e ci scandalizzeremmo pensando che non ci sia più un vero criterio di giudizio; ma tutto ciò non succede proprio perché c’è questa assicurazione dell’intelligenza, o della passione, o della serietà, che al momento preserva il mondo della letteratura (come quello dell’arte e della musica) attraverso una selezione ferocissima. Una grazia divina, se vogliamo metterla così, che al momento protegge e salva la vera grandezza

Per molti il problema nasce dal fatto che dovrebbe essere compito del mondo della critica stilare una classifica, indicare delle priorità, stabilire delle corrette proporzioni tra i libri; la verità è che difficilmente si riesce in questo compito. Quando ha partecipato a un concorso indetto dall’Accademia della Crusca nel 1830 con le Operette morali, Leopardi è arrivato ultimo, ricevendo un solo voto, quello di Gino Capponi (primo fu Carlo Botta con la Storia d’Italia). Ogni tanto accade anche l’opposto: ad esempio, I promessi sposi ebbero un grande successo. Ci si chiede sempre: ma com’è stato possibile? non si rendevano conto? Nel frastuono del presente, e a maggior ragione questo accade oggi, spesso non si fa in tempo a captare dove si trovi il capolavoro, anche quando capita sotto gli occhi


Proprio perché non si riesce a stimarli letterariamente, non ha alcun senso nutrire rancore o dispiacere o fastidio per il successo economico degli Instapoeti: anzi, quando ci si imbatte in qualcuno di loro che ha fortuna divenendo ricco e famoso, di solito uno su un milione, a meno che conoscendolo di persona non risulti spocchioso, superbo, antipatico, si può essere contenti per lui. È bene che abbiano successo, perché comunque, dal punto di vista della storia letteraria, sono destinati a sparire. E, dal momento che non sembrano spinti dalla motivazione di fare soldi, non scatta neanche alcuna condanna morale: questo principio resta valido pure nei confronti di altri autori, meno disarmati e più smaliziati, come ad esempio Fabio Volo, che è un caso emblematico anche in un altro senso, perché non si comprende come mai sia voluto passare, dopo l’esperienza in televisione, al cinema e al romanzo; vuol dire che il successo televisivo non appaga mai completamente, che c’è qualcosa che manca, per cui si prova a fare il romanziere anche se non si viene caratterizzati come tali quando si viene presentati; e poi il regista: insomma, si fanno tante cose, tentando di accreditarsi come artista anche se si rischia di cadere nel ridicolo


La vulgata per cui i nuovi mezzi di comunicazione sarebbero perfetti per il formato della poesia (vista la sua brevità e le frasi spezzate, la nuova visualizzazione e retroilluminazione delle parole, le possibilità pressoché infinite dell’ipertesto, l’incrocio con altri linguaggi come il video o la musica ecc.) si scontra con i dati di realtà, con un’indifferenza sempre crescente: anche se tecnicamente gli odierni supporti tecnologici potrebbero essere perfetti, per ora la versificazione ne è espulsa. L’idea che queste composizioni improvvisate aiutino la poesia a trovare un pubblico più ampio appare insieme puerile ed errata, e ha la stessa valenza di chi si dice convinto che digitare tanti sms aiuti a scrivere bene: basta entrare in un’aula scolastica durante il tema di italiano per capire che non è così, che i ragazzi oggi trovano molte difficoltà a portare a termine decentemente un compito scritto


Questo tipo di produzione non rappresenta tantomeno un’introduzione o un primo gradino verso la vera poesia, non amplia in nessun modo la platea di consumatori: chi sosterrebbe, infatti, che i bigliettini dei Baci Perugina hanno avvicinato le persone alla poesia? Oltretutto, i famosi cioccolatini sono “farciti” di frasi tratte dalle opere di Shakespeare, Petrarca, Dante ecc., non da quelle di esordienti. Quando si leggono gli Instapoeti, invece, si leggono parole che vanno a capo: e di certo in un altro mondo risiedono i lettori di poesia. Non c’è, tuttavia ˗ lo ribadiamo ˗, un motivo per cui dovremmo eliminare dal mercato questo tipo di pubblicazioni molto consolatorie: il pensiero di possedere una ricchezza interiore in un mondo gretto, dove la maggior parte degli individui sembra stare attenta solo al proprio aspetto fisico e alle stupidaggini più varie, può essere un po’ presuntuoso, certo, ma necessario. Qualche stampella bisogna pur averla se non si vuole che l’io si affossi, che tutto diventi fango, e allora ben venga anche questo elemento spirituale in cui il sentire viene ridotto alla categoria del sentimentale, del kitsch. Il nutrimento di sentimentalismo serve a tutti nella vita, indistintamente, con buona pace del Seymour di Salinger che, reduce dall’orrore della guerra, va a vedere un film con la sua ragazza, imbestialendosi perché lei si intenerisce per un gattino, e finisce per immaginarsi con scherno lo sguardo di Dio nei confronti di questo micetto e per compararlo con lo sguardo della sua fidanzata

Quasi ogni giorno nelle case editrici arrivano raccolte di questo livello, sentimentali e piene di una stucchevole sensibilità d’animo: alcune sono accompagnate da lettere in cui spesso si cita, come prova del nove della loro validità, il fatto che gli amici piangono quando leggono tali versi. Anni fa uscì per Bompiani un libro di Fabio Mauri, 21 modi di non pubblicare un libro[11. F. Mauri, I 21 modi di non pubblicare un libro, prefazione di U. Eco, Bologna, il Mulino, 1990.], con la prefazione di Umberto Eco, in cui venivano riportate alcune di queste lettere, che contenevano testimonianze su tutti gli atteggiamenti tipici dei lettori; ad esempio, non mancava mai la missiva dello sfacciato, che scriveva: «lo so che non le leggerete mai le mie poesie», a voi «importa solo dei vostri amici» ecc.. Da sempre questa speciale tragicommedia aleggia intorno alla poesia


Il pericolo, per alcuni degli Instapoeti, è semmai quello della vanità, di ritenere di essere toccati dalle Muse, di possedere una sorta di eccellenza rispetto agli altri, rispetto alla volgarità comune degli uomini, con insito il vizio di sentirsi come degli albatros baudelairiani che tendono a volare alti. Una delle conseguenze di avere una grande sensibilità d’animo e di trasporla in poesia è che molto facilmente si diventa razzisti dello spirito, manichei della sensibilità. C’è una colpa morale in questo sentimentalismo pseudo-letterario: la colpa sta nel vezzeggiare la propria malinconia e sensibilità per farne un lamento, nell’andare a capo invece di imparare a scrivere in versi, nel credere che ciò che esplode dal proprio cuore sia degno, nel valutare grande solo quello che è al proprio livello, nell’essere soddisfatti delle proprie peculiarità, della proprie specificità e doti. Tutto questo senza veramente voler far fatica nella lettura (per accedere con cognizione alle opere di Goethe, Leopardi o Rilke bisogna impegnarsi), senza un profondo rapporto con gli altri, con i grandi, senza voler superare il proprio egotismo


La vera poesia appare quasi non conoscibile, non pienamente fruibile (ancora e purtroppo) dal cosiddetto grande pubblico: e non viene baciata dal successo tranne che in casi miracolosi – Szymborska o Sandro Penna, ad esempio, la cui poesia è, come diceva Saba, talmente onesta che riesce a riecheggiare in più persone. Pensiamo alle Elegie Duinesi, alla Terra desolata, ai Cantos, o a una raccolta come La bufera e altro: avvicinarsi a questi testi è arduo anche per una persona molto colta, se non si sono compiuti studi specifici. Hoelderlianamente, la poesia è una lingua, una lingua parlata dai poeti, che la devono pronunciare (questo è il loro dovere), e come tutte le lingue magiche o misteriche è soggetta allo scimmiottamento, all’imitazione, infine al comico. Per un pubblico non educato alla poesia diviene complicato distinguere un grande poeta da un cattivo poeta e può finire che rida in tutti e due i casi, o che si esalti in tutti e due i casi: il nucleo profondo dei versi di Baudelaire sul poeta come albatros non riguarda il fatto che il poeta si considera superiore mentre gli altri uomini non lo riconoscono come tale, o almeno non solo questo, ma il fatto che in realtà, quando sta tra gli uomini, il poeta appare goffo, è uno che zoppica e incespica, e perciò è oggetto di continua derisione.


La verità è che la poesia è pericolosa, lo è persino per i grandi poeti: anche Saba o Caproni rischiano ogni volta. Stranamente, già dall’Ottocento s’appresta a diventare anacronistica, un’attività un po’ buffa e un po’ vergognosa, non solo perché rovinata da miliardi di cattive poesie. Anche oggi, se un concorrente nella casa del Grande Fratello vuole leggere agli altri reclusi «morti di fama» come lui un capitolo di un suo romanzo, glielo lasceranno passare; ma, se si mette a declamare versi, è assai probabile che lo prenderanno in giro, che diventerà per tutti un buffone. Al «Costanzo Show» di tanto tempo fa c’era chi leggeva le proprie poesie sul palco e per cinque minuti veniva letteralmente messo alla berlina (quando non direttamente insultato da un altro ospite o dal pubblico stesso). La televisione appartiene a quella tipologia di mass media che tende a deridere la poesia, è un mezzo perfido, ostico per i poeti: in una trasmissione della fine degli anni Ottanta che si intitolava Poeti in gara, perfino Amelia Rosselli (in tenzone contro Valentino Zaichen) o Attilio Bertolucci (contrapposto a Toti Scialoja) fecero una misera figura. Certo, bisogna togliersi di dosso il proprio abito intellettuale dato dal piacere di sentir recitare i loro versi, ma oggettivamente bisogna riconoscere che si mostrarono ridicoli dal punto di vista della presa televisiva, perché non “bucavano lo schermo”: in quelle puntate, se escludiamo coloro che recitavano poesia comica, tutti gli altri diedero di sé un’immagine involontariamente “disastrosa”, perché il tono la parola i versi non reggevano in alcun modo

Il poeta può essere sempre soggetto al ridicolo ed è per questo che la poesia, a meno che non si ricerchi un impegno civile, ha bisogno di silenzio, e di un pudore assoluto.

(fasc. 8, 25 aprile 2016)