Mappare e disambientare
Antigone mi parlava con così tanta naturalità che mi ci volle del tempo per riconoscere che era proprio lei, Antigone, colei che mi stava parlando. Ricordo in modo indelebile le prime parole che mi risuonarono all’orecchio: “nata per l’amore sono stata divorata dalla pietà”. Non la forzai a dirmi il suo nome, perché mi resi conto da sola di chi era, Antigone, che io avevo come una sorella e sorella di mia sorella, che allora era viva ed era lei che mi parlava1.
Così Maria Zambrano, ormai anziana, rievoca nel prologo di Senderos le circostanze che hanno dato avvio al lungo itinerario compositivo culminato nel 1967 con la pubblicazione della Tomba di Antigone (La tumba de Antígona), ma simili parole potrebbero essere state pronunciate da altre intellettuali, scrittrici e artiste che nel corso del Novecento e oltre si sono rivolte ad Antigone in cerca di una sorta di solidarietà sororale da cui trarre ispirazione e sostegno. Anche nei casi di autrici che, come emergerà nel corso dei capitoli, hanno inteso mostrare i limiti di tale sorellanza, il moto relazionale stabilito non è venuto comunque meno e, mettendo «in gioco la soggettività di chi parla»2, ha permesso di circoscrivere un territorio di azione femminile all’interno dell’impennata di riscritture, riletture e messinscene del dramma sofocleo che si è registrata negli ultimi ottanta anni.
Una simile focalizzazione sulla sorellanza può apparire il frutto di una decisione arbitraria e senz’altro lo è se per arbitraria si intende una scelta che prende origine dalle motivazioni più personali e profonde della ricerca, volte a restituire le modalità con cui la figlia di Edipo ha potuto trasformarsi in un archetipo letterario non solo della disobbedienza civile, ma più specificatamente di una disobbedienza esercitata in un orizzonte di genere: nella misura in cui «Antigone emerge con una individualità in cui il femminile è componente essenziale sostanzialmente perché è in relazione con lo sguardo femminile che la interroga»3. Per questo, riconoscere nella protagonista sofoclea un’occasione per riflettere sul superamento degli stereotipi patriarcali che hanno governato il rapporto fra privato e pubblico, fra etico e politico, nell’esperienza femminile non è il prodotto di un processo indolore, bensì il frutto di una crescente attitudine a elevare il personaggio a figura della conquista da parte delle donne del diritto di far sentire la propria voce e i propri desideri nello spazio di una comunità.
Data questa impostazione metodologica, non si proporranno disquisizioni sul significato generale del mito e della tragedia, così come non mi occuperò delle analogie e differenze tra racconto mitologico, invenzione letteraria e pensiero filosofico, o delle costanti antropologiche che, nel passaggio dal genere teatrale della tragedia al modo tragico dell’immaginario, legano l’antico al moderno. Né si troverà qui alcun tentativo di offrire un’analisi del testo di Sofocle; semmai, dall’Antigone citerò in maniera orientata sulla ricezione per mostrare da quale suo segmento o da quali sue ricorrenze lessicali si diparta un certo percorso tematico.
Il mio lavoro è stato più circoscritto rispetto alla capillare ricognizione che lo sconfinato panorama della ricezione contemporanea dell’Antigone richiederebbe per essere globalmente mappato, sebbene un’operazione di mappatura ne abbia comunque costituito il presupposto: come strumento necessario per orientarsi nel crescendo tematico attraverso cui, all’interno del corpus testuale preso in esame, Antigone ha potuto trasmutarsi da personaggio patriarcalmente pregiudicato in punto di riferimento per una critica militante di genere. A tale metamorfosi, del resto, allude il sottotitolo di questo volume: disambientare significa spostare il personaggio, con un effetto di straniamento, dalla sua origine nell’attualità, da Tebe a Scampia, dalla letteratura classica agli scenari contemporanei segnati dalla guerra, dalla violenza e dalla violazione dei diritti, ogni volta rinnovandone e valutandone la disponibilità all’attualizzazione.
Il concetto della disambientazione merita qualche spiegazione in più. Se mira a indicare lo sradicamento della vicenda antigonea dal contesto di partenza, non di meno vuole sottolineare la reciprocità del rapporto: anche il presente risulta mutato e straniato dall’intervento mitologico. Laddove ‘ambientare’ o ‘riambientare’ si fanno carico di una visione più statica e risolta, con ‘disambientareʼ la relazione aspira ad essere più dinamica e inquieta, più dialogica e interrogante, al punto che potremmo anche mettere in discussione quale sia in effetti il punto di partenza e quale quello di arrivo, se, cioè, venga prima Tebe o Scampia. Si tratta di una modalità di approccio ai testi che può trovare un parziale modello in Alice disambientata, l’esperimento didattico messo in atto da Gianni Celati nel corso universitario che egli tenne, come si legge nella nuova edizione del libro da esso tratto, nell’allegra primavera bolognese del ’77. Prima che, secondo l’autore, le manifestazioni anarchiche e spontanee di quella stagione in breve tempo si rovesciassero, con la complicità degli stessi protagonisti, nella seriosa e ingabbiante istituzionalizzazione della protesta, Alice si era trasformata nella figura per antonomasia di un sapere anarchico e fluido, queer ante litteram:
Il nome di Alice era stato messo in giro dalla controcultura americana, ed era diventato una parola d’ordine per riferirsi a quel tipo di aggregazione sparsa e senza gerarchie che è stato chiamato ‘movimento’4.
Antigone non possiede, com’è ovvio, la levità anguillesca di Alice, anzi uno dei suoi caratteri più tipici è senza dubbio la pesantezza della sua ostinazione e del suo destino; eppure così tante e cangianti sono state le interpretazioni che la ricezione della tragedia ha finito per essere distinta da un moto non meno vorticoso di quello che caratterizza il personaggio di Carroll. Se, da fedele sorella dedita al culto della famiglia, Antigone ha potuto mutarsi nella pietosa vergine del teatro francese o nell’indignata antagonista del XXI secolo, ciò suggerisce quanto e quante volte, sottoposta a un’incessante attualizzazione, essa sia stata straniata e disambientata, anche se non è poi così semplice fissare de iure i limiti di un simile processo: oltre quale soglia il movimento disambientante tracimi in una mitopoiesi prêt-à-porter, ritagliata nelle più svariate fogge per comprovare ad hoc ciò che si vuole sostenere – ma questo vale anche per Alice o qualsiasi personaggio.
Nella sua pioneristica storia delle riscritture teatrali dell’Antigone Cesare Molinari individuava il principale rischio in tal senso nella generalizzazione del riferimento al personaggio, riscontrabile ogniqualvolta il conflitto al cuore della tragedia venga presentato «come modello esemplare di un determinato tipo di dramma – quello che si esaurisce […] nello scontro tra due volontà irriducibili»5. Più recentemente, in un intervento a un convegno tenutosi a Genova nell’anno accademico 2002-2003, Margherita Rubino ha riscontrato, non solo nel dibattito giornalistico,
tre modi ricorrenti di nominare Antigone. In primo luogo, esistono i casi-Antigone: il nome dell’eroina di Sofocle viene attribuito ad eroine della cronaca o della politica […]. In modo differente, entro una seconda e più vasta casistica, viene creata una equivalenza tra Antigone e i diritti umani, fino a che non si avverte neppure più l’interscambio tra il nome proprio e l’idea giuridico-civile che quel nome va a rappresentare. Proprio questa antonomasia finisce curiosamente con il diventare, nel terzo caso, etichetta dai molti colori, andando a ricoprire tipi e azioni al femminile del tutto diverse ed opposte tra loro6.
Tuttavia, se è indubbio che tanto più si generalizza quanto più si riduce il mythos antigoneo a motivo deprivato della sua trama7, stabilire una volta per tutte il tracciato della frontiera dei riusi che ci appaiono giustificati non è semplice. Né sembra offrire una soluzione il mero ricorso al principio della fedeltà al testo, se in suo nome si considera snaturante o distorcente ogni forma di distacco rispetto alla lettera dell’originale sofocleo, oppure, qualora si riconosca la legittimità delle «libere interpretazioni o addirittura riscritture del mito in senso lato»8, si prendono poi le distanze dalla possibilità che esse «forni[scano] una chiave di lettura puntuale o anche soltanto attendibile del dramma sofocleo»9.
Una così netta separazione tra zone di competenza e attendibilità non mi pare proficua: in primo luogo, essa non giova né alla filologia classica né alla comparatistica moderna, isolandole ciascuna nel proprio hortus conclusus; in secondo luogo, si rischia di devitalizzare gli studi classici, sottraendoli al concreto movimento della produzione culturale. Ciò non vuol dire ignorare la specificità dei metodi e degli obiettivi dei diversi ambiti, ma dubitare che il concetto di attendibilità sia il più consono a mettere le basi per quel dibattito interpretativo che le riletture, le riscritture, le messinscene, le trasposizioni stimolano sotto forma di investimento semantico e interrogazione del testo classico. Inoltre, in ambito specificatamente critico, il confine della divisione del lavoro risulta più sfumato del previsto una volta che si tenga conto del fatto che ogni approccio a un testo si situa nel circolo ermeneutico innestato dalla ricezione di quest’ultimo:
Quando si applica a un testo dell’importanza di Antigone, la ‘comprensione’ […] è storicamente e attualmente dinamica. È un processo di accordo e disaccordo fra l’autorità cumulativa e selettiva dell’opinione dominante e la sfida della supposizione individuale. La lettura non è mai statica. Il significato è sempre mobile. Esso si dispiega […] nello spazio semantico disegnato […] dai grammatici e dai critici, dagli attori e dai produttori, dalla musica e dalle arti visive nella misura in cui ‘rappresentano’ o immaginano l’opera10.
Sono le parole con cui nelle Antigoni, forse il saggio, risalente al 1984, più celebre sulla ricezione della tragedie, George Steiner sottolinea quanto di fronte a un’opera di tali proporzioni i processi di comprensione prendano origine da una circolazione dinamica e stratificata di saperi: per citare Coleridge, «tra noi e il testo esiste “un ponte levatoio della comunicazione”»11, sollevato il quale il processo critico si interrompe e ci arrendiamo al mutismo. Non di meno la citazione offre il dovuto correttivo a eventuali tentazioni di un’ermeneutica anarchica e autogiustificativa: non tutti i ponti hanno la stessa solidità, ma sono quelli che attraversano con cognizione di causa lo “spazio semantico” della ricezione a consentirci di pervenire a un fondato e consapevole approccio al testo e alla sua fortuna. Più opportuno sarà quindi valutare di volta in volta il valore o meno dell’interpretazione in questione in base ai parametri che il metodo di ricerca adottato fornisce, indicando non solo i modi e finalità, ma anche i rischi che lo accompagnano. Così, se sul versante della filologia classica si dovrebbe superare il regime di sospetto nei confronti delle incursioni del moderno nelle riserve del mondo antico e meglio comprendere la militanza culturale che sta dietro ai presunti cliché o impressionismi della comparatistica, sul versante modernista si dovrebbero evitare difetti metodologici come la riduzione della classical reception a un decontestualizzato e biunivoco rapporto fra testi, l’assolutizzazione atemporale del canone classico o la proiezione acritica di attributi del contemporaneo nell’antico12.
Per cogliere come la dialogicità dei metodi e dei saperi più specificatamente coinvolga il caso di Antigone può essere utile ricordare il dibattito a cui dettero vita tra il 1988 e il 1989, in un seminario tenutosi al Collège International de Philosphie di Parigi, le studiose francesi Nicole Loraux e Françoise Duroux, che l’ha poi ricostruito nella prefazione al suo Antigone encore. Les femmes et la lois (1993)13 citando di Loraux, filologa classica cui si devono molteplici studi sul femminile in Grecia, un passo delle Madri in lutto, uscito nel 1990:
ciò che rivendicano le madri dei Sette o la sorella di Polinice non è nient’altro che il normale adempimento dei riti dovuti ai morti, e per quanto poco sia stato compiuto secondo le regole, il rituale funerario non si presta in nessun caso ad uno slittamento femminile verso l’ignoto. […] tutto sommato, Antigone non è altro che una congiurata solitaria, in altre parole una figura di oxymoron. Per assimilare la figlia di Edipo ad una rivoltosa, come molti hanno fatto, dovrei del resto dimenticare tante specificità greche! Dimenticare che ciò che vuole Antigone è onorare il corpo morto di Polinice e non ‘rovesciare’ Creonte o riabilitare politicamente la memoria di suo fratello; dimenticare che Antigone non si opporrebbe all’ordine del tiranno se il morto fosse suo marito e non suo fratello… Dimenticare, infine e soprattutto, che Antigone è un personaggio della tragedia e in tal modo testimonia precisamente quali sono i limiti al di là dei quali non si può sovvertire il pensabile14.
Duroux, proveniente dall’ambito del femminismo e degli studi di genere, vedeva le cose in tutt’altra maniera, chiedendosi in primo luogo «a che cosa può servirci Antigone oggi»15 e «che cosa ‘ci’ dice»16:
che Antigone sia un personaggio della tragedia, nessuno lo negherà. […] Il suo gesto non può essere assimilato al compimento ‘normale’ dei riti dei morti, e la tragedia potrebbe ben mettere in scena una doppia questione: quella dell’accesso delle donne (e non solo delle madri) all’agorà, del loro diritto a una parola più articolata del canto dell’usignolo; quella di ciò che vogliono dire le donne, attraverso questo grido d’uccello al quale il loro posto le riduce17.
Di fronte a posizioni così divergenti ma anche così ben motivate si intuisce che limitarsi a dare ragione a una studiosa e torto all’altra costituirebbe una scorciatoia metodologica, tanto più che, se possiamo riconoscere nelle due autrici rispettivamente una prospettiva filologica e una prospettiva ermeneutica, il pericolo è di cristallizzare tali approcci in un aut aut non meno radicale di quello che sta dietro allo scontro di Antigone e Creonte. Per questo, a mio avviso, non si tratta di schierarsi, ma di muoversi negli spazi aperti dalle relazioni che tra antico e moderno si possono stabilire, e di farlo con uno spirito costruttivamente disambientante. È possibile, alla luce di una storicizzazione della tragedia nell’Atene del V secolo, che Antigone non stia rivendicando niente di così eccezionale dedicandosi a un’attività pienamente conforme al ruolo delle donne in quell’epoca, ma sicuramente il suo comportamento, visto da una prospettiva contemporanea come la nostra, crea sulle “specificità greche” una tensione di senso che rivitalizza il classico nel confronto con le domande del presente.
È questa responsabile fluidità, dialogica ed etica al contempo, che ben coglie un arguto ed equilibrato intervento di Flavio Baroncelli nel già citato convegno genovese dei primi anni Zero:
[Antigone] non è femminista, non è libertaria, e via enumerando nobilissime cause: ma ha ‘prodotto’, ha ‘causato’ femminismo, libertarismo, e via enumerando. Ciò non toglie che i contenuti di quell’energia inesauribile li dettiamo noi. E li attribuiamo poi ad Antigone facilmente, proprio perché i contenuti che nel testo esistono davvero sono chiari e precisi solo all’interno di un contesto religioso, etico e politico così diverso dal nostro, che un lettore entusiasta non si accorge della sua esistenza18.
Il discorso non si esaurisce però qui: se rischiamo di dimenticare il contesto originario della tragedia perché, presi dall’entusiasmo, siamo impegnati a notare «troppe altre cose meravigliose, ed esso è così diverso dal nostro mondo da risultarci trasparente»19, ciò accade perché l’Antigone è in grado di “produrre e causare” un gioco al rilancio che coinvolge «femminismo, libertarismo, e via enumerando». Simili osservazioni, peraltro, ci immettono direttamente nello spirito e persino nell’entusiasmo dei capitoli che seguiranno: se le disambientazioni di genere fanno parte di una ricezione che ha ampliato lo spettro tematico iscritto nella tragedia, ciò sarà da considerarsi non una distorsione ermeneutica, bensì una forma di vitalità culturale di cui valutare poi l’efficacia.
Bibliografia
- F. Baroncelli, L’onore dei Labdacidi: religione, politica e femminismo nell’Antigone di Sofocle, in Antigone. Il mito, il diritto, lo spettacolo, a cura di M. Ripoli e M. Rubino, Genova, De Ferrari, 2005, pp. 21-44;
- G. Celati, Sull’epoca di questo libro, in Alice disambientata. Materiali collettivi (su Alice) per un manuale di sopravvivenza, a cura di G. Celati, Postfazione di A. Cortellessa, Firenze, Le Lettere, 2007, pp. 5-11;
- F. Condello, Dato un classico, qualche conseguenza: appunti sulla paradossale diacronia della classical reception, in Nuovi dialoghi sulle lingue e sul linguaggio, a cura di N. Grandi, Bologna, Patron, 2013, pp. 113-28;
- F. Duroux, Antigone encore. Les femmes et la lois, Paris, Coté-Femmes, 1993;
- N. Loraux, Le madri in lutto, Roma-Bari, Laterza, 1991;
- D. Maraini, I giorni di Antigone. Quaderno di cinque anni, Milano, Rizzoli, 2007;
- R. Michelucci, L’eredità di Antigone. Storie di donne martiri per la libertà, prefazione di E. Bonino, Bologna, Odoya, 2013;
- C. Molinari, Storia di Antigone da Sofocle al Living Theatre, Bari, Di Donato, 1977;
- M. P. Pattoni, L’Antigone di Sofocle: il testo e le sue interpretazioni, in A. Sérgio, Antigone [1930], a cura di C. Cuccoro, Milano, EduCatt, 2014, pp. 5-26;
- M. Rubino, Antigone nelle gazzette, in Antigone. Il mito, il diritto, lo spettacolo, op. cit., pp. 143-56;
- G. Steiner, Le Antigoni, Milano, Garzanti, 2003;
- K. Tenenbaum, L’alterità inassimilabile. Letture femminili di Antigone, in Antigone e la filosofia, a cura di P. Montani, Roma, Donzelli, 2001, pp. 279-98;
- M. Zambrano, Senderos, Barcellona, Anthropos, 1986.
- M. Zambrano, Senderos, Barcellona, Anthropos, 1986, p. 8. Per gentile concessione dell’editore e dell’autrice, che qui si ringraziano, si pubblica il primo paragrafo dell’introduzione, Istruzioni per il riuso, al volume di Elena Porciani Nostra sorella Antigone. Disambientazioni di genere nel Novecento e oltre, Catania, Villaggio Maori, i. c. s. ↵
- K. Tenenbaum, L’alterità inassimilabile. Letture femminili di Antigone, in Antigone e la filosofia, a cura di P. Montani, Roma, Donzelli, 2001, pp. 279-98: p. 279. ↵
- Ivi, p. 280. ↵
- G. Celati, Sull’epoca di questo libro, in Alice disambientata. Materiali collettivi (su Alice) per un manuale di sopravvivenza, a cura di G. Celati, postfazione di A. Cortellessa, Firenze, Le Lettere, 2007, pp. 5-11: pp. 8-9. ↵
- C. Molinari, Storia di Antigone da Sofocle al Living Theatre, Bari, Di Donato, 1977, p. 217. ↵
- M. Rubino, Antigone nelle gazzette, in Antigone. Il mito, il diritto, lo spettacolo, a cura di M. Ripoli e M. Rubino, Genova, De Ferrari, 2005, pp. 143-56: pp. 144-45. ↵
- Si pensi ad esempio a L’eredità di Antigone. Storie di donne martiri per la libertà, il libro che il giornalista Riccardo Michelucci ha dedicato a dieci donne morte militando o combattendo per cause giuste e nobili ideali: «La figura della donna come archetipo di coraggio e sacrificio è stata inspiegabilmente rimossa proprio nell’epoca delle grandi conquiste dell’emancipazione femminile» (R. Michelucci, L’eredità di Antigone. Storie di donne martiri per la libertà, prefazione di E. Bonino, Bologna, Odoya, 2013, pp. 9-10). Anche la Dacia Maraini dei Giorni di Antigone non si sottrae del tutto ai rischi di generalizzazione: «Questo libro si ispira alla figura di Antigone, che alle disparità e alle intolleranze oppose la pietà e il diritto all’amore fraterno. Contro le leggi arroganti di un Signore della guerra Antigone reagì senza violenza, con il solo meraviglioso gesto di ricomporre e seppellire un corpo morto. Non c’è niente di ideologico nella pietà di Antigone. Eppure il Signore della guerra lo interpretò come qualcosa di profondamente eversivo che metteva in dubbio la legittimità del sovrano. A volte è così: le azioni più semplici e umili minano le certezze su cui si basa l’autorità di un capo, la consuetudine di una legge cittadina» (D. Maraini, I giorni di Antigone. Quaderno di cinque anni, Milano, Rizzoli, 2007, p. 7). ↵
- M. P. Pattoni, L’Antigone di Sofocle: il testo e le sue interpretazioni, in A. Sérgio, Antigone (1930), a cura di C. Cuccoro, Milano, EduCatt, 2014, pp. 5-26: p. 13. ↵
- Ibidem. ↵
- G. Steiner, Le Antigoni, Milano, Garzanti, 2003, pp. 227-28. ↵
- Ivi, p. 228. ↵
- Vedi al riguardo F. Condello, Dato un classico, qualche conseguenza: appunti sulla paradossale diacronia della classical reception, in Nuovi dialoghi sulle lingue e sul linguaggio, a cura di N. Grandi, Bologna, Patron, 2013, pp. 113-28: passim. ↵
- Al dibattito partecipò anche una terza studiosa, la psicoanalista Françoise Pétitot, legata a una visione materna di Antigone. ↵
- N. Loraux, Le madri in lutto, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 29. ↵
- F. Duroux, Antigone encore. Les femmes et la lois, Paris, Coté-Femmes, 1993, p. 23. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, pp. 11-12. Il riferimento all’usignolo si spiega in relazione a un altro passo delle Madri in lutto su Antigone contenuto nel capitolo Il lutto dell’usignolo. ↵
- F. Baroncelli, L’onore dei Labdacidi: religione, politica e femminismo nell’Antigone di Sofocle, in Antigone. Il mito, il diritto, lo spettacolo, a cura di M. Ripoli e M. Rubino, op. cit., pp. 21-44: p. 40. ↵
- Ibidem. ↵
(fasc. 11, 25 ottobre 2016)