Il romanzo (breve) dell’identità: Milan Kundera e Anna Banti

Author di Sonia Rivetti

Se l’arcangelo adesso,

il pericoloso, da dietro le stelle

si sporgesse all’ingiù verso di noi

solo di un passo, con innalzato battito

ci abbatterebbe il nostro stesso cuore. Chi siete?

(Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, II, 8-12)

«Sott’e bumbardamente ho perso mio marito. S’era perduta pur’a vita mia. Fernuta ’a guerra, fernuta pur’ijo». Principia così La voce umana (2014), il film ispirato a La voix humaine di Jean Cocteau, regia di Edoardo Ponti, interprete Sophia Loren (la tarda e vera Sophia Loren, che attraverso questo ruolo fa i conti con la propria non-identità di figlia abbandonata dal padre). Davanti al mare calmo, nella Napoli degli anni Cinquanta, Angela confessa la frantumazione del proprio io dopo la perdita del marito.

Si riappropria di sé stessa (e degli abiti eleganti con cui incontra la società napoletana) nel momento in cui ha un nuovo amore, che indirizza occhi e voce verso di lei (lo spettatore, infatti, non vede l’uomo in volto né ascolta la sua voce).

Con uno squillo di telefono la cinepresa s’infila nella sua camera da letto di pomeriggio. Come La Maddalena di Caravaggio, Angela, seduta su una seggiola di legno in camicia da notte, con uno scialle rosso sulle spalle, i capelli sfatti e il viso struccato, cerca disperatamente di mettersi in contatto con l’amante che, come ogni martedì, sta per raggiungerla per la cena a base di quella parmigiana di melanzane che lo delizia, meticolosamente preparata dalla cameriera. Seppur lontana, ne indovina alla perfezione costumi e pensieri: «Io ti vedo, lo sai? Che fazzoletto? Quello rosso. E tieni le maniche rimboccate. La sinistra? Regge la cornetta. La destra, la penna stilografica. E stai disegnando dei profili, dei cuori, delle stelle. Ridi? Tengo gli occhi al posto delle orecchie». Diversamente, l’uomo crede ciecamente alla bugia di Angela vestita di rosa col cappello nero e sembra non intercettare quel miscuglio di angoscia e paura in cui l’attesa la imprigiona. Intorno, la gente del palazzo s’illude di controllare questo rapporto irregolare: «Mi è perfettamente indifferente. Possono dire quello che vogliono. Quello che c’è fra di noi non si può spiegare agli altri. Per loro o c’è amore o c’è odio, le rotture sono per sempre. […] Che devono capire, di me, di te, di noi?».

Stretta alla cornetta, lottando con la linea che si interrompe continuamente o che viene occupata da altri personaggi, Angela continua il monologo. Rievoca i momenti felici trascorsi insieme e ascolta l’inappellabile sentenza: l’uomo sta per lasciarla per un’altra donna. «Nun so’cchiù ijo», grida dimenandosi per la stanza come un’invasata. Non esce, non mangia, non dorme, pensa a ingerire tutte le pasticche che tiene sul comodino e a non svegliarsi più. Di nuovo strappata alla persona amata, smarrisce la propria identità; l’uomo mette giù la cornetta, la donna crolla sul letto, vuoto come le sedie in soggiorno per il pasto mai consumato, mentre la città riprende a vivere.

Un albergo in un paesino sul mare di Normandia, che avevano trovato per caso sfogliando una guida. Chantal arrivò il venerdì sera per trascorrervi una notte da sola, senza Jean-Marc, che l’avrebbe raggiunta il sabato verso mezzogiorno. […]. Ordinò una cena fredda, semplicissima: mangiare da sola non le piace affatto, anzi, è una cosa che detesta[1].

Nel 1997 Milan Kundera pubblica L’identité. «Di questo ultimo libro, intiepidito dalla luce rosea della vecchiaia» – scrive Pietro Citati – «posso dire soltanto una parola: è perfetto»[2]. La perfezione non risiede tanto nell’architettura a scaglie quanto nell’ombra che sparge, un’ombra autobiografica. L’esiliato assieme alla moglie Věra a Parigi, che perde la lingua ceca e adotta quella francese, affronta il tema dell’identità scrutando due innamorati, tra sogni, incubi, domande che si moltiplicano e intersezioni temporali.

Qualcuno gira la prima scena. In un albergo sulla costa della Normandia Chantal attende l’arrivo del fidanzato Jean-Marc. Nella notte diventa pedina di un’esperienza onirica attraverso la quale (l’occhio di) Kundera marca «la riabilitazione centrale del ruolo del romanziere»[3] («nella scelta dell’attrice il regista del sogno è stato piuttosto esigente»)[4]: viene sedotta dall’ex marito e dalla sua nuova moglie, che la bacia con veemenza sulla bocca. Questo sogno comincia a minare l’idea che Chantal si è fatta di sé stessa, ma è il mattino seguente che nell’identità che si è costruita si apre una voragine. Esce dall’albergo e va verso il mare. Si imbatte dapprima in un papà intento a gestire i propri bambini, poi in una schiera di uomini presi a far volare aquiloni. Chantal mette alla prova la propria femminilità adescando il pubblico maschile, che resta saldo nella parte mentre il suo corpo subisce un attacco: «Oh no, gli uomini non si volteranno mai più a guardarla!»[5].

Se Chantal è la prima a percorrere la via del dubbio, Jean-Marc la segue. Arrivato in albergo prima del previsto, corre in spiaggia a cercarla e la riconosce in una figura immobile a contemplare le vele, ma, approssimandosi, scopre di essersi sbagliato:

Adesso che la vedeva di profilo, Jean-Marc si rese conto che quello che aveva preso per lo chignon di Chantal era un foulard annodato intorno alla testa; e a mano a mano che le si avvicinava (con un passo che si era fatto di colpo meno affrettato), quella donna che aveva scambiato per Chantal diventava vecchia, brutta – e beffardamente diversa[6].

Jean-Marc fa un sogno: ha paura che sia accaduto qualcosa a Chantal, la cerca, corre per la strada, e alla fine la vede, di spalle, che si allontana. Allora le corre dietro gridando il suo nome, ma, proprio quando sta per raggiungerla, la donna volta la testa e Jean-Marc, inorridito, si trova davanti un altro viso, estraneo e sgradevole. Eppure non è un’altra persona: è proprio Chantal, la sua Chantal, non ci sono dubbi, ma è la sua Chantal con il viso di una sconosciuta – ed è una cosa atroce, intollerabilmente atroce. L’abbraccia, la stringe a sé e le ripete fra i singhiozzi: «Chantal, mia piccola Chantal, mia piccola Chantal!», come se tentasse, ripetendo quel nome, di restituire al viso sconosciuto che ha di fronte le sue antiche fattezze, la sua identità perduta[7].

Ciascuno dei due confessa all’altro la terribile scoperta:

“Che c’è? Che cosa è successo?”.

“Niente, niente” dice lei.

“Come, niente? Sei completamente trasformata”.

“Ho dormito malissimo. Anzi, non ho praticamente chiuso occhio. E ho avuto una brutta mattinata”.

“Una brutta mattinata? Perché?”.

“Ma niente, davvero non è niente”.

“Dimmelo”.

“Davvero non è niente”.

Lui insiste. E lei finisce per dire: “Gli uomini non si voltano più a guardarmi”[8].

[…] “Che cos’hai? Sei di nuovo triste. Da qualche giorno ho notato che sei triste. Che cosa c’è?”.

“Niente. Proprio niente”.

“E invece sì. Dài, che cos’è che ti rende triste in questo momento?”.

“Ho immaginato che tu eri un’altra”.

“In che senso?”.

“Che eri diversa da come ti immagino io. Che mi ero ingannato sulla tua identità”[9].

Kundera solleva la questione del lavoro come metro per definire noi stessi. Chantal è un’insegnante di liceo, che tradisce la propria inclinazione per un’occupazione più redditizia. Si consegna all’ingordo settore della pubblicità (che si spinge fino a dimostrare la pulsione sessuale del feto) pur di smettere di non essere nessuno:

“Non dimenticarti che ho due volti. Il che mi fa anche piacere, lo ammetto, ma ciò non toglie che avere due volti sia tutt’altro che facile. Esige uno sforzo, una disciplina! Devi capire che qualunque cosa io faccia, volente o nolente, la faccio con l’ambizione di farla bene, se non altro per non perdere il posto. Ed è molto difficile lavorare in modo ineccepibile e al tempo stesso disprezzare il lavoro che fai”[10].

Al contrario, Jean-Marc “mendica” un’occupazione (medico, maestro di sci, giornalista, disegnatore, disoccupato), riuscendo poi a conciliarne varie con la predominante presenza dell’amata: «“Tutto è cambiato il giorno in cui ho conosciuto te. Non certo perché i miei vari lavoretti sono diventati più appassionanti, ma perché adesso trasformo tutto quello che mi succede attorno in argomento di conversazione fra noi”»[11].

Il passato disturba il presente per accrescere lo smarrimento dovuto alla rivelazione di un io diverso. Quando la cognata di Chantal fa irruzione a casa sua col séguito dei nipoti e confida a Jean-Marc il nomignolo che la donna aveva dato al marito («“Lo chiamava ‘topolino mio’ – si figuri, come fosse stato un bambino piccolo!”»)[12], Jean-Marc ha difficoltà a sovrapporre quell’immagine leziosa con l’immagine della donna che ha scelto.

Oltre al Kundera amatore di cinema, questo romanzo reca tracce del Kundera appassionato d’arte. Chantal personaggio si trasforma in un ritratto identificato da un colore: il rosso. «Il rossore»[13] appare sul suo volto la prima volta che, durante un cocktail in un albergo di montagna, vede Jean-Marc: è il manifesto del suo amore, amore sigillato da una «collana di pietre rosse»[14] che l’uomo le regala. Estintosi negli anni della convivenza, il rossore ritorna quando, in un vero e proprio duello con Jean-Marc, dichiara che gli uomini non si voltano più a guardarla (in realtà, è Jean-Marc che ha smesso di guardarla): «Lei arrossisce. Arrossisce come da molto tempo non l’ha vista arrossire. E quel rossore sembra tradire desideri inconfessati»[15]. Per riaccendere quello che è il colore della loro identità di coppia, Jean-Marc sotto pseudonimo le scrive lettere in cui si sofferma su ogni parte del suo corpo per valorizzarne il fascino dimenticato. Diventa – come sostiene Starobinski – «un attore perfetto e insieme uno spettatore invisibile»[16]. Infatti, possiamo conoscere l’altro solo con la distanza; la vicinanza ce lo rende falso:

“Sono rimasto tre giorni senza vederti. Quando ti ho rivista, sono stato abbagliato dal tuo incedere così lieve, come se desiderassi librarti verso l’alto. Somigliavi alle fiamme, che per esistere devono innalzarsi e danzare. Più longilinea che mai, avanzavi circondata di fiamme – fiamme gioiose, dionisiache, ebbre, selvagge. Pensando a te, io getto sul tuo corpo nudo un mantello intessuto di fiamme. Sul tuo bianco corpo stendo un mantello rosso cardinale. E avvolta in questo mantello ti vedo in una camera rossa, sopra un letto rosso, mia rossa, stupenda cardinalessa!”[17].

Il rosso non configura soltanto la fantasia erotica. È anche la tonalità della morte, del “volume” ridotto in cenere che annulla lo spavento dell’introspezione:

“E la storia della testa di Haydn, la conosci? L’hanno staccata dal corpo ancora caldo perché uno scienziato un po’ tocco potesse sbucciarne il cervello e determinare il punto esatto in cui risiede il talento musicale. E la storia di Einstein, che aveva lasciato precise disposizioni testamentarie per essere cremato? Gli hanno obbedito, ma prima della cremazione un suo fedele e devoto discepolo, incapace di vivere senza lo sguardo del maestro, ha prelevato gli occhi dal cadavere e li ha messi in una bottiglia piena d’alcol perché potessero fissarlo fino al giorno in cui anche lui fosse morto… Per questo ti ho detto che solo il fuoco della cremazione permetterà al nostro corpo di sfuggire alle loro grinfie”[18].

Perché la chiacchiera da cui tutto è partito, ovvero il disinteresse degli uomini per un corpo femminile che sta invecchiando, è solo l’involucro di un bisogno che comincia a scalpitare: l’anima.

Dopo aver capito che dietro l’anonimo ammiratore si nasconde Jean-Marc, Chantal sparisce. Se «il silenzio, come il dialogo, può influenzare l’identità di qualcuno»[19], Chantal, con un viaggio a Londra, obbliga Jean-Marc a fare un viaggio verso sé stesso, per tornare a essere come è sempre stato. Inizia qui un sogno che racchiude tutti gli altri sogni. Chantal è in una stanza d’albergo, e ha di fronte un uomo sconosciuto che la chiama Anne: «è già nuda, eppure continuano a spogliarla! A spogliarla del suo io! A spogliarla del suo destino»[20]. Il tentativo di dire chi è veramente fallisce: «si accorge che il suo nome è come bloccato nella sua mente: non se lo ricorda più»[21]. Ed ecco che scende in campo Jean-Marc, il quale nel pericolo restituisce l’esatta statura di Chantal: «È pronto a fare qualunque cosa per lei, ma non sa cosa può fare, e questo è davvero insopportabile: non sa come aiutarla, eppure lui solo può aiutarla, lui, lui solo, perché lei non ha nessun altro al mondo, nessun altro in nessuna parte del mondo»[22]. Nominando la donna che ama, sta finalmente nominando sé stesso: «“Chantal! Chantal! Chantal!”»[23].

Nel finale il narratore/regista si denuda lasciandoci, dopo le scene di Jean-Marc che scende la scala che porta alla spiaggia e corre incontro a Chantal, e quella in cui Jean-Marc vaga per le strade londinesi alla ricerca di Chantal, la chiarità dell’ultima scena dell’Atalante (1934) diretto da Jean Vigo:

Vedo le loro due teste, di profilo, illuminate da una piccola lampada da comodino: la testa di Jean-Marc appoggiata sul cuscino, quella di Chantal china su di lui, a pochi centimetri dal suo viso. Lei diceva: “Non staccherò più gli occhi da te. Ti guarderò continuamente”. E, dopo una pausa: “Ho paura, quando le mie palpebre si abbassano. Paura che nell’attimo in cui il mio sguardo si spegne al tuo posto si insinui un serpente, un ratto, o un altro uomo”. Lui cercava di sollevarsi un poco per poterla sfiorare con le labbra. Lei scuoteva la testa: “No, voglio soltanto guardarti”. E poi: “Lascerò la lampada accesa per tutta la notte. Tutte le notti”[24].

C’è una scrittrice, nel nostro Novecento italiano, che ha affrontato, fin dall’esordio (se non prima, quando, con il vero nome di Lucia Lopresti, faceva un altro mestiere, quello della storica dell’arte), il tema dell’identità – Anna Banti –, sublimandolo in Un grido lacerante (1981), l’ultimo romanzo, autobiografico, ma di quell’autobiografismo che scivola di volta in volta in un nuovo personaggio femminile, in questo caso quello di Agnese Lanzi.

Le tinte con cui, più di un decennio prima di Kundera, dipinge questo soggetto sono così affini a quelle dell’Identité che vogliamo rischiare un breve paragone. Il romanzo comincia con un sogno. Un grido lacerante annuncia una nascita, ma si tratta di una nascita grottesca, perché quello che l’incubo spalanca è «un budello infimo», mentre la voce dei parenti assicura che dalla partoriente è uscita «una bellissima bambina»[25], la quale cerca sùbito il sonno, come se fosse la morte.

Agnese potrebbe essere quel neonato a terra, affidato alla cura di tre donne che guardano altrove, che chiude a destra il quadro di Gauguin D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous? Perché venire al mondo significa, per lei, non potersi sottrarre a una domanda: «“Chi sono io?”»[26]. Per dare (e darsi) un’identità la Banti costruisce «un libro fatto di fogli staccati, come di ricordi e frammenti»[27], che dall’infanzia arriva alla vecchiaia di Agnese. La prima riposta che rintracciamo nel testo è «“Sono una bambina, una bambina”»[28]. Questa presa di posizione traballa quando Agnese si accorge di non avere un dialogo con i giocattoli:

Poche cose erano permesse ed erano quelle che meno le piacevano. Per esempio, in dispensa la cassa dei giocattoli, di legno crudo e rasposo, senza coperchio. C’erano dentro, oltre la bambola piccola e stupida, quella grande avvolta nella velina perché non si sciupasse – odiosa! – e poi tanti oggetti inutili, da non sapere cosa farne. Agnese girava largo, le bastava vederli per provare un senso di noia scoraggiata. Quella roba non era per lei, dunque lei non era una vera bambina. Per lei ci voleva… che cosa? Non lo sapeva, anzi aveva paura di saperlo. Aveva dei momenti vuoti, da chiedere l’elemosina di qualcuno che li riempisse: allora si raggomitolava sul suo seggiolino e cantava a denti stretti le sue nenie di lattante[29].

La maturità continua a metterla davanti alla conquista di sé stessa:

Un lampo di lucidezza: Agnese Lanzi si rivede a diciotto anni, scontrosa e solitaria, dopo lo scontato successo della maturità, girovagante fra il Pantheon, la Sapienza, palazzo Carpegna e qualche casuale compagna tediosamente goliardica. L’estate era passata in un soffio di aria bruciante e colla sensazione spiacevole di aver perduto o dimenticato qualcosa molto importante. Neanche la breve rinascita del bagno marino serviva. L’autunno era alle porte ed esigeva riflessioni dubbiose, e il bisogno di riconoscersi in qualcuno o qualche cosa, capace, una buona volta, di fare e toccare cose reali[30].

Si iscrive alla facoltà di Lettere, frequenta le lezioni di Storia dell’arte del professor Delga, si laurea, vince il concorso presso la Soprintendenza e diventa ispettrice di un piccolo museo di una cittadina abruzzese. Non solo: la presenza sovrana della pittura (Artemisia, Velázquez, Zurbarán, Goya, Rubens, Vermeer, Lotto, Watteau, il Greco, Caravaggio, Tiziano, Raffaello, Veronese, Giotto, Duccio, Simone, Pontormo, Bosch, Bruegel, Correggio) in questa narrazione dà testimonianza di un’«autocoscienza formalizzata»[31].

D’un tratto, però, troviamo Agnese divenuta moglie del professor Delga (Roberto Longhi), l’uomo che l’ha riportata in vita dopo che era stata crocifissa come eretica dal prete abruzzese per la sua decisione di trasferire a Roma la statua della Vergine per un consolidamento, strappandola ai fedeli:

Di notte sognava che la Madonnina gotica era lì, ai piedi del suo letto. Di giorno sapeva che oltre a sua madre qualcuno sedeva al suo capezzale, ma lei faceva fatica a voltarsi, una fatica, più che fisica, intensamente mentale. Non aveva dubbi circa un’unica presenza reale, oggettiva, il tocco di una mano lunga e sottile, posata leggermente sulla sua che giaceva sul rovescio del lenzuolo. La facoltà di riconoscere, salutare, accennare un sorriso le tornò a poco a poco ma non esitò quando da una nota voce si sentì richiedere. Rispose sommessa e come soprapensiero un “sì, naturalmente” che le parve di aver pronunziato infinite volte[32].

È un’Annunciazione al rovescio: in cambio dell’amore del Maestro, Agnese rinuncia alle proprie ambizioni di critica d’arte («la cosa più nobile che uno potesse esercitare»)[33] e alla maternità:

Aveva dato le dimissioni dal suo sfortunato esordio e adesso i colleghi delle varie Sovrintendenze si davano daffare per sistemarla con un incarico facile, tranquillo, poco impegnativo. Lei ringraziò ma dopo qualche giorno di prova, rinunziò: moglie di un Maestro famoso, non poteva accettare un lavoro di tipo squalificante. Del resto aveva ben altri compensi. Appoggiata al braccio di colui che così miracolosamente era divenuto suo marito, beveva, per così dire, la sua lezione quotidiana. Ogni giorno un artista nuovo da scoprire, un problema da districare, il piacere di una imprevista lode: come avrebbe osato chiedere di più[34]?

Il cuore di questo autoscavo è, infatti, una storia d’amore, un matrimonio dipinto come un miracolo, che non ha forma né parole per dirsi: quando Delga si ammala, «da quell’arco che era il suo[35] corpo teso fino a spezzarsi poche parole si liberarono in lei con estrema violenza: “Cristo, aiuto, Cristo la mia vita per la sua, prendila”»[36]; e, quando poi muore, «il suo[37] cervello […] grida […] “addio amore mio” ma la sua bocca […] rima[ne] chiusa, sigillata dallo strazio di non trovare un saluto più alto, parole più rare e ardenti di quella frase popolare, misera, che pure esprimeva tutta la sua verità»[38].

Allontanando la propria aspirazione, la mette nelle mani della creatura che ama («il Maestro continuava a lavorare»)[39], salvandola. E si annida in un’altra pelle: «Raccontare… e perché no, dopotutto?»[40]. Ma come rinnegare il colore («Lei arrossì»)[41] quando, nominata Presidente del Consiglio direttivo della Fondazione voluta dal marito per proseguire la sua opera, Agnese torna a parlare di quadri, collezioni, restauri e puliture? Come conciliare questa felicità pittorica con la confessione del suo vero lavoro? «“Non dimenticate che sono una donna di lettere”»[42].

Il romanzo finisce com’era iniziato, con un sogno: «Stava seduta su un monticello di sassi angolosi che le pungevano i fianchi e non le riusciva di accomodarsi meglio. Si guardava intorno e pur non riconoscendo il luogo, capiva di trovarsi a casa. Era scalza, i suoi piedi poggiavano su uno strato di polvere granulosa e tagliente: non avrebbe potuto camminarci»[43]. A dispetto di quanto afferma, la domanda dell’infanzia resta senza risposta. Agnese, che in questo romanzo non grida mai, risolvendo il dolore di un duplice tradimento («critica d’arte o letterata, […] studiosa e innamorata»)[44] nella compostezza degna di una Madonna, capisce che il bisogno di appartenere può quietarsi solo nel momento in cui la vita si spegnerà: «Un giorno – o una notte – sarebbe venuta l’ora. L’ora che non rintoccherà senza che un grido lacerante la trasformi in un minuto»[45].

In conclusione, oltre ai richiami evidenziati, un messaggio lega i due romanzi: l’identità non è nei discorsi con cui ci scusiamo, ci difendiamo, ci assolviamo, ma in ciò che avviciniamo come parola mancante, spostata sempre un po’ più in là.

 

  1. M. Kundera, L’identità, trad. it. di E. Marchi, Milano, Adelphi, 1997, pp. 9 e 11 (ed. or. L’identité, Paris, Gallimard, 1997).

  2. P. Citati, La gioiosa freddezza di Milan Kundera, in «La Repubblica», 28 ottobre 1997.

  3. J. Češca, Le roman comme déploiement symbolique du rêve: la thématique du rêve dans l’œuvre de Milan Kundera, in «Revue des études slaves», LXXXII/3, 2011, p. 458 (la traduzione è mia).

  4. M. Kundera, L’identità, op. cit., p. 13.

  5. Ivi, p. 22.

  6. Ivi, p. 26.

  7. Ivi, pp. 41-42.

  8. Ivi, pp. 29-30.

  9. Ivi, p. 97.

  10. Ivi, p. 35.

  11. Ivi, p. 90.

  12. Ivi, p. 119.

  13. Ivi, p. 102.

  14. Ivi, p. 78.

  15. Ivi, p. 30.

  16. J. Starobinski, L’occhio vivente. Studi su Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud, trad. it. di G. Guglielmi, Torino, Einaudi, 1975, p. 168.

  17. M. Kundera, L’identità, op. cit., p. 80.

  18. Ivi, p. 66.

  19. A. Farahbakhsh, M. Jahanbani, Identity and identity-negation in Milan Kundera’s “Identity”, in «BEST: International Journal of Humanities, Arts, Medicine and Science», 3/12, dicembre 2015, p. 179 (la traduzione è mia).

  20. M. Kundera, L’identità, op. cit., p. 172.

  21. Ibidem

  22. Ivi, p. 170.

  23. Ivi, p. 174.

  24. Ivi, pp. 175-76.

  25. A. Banti, Un grido lacerante, Milano, Rizzoli, 1981, p. 7.

  26. Ivi, p. 9.

  27. A. Andreoli, I miei libri? Una sconfitta, in «Paese Sera», 3 maggio 1981.

  28. A. Banti, Un grido lacerante, op. cit., p. 9.

  29. Ivi, pp. 13-14.

  30. Ivi, p. 19.

  31. A. Beretta Anguissola, Recensione di “Un grido lacerante”, in «Paragone», a. XXXII, n. 378, agosto 1981, p. 81.

  32. A. Banti, Un grido lacerante, op. cit., p. 27.

  33. G. Livi, Tutto si è guastato, in «Corriere della Sera», 15 aprile 1971.

  34. A. Banti, Un grido lacerante, op. cit., p. 28.

  35. Di Agnese.

  36. Ivi, p. 61.

  37. Di Agnese.

  38. Ivi, p. 80.

  39. Ivi, p. 42.

  40. Ivi, p. 33.

  41. Ivi, p. 164.

  42. Ibidem.

  43. Ivi, p. 173.

  44. Ivi, p. 131.

  45. Ivi, p. 175.

(fasc. 48, 11 luglio 2023)