L’America Latina di Milan Kundera

Author di Massimo Rizzante

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Tutto iniziò nel dicembre del 1968.

Tre mesi dopo che l’esercito sovietico aveva occupato la Cecoslovacchia, tre scrittori latinoamericani — Gabriel García Márquez, Carlos Fuentes e Julio Cortázar — camminavano infreddoliti sotto la neve di Praga per incontrarsi con alcuni loro colleghi. Fra costoro c’era Milan Kundera, che aveva appena pubblicato con successo il suo primo romanzo, Lo scherzo (1967)[1]. In quel momento nessuno dei tre latinoamericani aveva ancora letto il romanzo dell’autore ceco. Kundera, dal canto suo, non aveva letto Cent’anni di solitudine (1967), le cui bozze avrebbe letto in traduzione ceca solo più tardi. Non aveva letto neppure Rayuela (1963), l’unico grande romanzo di Cortázar che Gallimard aveva pubblicato nel 1967. Aveva letto forse La regione più trasparente (1958) e La morte di Artemio Cruz (1962), i due romanzi di Fuentes pubblicati rispettivamente in Francia nel 1962 e nel 1966? A quell’epoca, non credo. Quel che è certo è che durante quella settimana a Praga, tra bevute e bagni rigeneratori nelle acque gelide della Moldava, i quattro diventarono amici. Quel che è certo è che quell’incontro a Praga nel dicembre del 1968 fu un evento tanto imprevedibile quanto cruciale per la storia del romanzo dell’Europa centrale e dell’America Latina, i due epicentri del rinnovamento dell’arte del romanzo della seconda metà del XX secolo.

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Si dice che la critica sia una forma di autobiografia. Forse ciò è vero soprattutto quando si tratta della critica degli scrittori. Quando uno scrittore, un romanziere, un artista scrive sulle sue letture, scrive sulla sua opera. Ci rivela, cioè, come desidererebbe che la sua opera fosse letta, da quale punto di vista, all’interno di quale tradizione. In modo tanto libero quanto arbitrario ci informa della sua posizione critica, del suo orizzonte storico, della sua concezione letteraria. In altre parole, ci indica chi sono i suoi amici senza badare se hanno vissuto cinque secoli fa o se sono suoi contemporanei in un altro continente.

Se si prende in considerazione quel che Kundera ha scritto nei propri saggi, dal 1986 al 2009, dopo quel primo incontro nel 1968 con i tre scrittori latinoamericani, si constata la presenza di García Márquez e di Carlos Fuentes, autori sui quali Kundera torna varie volte. Nel Sipario fa la sua entrata, discreta e apparentemente tardiva, l’opera di Alejo Carpentier, mentre il nome di Ernesto Sábato appare una sola volta[2]. Il suo amico Octavio Paz aveva trovato posto, sin dall’Arte del romanzo, alla lettera O di “Octavio” nelle Sessantanove parole della sesta parte del saggio. La parola “Borges” non fa parte del vocabolario kunderiano. Che cosa ci dice questa scelta? Che cosa trova Kundera nelle opere di questi scrittori tanto da sentirli così vicini alla sua estetica?

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Kundera rilegge diverse volte Cent’anni di solitudine. Nelle storie della famiglia Buendía scopre, naturalmente, la radice surrealista. Ma l’immaginazione surrealista si era manifestata soprattutto attraverso la poesia e la pittura. I surrealisti consideravano il romanzo una forma sommamente antipoetica. È stato Kafka — Kundera lo ha scritto a più riprese — che per primo ha legittimato e introdotto l’inverosimiglianza nel romanzo. Gabriel García Márquez aveva appreso la sua lezione? Certo, egli stesso lo ha riconosciuto. Tuttavia il suo romanzo è molto poco kafkiano. Da dove vengono, allora, la sua ricchezza immaginativa, il suo senso del meraviglioso? La chiave sta nel distinguere, come afferma Kundera, la poesia dal lirismo: non sono, infatti, la stessa cosa. La poesia del romanzo di Cent’anni di solitudine è una prova inconfutabile di tale distinzione, dato che l’autore «non si confessa, non apre la sua anima, a inebriarlo è solo il mondo oggettivo, che egli innalza in una sfera in cui tutto è al tempo stesso reale, inverosimile e magico»[3]. D’accordo. Ma la domanda continua a rimanere inevasa: qual è la fonte di questa ricca immaginazione antilirica?

Direi che è il frutto di due ritorni e di due libertà: il ritorno alle origini della storia del romanzo, a Rabelais, a Cervantes e alla loro libertà di raccontare le avventure dei personaggi e dell’ambiente che li circonda senza preoccuparsi della loro verosimiglianza; e un ritorno alle forme orali poetiche ed epiche dell’America Latina, libere, a loro volta, dall’immaginario europeo.

In Cent’anni di solitudine è un narratore alla maniera di Rabelais e Cervantes colui che parla, che agisce, che conduce il lettore in tutti i luoghi della terra, che riscopre l’antico cantastorie orale seppellito nel passato mitico di un continente conquistato dalla civiltà europea, anche se mai realmente scoperto. Tutto accade come se l’autore, nuovo Adamo, sfidasse i conquistatori del suo Eden tropicale: venite, venite a vedere quel che succede a Macondo… Pensate di conoscerci? Pensate di sapere quel che si nasconde nel laboratorio di José Arcadio Buendía, «la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia»[4]? Il celebre “realismo magico” (niente a che vedere con il “real maravilloso” di Alejo Carpentier) a cui si ricorre spesso per classificare l’opera di Gabriel García Márquez non è che una formula europea per definire la nostra attrazione per l’esotico, la nostra povertà di immaginazione, la nostra concezione limitata della realtà, la nostra sovradeterminazione della grisaille. Non si tratta di vedere “la realtà nel romanzo”, ma, al contrario, “il romanzo nella realtà”. Né il tempo né lo spazio né i personaggi né la natura, nell’opera di García Márquez, si possono pienamente comprendere se li guardiamo attraverso la lente bifocale della ragione cartesiana. E ancora meno se li consideriamo attraverso la tradizione del romanzo del XIX secolo.

In Romanzo e procreazione, breve saggio compreso in Un incontro, Kundera, accortosi che in molti grandi romanzi di tutti i tempi «i protagonisti non hanno figli», afferma che «lo spirito dell’arte del romanzo prova ripugnanza nei confronti della procreazione». Kundera situa l’origine di questa riflessione all’inizio dei Tempi Moderni quando, grazie a Cervantes, l’uomo si insedia sulla scena dell’Europa in quanto individuo: «Don Chisciotte muore e il romanzo si conclude; questa conclusione è così perfettamente definitiva perché Don Chisciotte non ha figli; se ne avesse, la sua vita si prolungherebbe, sarebbe imitata o contestata, difesa o tradita»[5].

Conosciamo una dichiarazione più feroce e allo stesso tempo pronunciata in modo più semplice contro la vita? Contro la famiglia? Contro questa benedizione di Dio e della specie che sono i bambini? Ciò significa che, da una parte, c’è la creazione romanzesca e, dall’altra, la missione procreatrice: due modi di concepire l’individuo. La prima considera quest’ultimo un’entità autonoma, indipendente; la seconda lo concepisce come un’entità incompiuta che, rispettando i diktat divini o della natura, è destinata a confondersi con tutte le altre entità. Bene. Ma in Cent’anni di solitudine «il centro dell’attenzione non è più l’individuo — scrive Kundera —, ma uno stuolo di individui; sono tutti originali, inimitabili, eppure ciascuno di loro non è che il lampo fugace di un raggio di sole sull’onda di un fiume»[6].

Il romanzo di Gabriel García Márquez è, infatti, una lunga genealogia in cui i nomi dei membri delle sette generazioni della famiglia Buendía sono gli stessi o molto simili e perciò si possono confondere (ci sono almeno tre José Arcadio e due Aureliano); in cui l’età dei personaggi è molto difficile da calcolare (si invecchia con sorprendente rapidità o si conserva la bellezza fino all’ultimo giorno, come nel caso di Fernanda; o si può vivere fino a centoventidue anni, come Úrsula); in cui la frontiera tra i vivi e i morti è quasi inesistente. Il tempo, a Macondo, non passa come in qualsiasi altro luogo: scorre come un «fiume», certo, ma un fiume che si trova molto lontano dalla Storia, questa invenzione europea che irrompe prendendo quasi sempre le forme della guerra e del progresso tecnico e che, per questo motivo, si trasforma in un’eco distante. Per non parlare della forsennata fertilità di Aureliano, il figlio di José Arcadio e Úrsula che, all’inizio dei capitoli dedicati alle guerre civili, è così descritto dall’autore:

Il colonello Aureliano Buendía promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trantacinque anni[7].

Kundera, alla fine del suo breve saggio, si domanda se il tempo dell’individualismo moderno, nato con il personaggio di Don Chisciotte, è ancora il tempo di José Arcadio, di Aureliano e dei suoi diciassette figli. O se, al contrario, si trova in un passato mitico o in un futuro dove l’individuo tornerà a “ripiombare nella specie”.

Šklovskij diceva che «le muse sono la tradizione letteraria». Tutta la nostra ispirazione, per quanto personale la crediamo, è in debito con ciò che è stato scritto prima di noi. Si scrive in praesentia di tutta la letteratura, che lo sappiamo o no. In questo senso, come affermò un altro grande scrittore latinoamericano, Ricardo Piglia, non facciamo che «correggere le bozze di un lungo manoscritto» la cui singolare versione definitiva non è che una parte di quel mi piace chiamare un “dialogo infinito”. A volte tale dialogo si arricchisce di voci che sorgono da un tempo preletterario, preistorico, in cui il passato e il futuro si incontrano in modo imprevedibile in un presente tanto concreto quanto chimerico: è il tempo di Macondo; è il tempo romanzesco di Macondo. Infatti, c’è da aggiungere, solo nel romanzo possono coesistere tutti i tempi.

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Questa è la sfida più grande del romanzo moderno. Almeno per Kundera e il suo amico Carlos Fuentes, i due allievi più fedeli al romanzo “polistorico” di Hermann Broch. Alla luce dei Sonnambuli la loro amicizia diventa una vera affinità estetica. In Broch i personaggi della trilogia, Pasenow, Esch e Huguenau, sono concepiti come «ponti gettati al di sopra del tempo», ha scritto Kundera. Ciò significa che il loro aspetto físico, la loro psicologia e il loro passato personale non sono molto importanti per comprenderli. Per comprendere la ribellione di Esch bisogna risalire la storia europea fino all’epoca di Lutero. Non si tratta solo di un modo di superare il romanzo realista e psicologico del XIX secolo: è un modo nuovo di esplorare l’uomo.

Attraverso il filtro brochiano Kundera, nei Testamenti traditi, rilegge la propria stessa opera comparandola con quella di Fuentes. In Terra nostra (1975) trova, ancor più che i romanzi precedenti dell’autore messicano, l’ossessione estetica di far coesistere differenti tempi storici, che egli stesso aveva appena esorcizzato nel suo romanzo La vita è altrove (1973). Tuttavia, le tecniche che i due romanzieri utilizzano per tenere insieme i tempi storici senza che l’opera perda la propria unità non coincidono. In Kundera il presente del poeta Jaromil si intreccia con i passati di Rimbaud, Keats e Lermontov grazie alla ripetizione di motivi e temi. In Fuentes gli stessi personaggi si reincarnano attraverso i secoli e i continenti creando un’“altra Storia” — poetica, onirica — che non ha nulla a che fare con quella cronologica degli storici. Per comprendere Jaromil bisogna esplorare il suo mondo lirico davanti allo schermo di tutta la storia della poesia europea. Per comprendere l’uomo messicano del XX bisogna esporlo all’incontro di numerose epoche, risalendo fino alla scoperta dell’America.

Kundera, nella parte finale del Sipario ritorna sulla propria ossessione e la trova anche nei romanzi di Alejo Carpentier: Il secolo dei lumi (1958), Concerto barocco (1974) e L’arpa e l’ombra (1979). Mi ricordo che, la prima volta che lessi il capitolo in questione, ebbi un sussulto. Alla fine avevo ritrovato in Kundera il grande Carpentier, il mio eroe dei due mondi, il Broch dei Caraibi! Si tratta di un maestro segreto di Kundera. Kundera e Carpentier sono, inoltre, i due soli romanzieri musicologi della seconda meta del XX secolo, gli unici che con cognizione di causa hanno musicalizzato il romanzo, che lo hanno assoggettato alla disciplina formale della musica: sonata, fuga, concerto, sinfonia, variazioni sul tema… L’autore cubano, che visse a Parigi tra la fine degli anni Venti e la fine degli anni Trenta del secolo passato, aveva letto Broch già negli anni Quaranta. Ecco cosa scrive nel 1955, dopo la lettura della Morte di Virgilio, in un suo articolo intitolato Romanzo e musica:

Perché allora il romanzo si sottrae quasi sempre a questo genere di regole? Mi si risponderà̀ che il romanzo – che è prima di tutto una storia – equivale a ciò che in musica si chiama libera composizione. È il tema scelto che detta le leggi e il tempo. Ma si potrebbe ugualmente dire che questa libera composizione conduce frequentemente gli autori a una brillante pratica dell’arte dell’improptu. Tuttavia ci sono casi, come il romanzo di Hermann Broch, in cui la volontà̀ di occuparsi della composizione, della forma e dell’equilibrio tra le singole parti ha dato magnifici risultati[8].

Che cosa posso aggiungere? Forse un passaggio del discorso (1978) che l’autore del Regno di questo mondo (1949) pronunciò al momento della consegna del premio Cervantes. Si tratta di un passaggio che Kundera non può aver letto senza fare un salto sulla sedia:

Tutto è già presente nell’opera di Cervantes […] Don Chisciotte si presenta come una geniale serie di variazioni sulla base di un tema iniziale: un’opera che assomiglia molto alle variazioni musicali inventate dal maestro Antonio de Cabezón, l’organista cieco e ispirato suonatore di vihuela che visse alla corte di Filippo II e che fu l’inventore di questa tecnica fondamentale dell’arte musicale[9].

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Molto bene. Ma la domanda continua a essere inevasa: perché molti romanzieri di diversi paesi e continenti (Broch, Kundera, Rushdie, Fuentes, Kenzaburo Oe), a volte molto lontani gli uni dagli altri nel tempo e nello spazio (Thomas Mann, Kiš, Sebald, Chamoiseau, Carpentier), prima ancora di venire a conoscenza delle loro reciproche relazioni estetiche (Fuentes legge prima Faulkner e poi Broch e Kundera; Kundera legge prima Broch e poi Fuentes) si sono imposti questa grande sfida? Perché il romanzo del XX secolo ha voluto lottare contro la legge dello sviluppo lineare degli eventi? Tutto il romanzo moderno è una ribellione contro tale condanna. La pluralità delle voci; la costruzione sovraindividuale del personaggio; la rottura della narrazione attraverso punti di vista differenti; gli improvvisi mutamenti di registro; le intrusioni in altri territori come il reportage, la lettera, il saggio; i confronti e la coesistenza con altre arti: la poesia, la musica, il teatro, la pittura, la fotografia, il cinema. Tutto ciò per creare un romanzo polifonico e sinfonico, un luogo dove tutto è presente. Tutto ciò per rivendicare “il presente che è custodito in tutti i passati”. Non è così?[10]

  1. «Ho cominciato a scrivere Lo scherzo verso il 1961, più̀ o meno sicuro che sarebbe stato pubblicato. Durante gli anni Sessanta, molto tempo prima della Primavera di Praga, il realismo socialista e tutta l’ideologia ufficiale erano già morti, avevano ormai solo una funzione di facciata che nessuno prendeva più̀ sul serio. Terminato nel dicembre del 1965, il manoscritto rimase circa un anno negli uffici della censura che, alla fine, non pretese nessun cambiamento. Il romanzo fu pubblicato nella primavera del 1967 ed ebbe in rapida successione tre edizioni che raggiunsero globalmente una tiratura di 117.000 copie. Nella primavera del 1968 il libro ottenne il premio dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi. Dal romanzo ricavai in seguito una sceneggiatura per il mio amico Jaromil Jireš, il quale ne fece un film che non ho mai smesso d’amare. La critica letteraria si occupò poco dell’aspetto politico del libro, mettendo in evidenza invece la sua matrice esistenziale (Un romanzo dell’esistenza è il titolo di una recensione di Zdeněk Kožmín). Come vedi, agli inizi del mio percorso di romanziere mi sono sentito perfettamente compreso in patria. Ma fu un momento di breve durata. Un anno dopo, nel 1968, l’invasione russa instaurò di nuovo uno stalinismo antidiluviano e intellettualmente oppressivo. Fu allora che Lo scherzo sparì dalle librerie e dalle biblioteche»: M. Rizzante, Un dialogo infinito, Milano, Effigie, 2015, p. 195.
  2. M. Kundera, Il sipario, trad. italiana di M. Rizzante, Milano, Adelphi, 2005, pp. 175-77.
  3. M. Kundera, Il sipario, op. cit., p. 94.
  4. G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, trad. italiana di E. Cicogna, Milano, Mondadori, 1982, p. 4.
  5. M. Kundera, Un incontro, trad. italiana di M. Rizzante, Milano, Adelphi, 2009, p. 50.
  6. Ivi, p. 51.
  7. G. García Márquez, Cent’anni di solitudine, op. cit., p. 103.
  8. Cit. da A. Carpentier, Romanzo e musica [1955], ora in Id., L’età dell’impazienza. Saggi, articoli, interviste (1925-1980), a cura e con un saggio di M. Rizzante, Postfazione di M. Gallego Roca, Milano-Udine, Mimesis, 2022, p. 174.
  9. Cit. da A. Carpentier, Cervantes all’alba di oggi [1977], ora in Id., L’età dell’impazienza, op. cit., pp. 286-87.
  10. Una precedente versione di questo articolo è stata pubblicata in francese su «L’Atelier du roman», n. 100 (Milan Kundera – La Renaissance romanesque), 19 marzo 2020.

(fasc. 48, 11 luglio 2023)