Il simbolismo del vortice marino nel “Moby Dick” di Herman Melville e nell'”Inferno” di Dante

Author di Ennio Scannapieco

In due articoli da me pubblicati tempo fa sulla storia mitografica del celebre Maelström di Norvegia[1], per ragioni di spazio non mi era stato possibile soffermarmi sui pretesi legami letterari che, secondo alcune fonti, questa storia presenterebbe con uno dei grandi capolavori dell’Ottocento romantico, il Moby Dick scritto e pubblicato nel 1851 da Herman Melville. Anche su alcuni dei tantissimi siti che compongono quello sconfinato mare magnum elettronico dello scibile umano che si chiama Internet, l’utilizzo in campo letterario della leggenda del Maelström[2] viene spesso associato non solo ai nomi di Edgar Allan Poe e di Jules Verne, ma anche a quello di Melville e del suo immortale romanzo di ambiente marinaro. Si tratta però, come tutti i lettori di Moby Dick sanno benissimo, di una relationship piuttosto forzata in quanto, nel corso degli oltre cento capitoli che compongono la lunga odissea descritta da Melville, il nome del vortice delle Lofoten vi appare soltanto una volta, e precisamente nel capitolo XXXVI, durante l’enfatico e quasi allucinante discorso-comizio che il principale protagonista del romanzo, l’“empio” capitano Achab, declama davanti all’esterrefatto equipaggio della baleniera Pequod.

Dopo aver premesso che lo scopo principale di quella spedizione non consisteva soltanto nel riempire la nave di olio di balena, ma anche e soprattutto di rintracciare e di uccidere il mostruoso capodoglio bianco che i marinai chiamavano Moby Dick, lo spiritato capitano esterna davanti a tutti il proprio odio incommensurabile verso quel misterioso cetaceo, colpevole di avergli troncato la gamba sinistra alcuni anni prima, mutilandolo per sempre “nel corpo e nell’anima”. E giura, anzi grida, che inseguirà la balena bianca «oltre il capo Horn, oltre il capo di Buona Speranza, oltre il Maelström di Norvegia, fino alle fiamme della perdizione». Chi ha visto il film Moby Dick diretto da John Huston nel 1956, ricorderà che il regista fece del suo meglio per rendere allo spettatore il pathos della scena, nonostante un Gregory Peck/capitano Achab piuttosto inadatto alla parte.

Tutta qui, dunque, la presenza del Maelström nel romanzo di Melville, ma il vecchio mitema assolve perfettamente la sua funzione. In una narrazione che gronda di simbolismi dal principio alla fine, anche i tre luoghi geografici menzionati dal capitano Achab vanno intesi come gli angoli di un metaforico triangolo ai cui vertici si trovano gli ideali confini del mondo allora conosciuto e frequentato: baluardi ritenuti invalicabili e pericolosi nell’immaginario dei naviganti del tempo, due dei quali situati in fondo all’emisfero australe, e l’altro all’apice di quello boreale. Forse Achab/Melville avrebbe potuto identificare il baluardo più settentrionale con il Capo Nord della Norvegia, ma preferisce citare il Maelström, posto un poco più a sud, sfruttando evidentemente l’impatto che la sinistra fama del fenomeno delle Lofoten godeva ancora a quell’epoca tra la gente di mare.

Non è escluso che Melville avesse letto il racconto di Poe, A descent into the Maelström, pubblicato esattamente dieci anni prima del suo Moby Dick [3]. Fatto sta che proprio nelle battute finali del suo Moby Dick, il romanziere offre, quasi a sorpresa, un’immagine inquietante che sembra in parte rapportarsi allo spirito e alla fantasia del suo collega di Boston, e che nel contempo costringe a riflettere ulteriormente sulle inferenze simboliche e sulle molteplici metafore disseminate un po’ dovunque nella tessitura del romanzo: alla fine del racconto, infatti, come un magistrale coup de théatre, un enorme vortice marino si allarga davvero sul palcoscenico del dramma vissuto dai marinai della nave Pequod:

Un attimo, e l’equipaggio della lancia rimase impietrito: poi tutti si voltarono: «la nave, gran Dio, dov’è la nave?». […] Offuscati e confusi dai veli dell’acqua, ne videro ben presto il fantasma che svaniva obliquamente, come tra i vapori di una Fata Morgana, con le punte degli alberi che sporgevano dall’acqua. […] Ed ora, dei grandi cerchi concentrici afferrarono la lancia superstite e tutti gli uomini che galleggiavano, assieme ad ogni remo e ad ogni palo di rampone, e facendo girare in un solo vortice ogni cosa viva ed inanimata, trascinarono a fondo e fuori da ogni vista anche il più piccolo relitto del Pequod.. […] Poi tutto crollò verso l’interno, e il gran sudario d’acqua tornò a ridistendersi come aveva fatto cinquemila anni prima[4].

Di questo drammatico finale, che ricorda tanto la conclusione del “folle volo” dell’Ulisse dantesco, non sempre viene percepita la parallela dimensione simbolica da parte di chi legge l’opera di Melville come un semplice racconto di avventure marinare.

Siamo intanto, dal punto di vista della narrazione, alla fine del capitolo 135 del Moby Dick, al culmine della tragedia rappresentata nel romanzo. Dopo l’ultima forsennata caccia alla balena bianca e la morte dello stesso capitano Achab – strozzato dal cavo di un arpione ancor prima che dall’insostenibile potenza del suo odio disumano ‒, Moby Dick si è avventato contro il Pequod colpendo la nave «a babordo verso la prua, squassando uomini ed assi». Tra parentesi, la scena descritta da Melville è quella realmente avvenuta nel dicembre del 1820 alla baleniera Essex, colpita e affondata da un gigantesco capodoglio in pieno Oceano Pacifico. Colando a picco, il Pequod comincia evidentemente a roteare su sé stesso, scavando un vortice imbutiforme che attira nell’abisso le lance dei balenieri superstiti, assieme «ad ogni cosa viva ed inanimata». Com’è noto, si salverà soltanto colui (Ishmael) che era stato predestinato a diventare l’io narrante della tragedia, mentre il drammatico silenzio della scena finale è rotto soltanto dallo stridìo degli uccelli marini che volteggiano sul vortice ancora spalancato. Che cosa avrebbe, dunque, di simbolico o di metaforico tutto questo, al di là della sinistra emozione prodotta nell’animo del lettore?

Intanto, bisogna subito osservare che una nave, affondando, ben difficilmente produce un vortice simile a quello descritto da Melville. Questa possibilità è spesso contemplata in alcuni racconti d’avventura (ricordo, per esempio, un romanzo di Emilio Salgàri letto da ragazzo, nel quale un praho malese produceva, mentre affondava, «un grosso vortice che attrasse le scialuppe dei superstiti per diversi metri»), ma è piuttosto lontana dalla realtà documentata. Dall’inizio del Novecento esistono centinaia di filmati (girati soprattutto durante la Seconda guerra mondiale) che mostrano l’affondamento di navi e di battelli, ma in nessuno essi si mettono a girare, scavando un vortice in senso tradizionale. I superstiti del Titanic o dell’Andrea Doria, ad esempio, famose navi colate a picco nel 1912 e nel 1956, non hanno mai testimoniato qualcosa di simile, e per il semplice fatto che una nave, mentre affonda, produce solo un forte risucchio di “tipo verticale”, ovviamente altrettanto pericoloso di un vero vortice per chi si trova nelle immediate vicinanze.

Nel già citato film di John Huston tratto dal romanzo di Melville, viene suggerita persino una spiegazione “meccanica” al gorgo causato dal Pequod: la nave è colpita di prora, sul lato sinistro, dall’enorme balena bianca, ricevendo una spinta verso destra che comincia a farla ruotare. Inoltre, la stessa balena gira più volte intorno al battello, urtandolo di continuo e contribuendo a scavare ulteriormente il vortice. In tali condizioni, può apparire abbastanza verosimile che, colando a picco e imbarcando acqua al suo interno, il Pequod abbia potuto creare un gorgo circolare capace di attirare uomini e cose nei suoi “cerchi concentrici”. Tuttavia, ed è questo il punto sul quale occorre riflettere, Melville non descrive né menziona una simile meccanica di affondamento: il vortice beante si spalanca all’improvviso, e senz’altra causa apparente che il normale movimento della nave che affonda; quasi fosse l’effetto del dito roteante di un démone invisibile inviato sulla scena del dramma col compito specifico di trascinare nell’abisso tutti i personaggi – ramponieri, mozzi e semplici marinai, tranne uno – che avevano alla fine condiviso col loro capitano la disperata e forsennata lotta contro il mostro bianco, metaforica ipostatizzazione, ormai evidente agli stessi protagonisti, di qualcosa che oltrepassava le semplici forze della natura.

Da tutto ciò si comprende che solo in termini strettamente simbolici è possibile dare una lettura abbastanza corretta all’apparizione improvvisa, al termine del romanzo di Melville, di un fenomeno che è “naturale” solo in apparenza. Moby Dick rimane un capolavoro della letteratura mondiale che ha fatto versare molti fiumi di inchiostro, dunque, soprattutto grazie alle sue variegate valenze di ordine metaforico e simbolico abilmente intessute nella trama del romanzo, dominata non dalla balena bianca, bensì da una figura umana psicologicamente gigantesca, contraltare dell’essenza fisicamente titanica dell’altro simbolo del racconto. Achab è forse il personaggio più formidabile che ci ha lasciato la letteratura romantica dell’Ottocento, peraltro così ricca di figure psicologiche al di sopra delle righe, e spesso – come l’enigmatico capitano Nemo creato dalla penna di Jules Verne, ma anche il Sandokan di salgariana memoria – obnubilate da una lacerante vicenda esistenziale e da un insaziabile desiderio di vendetta.

Per come si muove e parla, il capitano del Pequod è sicuramente un protagonista di taglio scespiriano, la cui magniloquenza non si perde, però, nelle arzigogolate e contorte evoluzioni intellettuali dell’epoca barocca. Resta, infatti, un personaggio tipicamente romantico, sofferto e lacerato nello spirito persino più di Amleto o di Riccardo III, ma intellettualmente chiaro e sintetico nella sua magniloquenza dialettica. Tuttavia, nel suo pur lucido delirio intellettuale ossessionato e condizionato dal lancinante desiderio di vendetta che sappiamo e dal suo odio incontenibile, egli crede di poter scorgere la reale “essenza malefica” che si cela oltre l’apparenza delle cose; e così, sull’orizzonte della sua mente esaltata, la balena bianca che lo ha mutilato “nel corpo e nell’anima” perde la sua essenza animale di “forza bruta che agisce solo per istinto” (come cerca di fargli capire, ma inutilmente, il secondo ufficiale di bordo Starbuck) e assume i connotati reali di quel “Male assoluto” che “ossessiona e perseguita l’uomo fin dai tempi di Adamo”.

Per Achab non c’è alcun Dio benevolo davanti al quale inchinarsi, ma soltanto il Demonio – o forse, un ibrido tra Dio e il Demonio – responsabile del Male che affligge l’umanità fin dall’alba dei tempi. E contro questo Male assoluto, che egli scorge con sicurezza oltre la “maschera di cartone” beffardamente impersonata dal mostro bianco, è pronto a scagliare tutto l’odio e tutta la violenza di cui si sente capace. Ovviamente, in termini meramente psichiatrici, e secondo i parametri della moderna psicopatologia, quella di Achab può essere definita come una semplice ma grave psicosi ossessivo-maniacale a carattere paranoico, una “monomania” (come la definisce lo stesso Melville) alimentata da un lancinante conflitto interiore e da una sofferenza esistenziale che tende a trasformarsi, per sua stessa natura, in una forza distruttiva violentemente proiettata verso il mondo esterno. Questa vis distruttiva, tuttavia, nella mente particolare di Achab è fortemente condizionata dall’“orizzonte morale” del personaggio, secondo una dinamica interna che gli preclude l’esito alternativo – e in qualche modo più semplice e naturale – di esprimere la propria sofferenza (o “disagio esistenziale” come oggi si direbbe) scendendo ai livelli più bassi della criminalità antisociale. La dinamica psicologica in questione, infatti, richiede al soggetto di comprimere e di incanalare le proprie energie negative in modo che esse non vengano semplicemente inibite oppure proiettate all’esterno in maniera disordinata, bensì “moralmente sublimate” e rese pertanto illusoriamente e soggettivamente accettabili in senso etico, attraverso una loro precisa proiezione verso un “nemico” che meriti, per le sue presunte o intrinseche valenze negative sul piano morale, di subire l’impatto di una simile violenza distruttiva.

Accettando questa premessa, è anche abbastanza facile comprendere che il “male” non è esattamente nell’oggetto esteriore contro cui viene scagliata tutta questa violenza “purificatrice”, bensì all’interno del cuore stesso, o meglio, nella psiche patologicamente alterata di personaggi come quello splendidamente elaborato dal genio melvilliano; i quali, non di rado, hanno il loro corrispettivo anche nella storia reale[5]. Questi personaggi, in effetti, proiettano – e quindi vedono ‒, nell’oggetto deformato delle loro ossessioni, nient’altro che l’immagine speculare del Male che, in realtà, è solo dentro di loro.

Per quanto riguarda il capitano Achab, Melville stesso doveva essere perfettamente consapevole di questo paradossale risvolto, e infatti nel costruire il suo tragico personaggio letterario dedica diverse pagine all’origine e alla descrizione della sua peculiare “follia”, scavando impietosamente nelle piaghe più recondite di uno spirito profondamente devastato; il che gli consente di rappresentare, quasi suo malgrado e adoperando i moduli narrativi ed espressivi del periodo romantico, il capitano del Pequod come una figura emblematicamente gigantesca, indicandolo spesso, non senza una punta di segreta ammirazione, come un uomo «alto, grande, empio e sublime», «con una crocifissione sul volto», eretto sul cassero del Pequod «in tutto l’incredibile, regale e opprimente dignità di un gagliardo dolore». Anche qui, però, non bisogna lasciarsi ingannare da tanta romantica magniloquenza: a mio giudizio, infatti, la melodrammatica personalità del personaggio è abilmente costruita in funzione di uno scopo etico-letterario ben preciso e di un’emblematicità d’insieme che, trascendendo il semplice racconto d’avventure marinare, si rivela assai più tragica e sinistra di quanto non appaia nel corso dei singoli momenti della narrazione. Allo scrittore americano, in realtà, non interessava soffermarsi su problema di alta psichiatria e tanto meno giustificare il proprio personaggio sotto una luce freudiana ante litteram, ma solo strumentalizzare la sua apparente “grandezza” interiore per confezionare il tessuto narrativo del suo romanzo secondo alcuni precisi parametri di ordine religioso ed escatologico, i quali costituiscono, in ultima analisi, la quintessenza “morale” del racconto e di tutto il suo teatrale simbolismo.

Per Melville, in effetti, e per quanto evidente manifestazione di una psiche irreversibilmente alterata, l’errore capitale di Achab consiste proprio nel fatto che egli non si limita, alla maniera di Giobbe, a gridare verso il Cielo la disperata e dolorosa intensità del suo dramma interiore, ma, nel tentativo di evadere dalla propria intollerabile condizione umana e di lacerare la sua prigione di impotenza e di sofferenza, in un empito di luciferica presunzione pretende di “purificare” il mondo scagliando il suo odio distruttivo contro il Male assoluto ipostatizzato, nella sua mente sconvolta, dalla grande balena bianca, maschera beffarda dietro cui si cela «l’irraggiungibile Malizia che fu fin dal principio» e a cui, egli fa notare, «anche i cristiani assegnano una parte del mondo».

Ma per le convinzioni religiose di Herman Melville, non c’è nulla di più riprovevole e di più blasfemo di un simile atteggiamento. Esponente di quel puritanesimo evangelico ossessionato più dal Vecchio che dal Nuovo Testamento, tanto comune ai suoi tempi in quella parte dell’America, Melville condanna d’istinto ogni volontà di ribellione contro le leggi del mondo quali furono stabilite dal Creatore fin dal principio. Il Male esiste certamente, forse proviene direttamente da Dio o agisce attraverso i suoi intermediari, ma non è nelle prerogative dell’uomo opporsi all’imperscrutabilità dei disegni divini né correggere l’opera del Demiurgo. Il male che ci viene dalla vita o anche dall’Alto, come Giobbe insegna, va accettato con biblica rassegnazione, va contrastato solo sulla falsariga dell’osservanza dei comandamenti divini o quando esso agisce a livello di tentazione dentro lo spirito umano; ma la “necessità” della sua presenza nel mondo non va mai messa in discussione, e proprio secondo il semplicistico preconcetto religioso che tutto ciò che Dio ha creato e che Dio permette non può essere in alcun modo sbagliato.

Anche ammesso, come poc’anzi sospettato, che lo stesso autore di Moby Dick provasse, in fondo al cuore, una certa ammirazione nei confronti del suo temerario personaggio, Melville continua a ritenere che all’uomo non è concesso organizzare crociate contro il Male metafisico voluto da Dio per i suoi fini imperscrutabili. Inoltre, come abbiamo appena visto, il romanziere si rivela assai furbo e sottile nel ridurre praticamente a zero l’apparente “nobiltà” e le valenze di ordine morale che spingono all’azione il capitano del Pequod: in fondo al suo cuore, Achab non è un generoso cavaliere senza macchia che decide di punto in bianco di combattere in maniera moralmente disinteressata il drago-balena foriero del Male dei primordi. A spingerlo verso tale lotta, suggerisce continuamente il suo creatore, è solo la sua peculiare “follia” generata e alimentata da uno spasmodico desiderio di vendetta personale, impastato a sua volta di uno smisurato quanto luciferico orgoglio («Io colpirei il sole se mi offendesse», dichiara spudoratamente Achab durante uno dei suoi burrascosi colloqui col secondo ufficiale Stabuck).

La battaglia contro il “Male” impersonato dalla balena bianca non viene dunque combattuta al di là dei propri, immediati e meschini interessi psicologici, e tantomeno, checché ne dica Achab, in favore dei discendenti di Adamo. Per l’autore di Moby Dick, questa lotta disperata si configura soltanto come un individuale atto di ribellione simbolicamente analogo a quello commesso dei nostri progenitori nel giardino dell’Eden, come un rifiuto delle sofferenze assegnate all’uomo in seguito al Peccato Originale e, quindi, come un tentativo di dissipare, attraverso l’attuazione della vendetta, le fiamme del proprio inferno personale. Alla fine, suggerisce sempre Melville, non c’è alcuna vera grandezza morale in questa lotta solitaria, ed è per questa evidente blasfemia e per il suo ridondante peccato di superbia che Achab merita di passare dalla sua dannazione terrena a quella eterna.

Nel dramma tanto abilmente intessuto da Melville, inoltre, Achab non è neppure il solo a meritare l’eterna dannazione. Nel romanzo, infatti, la bestemmiante follia del capitano si è a poco a poco insinuata nello spirito dell’equipaggio del Pequod, e persino in quello del “dissidente” Starbuck. Così, durante l’ultima caccia a Moby Dick, il blasfemo “eroismo” di Achab nonché la presenza del mostro bianco che ondeggia minaccioso e vittorioso sulle acque agitate dell’oceano, accendono all’improvviso i cuori dell’intera ciurma, e tutti sembrano venire in un attimo contagiati dallo stesso odio implacabile e distruttivo del loro ormai defunto capitano.

Il Male assoluto, posto che la balena bianca ne fosse o ne apparisse soltanto la personificazione, ha spesso di questi effetti reattivi di tipo “speculare” in chi ha scelto di fronteggiarlo. Nel film di Huston del 1956, la corale “follia” dell’equipaggio del Pequod regala forse una delle sequenze più riuscite: marinai, vogatori e fiocinieri, Starbuck compreso, rispondono tutti assieme al richiamo di Achab che penzola sul dorso della balena e, al grido compatto di «Diamole addosso!», vengono tutti invasati dallo stesso démone e fagocitati dall’empito eroico di fronteggiare e di colpire a morte il bianco mostro torreggiante. Pur comprendendo, forse oscuramente ma forse proprio per questo, che Moby Dick poteva essere l’angelo della morte inviato in mezzo a loro dallo sdegno di una potenza non terrena.

E così, alla fine del dramma collettivo, l’inferno si spalanca davvero, assumendo la simbolica forma del vortice marino. Anche se la descrizione che ne fa Melville appare un po’ troppo sintetica e persino superficiale, l’immagine che egli abbozza del fenomeno è sufficiente a suggerire il terrore archetipico che accompagna la sinistra visione di tutti gli abissi che si snodano verso il basso, verso le profondità della terra e del mare. Da sempre, l’immaginazione umana collega all’abisso discendente l’idea dell’inferno, della dannazione eterna, della discesa senza ritorno.

Anche Dante diede al proprio Inferno la forma di un immenso cono capovolto che, seppure immobile nelle viscere della terra, appare simile per certi versi al Maelström immaginato da Poe. Del resto lo stesso Maelström, a quanto risulta, nelle antiche culture nordiche veniva talvolta interpretato come una via di passaggio verso il regno dei morti. E, per quanto riguarda Poe, è risaputo che nell’animus dello scrittore americano l’immagine del gorgo primigenio è strettamente collegata alle forze negative e malefiche che tentano di trascinare lo spirito dell’uomo verso gli abissi della sofferenza e della follia, proiettandolo magari, come un “buco nero” avanti lettera, in un universo ctonio o situato in un’altra dimensione del cosmo.

In questi stessi termini, la medesima valenza è esemplificata nel famoso canto XXVI dell’Inferno di Dante, a conclusione del già ricordato «folle volo» di Ulisse e dei suoi compagni, che giungono – spinti dalla brama di conoscenza del comandante – fin sotto le pendici della montagna del Purgatorio. Dalla quale, però, un nume spietato si scaglia contro la nave:

ché dalla nuova terra un turbo nacque

e percosse la nave al primo canto.

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque

alla quarta voltar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com’altrui piacque

infin che il mar fu sopra noi rinchiuso.

La descrizione di Dante appare inequivocabile. Il «turbo» che nasce dai pressi della mostruosa montagna può essere forse interpretato come un fenomeno atmosferico, una specie di tromba d’aria che colpisce la nave di Ulisse, ma esso si traduce poi, chiaramente, in un vortice marino, e l’impatto scenografico è il medesimo che troviamo al termine del Moby Dick di Melville: il turbinoso abisso circolare si chiude, infine, come un sudario di morte, e il mare ritorna calmo e normale, con gli uccelli che volano al di sopra delle onde. Con la sola differenza che nell’episodio dantesco Ulisse muore nel vortice innaturale assieme ai suoi compagni, mentre nel Moby Dick il capitano Achab è già morto prima che l’abisso si spalanchi. Ma, com’è noto, ambedue, a prescindere da qualsiasi ammirazione segreta o palese che i loro autori possono provare per i loro personaggi, sono destinati alla dannazione eterna: Ulisse a una pena terribile per l’inganno del cavallo di Troia, Achab per essersi spinto contro le leggi divine, accecato dalla sua luciferina superbia. Sorte non più benigna tocca, poi, agli equipaggi dei due vascelli, risucchiati verso l’oltretomba per essersi fatti sedurre dalla follia dei loro comandanti. In ambedue i casi, comunque, tanto nell’Inferno di Dante che nel Moby Dick di Melville, ciò che veramente trionfa è proprio il “moralismo unilaterale”[6] dei due autori, che non si elevano al di sopra delle concezioni e dei pregiudizi della loro epoca.

 

  1. E. Scannapieco, Umbilicus maris:Il Maelström tra realtà e fantasia, in «L’Universo» (organo dell’Istituto Geografico Militare di Firenze) n. 1/2014, pp. 76-109, e Id., Maelström, l’ombelico del mare, in «Voyager», n. 3/2014, pp. 74-79.

  2. Un cenno riassuntivo sulla storia mitografica del Maelström si può leggere nel mio saggio Il Maelström di Norvegia descritto nell’Jcosameron: un’ulteriore critica al romanzo-fiume di Giacomo Casanova, in «Critica Letteraria», n. 177/2017, pp. 827-33. Allo stesso tema ho recentemente dedicato un intero volume (Maelstrom! Alla ricerca di un mito letterario, Romagnano al Monte, BookSprint Edizioni, 2020).

  3. Com’è noto, alla metà dell’Ottocento tanto Edgar Allan Poe che Jules Verne (col suo celebre romanzo Ventimila leghe sotto i mari) contribuirono alla riscoperta letteraria del mito del Maelström di Norvegia, influenzando non solo la letteratura di genere romantico-avventuroso, ma anche i mass media culturali più qualificati del tempo.

  4. Tradotto dal testo originale (come le citazioni che seguono fra apici doppi nel testo).

  5. Anche se Melville appartiene a un’epoca culturale – quella romantica – piuttosto lontana dalle atmosfere disincantate del secolo XX, nel descrivere il surreale e ossessivo rapporto mentale che lega il capitano Achab all’immagine deformata della balena bianca, sembra quasi che l’autore sia stato in grado di preconizzare qualcosa di molto simile alla parabola del cruento confronto che cento anni più tardi contrapporrà l’antisemitismo hitleriano alla supposta “essenza malefica” del giudaismo internazionale. I processi mentali che sono alla base della tragedia letteraria costruita da Melville e quelli che un secolo più tardi porteranno alla Shoah mi sembrano praticamente gli stessi.

  6. Ho trattato questo tema nella seconda parte di un mio saggio del 2015 intitolato Riflessioni sull’inferno e pubblicato sul n. 301 della rivista «Sìlarus» edita a Battipaglia (Sa): a quel contributo rimando per ulteriori approfondimenti.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)