Pasolini e la parola: dal teatro di parola alla “Medea”, cinema di parola

Author di Domenico Palumbo

L’idea di teatro

Antonin Artaud pubblica tra il 1932 e 1933 due manifesti per sintetizzare il suo Teatro della Crudeltà, con i quali si oppone sia all’idea di Brecht (il teatro impegnato) che a quella di Stanislavskij (l’attore vive realmente quello che interpreta): egli teorizza uno spettacolo volto a scuotere e sconvolgere lo spettatore, ottenendone la partecipazione incondizionata.

Il 22 agosto 1944 nasce il Teatro della Parola, guidato da Mieczysław Kotlarczyk, polonista specializzato in teatro religioso: la compagnia, clandestina e priva di qualsiasi mezzo legato alla messa in scena, declamava la “Parola Viva” in una stanza senza palco, senza scenografia, senza luci, accompagnata talvolta dalla musica di un pianoforte.

Nel novembre del 1966 su «Sipario» viene presentato da un gruppo di artisti/autori italiani un manifesto dal titolo Per un nuovo teatro[1] col quale si interpreta il teatro non solo come rappresentazione scenica ma soprattutto come strumento di lotta in grado di rompere le barriere del Potere.

Nel gennaio del 1967 Moravia su «Nuovi Argomenti» pubblica un articolo dal titolo La chiacchiera a teatro, nel quale riflette sulla decadenza del teatro dovuta alla decadenza del testo e della parola: parla di «teatro della chiacchiera simbolica in cui il dramma si svolge fuori dalle parole mentre le parole non debbono mai in alcun caso, essere drammatiche»[2].

Nel numero di gennaio-marzo del 1968, su «Nuovi Argomenti» Pasolini pubblica il suo Manifesto per un nuovo teatro[3]: 43 punti in cui si confronta, prende spunto, critica, rinnega le proprie fonti.

Riassumiamo le argomentazioni del Manifesto:

  • la finalità: fare del teatro ciò che non è mai stato (punto 1);
  • i destinatari del teatro sono le élites della borghesia[4] (la classe operaia più cosciente) le quali non cercano divertimento, non sono scandalizzati (punto 2-5);
  • il nuovo teatro non è accademico (della Chiacchiera) né d’avanguardia (del Gesto e dell’Urlo): è piuttosto “teatro di Parola”. Al vedere sostituisce l’ascoltare (punti 6-9);
  • all’ambientazione scenica (del teatro della Chiacchiera) e all’azione scenica (del teatro del Gesto) il teatro della Parola oppone la mancanza della messinscena (senza scene, costumi, musichette, magnetofoni e mimica) pur conservando il “rito” teatrale (punti 16-10);
  • il teatro della Chiacchiera è borghese; quello del Gesto è altrettanto borghese, pur presentandosi come antiborghese: usa infatti lo stesso «processo, distruttivo, crudele e dissociato» del primo. Entrambi poi condividono un comune odio per la parola: ipocrita il primo, irrazionalistico il secondo. Il teatro del Gesto cerca la complicità di lotta, mentre invece il teatro di Parola cerca lo scambio di idee (punti 11-14);
  • il teatro di Parola, voluto dal gruppo avanzato della borghesia, dalla quale si emancipa, raggiunge il gruppo avanzato della classe operaia (punti 15-20);
  • alla lingua scritta italiana si associa la lingua dialettale orale: evita ogni purismo di pronuncia, l’oggetto diretto della recitazione non riguarda la lingua ma il significato delle parole e il senso dell’opera (punti 21-31);
  • il teatro tradizionale ha saputo vedere confusamente il cambiamento della società, appiattita e allargata dalla civiltà dei consumi, ma parla a se stesso, atteggiandosi a “misticismo”; il teatro del gesto vi oppone la rinascita di un teatro primitivo, orgiastico, ma obbedisce alle stesse leggi del teatro borghese. L’attore del teatro borghese ha fascino personale; quello del teatro antiborghese ha forza isterica; l’attore del teatro di Parola non porta nessun verbo, è un uomo di cultura, è veicolo vivente del testo[5]. Il teatro resta comunque un rito (punti 32-36);
  • al livello semiologico, il teatro ha lo stesso sistema di segni della realtà: l’archetipo semiologico del teatro è un rito naturale. Il primo rito del teatro è un rito religioso; la democrazia ateniese inventa il rito politico; la borghesia inventa il rito sociale. Il teatro antiborghese prende di mira l’ufficialità (ossia la mancanza di religione), cerca di recuperare le origini religiose del teatro (come mistero orgiastico): il suo rito è definibile come “rito teatrale” (punti 37-41);
  • il teatro di Parola è rito culturale. Il suo pubblico è un nuovo pubblico; lo spazio teatrale è nella testa; è uno spazio frontale, dove attore e pubblico si guardano negli occhi (punti 42-43).

Le opere di Pasolini sono l’humus dal quale scaturisce il Manifesto e non il contrario; così Walter Siti e Silvia De Laude giustificano la loro decisione di non pubblicare il Manifesto all’interno dell’antologia teatrale pasoliniana «per non dare l’impressione di una necessaria dipendenza dei testi dalla teoria; semmai è la teoria che è derivata dai testi, caricandoli di desiderio politico ma anche irrigidendoli»[6]. Ma la Medea girata nel 1969 segue la chiarificazione teorica sul teatro: è lecito dunque chiedersi se e come le riflessioni sul teatro abbiano influenzato l’utilizzo della lingua-cinema.

L’idea di cinema

Se la scelta di comporre versi in dialetto friulano nasce come scelta estetica[7], successivamente Pasolini la interpreta come scelta squisitamente politica contro il fascismo, che aveva imposto la cancellazione della cultura contadina e del dialetto mediante l’utilizzo esclusivo della lingua nazionale. Poi, contro la società dei consumi, giudicata vero fascismo, spinto dal «mio scapestrato desiderio di abbandonare la Nazione Italiana e la lingua italiana»[8], considera il cinema una «lingua», le cui sillabe sono il cinèma[9]: «l’unità minima […] sono i vari oggetti reali che compongono una inquadratura». A livello semiologico, dunque, il cinema ha lo stesso sistema di segni della realtà[10]: poiché la realtà tutta è riprodotta dal cinema[11], esso è «una lingua a sé stante»[12]. Con ciò egli riflette sulla possibilità di una poesia cinematografica[13], collegandola alla presenza, nel linguaggio filmico, della tecnica del “libero indiretto pretestuale”, in cui «l’autore si costruisce un personaggio, magari parlante una lingua inventata, per esprimere una propria particolare interpretazione del mondo»[14]. Il corrispondente cinematografico del “libero indiretto” è per Pasolini una particolare tecnica da lui denominata “soggettiva libera indiretta” (ripresa da Deleuze[15]), la quale prevede lo sdoppiamento interno a una stessa immagine e la contaminazione attraverso elementi paradossali. Al “discorso diretto”, che riporta il discorso altrui tale e quale, corrisponde nel cinema il “piano-sequenza” tipico, che è una “soggettiva”; al “discorso indiretto”, invece, che è costretto a riportare il discorso altrui analizzandolo e interpretandolo, corrisponde l’“oggettiva”[16].

Il problema della lingua implica la critica sociale. Sulla rivista «Rinascita» Pasolini scrive: «si ricordi Gramsci: ogni volta che si ripropone la questione della lingua, vuol dire che si ripropongono problemi sociali e politici di fondo»[17]. È infatti sotto il segno di Gramsci che Pasolini individua due fasi distinte nella sua opera cinematografica. Nella trasmissione televisiva Pasolini e il pubblico, andata in onda il 28 gennaio 1970, distingue una prima fase di film «nazionalpopolari», nella concezione gramsciana del termine, cioè «segnati dalla visione di una cultura responsabile del cambiamento della società» (Accattone, Il Vangelo secondo Matteo, La ricotta, Edipo re); e una seconda fase di film che, guardando alla trasformazione della cultura italiana, la quale da agraria si era trasformata in «neocapitalista», vogliono essere un atto di protesta, «un atto di democrazia»[18].

La società dei consumi

Nella trascrizione dell’ultima intervista Siamo tutti in pericolo, che Pasolini non fece in tempo a rivedere, si trova una delle migliori definizioni del concetto di potere da lui formulate:

Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. […] Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo […] L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere[19].

Nel saggio Contro la televisione[20] del 1966, sostiene che il potere è veicolato dalla televisione e in un articolo del 28 dicembre 1968 sul «Tempo», chiarisce: «Il rapporto della televisione con i suoi spettatori è esattamente quello che non dovrebbe essere. […] la cultura televisiva è una cultura tipicamente alienante»[21].

In Lettere Luterane parla di mutazione antropologica che neppure il fascismo storico è riuscito ad ottenere[22]; per cui conclude: «il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi»[23]. In occasione della Festa dell’Unità, tenutasi a Milano il 27 settembre 1974, Pasolini parla di “genocidio”: denuncia il processo in atto in Italia, attraverso il quale larghi strati del popolo, che erano rimasti esclusi dalla storia, stanno subendo, in diverse forme, un’assimilazione ai modelli di vita e ai valori piccolo-borghesi. In tale trasformazione

si opera un irreparabile genocidio culturale e si realizza, in forme moderne, la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi», che porterà, «anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa[24].

Pasolini riprende Heidegger[25] e si interroga sulla dialettica. Se Marx ne aveva fatto uno strumento di conoscenza della realtà nel suo movimento reale, Gramsci, nel criticare Croce, individua due distinti sensi nella dialettica, uno dei quali prevede l’azione reciproca di cambiamento tra gli opposti. Pasolini, pur avendo Gramsci come punto di riferimento[26], conclude come Bobbio: «Tesi? Antitesi? Sintesi? Mi sembra troppo comodo. La mia dialettica non è più ternaria, ma binaria. Ci sono solo opposizioni, inconciliabili»[27].

Opposti che sono alla base della poetica pasoliniana, tutta incentrata sull’ossimoro[28]; opposti che sono presentati in tutta la loro incongruenza possibile.

Il mito, il sacro

Il mito per Pasolini è una categoria di pensiero[29]. Così come i tragici classici rielaboravano racconti che gli spettatori già conoscevano, Pasolini rielabora miti che gli spettatori già conoscono, ponendoli in correlazione con il mondo contemporaneo e suggerendo parallelismi[30]. A differenza di Pavese, che cerca nella realtà le tracce mnemoniche primordiali che corrispondono al mito, Pasolini porta avanti l’idea che ad esser mitica è la realtà tutta. Al mito associa il sacro, che dice «un bene collettivo, comune: non un intimo segreto con sé stessi»[31]. Nel Sogno del Centauro specifica: «Io difendo il sacro perché è la parte dell’uomo che offre meno resistenza alla profanazione del potere, ed è la più minacciata dalle istituzioni delle Chiese»[32].

Il sacro è, cioè, quella dimensione collettiva che il Centauro Chirone spiegherà a Giasone essere «ormai un lontano ricordo»; questa dimensione non scompare nell’uomo, ma può presentarsi a volte con tutta la sua violenza.

I continui riferimenti ai testi di Levi Strauss, Mircea Eliade e Jung confermano la predilezione di Pasolini di servirsi del mito e del sacro per mettere sotto accusa la tranquillità borghese: alternando il piano realistico con quello mitico, elabora una trama tanto lirica e poetica quanto simbolica, in quanto critica della contemporaneità.

Medea, la doppia

Al femminile Pasolini riserva un ruolo ambiguo. In Mamma Roma Anna Magnani è una donna che vive e lotta per un futuro borghese migliore (secondo lei) per il figlio; in Teorema Silvana Mangano è la madre di buona famiglia che è sedotta e che seduce; è poi Giocasta in Edipo re, madre che tenta di salvare il figlio dall’atroce scoperta; ed è la Madonna nell’affresco giottesco del Decameron. Susanna Pasolini è la Madonna straziata nel Vangelo secondo Matteo; Laura Betti-Emilia, in Teorema, diventa quasi santa. Anche la Callas nella Medea non si esaurisce affatto nell’esser solo matricida, quanto almeno nell’esser doppia: c’è una Medea barbara[33] e c’è una Medea greca[34].

Euripide sceglie di rappresentare Medea quando Atene si appresta alle Guerre del Peloponneso: benché collocata nel tempo mitico, per l’obbligo della distanza tragica[35], non appaiono dèi; tutta la vicenda è per opera di uomini; l’agire di Medea è tutto interiore e inevitabile[36]; prima che madre assassina, è esule[37]; non è un caso che nel dramma greco la sua preoccupazione di trovare un rifugio sia prevalente, tanto che nell’incontro con Egeo Medea insiste perché questi s’impegni con un solenne giuramento a non cacciarla da Atene[38]. Il prologo in Euripide è un soliloquio della nutrice (vv. 1-48) cui segue un dialogo col pedagogo (vv. 49-95). Pasolini riprende il testo euripideo, cui applica la stessa tecnica adoperata per la realizzazione del Vangelo: completa la narrazione attraverso immagini e musica:

l’antefatto non è mai stato raccontato da nessuno e quindi dovrei raccontarlo io, ma siccome non voglio inventare il dialogo, dato che userò il dialogo di Euripide e lo voglio organizzare come ho fatto con il Vangelo, la stessa tecnica, le parti del Vangelo di cui non avevo il testo di Matteo le ho fatte mute, quindi praticamente uso un procedimento stilistico che ho già usato sia nel Vangelo che in Edipo[39].

Il film mette in luce almeno tre tipi di opposizioni:

  1. un conflitto di civiltà tra due mondi tra loro inconciliabili:

    [Giasone] È il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo. […] Confrontato all’altra civiltà, alla razza dello “spirito”, fa scattare una tragedia spaventosa. L’intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due “culture”, sull’irriducibilità reciproca di due civiltà[40].

  2. un conflitto antropologico:

    Medea è l’eroina di un mondo sottoproletario, arcaico, religioso. Giasone invece èl’eroe di un mondo razionale, laico, moderno. E il loro amore rappresenta il conflitto tra questi mondi[41].

  3. un conflitto psicologico:

    Medea, seguendo Giasone, penetra in un mondo privo di riti e di sacrifici, entra in una crisi della presenza, scatta allora una crisi sacrificale che avrà come vittime Glauce, Creonte e i bambini perché la violenza della crisi sacrificale è irradiante, vendicatrice, illimitata[42].

Questi conflitti implicano:

  1. la persistenza del sacro (del metafisico) nella civiltà dei consumi, sebbene questa creda di averla dominata e superata;
  2. la violenza anarchica del Potere, ovvero della società dei consumi, che genera inevitabilmente violenza, irrazionale e incancellabile:

    il potere si fonda sempre sulla ragione. E allora in un certo senso in Medea ho voluto dimostrare (in un modo assolutamente favoloso e mitico e narrativo) proprio questo: la violenza incancellabile dell’irrazionalità […][43].

  3. l’alienazione dell’individuo come risultato dello scontro con la società, ovvero contro il Potere.

Il centro del film sono le visioni di Medea: e non a caso, dal momento che la pellicola si sarebbe dovuta intitolare proprio Visioni della Medea[44]. Le visioni sono di due tipi: il primo tipo testimonia il riaffiorare della di lei autentica natura nella nuova; il secondo tipo è squisitamente onirico. Entrambi i tipi di visione restano indecifrabili per lo spettatore. La rarefazione del vedere e del decifrare chiamano inevitabilmente in causa una nuova partecipazione dello spettatore: il che è condizione sufficiente perché la tesi della Medea quale “cinema di parola” sia perlomeno pertinente.

La tesi

Se la riflessione di Pasolini sul teatro ha influenzato l’utilizzo della lingua-cinema nella seconda fase della sua cinematografia; e se quella sul cinema ha influenzato la sua poetica, allora è possibile rintracciare in alcuni film, quelli dopo il 1968, le caratteristiche che nel Manifesto egli descrive a proposito del “teatro di parola”.

Ci sembra di poter sostenere che la Medea sia interpretabile come “cinema di parola”: si rivolge infatti a un nuovo pubblico (alla classe operaia più cosciente); al vedere sostituisce la comprensione del significato; l’interesse cui mira è culturale, oltre che poetico-letterario.

Il film

La Medea è stata girata tra maggio e agosto 1969. Gli esterni sono stati girati in Cappadocia (Turchia), Aleppo (Siria), Pisa, Marechiaro di Anzio, la Laguna di Grado, nei dintorni di Viterbo; gli interni a Cinecittà. Anche per questo film Pasolini si avvale di attori non professionisti, ad eccezione dei protagonisti: Maria Callas[45] nel ruolo di Medea, il saltatore olimpico Giovanni Gentile nel ruolo di Giasone, Massimo Girotti nel ruolo di Creonte, Laurent Terzieff nel ruolo del Centauro. Il film viene censurato e con prot. N. 552221 si chiede

alleggerimento della scena del primo sacrificio, eliminando le accettate e sfumando le sequenze di spargimento di membra e di sangue; alleggerimento dello strozzamento mediante palo nel secondo sacrificio[46].

Tra la sceneggiatura iniziale e il film vi sono delle leggere discordanze: perno centrale resta la dualità tra due mondi antitetici, quello della Colchide e quello di Corinto. Su questa dicotomia si articolano: la trasformazione di Giasone, quella di Medea, le visioni della protagonista e il figlicidio.

L’opposizione

Pasolini scrive: «Nella Colchide lunare – così diversa dalla terra di Giasone che è piatta malinconica e realistica – tra i folti calanchi, le rupi mostruose, le terrazze labirintiche»[47].

Il regno di Medea è rappresentato da grandi territori aperti: i campi coltivati sono in lontananza e in primo piano c’è la montagna, le cui caverne sono adibite a stanze; all’opposto Corinto, il regno del palazzo e della piazza. Le antiche musiche sacre giapponesi e i canti d’amore iraniani si oppongono alle musiche a corda e alle parole: il mondo della Colchide è il mondo dei gesti, quello di Corinto è il mondo della parola.

La Colchide insomma, regione primitiva, magica e sacrale, è un luogo caratterizzato da quella che Heidegger avrebbe chiamato una profonda “fedeltà alla terra” resa da Pasolini attraverso l’insistenza con cui si sofferma sui dettagli dei riti di fertilità, ispirati dalla lettura del Trattato di storia delle religioni di Mirice Eliade e del Ramo d’oro di Frazer: in particolare, si sofferma sul sacrificio umano che secondo la sceneggiatura avrebbe dovuto officiare Medea stessa[48]. Dopo il sacrificio, tutta la scena (muta) si chiude con le parole di Medea: «dà vita al seme e rinasce il seme». Questa circolarità, che corrisponde alla ciclicità delle stagioni e dunque alla sua eternità, non solo collima con quanto rivela il Centauro a proposito della resurrezione[49], ma trova anche ulteriori riferimenti in certi simboli posti nelle inquadrature: la processione di tutto il popolo che segue il simbolo del Sole, il particolare della lancia dei soldati a forma elicoidale, la forma circolare in cui appare la vittima sacrificale, la figura geometrica del cerchio richiamata nelle decorazioni. Se in Colchide la religione è misterica, fondata sulla voce della Natura che Medea riesce a sentire, nelle scene su Corinto non v’è traccia della religione. L’unico gesto che compie Giasone richiamando la religione è quello sbeffeggiante di gettare ai piedi del soldato una moneta: «tieni, prega per noi!», con un chiaro riferimento a una certa mercificazione del culto religioso; gesto che ripeterà con il Vello d’oro, simbolo «dell’ordine e del potere», gettato ai piedi di Pelia[50].

In Colchide l’autorità è tutta religiosa. Al sacrificio umano per propiziarsi la fertilità della natura[51] segue quella che sembra un’orgia bacchica, nella quale, parimenti alle Baccanti di Euripide, tutto l’ordine è sovvertito: il re e la regina vengono coperti di sputi, Apsirte viene frustato, Medea viene crocifissa. Il Potere è a Corinto, è re Creonte, il quale indossa un elmo romano: il che lo rende di fatto primo antagonista di Medea, come già proposto da Corrado Alvaro[52]. Nelle parole che le rivolge per cacciarla dal paese, Creonte parla a nome della città intera: «Sei diversa da tutti noi, perciò non ti vogliamo tra noi». L’inquadratura dal basso verso l’alto contrasta con quella dall’alto verso il basso riservata a Medea. Che il potere non abbia, per Pasolini, nulla di umano, lo fa dire chiaramente a Creonte: «io voglio disumanamente cacciarti via dalla mia terra!».

La trasformazione di Giasone

Giasone cresce in un mondo favoloso: sono le parole del Centauro Chirone a insegnargli un approccio laico-razionale alla vita. Pasolini cita Comte e rappresenta la di lui ripartizione dello sviluppo umano negli stadi teologico, metafisico e positivo attraverso la messa in scena delle tre età di Giasone: dell’infanzia, dell’adolescenza e dello stadio virile. Il Centauro parla al bambino, all’adolescente, al giovane Giasone, mentre anch’egli si trasforma: dapprima è chiaramente un centauro; poi lo si vede a mezzo busto, nascosto nelle foglie; infine, seduto accanto a Giasone. In poco meno di dieci minuti di monologo, sottolineato dalla metamorfosi del corpo del Centauro, il mondo di Giasone si è trasformato da arcaico in moderno.

Nella piazza della città Giasone vedrà entrambe le forme del Centauro: quella della sua giovinezza e quella interamente a forma umana. Entrambe simboleggiano i due aspetti che Nietzsche aveva ritrovato nello spirito greco, l’apollineo e il dionisiaco. Pasolini riconosce al primo la capacità espressiva delle emozioni suscitate dal secondo[53]. I due centauri così si sovrappongono, ma non per questo si annullano: questa immagine simboleggia l’idea della dialettica secondo Pasolini, nella quale il superamento di un opposto sull’altro è solo un’illusione, dal momento che nulla del superato si perde realmente.

La trasformazione di Medea

Medea è un personaggio solo. La nave Argo, quella che dovrebbe essere la prima nave del mondo, si presenta come una prigione, e non a caso, visto che l’orizzonte di Medea resta la terra. Infatti, scesa, urla di cercare il centro, l’omphalós, luogo sacro dell’insediamento. Le rispondono con la musica: quella apollinea, a corda.

La gente guarda l’improvvisa stranezza di Medea, con stupore, ma con rispetto. Forse si tratta di una nuova forma di rito. In realtà, Medea stessa, non saprebbe dire nulla di quello che fa: è un’ispirazione, bisogna rimettersi alla volontà degli dei. Essa compie con particolare attenzione e devozione tutti i ‘movimenti d’approccio’, necessari ad avvicinarsi al luogo sacro[54].

Incompresa, sbeffeggiata, è sola e lontana quando Giasone la va a prendere. L’inquadratura scelta da Pasolini mostra entrambi circondati da terra arida: in mezzo a loro c’è sabbia, un simbolo-annuncio. Il sesso sarà il solo modo in cui questi due opposti mondi si incontreranno. La prima volta è Giasone a prendere l’iniziativa, la seconda proprio Medea, da sposa. Eppure tra i due non ci sono dialoghi: gli opposti rimangono, così, opposti. Solo alla fine Medea parlerà con lui, da tradita: lei, sola, in basso, gli urla contro, mentre è in alto, come le si era presentato Creonte.

Le visioni

Giasone “vede”: quando arriva in Colchide, vede una coppia di cavalli, dice che sono belli e con gli Argonauti va a prenderli. Si comporta come un predone, prende ciò che vuole: farà lo stesso con Medea, andandola a prendere prima di portarla in tenda. Al vedere di Giasone si contrappongono le visioni di Medea, le quali sono un mezzo potente e profondo di conoscenza della realtà. Se Medea sviene (due volte) quando incontra il potere (Creonte e Giasone), prima di venirne poi sottomessa, le visioni le permettono una conoscenza intima e più profonda della realtà. Ha due visioni: la prima, quando vede Giasone ballare con un gruppo di uomini (un chiaro rimando all’omosessualità, portata sullo schermo per colpire la tranquillità borghese); la seconda, quando nella sua stanza il coro delle ancelle le ricorda la donna che era stata un tempo, inaugurando così il momento hegeliano dell’autocoscienza. Attraverso la tecnica della dissolvenza, Pasolini sfuma il confine tra visione e sogno: la rivelazione freudiana del subconscio si confonde con l’inquietante rappresentazione cifrata della realtà, restando entrambi di impossibile decodifica perché non si esprimono attraverso un linguaggio verbale.

Svegliata dal Sole, Medea appare alle donne vestita con l’abito di un tempo, la sua voce è imperiosa e Pasolini rende la sua autorità inquadrandola dal basso verso l’alto. In 12 minuti di pellicola sono in scena la morte di Glauce e quella di Creonte. A Marx, che sosteneva il ripetersi della storia per due volte, Pasolini sostituisce Freud, che nel suo Al di là del principio di piacere parla di «ripetizione dello stesso destino» citando l’esempio di Tasso[55]. Così nella visione Glauce muore per uno strazio fisico, in quella narrata ha una morte dell’anima. Lo stesso vale per Creonte: nella visione è divorato dalle fiamme, nel destino ha una morte dell’anima, per suicidio.

Il figlicidio

Medea è a casa, sola ed emarginata. È in abiti cittadini che commette il figlicidio. Dopo aver lavato e addormentato i figli, mentre li tiene tra le braccia, in quello che è un gesto comune a ogni madre, si scatena l’inimmaginabile. La scena non ha sviluppo, si limita a un velocissimo cambio di inquadrature. Il che amplifica la follia repentina del gesto: a una prima inquadratura del pugnale ne segue una seconda nella quale appare la lama sporca di sangue. Lo spettatore non vede il gesto del figlicidio, ne rimane escluso, gli resta inspiegabile, irrazionale. Né comprende le motivazioni: enigmatica gli appare Medea, madre come tante e allo stesso tempo matricida sui generis. L’inquadratura labirintica nella quale ella appare in un dedalo di stanze sottolinea l’impossibilità stessa di comprenderla a fondo.

La visione dell’uccisione di Glauce e Creonte è annunciata dalla voce di suo nonno, il re Helios, di contro il figlicidio è circoscritto dal silenzio: Medea ha ucciso i suoi figli fuori dal mondo sacro, lo ha fatto da sola. E fuori da ogni sacralità si serve del fuoco prelevandolo dal focolare, quel fuoco che nel regno degli Argonauti è addomesticato, per usarlo secondo la natura primigenia e distruttiva. Il palazzo, simbolo del potere, è distrutto dal fuoco che credeva di aver addomesticato.

Medea torna, così, ad essere quella che era, l’antica sacerdotessa, maga capace di attraversare il fuoco: anche in questo si contrappone a Giasone, che invece non riesce a farlo[56]. L’ultima scena del film si basa ancora una volta sull’opposizione tra alto e basso: ma questa volta è Medea a trovarsi in una posizione di superiorità, in cima al tetto della casa. Le sue ultime parole tradiscono l’impossibilità di una riconciliazione, d’amore e di natura: «Niente è più possibile, ormai». Se in Euripide alla fine della tragedia arriva il carro del Sole a prelevare Medea, Pasolini sostituisce il deus ex machina con i colori del fuoco, cosicché l’ultima scena richiama il Sole nella scena d’apertura: il cerchio si chiude.

Il vedere dello spettatore

Pasolini trova una fonte per la Medea in Erich Fromm: «Se un ordine sociale trascura o frustra i bisogni umani fondamentali oltre un certo limite, i membri di tale società cercheranno di cambiare l’ordine sociale»[57]; così come nella poesia I limoni di Montale, costruita anch’essa sull’opposizione e nella quale la Verità, l’ipostatizzazione della verità, unica e definitiva, non esiste: «talora ci si aspetta/ di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene»[58].

La dicotomia vedere/verità riguarda Medea, Giasone e anche lo spettatore. Riguarda Medea che ha visioni “vere”; riguarda Giasone che “vede” allo stesso modo di tutti gli Argonauti; riguarda lo spettatore che non “vede”. Il richiamo all’Edipo è esplicito[59]: se questi “vede” in un mondo di distratti che “non vedono”, Medea “vede diversamente” in un mondo dove tutti “vedono la stessa cosa”.

Allo spettatore che non vede Pasolini chiede di aprire gli occhi. Da cui la denuncia di Pasolini: il Potere ha presa non solo sui corpi (come dirà in Salò) ma anche sull’anima, rendendola cieca. Il film vuole avere dunque la stessa funzione del coro delle donne per Medea: far prendere coscienza dell’accecamento dell’anima.

Alla fine della sceneggiatura Pasolini scrive:

l’idea pilota è dunque morta: seppelliamola. / la storia del film sulla regale sottoproletaria è qua, / la storia vera e propria è là: altro rapporto non si dà. / La tensione di 47 anni di vita mi ha svuotato, / posso ormai dire solo le parole che mi costano meno fatica / il messaggio di un malato non conta per la sua bellezza / ma per qualcosa di pratico che riconcilia col sapersi alla fine[60].

Il “cinema di parola”

È possibile a questo punto confrontare i punti elencati nel Manifesto con quanto evidenziato nella lettura semiotica della resa cinematografica.

La Medea non mira al divertimento o allo scandalo: invita alla riflessione (punto 1), richiamando all’impellente necessità di una dialettica tra forze opposte, tra il mondo borghese e quello popolare, cosicché la cultura dominante possa arricchirsi dall’incontro con le tante culture particolari, e viceversa[61]. Di contro, se il rapporto tra le forze non è dialettico, si scatena la violenza, come mostra il film.

I destinatari della Medea sono le élites della classe operaia più cosciente, le quali sono pari all’autore stesso[62] (punti 2-5): «Il film parla del Terzo Mondo, ma si rivolge alle persone intelligenti. Io escludo che un operaio all’avanguardia non implichi nei propri problemi anche quelli del Terzo Mondo»[63]. Le élites non possono non interessarsi alle problematiche inerenti ai rapporti con il Potere, il che rende Medea l’eroina (regale) del popolo del Terzo Mondo contro il Potere, autoritario e alienante.

Al vedere sostituisce la riflessione (punti 6-9): lo spettatore non vede il figlicidio, che resta il nucleo del film. La riflessione riguarda tutti quei figlicidi, non visti, operati dal Potere.

In quanto si rivolge alle élites della classe operaia, l’autore cerca la riflessione, non la condivisione di lotta (punti 11-14). Celebre è l’accusa di Pasolini rivolta ai giovani impegnati negli scontri del 1968[64]: nella dogmatica ripetizione di slogan sulla lotta di classe, i piccoli ribelli borghesi non hanno la fisicità vitalistica del sottoproletariato urbano, del popolo «grande selvaggio nel seno della società» (secondo la citazione tolstojana in epigrafe a Ragazzi di vita[65]), quel “popolo grande e selvaggio” che invece è il popolo della Colchide.

La contrapposizione tra due mondi, uno razionale e comprensibile, l’altro irrazionale e intraducibile, mondo di parola l’uno e mondo dei gesti l’altro, pone inevitabilmente maggiore enfasi sul significato della scena e sul senso dell’opera (punti 21-31), ovvero sull’incontro-scontro.

La Callas, in quanto attrice di Parola, non porta nessun verbo, piuttosto è veicolo vivente del testo (punti 32-36):

questa barbarie che è sprofondata dentro di lei, che viene fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata, insomma i dieci anni passati a Corinto, sarebbero un po’ la vita della Callas. Lei viene fuori da un mondo contadino, greco, agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese. Quindi in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio quello che è lei, nella sua totalità complessa[66].

Lo spazio cui invita la Medea è il non-visto, dunque è nella testa; è uno spazio frontale (punti 42-43). La tendenza, tipica della sua poesia, all’interdiscorsività e all’ibridazione di generi e codici espressivi si esplica anche nel montaggio del film. Le inquadrature campo/controcampo e le panoramiche introducono o spezzano il primo piano del personaggio o il dettaglio del gesto, cosicché i primissimi piani degli attori risultano estremamente più eloquenti e diretti.

Nella prefazione Al lettore nuovo scrive: «[…] tutti questi film io li ho girati ‘come poeta’. […] Credo che non si possa negare che un certo modo di provare qualcosa si ripete identico di fronte ad alcuni miei versi e ad alcune mie inquadrature»[67]. Il montaggio gli è il mezzo ideale per esprimere il senza tempo, quasi fosse una tecnica metastorica:

Il tempo del piano-sequenza, inteso come elemento schematico e primordiale del cinema – cioè come una soggettiva infinita – è dunque il presente […]; il cinema (o meglio la tecnica audiovisiva) è sostanzialmente un infinito piano-sequenza, come è appunto la realtà ai nostri occhi e alle nostre orecchie, per tutto il tempo in cui siamo in grado di vedere e di sentire […]. Ma dal momento in cui interviene il montaggio, cioè quando si passa dal cinema al film (che sono dunque due cose diverse, come la lingua è diversa dalla parola), succede che il presente diventa passato […]: un passato che, per ragioni immanenti al mezzo cinematografico, e non per scelta estetica, ha sempre i modi del presente (è cioè un presente storico)[68].

Il montaggio è dunque per Pasolini il criterio essenziale di una nuova sintassi poetica, in cui la poesia è «translinguistica»[69].

Conclusioni

Pasolini fa di Edipo l’archetipo dell’esule, incompreso e dissociato nella vita; di Medea l’archetipo dell’alienata, nella storia e dalla storia, a causa dell’incontro-scontro con il Potere: Medea, simbolo di ogni minoranza, è alienata in conseguenza del suo rapporto con la cultura dominante. Il film si rivolge allora a un nuovo pubblico, alle élites della borghesia e del mondo proletario, come atto di riflessione e presa di coscienza dell’anarchia del Potere e della sua presa sull’anima, resa cieca dalla standardizzazione imposta dalla civiltà dei consumi. Al vedere il film sostituisce la comprensione del significato, dato che l’interesse cui mira è prettamente culturale: il che rende la Medea un esempio di “cinema di parola”.

Riferimenti bibliografici a opere di Pasolini:

  • Dal laboratorio, in «Nuovi Argomenti», gennaio 1966;
  • Manifesto per un nuovo teatro, in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1968;
  • Empirismo Eretico, Milano, Garzanti, 1972;
  • Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976;
  • Le belle bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1977;
  • Il caos [1979], a cura di Gian Carlo Ferretti, Rome, Editori Riuniti, 1995;
  • Le regole di un’illusione. I film, il cinema, Roma, Fondo Pasolini, 1991;
  • Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1998;
  • Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, cronologia a cura di N. Naldini, vol. 1, Milano, Mondadori, 1999;
  • Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di P. Bellocchio, Milano, Mondadori, 1999;
  • Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, 2 voll., Milano, Mondadori, 2001;
  • Teatro, Milano, Mondadori, 2001;
  • Il vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Milano, Garzanti, 2002;
  • Tutte le poesie, 2 voll., Milano, Mondadori, 2003.

Riferimenti bibliografici a opere su Pasolini:

  • C. Alvaro, La lunga notte di Medea, Roma, Fondazione Mario Luzi, 2019;
  • S. Arecco, P.P.P., Roma, Partisan, 1972;
  • Con Pier Paolo Pasolini, a cura di E. Magrelli, Roma, Bulzoni, 1977;
  • G. Deleuze, Cinéma 1. L’image-mouvement, Paris, Les éditions de Minuit, 1983;
  • Euripide, Medea, Milano, Garzanti, 2008;
  • F. Francione, P.P.P. Sconosciuto, Alessandria, Falsopiano, 2010;
  • J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Roma, Newton & Compton, 2006;
  • S. Freud, Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, 1975;
  • E. Fromm, Marx e Freud, Milano, Garzanti, 1974;
  • M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, Firenze, La Nuova Italia, 1996;
  • F. S. Gérard, Pasolini, ou le mythe de la barbarie, Bruxelles, Les Editions de l’Université de Bruxelles, 1981;
  • J. Halliday, Conversazioni con Pasolini, Parma, Guanda, 1969;
  • J. Montauban, El mito y la mitologia no me interesan, Caracas, El Nacional, 1970;
  • A. Moravia, La chiacchiera a teatro, in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1967;
  • N. Naldini, Pasolini, una vita, Verona, Tamellini, 2014;
  • W. Siti, Il neorealismo della poesia italiana, Torino, Einaudi, 1980.

Breve sitografia:

  1. Il manifesto fu redatto da Giuseppe Bartolucci, Ettore Capriolo, Edoardo Fadini e Franco Quadri.
    Tra i firmatari: Corrado Augias, Giuseppe Bertolucci, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Cathy Berberian, Sylvano Bussotti, Antonio Calenda, Virginio Gazzolo, Ettore Capriolo, Liliana Cavani, Leo De Berardinis, Massimo De Vita, Nuccio Ambrosino, Edoardo Fadini, Roberto Guicciardini, Roberto Lerici, Sergio Liberovici, Emanuele Luzzati, Franco Nonnis, Franco Quadri, Carlo Quartucci e il Teatrogruppo, Luca Ronconi, Giuliano Scabia, Aldo Trionfo.
  2. A. Moravia, La chiacchiera a teatro, in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1967.
  3. Cfr. P. P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1968.
  4. Cfr. P. P. Pasolini, Dal laboratorio, in «Nuovi Argomenti», gennaio 1966: «Il mio è un teatro strettamente culturale. In realtà andrebbe letto [a voce alta] in una stanza piccola, di fronte a una quarantina, a una cinquantina di persone».
  5. Pasolini sintetizza le qualità di questa figura facendo riferimento a Saba: «Saba leggeva stupendamente le sue poesie […] la pateticità nel tempo stesso pudibonda e sfacciata con cui diceva le proprie parole affidate al misterioso mezzo di locomozione metrico dei suoi endecasillabi “rasoterra”, è uno straordinario fenomeno di “teatro”» (P. P. Pasolini, Dal laboratorio, art. cit.).
  6. P. P. Pasolini, Teatro, Milano, Mondadori, 2001, p. CXIV. Il Manifesto è ora riportato nel volume P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. 1, Milano, Mondadori, 1999, pp. 2481-500.
  7. Cfr. P. P. Pasolini, Sulla poesia dialettale, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. 1 cit., pp. 244-64.
  8. P. P. Pasolini, Il cinema secondo Pasolini, in Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, vol. II, p. 2906.
  9. «Possiamo chiamare tutti gli oggetti, forme o atti della realtà permanenti dentro l’immagine cinematografica, col nome ‘cinèmi’, per analogia appunto a ‘fonèmi», in P. P. Pasolini, Empirismo Eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 202-203.
  10. Si rimanda al punto 9 del Manifesto per un nuovo teatro.
  11. Cfr. P. P. Pasolini, Battute sul cinema, 1966 in Con Pier Paolo Pasolini, a cura di E. Magrelli, Roma, Bulzoni, 1977, p. 97.
  12. «Poi mi accorsi che non si trattava di una tecnica letteraria, quasi appartenente alla stessa lingua con cui si scrive: ma era, essa stessa, una lingua», in P. P. Pasolini, Le regole di un’illusione. I film, il cinema, Roma, Fondo Pasolini, 1991, p. 15.
  13. Cfr. P. P. Pasolini, Il cinema di poesia. Testimonianza video: http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Pasolini-e-il-cinema-di-poesia-4cdf51b8-cf1a-413c-814d-e44d29afc84e.html. Consultato il 15 febbraio 2019.
  14. P. P. Pasolini, Empirismo eretico, op. cit., pp. 171-91.
  15. Si tratta per Deleuze di una “thèse très importante”: «l’image-perception trouverait un statut particulier dans «la subjective libre indirecte», qui serait comme une réflexion de l’image dans une conscience de soi-caméra. Il n’importe plus alors de savoir si l’image est objective ou subjective […] Elle ne marque plus une oscillation entre deux pôles, mais une immobilisation d’après une forme esthétique supérieure», in G. Deleuze, Cinéma 1. L’image-mouvement, Paris, Les éditions de Minuit, 1983, pp. 108-11.
  16. Cfr. P. P. Pasolini, Empirismo eretico, op. cit., p. 263.
  17. P. P. Pasolini, Le belle bandiere, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 229.
  18. «Con tutte le contraddizioni che ci potete trovare, Accattone, Mamma Roma, La ricotta e il Vangelo secondo Matteo sono fatti sotto il segno di Gramsci, sotto l’idea di fare delle opere che, pur essendo complesse e contorte data la mia psicologia e la mia formazione all’interno, esteriormente si rivolgevano veramente a quel grande pubblico, ivi compresi gli operai», in P. P. Pasolini, Teatro, op. cit., pp. 329-30.
  19. Testo ripubblicato sull’«Unità» il 9 maggio 2005.
  20. Cfr. P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di P. Bellocchio, Milano, Mondadori, 1999, pp. 128 e sgg.
  21. P. P. Pasolini, Giornalisti, opinioni e TV, da Il Caos sul «Tempo», 28 dicembre 1968; in Id., Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1165 e sgg.
  22. Cfr. P. P. Pasolini, Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976, p. 30.
  23. In «Corriere della Sera», 9 dicembre 1973.
  24. P. P. Pasolini, Il genocidio, da «Rinascita», 27 settembre 1974, in Id., Scritti Corsari, op. cit.; poi in Id., Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 511-14.
  25. «L’aggressione tecnocratica consuma ogni potenzialità simbolico-culturale. La condizione dell’uomo contemporaneo è infatti caratterizzata dallo spettacolo di desertificazione nichilistica di ogni valore tradizionale»: M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, Milano, Adelphi, 1995.
  26. Cfr. P. P. Pasolini, Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, ora in Id. Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., vol. 1, p. 1238.
  27. S. Arecco, P.P.P., Roma, Partisan, 1972, p. 69.
  28. «L’ossimoro si pone al centro di un gruppo di figure che qualifica il testo come luogo di opposizioni, sempre sul punto di unificarsi e mai conciliate»: W. Siti, Spostamento e sperimentalismo, in Il neorealismo della poesia italiana, Torino, Einaudi, 1980, p. 212.
  29. Cfr. El mito y la mitologia no me interesan, a cura di J. Montauban, Caracas, El Nacional, 29 marzo 1970.
  30. Si rimanda a M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, Firenze, La Nuova Italia, 1996.
  31. P. P. Pasolini, Trattamento, in Id., Il vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Milano, Garzanti, 2002.
  32. P. P. Pasolini, Il sogno del centauro. Incontri con Jean Duflot [1969-1975], in Id., Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1403-1550.
  33. Sul tema del “barbaro” in Pasolini si rimanda a F. S. Gérard, Pasolini, ou le mythe de la barbarie, Bruxelles, Les Editions de l’Université de Bruxelles, 1981.
  34. Cfr. M. Callas, Sono per una Medea non aggressiva. Intervista con Giacomo Gambetti, in P. P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, Edipo Re, Medea, Milano, Garzanti, 1994, pp. 470-72.
  35. Regola della distanza tragica. Frinico nel 492 a.C. porta a teatro la guerra di Mileto: tale è la reazione degli spettatori per la rievocazione di eventi così recenti che questa tragedia non verrà più rappresentata e si impone ai tragediografi di non portare in scena fatti storici vicini nel tempo.
  36. «E nessuno ritenga che io sia sciocca e debole, né incapace di iniziativa, ma proprio di carattere opposto, tremenda ai nemici e agli amici benigna. Di siffatte persone assai gloriosa è la vita»: Euripide, Medea, vv. 807-10.
  37. «Io sono sola al mondo, senza patria, e mio marito m’oltraggia»: Euripide, Medea, v. 247.
  38. La sua condizione viene efficacemente espressa dal verbo τολμάω, la cui valenza semantica è duplice: il significato di ‘osare’ è affiancato infatti all’idea di subire qualcosa di indesiderato. Alla stessa radice di τολμάω si riconnette l’aggettivo τάλαινα (‘infelice’), che fin dai primi versi viene attribuito a Medea così come τλήμων (‘sventurata’).
  39. Intervista a Pasolini: RAI, 19 aprile 1969. Consultabile sul sito RAI all’URL: http://www.teche.rai.it.
  40. P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1504-1506.
  41. P.P.P. Sconosciuto, a cura di F. Francione, Alessandria, Falsopiano, 2010, p. 239.
  42. P. P. Pasolini, Trattamento, op. cit., p. 288.
  43. P.P.P. Sconosciuto, op. cit., p. 240.
  44. È possibile rintracciare il titolo sul dattiloscritto originale conservato presso la Biblioteca “Luigi Chiarini” del Centro sperimentale di Cinematografia di Roma. Il titolo è stato poi cambiato, ma non sono state apportate modifiche rispetto al documento poi pubblicato in P. P. Pasolini, Medea, Milano, Garzanti, 1970.
  45. Pasolini incontrò per la prima volta la Callas il 19 ottobre del 1968, a Parigi: «a volte scrivo la sceneggiatura senza sapere chi sarà l’attore. In questo caso sapevo che sarebbe stata la Callas, quindi ho sempre calibrato la mia sceneggiatura in funzione di lei»: N. Naldini, Pasolini, una vita, Verona, Tamellini, 2014, p. 409.
  46. Il fascicolo è consultabile al seguente link: http://cinecensura.com/wp-content/uploads/1969/05/Medea-Fascicolo.pdf.
  47. P. P. Pasolini, Medea, op. cit., 1970.
  48. «Il rito celebrato e officiato da Medea, muta, intenta, rapita, sicura di sé e della sua religione, è un mito solare»: P. P. Pasolini, Medea, op. cit., 1970.
  49. «Ciò che l’uomo scopre con la coltura dei cereali, ciò che ha imparato da questo rapporto, che il seme perde la sua forma sotto terra per poi rinascere».
  50. Giasone: «e poi se vuoi che ti dica quello che secondo me è la verità, questa pelle di caprone lontano dal suo paese non ha più alcun significato».
  51. Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Roma, Newton & Compton, 2006, pp. 489-90.
  52. Cfr. C. Alvaro, La lunga notte di Medea. Va in scena l’11 luglio del 1950.
  53. Chirone dice: «Nulla potrebbe impedire al vecchio centauro di ispirare sentimenti. Nulla impedisce a me di esprimerli».
  54. P. P. Pasolini, Trattamento, op. cit., p. 298.
  55. Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, pp. 208-209.
  56. Medea urla a Giasone: «Perché cerchi di passare attraverso il fuoco? Non potrai farlo! è inutile tentare».
  57. E. Fromm, Marx e Freud, Milano, Garzanti, 1974, p. 95.
  58. E. Montale, I Limoni, in Id., Ossi di seppia, 1.
  59. Cfr. J. Halliday, Conversazioni con Pasolini, Parma, Guanda, 1969: «Ho riprodotto in Medea tutti i miei film precedenti».
  60. P. P. Pasolini, Medea, Milano, Garzanti, 1970.
  61. «Non sono interessato alla dissacrazione: è una moda che detesto, piccoloborghese. Io voglio riconsacrare le cose per quanto possibile, voglio rimitizzarle»: J. Halliday, Conversazioni con Pasolini, op. cit., p. 30.
  62. Cfr. la trasmissione televisiva Cinema ’70 in onda il 31.01.1971.
  63. Ibidem.
  64. Cfr. P. P. Pasolini, La poesia della tradizione, in Id., Trasumanar e organizzar; ora in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, tomo II, Milano, Mondadori, 2003, p. 140.
  65. Cfr. P. P. Pasolini, Ragazzi di vita, ora in Id., Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, vol. I 1946-1961, Milano, Mondadori, 1998, p. 602.
  66. N. Naldini, Pasolini, una vita, op. cit., p. 409.
  67. P. P. Pasolini, Al lettore nuovo, in Id., Poesie, Milano, Garzanti, 1970, ora in Id., Saggi sulla letteratura, op. cit., tomo 2, p. 2517.
  68. P. P. Pasolini, Osservazioni sul piano-sequenza, 1967, in Id., Saggi sulla letteratura, op. cit., pp. 1556-59.
  69. P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura, op. cit., tomo 1, pp. 1504-1505.

(fasc. 44, 25 maggio 2022, vol. I)