Intervista ad Antonio Sbirziola: storia d’un povero, onesto gentiluomo

Author di Enzo Fragapane

Antonio Sbirziola è nato nel 1942 a Butera, in provincia di Caltanissetta, ed è l’autore di Un giorno è bello e il prossimo è migliore, edito da Terre di mezzo nel 2007, la seconda parte delle sue memorie (1977-1984) con la quale nel 2006 ha vinto il Premio Pieve di Saverio Tutino: la prima, Povero, onesto e gentiluomo, è uscita per Il Mulino nel 2012.

L’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano si è interessato alla sua scrittura autobiografica di maniscalco e saldatore, emigrato in Australia nel 1961, in cerca di un futuro migliore: dell’intervista che ci ha rilasciato giorni fa, ad agosto, abbiamo volutamente deciso di conservare certe marche dell’oralità, alcuni tratti sintattici caratteristici, influenzati anche da certe cadenze dialettali, e qualche inglesismo dovuto al suo risiedere da svariati anni a Sidney.

Quando ha cominciato a scrivere?

La mia storia-biografia l’ho incominciata nel 1953. Io ero distratto a scuola e il maestro mi ha detto: «È meglio che compri un quaderno e prendi gli appunti dei compiti da fare». Su quello stesso quaderno scrivevo piccoli post di quello che accadeva durante la giornata. La storia completa ho iniziato a scriverla nel 1970. Avevo ventotto anni. Anni dopo scrivevo, perché ho frequentato una scuola in Australia per fare il mestiere di tracciatore.

E perché, cosa sentiva? Cosa l’ha spinta a scrivere?

Questa è una domanda che è difficile rispondere. È un’ambizione che avevo da ragazzino, quella di scrivere; sempre scrivevo qualcosa. Ancora scrivo. Sto scrivendo un altro libro. Non so se sarà pubblicato, ma a me piace scrivere.

Cosa usa per scrivere Antonio Sbirziola? Carta? Penna? Fogli? Quaderni? Macchina da scrivere? Computer?

Prima usavo i quaderni di scuola a righe. I quaderni sono a Pieve Santo Stefano [sede dell’Archivio diaristico nazionale: n. d. r.]. Li ho portati lì, perché i miei figli non leggono l’italiano: se un giorno mi dovesse accadere qualcosa, …loro li butterebbero. Sono o venticinque o ventisei quaderni. Adesso scrivo con “la compiuter”. Perché mi aiuta con la grammatica. La macchina da scrivere l’ho usata per trascrivere i quaderni da mandare a Pieve. Lì ci sono sia quelli scritti a mano che quelli trascritti a macchina. Io cercavo uno casa editrice per la mia autobiografia e un editore di Milano mi suggerì di rivolgermi all’archivio. Comprai una macchina da scrivere di seconda mano, un’Olivetti, piccolina. E mandai i quaderni dattiloscritti all’Archivio.

Scrivere e raccontare le viene facile?

Mi viene più facile scrivere che raccontare. Quando si racconta una storia, dal principio si va alla fine e dalla fine al principio. Invece, quando si scrive, tutto è ordinato.

Cosa ne pensa di Facebook? Come mai oggi sa utilizzare la tecnologia?

Ascolta, è stato mio figlio. Io Facebook non lo volevo. Mio figlio era in contatto con i miei nipoti che vivono in paese, a Butera. Per stare in contatto con i miei cugini, i nipoti. “La compiuter” lui me l’ha comperato. I primi mesi mi veniva difficile, poi con la buona volontà… Ho cominciato a usarlo a settant’anni, perché sempre c’era quella passione di scrivere.

Povero, onesto e gentiluomo, edito da Il Mulino, racconta la prima parte della sua vita, tra la Sicilia e Genova, prima di emigrare in Australia, ed è una sintesi di ottocentoundici pagine scritte di pugno: è corretto?

Nel dattiloscritto che ho mandato a Pieve Santo Stefano, rispetto a tutto quello che avevo scritto, c’erano dei tagli. Altrimenti ci sarebbe voluto un libro di cinquecento pagine. L’editor della casa editrice Il Mulino mi ha aiutato tanto: tante parole erano tutte attaccate e hanno sistemato la punteggiatura. Mi hanno voluto bene. Quando sono emigrato in Australia avevo pochi studi, scrivevo per come sentivo il suono delle parole. E gli australiani pronunciano tante parole unite.

Lei avrebbe voluto che Natalia Cangi e Nicola Maranesi – editor delle pagine di Povero, onesto e gentiluomo – correggessero la sua punteggiatura, ma l’editore non era d’accordo. Può raccontarci come è andata?

Sì, volevo che il testo fosse migliorato. Ma loro hanno voluto vedere il materiale originale per pubblicare una riduzione fedele.

È come se lei avesse il desiderio di “migliorare” la sua opera: quanto c’entra il suo modo di vedere la vita in questo? È sempre vissuto per migliorare la propria esistenza: per questa ragione emigrò in Australia?

Mi ero trasferito dalla Sicilia a Genova, dove viveva un fratello di mia mamma. Lavoravo per l’Italstrada a Conegliano. Poi sono stato licenziato insieme ad altri per un po’ di tempo. Dopo, l’ufficio di collocamento non voleva darmi più lavoro perché ci voleva la residenza, anche se Italstrada mi dava i documenti per essere assunto di nuovo. Per cinque volte l’ufficio ha messo un timbro “annullato”. L’ultima volta misi la mia mano sotto il timbro. Avevo bisogno di lavorare per mangiare. E il funzionario mi disse: «Torna al tuo paesello che è tanto bello!», canticchiando. Gli dissi che ero italiano. Persi un po’ fiducia. Mio zio mi registrò nello stato di famiglia. Tornai a Butera in attesa del trasferimento di residenza. A Genova, senza lavoro, non potevo pagare l’affitto. Dopo qualche mese tornai a lavorare per Italstrada e come saldatore ai cantieri navali dell’Ansaldo. Io non sapevo collegare il polo positivo e negativo della saldatrice (ride). Un collega mi fece vedere come si faceva. Poi ho lavorato come manovale alla Fincosit per fare un bacino di carenaggio a Genova-Sampierdarena. Ma pensavo sempre che non ero italiano. E che la moneta non era abbastanza: l’affitto, il mangiare. Ho pensato che in Italia non mi potevo fare una vita. Un giorno ero su un tram e ho letto sul giornale che in Australia cercavano operai specializzati. Sono tornato all’ufficio di collocamento per fare la domanda d’emigrazione. Ho trovato quello che mi aveva offeso mesi prima. Dopo due mesi sono partito.

Un giorno è bello, il prossimo migliore è stato pubblicato prima di Povero, onesto e gentiluomo ma, oltre a narrare la seconda parte della sua vita, quella dell’arrivo in Australia, ha una scrittura diversa, più da “scrittore”: frasi più brevi, la punteggiatura più puntuale, la sintassi meno masticata; ci dica, s’impara a scrivere o era cambiato lo scrittore, scrivendo?

Ho imparato a scrivere. E poi avevo più tempo per scrivere, mettevo più punti, virgole, separavo le parole. Facevo più attenzione. Prima, scrivevo la sera, tutto di fretta. E, poi, ero diventato più maturo come persona. Ma soprattutto avevo più tempo: la notte vegliavo mio figlio Marcello, che stava male. Durante la notte avevo tempo per scrivere, con la macchina da scrivere.

L’uso della macchina da scrivere, rispetto alla scrittura «a mano», contribuisce a cambiare la scrittura? È come un pianoforte? Dà ritmo?

Sì, un pochettino. È come un pianoforte: bisogna usare le due mani.

In Povero, onesto e gentiluomo la sua scrittura è più irruenta, vitale, inquieta, tagliente, orgogliosa: sono tutti aspetti del suo carattere?

Scrivendo cambia la personalità, come avevo già detto: si diventa più maturi. C’è un’altra cosa: molta gente legge poco e non scrive niente. Io leggevo le riviste italiane: «La fiamma», un giornale italiano stampato in Australia, «La domenica del Corriere». Tutti questi sono tratti del mio carattere. La scrittura aiuta a calmarsi. È come quando si parla con una persona: quando scrivi, scarichi tutta la rabbia.

La sua scrittura e quella di Rabito sono narrative: c’è realismo, combinato alla descrizione del dettaglio; c’è azione, movimento, capacità di rendere i profili psicologici; un insieme di elementi tali da creare quel climax che coinvolge il lettore nella scena descritta. Oltre a scrivere, le piace raccontare storie ai suoi nipoti? Le piace conversare?

Sì, entrambe le cose. Ma quando scrivo mi esprimo meglio. A parlare – come ho spiegato prima – s’inizia e poi ci si perde. Anche se non ho avuto grandi difficoltà a comunicare: ho girato tutto il mondo! (ride) E tutti mi capiscono. Vede, io l’inglese lo scrivo; però, quando scrivo una lettera, ci faccio un «ritornello», la faccio un pochettino più lunga, la lettera; quando la scrive mio figlio, quello che io scrivo in un foglio intero lui lo fa in mezzo foglio. Lui è laureato. Però, a tutte le lettere che ho scritto ho ricevuto risposta.

Allo stesso tempo, dalle sue pagine emerge il fatto che da adolescente e ragazzo era molto introverso, silenzioso, riflessivo e sognatore: «faccio monti e castelli fontazione, il mio cervello non e ancora sviluppato non o il coragio di afrontare altri lavori più sviluppati», dice…

Mio padre faceva il pastore. E aveva la mandria. Molti animali morirono per l’esplosione di una polveriera americana a venti metri dal nostro terreno, durante la Seconda guerra. I miei fratelli, dopo, si sono rifiutati di fare i pastori; hanno voluto fare i contadini. Il primo anno non abbiamo raccolto niente. Io ero ragazzino e suggerivo ai miei fratelli di coltivare ortaggi e andarli a vendere al mercato, per fare soldi: non più grano e fave. Poteva cambiare la vita della famiglia, poteva andare meglio. Loro mi dicevano: «Tu devi parlare quando piscia il gallo» (ride). Io ero disperato, ma ero un ragazzino. Eravamo quattro fratelli scapoli e tre sorelle sposate. Ogni anno la povertà si avvicinava.

La partenza per l’Australia è stata la decisione più coraggiosa che ha preso in vita sua? Cosa è stato più importante nella sua vita: l’orgoglio o la forza di volontà?

Sì. Sono stato due volte coraggioso: la prima ad andare a Genova da Butera; quando sono andato a prendere il treno, da Catania per Genova, non avevo mai visto il treno, era la prima volta. Mi stava mancando il coraggio di partire, avevo sedici anni. Quando sono arrivato a Genova, non sapevo telefonare per farmi venire a prendere alla stazione. Due miei compaesani mi hanno accompagnato a casa di mio zio. Mia zia mi ha offeso, davanti a loro, dicendomi: «Tu puzzi di cavallo». I miei compaesani si sono fatti una risata. Mia zia non mi voleva, a casa. Voleva che mi arrabbiassi e me ne andassi. Ma non ho perso la calma: lì ero, e lì dovevo restare. Orgoglio e buona volontà sono tutti e due importanti: l’orgoglio per me è rispettare tutti per ricevere rispetto; la buona volontà è servita a farmi un futuro. Tutte e due le cose sono state per me come due pagine: in una l’orgoglio e nell’altra la buona volontà; se non hai orgoglio, la gente ti caccia via, nessuno ti aiuta. Ci vogliono entrambi.

Facciamo un gioco: le elenco alcune parole e nomi e lei mi dice cosa hanno rappresentato: Sicilia, mamma, papà, fame, “allavorare”, “sorvivere”, amore e donne, Maria Carmela, Giovanna, Rosa, Marcello, Luigi, casa… Cosa sono stati per lei?

Sicilia: Una volta la Sicilia la odiavo. È la povertà. Odiavo il paese, odiavo tutta la Sicilia e la povertà. Oggi ci voglio bene, ho un pochettino di nostalgia.

Mamma: Io amavo tanto mia mamma; però, siccome c’era tanta povertà in casa, secondo me rispettava di più i miei fratelli. Certe volte, loro sbagliavano e le colpe erano tutte mie e prendevo delle sberle.

Papà: Papà mi voleva bene, mi difendeva. Era affettuoso.

Fame: In che senso fame? Di essere famoso o fame della povertà? Rispondo in tutti e due i sensi: io non potevo sopportare la povertà della fame; a volte il mangiare era poco e bisognava sopportare la fame. Però volevo la fame di essere un giorno qualcuno, di farmi un futuro. E grazie a Dio ci sono riuscito, dopo tanti sacrifici, tante sofferenze.

Allavorare”: Il lavoro non è mai stato un ostacolo per me. Ho cercato sempre lavoro. Mi è sempre piaciuto: un lavoro onesto, per farmi una famiglia, ed essere felice. E, per conquistare questo qua, ci ho impiegato quasi dieci anni: prima c’era la candela e dopo si è accesa la luce.

Sorvivere”: Questa è una bella domanda. Ti rispondo. “Sorvivere” per me è stato fare amicizia con tutti: senza amicizia non si vive una vita felice; l’amicizia ti dà il coraggio di sopravvivere e la forza di poter andare avanti e farti un futuro. I miei cognati mi hanno aiutato tanto quando nostro figlio Marcello stava male. Mi hanno fatto “sorvivere”. In quel momento volevo iniziare un business, un little shop di vino e liquori, ma non ho potuto per la malattia di Marcello, per mia moglie in depressione: la famiglia rischiava di separarsi. Ho sempre avuto l’ambizione di fare un futuro migliore. Quando Luigi ha cominciato le scuole, gli ho detto che lo avrei supportato nello studio. Si è laureato. Abbiamo comprato una farmacia. È stata la nostra fortuna. Ho studiato un altro modo di mettere su un business e di avere un pochettino più fortuna.

Amore e donne: Quand’ero scapolo, non avevo mai amici maschi per un motivo: loro andavano dentro i bar e incominciavano a spendere, io non avevo la possibilità di spendere tanti soldi e preferivo restare a casa. A Genova ho conosciuto una ragazza, Maria Carmela: era tre anni più giovane di me, abitavamo nella stessa casa e andavamo in giro. Quando sono arrivato in Australia, ho incontrato amici, maschi, che gli piaceva scommettere sui cani, scommettere sui cavalli, carte d’azzardo, e facevo più amicizia con le donne: con le donne si andava a ballare, si andava al cinema e ci passavamo il tempo.

E Giovanna, sulla nave per l’Australia…? Rifiuterebbe l’offerta di lavoro di suo padre?

No. Quella volta ho fatto uno sbaglio, ma non avevo niente da offrire. Sarei stato un loro schiavo: in quel momento ero un poveraccio, mi sono sentito in quel modo.

E Rosa, sua moglie? Quando ho conosciuto Rosa, ero fidanzato con altre tre ragazze. Poi mi sono spiegato con mia moglie [‘dichiarato’, n. d. r.]. Siamo sposati da venticinque anni. Me la fece conoscere il padrone di casa che telefonò a suo fratello per portarle il messaggio. Con le altre non andava bene: una perché voleva essere portata a spasso tutte le sere; un’altra non mi piaceva la sua voce, la sua voce mi faceva diventare nervoso, il suono della voce mi faceva diventare nervoso… Un’altra era napoletana: prima mi disse che mi presentava i genitori, poi mi disse no. Siamo usciti qualche volta. Poi mi diede l’indirizzo per conoscere i suoi genitori e le dissi: «Te lo faccio sapere». Dopo mi sono fidanzato con mia moglie.

Casa: La casa era la cosa più importante per me. Quando mi sono sposato, avevo già i soldi per pagare il deposito e per pagare metà delle spese del matrimonio e i mobili. Io avevo il sogno di una bella casa grande.

(fasc. 4, 25 agosto 2015)