Ancora oggi, nel tempo sincopato in cui ci accade di vivere, facciamo tutti esperienza di provare piacere di fronte a qualcuno o a qualcosa (una figura, un paesaggio, un volto, un corpo, uno scorcio ecc.), senza poter risalire agevolmente a saperne il perché; e, comunque, resta problematico risalire a un sapere che sa di godere: ci capita di godere senza sapere. Ma ci capita anche il contrario, cioè sappiamo, ma senza godere; il “sapere” sembra essere scisso dal “piacere”, e viceversa. Sembra instaurarsi un’eccedenza costitutiva dell’uno sull’altro. Kant parlerà nella Critica del giudizio dell’«enigma» del gusto tra sapere e piacere[1. Cfr. I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Torino, Einaudi, 1999.]. Già Platone scrive che l’essere umano vuole godere e, per essere felice, non si può prescindere dal piacere[2. Leggi, 732 d8-733 a4.]. Dunque, chi gode è colui che sa? E colui che sa gode ed è felice? Oppure, vi è incolmabile scissione tra sapere e godere? E che tipologia di rapporto si instaura tra chi sa, chi gode, con la filosofia, la politica, la scienza, la linguistica, la psicoanalisi, l’economia?
Di tutto ciò tratta il suggestivo libretto di Giorgio Agamben Gusto (Macerata, Quodlibet, 2015, euro 10) già “voce” per l’Enciclopedia Treccani. Fin dall’antichità ˗ scrive Agamben ˗ il gusto è considerato il senso più basso, rispetto a vista e udito, ritenuti i due sensi “teoretici” par exellence[3. G. Agamben, Gusto, Macerata, Quodlibet, 2015, p. 9.]. Già Isidoro di Siviglia nel XII secolo, come Tommaso Campanella nel XVI secolo, come poi Nietzsche nel XIX, connettono la sfera del “gusto” con quella della conoscenza: quest’ultimo rileva, per esempio, che sophós, ‘saggio’, appartiene alla famiglia di Sapio, ‘gustare’, Sapiens, ‘il gustante’, ‘percepibile al gusto’; Nietzsche scrive anche che, mentre noi parliamo di “gusto” nell’arte, per i greci il concetto è molto più ampio[4. Ivi, p. 10.]. Il termine Sapere viene dal latino volgare *Sapere, dal classico Sapere con e breve (= ‘avere sapore’, ‘avere capacità di discernimento’ – cfr. anche la “deliberazione” e la “decisione” in Aristotele); da una radice indoeuropea *Sap – cfr. il greco Saphés (‘di sapore penetrante’, in senso figurato ‘manifesto’, ‘evidente’), Sophós (‘uomo di fine gusto, che investiga, saggio’) – cfr. anche il latino li-ngua da li-ngo, ‘lecco’.
Il “gustante”, dunque, è anche un essere saggio; il concetto di “gusto” è connesso con il conoscere, con la saggezza; questo anche se Platone e Aristotele, per esempio, distinguono la saggezza dalla sapienza: per Aristotele la phronesis, ovvero la ‘saggezza’ o ‘prudenza’, è la retta norma dell’agire umano nel quadro della contingenza; la saggezza non è né episteme (scienza) né sophia (‘sapienza’) [che è la scienza delle cause prime, la metafisica]; essa è la conoscenza dell’individuale, che non è oggetto di scienza ma di sensazione (aisthesis); e per Aristotele il limite della sensazione è di cogliere solo il fatto particolare[5. F. Volpi, Dizionario delle Opere Filosofiche, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 70-71]. Sarà proprio questo il motivo per cui la phronesis aristotelica verrà paragonata alla “facoltà del giudizio estetico e teleologico” di Kant, in quanto anche tale “facoltà” è la capacità di ricondurre un particolare già dato a un universale[6. Cfr. H. Arendt, La vita della mente, a cura di A. Dal Lago, Bologna, Il Mulino, 1988.]. Anche per Platone «l’origine delle Qualità, cioè della sensazione, va posta in un momento intermedio tra ciò che agisce e ciò che subisce», in quanto per Platone i due piani della realtà, quello fisico e quello metafisico (costituiti entrambi da un agire-patire), trovano espressione nella sua teoria dei quattro generi: «un principio d’ordine, peras, agisce su un principio di disordine, apeiron, dando luogo ad un misto in forza di una Causa superiore esterna a questo processo»[7. Cfr. M. Migliori, Essere umani! Il rispetto delle passioni in Platone, in «Thaumàzein», n. 2, 2014.]. Per Platone l’uomo non è sophós, e il filosofo arriva alla verità per approssimazione in quanto l’unumdella “cosa” è eccedente rispetto alle categorie con le quali conosciamo la molteplicità[8. M. Migliori, Il disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone, 2 voll., Brescia, Morcelliana, 2013.].
Già dagli albori della Metafisica occidentale si consuma una scissione tra il sapere e il piacere, e tra le forme di saggezza e la sapienza, quella sophía che è conoscenza delle cause prime. Agamben si domanda come mai la conoscenza è così originalmente divisa e intrattiene altrettanto originalmente un rapporto con il piacere, con l’etica. E si chiede se è possibile una riconciliazione della divisione tra la scienza, che conosce la verità ma non ne gode, e il “gusto”, che gode della bellezza senza poterne dare ragione. Agamben imputa a Platone di aver “istituito” la frattura dell’oggetto della conoscenza in verità e bellezza[9. G. Agamben, Gusto, op. cit. pp. 12-13.]. Ma, già a partire dal periodo tra l’VIII e il V secolo, fra Omero e Tucitide, la bellezza «non coincide con requisiti più o meno riconducibili all’ambito della sensibilità, non indica una “Qualità” nettamente distinguibile, rispetto a connotati più specificamente pertinenti all’ambito della morale»[10. U. Curi, L’apparire del bello, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 32.]. “Bello” è sia ciò che è “integro”, che è in se stesso compiuto, sia l’atteggiamento “coraggioso”, “virile” del combattente; “bella” può essere anche la morte[11. Ivi, p. 33.]. La ricerca sul “bello”, fin dai primi documenti, è interna alla conoscenza dell’essere in quanto tale – all’ontologia ˗ o che è pertinente al piano del giudizio morale.
Vi è, però, un’altra importante connessione con la nozione arcaica di bellezza: quella con la dimensione del tempo, il kairós (‘momento buono, propizio’); infatti, «se è kalós solo ciò che accade nel kairós, se la bellezza è ciò che balena fugacemente […] allora essa non potrà che apparire come un evento, più che come un connotato immanente alle cose che si dicono belle»[12. Ibidem.]. Il termine kalós, insomma, non sta per sé, nella propria autonomia, ma rinvia ad altro da sé, al “buono”, al “virtuoso”, al “perfetto” al “tempo propizio” ecc.; dunque, la bellezza è segnata fin dalle origini da una costitutiva e insuperabile duplicità, ancor prima che Platone ne armonizzi la struttura problematica; la struttura del bello è segnatamente ambivalente, ed eccedente la sua significazione, rinviante strutturalmente ad altro da sé. Termini come ambivalenza, alterità, eccedenza, che sembrano costituire già in epoca arcaica la definizione del “bello”, poi, con la nascita dell’estetica, del “gusto”, si spingono fino a noi, insidiandosi “costitutivamente” entro la definizione di determinazioni come “Soggetto”, “Oggetto”, “Vita”, “Politica”, “Denaro”, “Merce” ecc. già a partire dalla metafisica classica, financo nelle forme differenziate del “sapere” nella contemporaneità: sapere epistemologico, linguistico, economico, psicoanalitico, semiotico.
Vi sono due specie di sapere nel mondo antico: un sapere che si sa, le scienze nel senso moderno, che si fondano sull’adeguazione del significante e del significato, e il sapere che non si sa, le scienze divinatorie e le varie forme di “manìa” elencate da Platone, che si fondano, invece, sul significante eccedente. Sarà la teoria del “je ne sais quoi” del “non so che” che in epoca moderna segnerà “concettualmente” il gusto, e non solo: non so cosa, non so perché, ma trovo bello quell’oggetto, anche se non posso darne ragione. Leibniz dirà del “gusto” come sapere che non si sa; così pure Montesquieu, che parlerà di un’inadeguatezza fra la conoscenza e il suo oggetto; anche Diderot, come Montesquieu, dichiara che il nostro modo di rapportare una cosa a un’altra è arbitrario, e Rousseau dirà che le cose agiscono in noi più come segni che come sensazioni da cui siamo affetti[13. Cfr. G. Agamben, Gusto, op. cit. pp. 25-32.]:
Nella sua formulazione più radicale, la riflessione settecentesca sul bello e sul gusto culmina così nel rimando ad un sapere, di cui non si può rendere ragione perché si sostiene su un puro significante (“assenza di significato” definirà Winckelmann, la bellezza), e a un piacere che permette di giudicare, perché si sostiene non su una realtà sostanziale, ma su ciò che nell’oggetto è pura significazione[14. Ivi, pp. 33-34.].
Per esempio Lévi-strauss in ambito “strutturalista” dirà, come già avvenuto nell’ambito dell’estetica settecentesca, di una fondamentale inadeguatezza tra la significazione e la conoscenza, la cui causa è da rintracciare all’origine dell’homo sapiens; così come l’economia politica, che fonda la sua attività, contrariamente al dettato di Marx (che fondava nel “valore d’uso” la forma-valore e il carattere di feticcio della merce), sul valore di scambio: su ciò che nella merce non può essere goduto. Da ciò ˗ scrive Agamben ˗ l’“Homo Æstheticus” e l’“Homo Œconomicus” sono le due metà che il concetto di “gusto” ha provato a unire.
Il sistema degli oggetti, nel consumo, nello scambio, nel simbolico riflette effettivamente questa cornice “interpretativa”; di più, forse è proprio da essa che effettualmente abbiamo non l’idea ma l’ideologizzazione del mercato in quanto costituito attraverso il “mezzo” del denaro (come medio tra l’arbitrarietà in sede teorica del significante e il significato dell’“oggettività”) da un sistema differenziale di produzione delle merci che non contempla più la dualità, la dialettica interna tra significante e significato, ma si basa esclusivamente sull’effetto semantico del “potere in sé”, simbolico, della strategia dell’impresa capitalistica, che, a sua volta, sottostà, approfittandone, esemplarmente, alla difficoltà (per non dire l’impossibilità) del “decider-si” per un “sapere” produttivo che stabilisca e stabilizzi i criteri per una vita “etica” della consumazione, oppure, ove fosse possible, per un consumo “etico” per la vita:
I beni come singole parole, come segni, entrano in un discorso la cui significazione dipende dalla grammatica sottesa. […] Di conseguenza ogni singolo atto di consumo deve esser letto in relazione ad un insieme di pratiche di consumo, poiché il significato deve ricercarsi nel sistema[15. R. Paltrinieri, Il consumo come linguaggio, Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 67-68.].
Lo scambio simbolico non è frutto di una libera scelta personale, ma di un’imposizione dall’alto; i valori di scambio-segno degli oggetti sono segni di un sistema, dunque rinviano a una “gerarchia culturale” e sociale, in una società stratificata. Dunque, vi è dall’alto un “discorso-dispositivo” che orienta, governa, impone l’organizzazione ideologica della “funzione” simbolico-segnica dello scambio degli oggetti. Insomma, siamo “obbligati” a consumare senza più “un sapere che si sa”, un “piacere che si gode”: dunque, emerge un “soggetto” che non sa, e non gode, catturato in un processo di “forze” ideologico-produttivo che non restituisce né sapere, né godere, se non nella forma della cristallizzazione di una vuota autoaffezione del desiderio. E tutto ciò non ha, poi, a che fare col concetto di “gusto”, e con la “natura” phantasmatica della sua propria sostanza? E non prende spunto da ciò l’idea di Freud di “un’estetica guidata dal punto di vista economico”? L’instaurarsi di un “campo relazionale” comune, il senso comune tra le “realtà psichiche” attraverso segni convenzionali. «Riconoscendo L’inconscio come luogo dell’economia e del piacere, la psicanalisi si situa al limite fra estetica ed economia politica, fra il sapere che non si sa e il piacere che non si gode»[16. G. Agamben, Gusto, op. cit., p. 53.]. L’universalizzazione della forma-merce è il mondo dei produttori, della moda:
è il mondo del trapassare perenne, dove il trapasso appare produttivo: “inveramento” della dialettica hegeliana. […] La forma universale del fare […] non riesce a rappresentarsi che come produttiva di merci. […] per disporre dell’intera potenza della “macchina”, non può che dipenderne. Se le sue “idee” non debbono restare senza valore, se debbono avere comunque pubblico o mercato, i suoi prodotti non possono che apparire nella forma della merce. La trasformazione dello stesso prodotto artistico, del prodotto dell’ars, nel senso più ampio e proprio del termine, in merce si annuncia perciò come destino[17. M. Cacciari, Il produttore malinconico, in W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua ripetizione tecnica, trad. di E. Filippini, a cura di M. Valagussa, con un saggio di M. Cacciari, Torino, Einaudi, 2011, pp. 22-23.].
Anche la Psicoanalisi per Agamben condivide con queste ultime un punto essenziale in quanto per la psicoanalisi l’“Es” (l’io è un altro), che essa pone come sapere che non si sa, è anche il “soggetto” di un piacere che non si gode[18. Cfr. G. Agamben, Gusto, op. cit., pp. 48-53.]. Per la Psicoanalisi il concetto di “Inconscio” si impone in opposizione ai concetti tradizionali di “soggetto” e “coscienza”. “Realtà psichica” = coscienza: questo è il senso comune; Freud problematicizza tutto ciò: la coscienza è in parte dislocata nel luogo dell’inconscio e la realtà psichica si sdoppia tra un fondo e una superficie. L’inconscio si trova dentro e fuori la coscienza: è “fuori” della coscienza (perché essa non ne sa nulla), è eccedente; è dentro in quanto ha presumibilmente la sua genesi nell’articolarsi di esperienze antropologiche. Per Foucault, per esempio, la scoperta psicoanalitica segna la fine delle cosidette “scienze umane”; il nesso inconscio-coscienza viene spezzato, “Esso” è concepito come un’alterità più profonda, più enigmatica, inattingibile dal sistema di sapere su cui si fonda la ratio europea, a partire dalla Metafisica fino a noi[19. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it. di E. Panaitescu, con un saggio di G. Canguilhem, Milano, Rizzoli, 1967.]. L’uomo è l’essere parlante che conosce, nell’unità significazione-conoscenza, ma con le ricerche della psicoanalisi, della linguistica, e dell’etnologia, il soggetto è “decentrato”, in rapporto al suo desiderio, al linguaggio, alle regole della sua azione: il suo sapere sembra scisso. “Ça parle”, dirà Lacan: ‘esso parla’. L’“inconscio”, non il soggetto, la coscienza: il “soggetto” è ciò che viene parlato dall’Inconscio. «Ciò che è proprio dell’ordine dell’Incoscio […] non è né essere né non essere. Si tratta infatti e piuttosto del non-realizzato»[20. Cfr. J. Lacan, Seminario XI (1964), trad. di S. Loaldi e I. Molina sotto la direzione di G. B. Contri, Torino, Einaudi, 1979; seconda edizione trad. di A. Succetti, a cura di A. Di Ciaccia, Torino, Einaudi, 2003.]. L’Inconscio non esiste in sé, se esso è un lavoro del “significante”, è privo di una realtà già data: esso è un “effetto” e come tale va costruito. Solo se c’è qualcuno che ascolta o accoglie ciò che dice o fa il “soggetto”, l’“inconscio” può manifestarsi[21. Cfr. F. Lolli, Percorsi minori dell’intelligenza, Milano, Franco Angeli, 2008.]. La frattura tra significazione e conoscenza, tra semiologia e semantica, psicoanalisi ed economia politica è una frattura dello stesso “soggetto” del sapere, dell’uomo in quanto homosapiens.
Occorre porre in rapporto due dimensioni di uno stesso plesso semantico-strutturale: 1) la polarità significante/significato, in quanto è segnatamente in “gioco” nel linguaggio, e la sua inadeguatezza a esprimere la “cosa” del pensiero (l’“essente”); e 2) il pensiero nella sua inesponibile “dichiarazione” per mezzo dell’affezione “patica”, “poietica” o “iconica”.
Secondo Cacciari,
L’espressione di pensieri è linguistica; non posso formulare, o, di più, pro-durre altrimenti i miei pensieri […]. Ma proprio il fatto che dolorosamente avverta quel colpo della mia fronte contro la struttura del linguaggio è segno di una differenza tra il pensiero e il linguaggio, che il primo non sta affatto al secondo come contenuto a contenente […]. Il linguaggio rappresenta il pensiero, non la realtà[22. M. Cacciari, Labirinto Filosofico, Milano, Adelphi, 2014, p. 69. ].
Il nostro rapporto con la realtà non è semplicemente la percezione di singole cose, ma avviene attraverso l’“immaginazione”, cioè la produzione di immagini e di forme, che sia per Platone che per Aristotele è un termine fondamentale dell’“anima”: noi ci facciamo “immagine” attraverso l’elemento dell’immaginazione, che non è “riproduttivo-rappresentativo” ma “produttivo-immaginativo”. La potenza dell’immagine ricorda al filosofo che il logos non ha senso senza il pathos: non si dà nessun discorso “puro” che possa fare a meno dell’elemento “patetico”[23. Cfr. M. Cacciari, Rapporto immagine-discorso, teologia-iconologia, conferenza tenuta a Santa Maria delle Grazie il 23 novembre 2013 a Varallo: cfr. https://www.youtube.com/watch?v=Nq1zcsBfIY8.]. L’Idea è un concetto che non si può esibire o un’immagine che non si può esporre. L’eccedenza dell’immaginazione sull’intelletto fonda la bellezza (l’idea estetica), così come l’eccedenza del concetto sull’immagine fonda il dominio del soprasensibile (l’idea della Ragione)[24. G. Agamben, Gusto, op. cit., p. 39.]. Dunque, il rapporto “immagine-discorso” non può esaurirsi nel suo essere “fondato”, né in termini di solo linguaggio, né di solo segno, immagine. Ma può essere fondato nel “Pensiero” (che “non-è” riducibile al linguaggio, segno, immagine, forma ecc.) e non dalla “Volontà”, dal “Volere”, che pure il “Pensiero” con-segna all’“esser-ci” che da ultimo non può che “volere” l’impossibile[25. Cfr. E. Severino, Intorno al senso del Nulla, Milano, Adelphi, 2013.]. Forse da qui il senso profondo di quelle “Dottrine non scritte” di Platone? L’inconsegnabilità del “Pensiero” nella scrittura, del segno nell’immagine?
Se non c’è pensiero senza forma, cioè senza manifestazione, al tempo stesso proprio il suo esercizio si realizza come dissoluzione delle parvenze, dentro le quali esso si viene svolgendo. […] Il pensiero è ciò che perennemente si disfa e cancella la bella apparenza nella quale esso si singolarizza e si attua[26. G. Carchia, L’amore del pensiero, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 28.].
Da qui anche l’inadeguatezza “costitutiva” della diversificazione delle “forme” di conoscenza a catturare, stringere, definire l’attività del Pensiero: inadeguatezza estetica, semiotica, linguistica, psicanalitica, filosofica, scientifica. Dunque, l’eccedenza e/o il “deficit” “costitutivi” delle “forme” in cui il “sapere” con-cresce a se stesso sono il “prodotto” dell’impossibilità dell’accesso a ciò che Aristotele chiama “Pensiero del Pensiero”? L’“Uomo” è il contrasto tra la “Terra” e il Destino; l’“Uomo” è contraddizione («Contraddizione C»)[27. Cfr. E. Severino, La struttura originaria, Milano, Adelphi, 1981.]. Dunque, «vivere è appunto questa impossibilità dell’esperienza di sé, questa impossibilità di far coincidere il proprio esistere e il proprio essere. […] secondo il suggerimento di Kojève, esso dovrebbe piuttosto essere riformulato in questo modo: “diventa ciò che non potrai mai essere” (o “sii ciò che non potrai mai diventare”)»[28. G. Agamben, L’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2014, p. 177.].
«Fin dall’inizio il problema del gusto si presenta così come quello di un “altro sapere” (un sapere che non può dar ragione nel suo conoscere, ma ne gode) […] e di un “altro piacere” (un piacere che conosce e giudica)»[29. G. Agamben, Gusto, op. cit., p. 11.]. L’estetica moderna proverà a fondare l’autonomia di questo “altro sapere” ˗ intuizione accanto a concetto (Kant); ma, proprio nel tentativo di fondare le due autonomie in seno allo stesso processo conoscitivo che ha lasciato cadere la domanda sul perché la conoscenza è cosi originalmente divisa, e solo attraverso questa scissione il pensiero, non possedendo integralmente il suo oggetto, deve diventare amore per la sapienza, cioè filosofia[30. Ivi, p. 12.]. Dunque, la frattura essenziale è la differenza instaurata da Platone nel Fedro tra visibile e invisibile: «La visibilità dell’idea nella bellezza, è infatti, l’origine della mania amorosa, che il Fedro descrive costantemente in termini di sguardo, e del processo conoscitivo che essa pone in essere, il cui itinerario è fissato da Platone nel Simposio»[31. Ivi, pp. 14-15.].
Ma ciò che propriamente connota lo “sguardo” è di essere “esterno” al soggetto, in quanto il soggetto è colui che è “soggetto” allo sguardo, colui che è guardato come un quadro o come una scena. «Nel campo scopico lo sguardo è all’esterno, io sono guardato, cioè sono quadro. Questa è la funzione situata nel più intimo dell’istituzione del soggetto nel visibile. Ciò che fondamentalmente mi determina nel visibile, è lo sguardo che sta all’esterno»[32. J. Lacan, Il Seminario XI, Torino, Einaudi, 2003.]. Qui entra in gioco il mascheramento, la maschera, di Platone come dell’uomo. Nel Simposio e nel Fedone Socrate rappresenta una maschera che apre a una realtà oltre le apparenze del fenomenico; verrà paragonato al Sileno che si spinge oltre il visibile, e attraverso l’ironia e l’eros trova la strada per la dimensione trascendente. Scrive Kerényi: «La maschera svolge, assieme ad altri strumenti, una funzione cultuale e misterica di iniziazione», «la maschera crea un rapporto tra l’uomo e un altro essere. Esso è lo strumento di una trasformazione unificatrice»[33. Cfr. K. Kerényi, Miti e misteri, a cura di A. Brelich, Torino, Bollati Boringhieri, 1979.]. Maschera, parola, segno: imparare a vedere ed essere visti, visione e “sguardo”; ti guardo e “so” di essere “visto”: così mi maschero. Indossare la maschera è porsi come mediatore tra il visibile e l’invisibile, e in questo senso la maschera è il daimon: «per l’uomo il carattere è il demone», scrive Eraclito nel Frammento 119. Platone gioca di maschera in tutta la sua opera, e noi con lui. «Tutto ciò che è profondo ama la maschera», scrive Nietzsche. «Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera. […] ancor più, intorno a ogni spirito profondo cresce in continuazione una maschera, grazie all’interpretazione costantemente falsa, e cioè piatta, di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che da lui si esprime»[34. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, introduzione di F. Masini, Roma, Newton Compton Editori, 2010, pp. 74-75.]. L’uomo gioca di maschera «poiché anzitutto si inscrive in quello schermo originario, originativo di ogni sapere e di ogni desiderio, di ogni verità e di ogni menzogna che è la parola»; che è a sua volta connessa col desiderio: desiderio di conoscenza e di riconoscimento[35. C. Sini, Le arti dinamiche, Milano, CUEM, 2003, p. 16.].
La conoscenza non ha un’immagine che possiamo percepire con la vista, mentre la bellezza è ciò che è più visibile; anche Aristotele ripeterà che ciò che è bello deve facilmente abbracciarsi con lo sguardo (cfr. Poetica 1451a). «La verità ˗ dice Aristotele ˗ implica il thighein, il toccare, anche nel senso del vedere, cioè del contatto diretto. In Platone questo è assolutamente evidente. […] il filosofo è colui che vede, colui che ha, per così dire una visione del mondo, una Weltanschauung, che opera per visioni che poi traduce in parole, in schemi, schemata»[36. C. Sini, in J. Derrida, C. Sini, Pensare l’arte. Verità, figura e visione, Milano, Federico Motta Editore, 1998, p. 52.].Chiediamoci se non inizia già da qui, per mezzo dell’intrecciarsi di “pratiche” della parola, che dialettizzano il “potere” a carattere mitico–religioso-sacrale, attraverso una disseminazione di segni “teatrali” metafisico-divinatori, che concorrono a “istruire-formare” e proiettare l’umanità dell’Occidente nel “Nomos” vincolante dell’“Uno” come alterità inaccessibile e inappropriabile.La “fioritura” e la sostanza di quel “soggetto” e di quel soggetto morale che a partire dalla filosofia platonico-aristotelica ritroveremo in Cartesio, Kant, Hegel? “Soggetto” modificato e “forte” ma assimilabile, tuttavia, all’identità dell’episteme metafisica di “certezza e verità”? E non comincia già da qui quel “potere” del logos in quanto Nomos che ritroveremo, poi, finemente ripartito e secolarizzato, “glossato” fino all’“evaporazione” e storicizzato nello scorrere del “tempo” fino ad arrivare al XX secolo e ancora fino a noi, nella traiettoria “genealogica” di Nietzsche, nella “semiotica” di Peirce, nella “Differenza ontologica” heideggerriana, nella “svolta linguistica”, come “Ordine del discorso” e “Volontà di sapere” in Foucault, come “Inconscio” e “Soggetto supposto Sapere” in Lacan, come polarità significante/significato in quanto articolazione del fenomeno differenziale nella linguistica, come “Differance” in Derrida, per esempio?
Il privilegio della vista in Platone va concepito come cooriginario a quello della ratio:
Nella prospettiva precartesiana l’idea è il mezzo diafano, trasparente che lascia apparire e quindi la conoscenza non cade sull’idea, ma l’idea è il tramite che consente al conoscere di toccare la cosa. […] ma quando Descartes si rende conto che il contenuto del pensiero non è il mondo in quanto mondo, ma è il cogitato, ripeto, l’idea cambia di significato e il contenuto del cogitare diventa il cogitatum, cioè l’idea diventa ciò che è conosciuto: id quod cognoscitur[37. E. Severino, Volontà, Destino, Linguaggio, Torino, Rosemberg&Sellier, 2010, pp. 139-40.].
Il cogitatum, il pensiero è in qualche modo tutte le cose, dirà Cartesio. Come Hegel, per esempio, a seguito del cogito cartesiano e criticando l’inconoscibilità della “cosa in sé” kantiana, dirà che tutto ciò che esiste deve poter essere compreso («ciò che è razionale, è reale; ciò che è reale, è razionale»), che il filosofo della storia deve «eliminare l’accidentale», il caso, per poter pervenire al senso ultimo del mondo, a cui tende il processo storico; tutto ciò può essere colto solo dall’«occhio del concetto» (Platone direbbe “occhio della mente”) e non dagli “occhi fisici” che appunto sono situati nell’accidentale, nel caso. Dunque, anche le passioni umane, così come il singolo fenomeno naturale (come, per esempio, l’iridescenza dell’arcobaleno) sono superflue rispetto a chi riesce a vedere con gli “occhi del concetto” lo “Spirito Assoluto” che governa tutti gli accadimenti[38. Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. di G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1963, 4 voll.].
Le due parole più importanti della filosofia platonica sono eidos e idea,che discendono dalla radice (V) ID- di idein, ‘vedere’; e anche il perfetto oida significa ‘sapere’, ‘sapere per aver visto’. Cos’è, dunque, il visibile? «Ogni risposta travalica già ciò che essa chiede, mettendo in mostra altro dal visibile, come sarebbero appunto, parole, definizioni, concetti, teorie scientifiche ecc. […] il “visibile” non è affatto una “cosa”, ma un concetto. Platone direbbe: un noeton»[39. C. Sini, La Virtù Politica, Milano, Jaca Book, 2004, p. 148.]. Il verbo “vedere” è theoréin, theoria: visione; l’invisibile verità deve farsi visibile, phainomenon, per mezzo di quella “pratica rappresentativa” della parola che propriamente fonda l’instaurarsi del logos filosofico; «nel nesso vedere/intendere è massimamente in gioco il linguaggio», la visione della verità è, dunque, concettuale, dialettica; l’invisibilità dell’idea “partecipa” dia-letticamente dei fenomeni della realtà; siamo, pertanto, all’instaurazione del “potere” del logos metafisico, dalla “pratica” della parola che rende possibile “sapere” ciò che si vede e dirlo, ai segni che veicolano “valori”. Instaurazione del potere politico che non può che tradursi, infine, in una “teologia”: il senso comune è “platonico”, ingannato dalla “funzione” oggettivante della parola. Aristotele concettualizza psicologicamente il racconto platonico: «di qui, la “psicologizzazione” del concetto e la riduzione dell’anima a facoltà psichica “dotata” di intuizione e di “astrazione”; la filosofia è diventata così una scienza,un fondamento di saperi specialistici “oggettivi” dei quali per esempio la “Politica” non è che un ramo pratico-applicativo»[40. Ivi, pp. 131-158.].
E non è proprio dall’effetto delle “pratiche” oggettivanti della parola, della Phonè,che si instaura, come riflesso, la “psicologizzazione” del concetto, che viene “interiorizzato” attraverso di essa dalle facoltà dell’anima? come riflesso costitutivo dell’oggettivazione, reso dal fenomeno differenziale del segno-voce, del segno-parola? Sub-jectum? E non è questo siffatto “soggetto” che ripropone nella sua “interiorizzazione”, la manifestatività ri-flessa della parola sull’oggetto? Ob-jectum? Il sorgere della Voce,della phonè unita alle “pratiche” della parola come nascita della “funzione specchio” che attiva il processo della soggettivazione, catturata dal desiderio di riconoscimento; sono la voce e le “pratiche” di parola la causa dell’emersione del sé, la presenza a sé del soggetto[41. Cfr. J. Derrida, La voce e il fenomeno (1967), a cura di G. Dalmasso, prefazione di C. Sini, postfazione di V. Costa, Milano, Jaca Book, 2010.]: e dunque “questo” sub-jectum non è per ciò stesso assoggettato all’idea dell’“esistenza” di sé? e così per gli “altri”, legati insieme dal rapporto “voce- presenza-a-sé” e dalle “pratiche” della parola che istituiscono il “senso comune” come “verità pubblica”, come relazione costitutiva dello scambio simbolico del desiderio, che attua il “riconoscimento” tra “soggetti”, così, insieme “assoggettati”? Platone dirà che senza desiderio non c’è “politica”, così come accade in Hegel, nella Fenomenologia dello spirito,attraverso la dialettica del Padrone e del servo e del loro intrecciarsi nel desiderio di riconoscimento: la storia è fatta dai servi.
E il problema del giudizio di “gusto”, della “bellezza”, quindi, come espressione della connessione tra “sapere” e “piacere”, non è già un sapere strumentale immanente alla polarità riduzionistica soggettivo/oggettivo della “facoltà di giudizio”? Non è inestricabilmente interno all’articolazione del processo “oggettivante” delle pratiche “differenziali” della voce, della parola? Della scrittura? Del segno? Il pro-blema del “gusto”, del “bello” insomma, non è già ciò che si “in-stalla” nella dimensione dello scambio simbolico del desiderio, e del carattere fantasmatico della natura della “voce” come “presenza-a-sé” del Sub-jectum? Dunque, il “gusto”, il “bello”, e il “piacere” ad essi connesso, non rappresentano per ciò stesso un pro-blema in seno all’instaurazione della “politica” platonica in quanto “ramo” pratico-applicativo della philo-sophia? Dunque, “ciò” che riteniamo “bello” e che ci fa “godere” non avviene per mezzo di quella semiotizzazione resa dalla visione, theorein,della “politica” sull’esistente, senza che essi siano “Reali”, direbbe Hegel? Un atto arbitrario di una Volontà, resa anch’essa “con-forme” al veicolarsi dei segni (phonè, scrittura) nella “Visione” Politica? E lo stesso s-vincolarsi dal “gusto” storico da parte degli artisti, per esempio, non è solamente “possibile” rimescolando incessantemente le carte nel “gioco-in-maschera” della “potenza” nell’invisibilità dell’Idea, del Soggetto, della Coscienza, dell’Inconscio,del significante/significato? Ma poi anche la scienza moderna fonda il “proprio” sapere sulla scrittura matematica, cioè “laica” e anti-teologica, che da ultimo è retta da pratiche oggettivanti; il quantum di energia, il bit d’informazione non sono degli “invisibili” oggettivati dalle pratiche concettuali? “Pratiche” complesse, che nascostamente “governano” ciò che chiamiamo per esempio “Big-Bang” o “globalizzazione economico-finanziaria?” E non dovremmo, perciò, parlare del carattere “mitico” del sapere della scienza?
La stessa circolazione a titolo “universale” del denaro e delle merci non è, da ultimo, resa possibile dalle “funzioni” oggettivanti della diversificazione delle “pratiche” di parola? E non è poi questo, da ultimo, lo statuto concettuale-differenziale col quale il “soggetto” fa esperienza di sé e del mondo? «L’uso di sé»[42. Cfr. G. Agamben, L’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2014.] non è già “in-stallato” in una presenza-a-sé costitutiva, in un linguaggio, in un “sapere”, in un intreccio di “pratiche” che lo precedono, che lo “pongono” in essere, che lo “in-dividuano”, che lo “proiettano” in un “gioco pubblico” del desiderio che è strutturalmente “mancanza”? Povertà di un-di-più da dover essere? Realizzare? “Incarnare”? Ma poi “L’uso di sé” in quanto “passeggiar-sé”[43. Ivi, passim.] che riesca ad annullare, nel costituirsi stesso della propria “facoltà”, la polarità Soggetto/Oggetto di quell’essente che è l’“uomo”, come esperienza “prima” di quella dimensione “sensitivo-emozionale” a carattere cosmologico[44. Cfr. C. Sini, Kinesis, Milano, Spirali, 1982.], ce la fa a de-contestualizzarsi definitivamente da quella “pre-comprensione ontologica” heideggerriana che può fare a meno della dialettica aristotelica “potenza-atto”? Ce la fa, insomma, il concetto di “inoperosità” come contemplazione della potenza “senza riferimento” a s-ganciarsi, senza soluzione di continuità, dalla polarità platonica “dell’agire-patire”? E a destabilizzare definitivamente la “sensazione” in quanto metaxy della kinesis “agire-patire” dall’“uno-molteplice”?
Nella frattura tra visibile e invisibile Platone pone Eros come medio tra la sapienza e l’ignoranza (cfr. Simposio, 204 a-b), come dèmone intermediatore fra il divino e l’umano, tra la dimensione terrena e quella sovrasensibile; figlio di Poros (ricchezza, abbondanza) e Penia (povertà), Eros è filo-sofo, mai completamente appagato nel suo desiderio, dunque costituito dalla mancanza, da un avere e un non avere.
In questa prospettiva è significativo che, nel Simposio, a Eros sia attribuita la sfera della divinazione. Poiché la divinazione era appunto una forma di “mania”, cioè un sapere che non poteva, come l’epistèmē, rendere ragione di sé e dei fenomeni, ma concerneva ciò che in essi era semplicemente segno e apparenza[45. G. Agamben, Gusto, op. cit., pp. 19-20.].
La “mania” erotica è ciò tramite cui, in connessione con la sfera divinatoria, Platone tenta di salvare i fenomeni fra «l’invisibilità dell’evidenza (la verità) e l’evidenza dell’invisibile (la bellezza)»[46. Ivi, p. 20.]. Il compito paradossale di Eros – scrive Agamben ˗ è quello di garantire il nesso fra bellezza e verità (l’unità e insieme la differenza) tra ciò che vi è di più visibile e l’invisibile evidenza dell’idea: la bellezza non può essere conosciuta, la verità non può essere vista. Da questa scissione dell’atto della conoscenza il sapere deve costituirsi come “Amore del sapere”. Se Amore è desiderio del bello con lo scopo di possederlo (cfr. Simposio 204 d), e così facendo si può essere felici, allora sapere e piacere sono strettamente connessi[47. Ivi, pp. 18-20.]. Anche Kant nella Critica del Giudizio farà l’elogio del mondo platonico delle Idee, sotto il segno dell’Eros del pensiero:
proprio ciò che, sul piano oggettivo, fuoriesce dalla causalità meccanica, proprio ciò che è “senza scopo”, contingente, è dal punto di vista soggettivo, “bello”. Ma anche la finalità “Oggettiva”, intellettuale, come quella “Soggettiva” è senza scopo, a-teleologica: al centro di questo sentimento [di meraviglia, del non aver scopo, della finalità “Oggettiva” della Natura] c’è infatti l’“idea di mistero”, dell’“inesplicabile”, di ciò che suscita una meraviglia, da cui è impossibile rimettersi, che ci spossessa della rappresentazione, al pari della forza dell’Eros[48. G. Carchia, L’amore del pensiero, Macerata, Quodlibet, 2000, pp. 41-45.].
Da qui la “visione” antropocentrica sembra essere spazzata via, l’uomo non è più padrone di sé; il “Soggettivo” e l’“Oggettivo” sono “senza scopo” e solo attraverso il mondo invisibile della “potenza erotica” il “soggetto” si riappropria del “sé” nascosto sotto la “maschera” in quanto alterità di un’identità divisa: “visione” e “sguardo”. E forse è propriamente in un simile atteggiamento che l’estetica del Novecento (a sua insaputa, forse) ricaverà la propria “Ragione” nella differenza, non più tanto “teoretica” quanto piuttosto nell’ambito “sentire stesso” del corpo, l’ambito
delle esperienze insolite e perturbanti, irriducibili all’identità, ambivalenti, eccessive di cui è stata intessuta l’esistenza di tanti uomini e donne del Novecento. Del resto è proprio da questo tipo di sensibilità, che intrattiene rapporti di vicinanza con gli stati patologici e le estasi mistiche, con le tossicomanie e le perversioni, con gli handicap e le minorazioni, con i “primitivi” e le culture “altre”, che le arti, la letteratura, la musica del Novecento hanno trovato ispirazione[49. M. Perniola, L’estetica del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 155.].
Nella modernità sarà la sentenza hegeliana a esprimere la necessità del lasciar cadere la philía dalla sophía, del distaccarsi tra Amore e Sapere, e che la philo-sophía diventi Sophía, puro sapere, Scienza. Ma può darsi questa separazione? Possiamo esprimere, rappresentare, indicare, com-prendere l’“Ente” se non amandolo[50. Cfr. M. Cacciari, Labirinto Filosofico, op. cit.]?
La philía che muove philo-sophía ritiene suo prâgma sia l’evidenza del discorso saldamente fondato, che la sophía che si mostra in ogni costruzione, ogni “artificio”, dai più “modesti” ai più alti teoretici e politici, capaci di stare o comunque animati da tale intenzione. Per questo, perché Amore per ciò che crea, che genera, l’eros filosofico è chiamato poietikós. La concretezza del pensare filosofico consiste nel suo con-crescere con l’indagine dell’essente[51. Ivi, p. 12.].
Dunque, Eros è il desiderio di possedere il “bello”, per generare in esso, e “ciò” che nel “bello” è ben-generato, appare buono: kalòn-kaì-agathòn. Ma Eros non è mai appagato nel proprio desiderare:
Primo e fondamentale contrassegno del rapporto fra l’eros filosofico e il pensare è, dunque, il rapimento, l’essere fuori di sé, caratteristici della meraviglia […] da questa estasi (ek-stasis) che è umiliazione, penìa, nasce il poros, la fecondità, l’inquietudine del pensare. Si tratta di quel gignere, di quell’ingenium, che sono inseparabili così dall’eros come dallo stupore. Nell’eros del pensare è, insomma, iscritto un doppio movimento: dapprima […] il movimento dell’essere sbalzati fuori di sé […] come esperienza di uno scotimento»[52. G. Carchia, L’amore del pensiero, op. cit, pp. 37-38, come la citazione che segue.].
Da qui lo “stupore” come principium, come costante della filosofia, e da esso, il secondo movimento che «genera e ispira la ricerca, in un interrogare, che circolarmente, ritorna però sempre all’affermazione di un primato dell’oggetto, riconfermando lo stupore, riconoscendo e ammettendo […] il mistero della quodditas».
Stupore, mistero, meraviglia: THAÛMA (ciò che si impone allo sguardo, come qualcosa di inquietante-spaesante, che ci atterrisce). Platone dice che la “meraviglia” è figlia di Iride, figlia del gigante Thaumante (cfr. Teeteto, 155d2-5); dunque, la filosofia nasce come timore (angosciato sentimento) per il mondo, timore per il mare[53. L’“elemento liquido” è un segno notevole nella storia dell’uomo, e ritorna come una costante insopprimibile: dal “mito” scientifico dell’origine della vita sulla terra, ai vari miti sugli dei greci (maschi) che modellano il mondo a partire dall’abisso liquido informe, dalla “filosofia” di Talete agli albori del pensiero occidentale – cfr. Aristotele, Metafisica, 983b ˗, al Leviatano biblico poi ripreso da Hobbes, dalla “filosofia” di Schmitt alla liquidità del denaro e dell’economia nel segno del “liberalismo”, dall’infinita liquidità del segno-merce nelle società occidentali contemporanee alla “vita liquida” di Bauman, fino al recente “Pensiero liquido” di Gaetano Mirabella con Derrick de Kerchkove, per non dire, poi, che il nostro organismo è supportato dalla conditio sine qua non dell’elemento liquido)]. «Ma thaûma originario è il darsi stesso dell’essente, ed è la sua indagine che si collega al significato di sophía, di quella particolare sapienza, cioè, che esige il vedere chiaro, saphés, intorno al sophón, intorno a ciò che è capace di costruire, formare, generare»[54. M. Cacciari, Labirinto Filosofico, op. cit., p. 12.]. Per Aristotele L’ente è ciò che è pro-blema: “Aporoumenon “ (cfr. Metafisica, 1028b 3s.); l’ente rivela già nell’immediatezza del proprio “apparire” ciò che è troppo profondo per il logos che cerca di “definirlo”, determinarlo; l’Im-mediato è già ciò che eccede la comprensione delle “relazioni determinanti”: l’Im-mediato è il thaûma che muove la philo-sophía: «Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos» (Eraclito, fr. 45 Diels-Kranz).
N.d.r. L’Auctor “gustosamente” fa dedica ad Alessandra Zannoni per la pazienza: «E fieramente mi si stringe il core,/ a pensar come tutto al mondo passa,/ e quasi orma non lascia» (G. Leopardi, La sera del dì difesta).
(fasc. 5, 25 ottobre 2015)