La Toccata in do maggiore del polacco Antoni Libera, che Sellerio ha pubblicato nella nitida traduzione di Vera Verdiani, è un racconto denso di implicazioni musicali. C’è, innanzitutto, il contesto: in vista di un esame di passaggio, l’anziano e autorevole professor Adam Plater impone a due suoi allievi, il narratore e l’amico-rivale di questi, Slavek, assieme all’aurea routine di studi e sonate di Bach, Chopin e Beethoven, la temibile Toccata in do maggiore scritta da Robert Schumann a diciannove anni.
Il brano (l’op. 7), di cui il racconto è prodigo di esempi tratti dalla partitura, si presenta proprio come uno studio di tecnica composto da quattrocento battute in cui si martella «quasi ininterrottamente una serie di intervalli in sequenze di sedicesimi», con insidiosi problemi di coordinazione ritmica tra le due mani, e anzi sembra nato per fornire al giovane compositore un esercizio di resistenza e bravura: «Vero e proprio tour de force dal punto di vista tecnico e con un solo breve motivo melodico, dava l’impressione di uno studio galoppante a rotta di collo, concepito a uso e consumo della mano sinistra con particolare accentazione sul quarto e quinto dito», scrive Libera. Il racconto segue appunto i tentativi del giovane io narrante di entrare nel pezzo, di vincerne le difficoltà tecniche, di arrivare a coglierne e trasmetterne un senso che sia qualcosa di più della restituzione della pura struttura musicale.
Qui si percepisce un’altra implicazione, meno diretta: la Toccata di Schumann è una sorta di enigma non perché nasconda in sé un significato che va decrittato, ma proprio perché la sua natura essenzialmente tecnica sembra resistere a ogni tentativo di appropriazione che non sia quello meramente virtuosistico. Ma, appunto, il senso nascosto sta – lo si capisce pagina dopo pagina – in quello che ognuno di noi, interpreti, ascoltatori o lettori, può dare nel riconoscersi nel brano. Riconoscersi, sì, perché secondo il professor Plater (e secondo Antoni Libera, presumiamo) capire il brano significa vederlo riflettere un’immagine, sentirlo raccontare una storia; e l’immagine e la storia sono dapprima quelle del giovane Schumann, ambizioso aspirante a una carriera di virtuoso, e poi le nostre: ed è la storia di uno sforzo, di una fatica, di dedizione e frustrazione, di momenti rapidi di esaltazione e abbandono (questi ultimi corrispondono ai fugaci temi cantabili che appaiono qua e là, subito inghiottiti dall’implacabile meccanismo a orologeria delle cascate di sedicesimi). L’immagine riflessa è la nostra, quella di giovani o non più giovani messi alla prova per tutta la vita. «È un’opera speciale», dice Plater. «Una novelletta per pianoforte sull’arte del pianoforte. Una musica che parla del pianista, un ritratto sonoro che ne esprime la vita e il destino».
Nel testo di Antoni Libera si affronta, insomma, il problema dell’interpretazione musicale: che viene risolto non solo come un rispecchiamento (delle aspirazioni e in definitiva della vita) dell’esecutore nelle intenzioni del compositore, ma anche, e direi soprattutto, come un “racconto”, un “ritratto”, una “biografia”. Per fortuna, nel testo vengono abbandonate subito constatazioni ingenue come quella espressa, di malavoglia, dall’io narrante, secondo cui il modo maggiore, anzi il do maggiore, «benché esprima una gioia a dir poco fragorosa, in realtà è stranamente triste». La storia della musica trabocca di esempi a conferma di quest’apparente ossimoro. L’interpretazione è faccenda più complessa: ha, secondo Libera, una dimensione narrativa (biografica, soprattutto autobiografica), e questo vale tanto più quanto più il brano musicale resiste a ogni facile lettura, presentandosi come un’architettura di puri suoni che si risolve in sé, come l’op. 7 schumanniana. Interpretare è raccontare se stessi dopo essersi riconosciuti: visione accattivante, che di sicuro funziona sulla pagina scritta, ma che, forse, in una sala da concerto può dare risultati eccelsi solo se è eccelso l’interprete – non se è un buon affabulatore in musica. Può addirittura venire il sospetto che voler risolvere la composizione musicale in un racconto criptato sia l’equivalente di una sorta di pareidolìa, quel fenomeno che spinge l’uomo a riconoscere tratti umani là dove non ci sono. In ogni caso, nel romanzo il procedimento funziona, e funziona egregiamente (potremmo dire) anche nella didattica musicale, a giudicare dalla forza persuasiva degli esempi addotti dal professor Plater ai suoi allievi.
Interpretare (ecco un’altra implicazione del breve romanzo di Antoni Libera) è anche confrontarsi, e non solo con l’autore del brano, ma anche con tutti coloro che hanno eseguito e eseguono e eseguiranno quel brano: e anche con i tanti se stessi, l’impacciato e incerto se stesso degli inizi, il se stesso dopo settimane di studio e di ascolto, il se stesso dopo anni di oblio (per non parlare del confronto tra il se stesso nella quiete monacale della propria stanza e quello teso e agitato davanti alla commissione d’esame).
Nel racconto di Libera, l’io narrante è condizionato, nella propria ricerca di un varco per penetrare nel brano di Schumann, prima dall’esecuzione dal vivo del maestro Plater, fluida, «regolare come un orologio», al punto da ricordare «un treno, anzi una locomotiva che corresse a tutto vapore» (ormai siamo abituati a questi arditi intrecci di similitudini nella resa a parole della musica). Segue la scoperta, in vecchie registrazioni, dell’interpretazione di Richter, assai più dinamica, uniforme ed espressiva nelle parti liriche (il narratore si abbevererà a questa fonte al punto che Plater, dopo averne ascoltato l’esecuzione, gli rinfaccerà di aver fatto la parodia della lettura di Richter). In mezzo a tutto questo c’è il confronto continuo con l’amico-rivale, quello Slavek B. assai più dotato tecnicamente, anche più ambizioso e sfrontato (nella sua esecuzione, condotta «a velocità inaudita, … i sedicesimi che gli volavano sotto le dita ricordavano più un trillo che il martellio di una locomotiva in corsa») – ma anch’egli, si scoprirà, smarrito dinanzi a qualcosa che continua a sfuggire, e alla fine disilluso.
Il racconto di Antoni Libera, infine, esprime bene la quotidianità dell’uomo di musica: la vita fatta di routine, di ore di studio che si sommano come stazioni di una Via Crucis, di tentativi di raggiungimento di un livello ideale nelle performance; tensione, paura, frustrazione, gelosia, ammirazione, attimi di rilevazione improvvisa, senso di inadeguatezza interrotto da esaltazioni quasi infantili – soprattutto lavoro e fatica, intellettuale e fisica. È stata anche la storia del giovane Schumann, e continua a essere quella raccontata nella Toccata in do maggiore.
(fasc. 5, 25 ottobre 2015)