Scorci sull’esperienza intima col denaro. Tre casi emblematici: Baudelaire, Balzac, Joyce

Author di Sebastiano Triulzi

Premessa

Il progetto Scrittori e denaro si configura come una breve, parziale analisi della psicopatologia quotidiana del denaro colta attraverso la biografia di alcuni romanzieri e poeti entrati nel canone della nostra letteratura. La scelta degli scrittori è stata fatta partendo da profili che sembrano esemplificativi, là dove ogni storia, ogni esperienza raccontata diventa una sorta di parabola in grado di illuminare il carattere fantasmagorico del denaro. Baudelaire, Balzac, Joyce, Gadda, Pirandello e Svevo (questi sono i primi tasselli di un discorso ancora work in progress) rappresentano da questo punto di vista dei casi da antologia e le loro vicissitudini finanziarie possono essere lette o ascoltate come tanti capitoli mitopoietici della variegata galassia di tipologie esistenti: c’è lo “scroccone”, c’è il risparmiatore, ci sono dilapidatori e scialacquatori, ma anche il crapulone, il generoso, il tirchio, né manca il megalomane, e così via, fino a comprendere anche quanti non rientrano in nessuna vera categoria, nel senso che ancora non possediamo nel nostro vocabolario una definizione precisa.

In questa sorta di preambolo per una storia economica della letteratura, al centro ci sono degli episodi della vita di alcuni scrittori che forse un tempo non erano considerati così importanti dalla critica letteraria mentre oggi ha senso riraccontare alla luce anche della crisi economica in cui siamo piombati da otto anni: acquistano, insomma, un significato maggiore per noi, e questa operazione di rilettura tende a farci sentire più umani i grandi classici della Letteratura, togliendoli per un attimo dal piedistallo in cui le antologie scolastiche li hanno posti. Con questo tipo di esperienze di crisi ci possiamo identificare e riconoscere, dunque ciò che ha toccato loro tocca anche noi, e tale empatia porta a guardare da un altro punto di vista tanto loro quanto le loro opere. È, poi, l’occasione anche per stendere qualche considerazione sul potere magico del denaro, sul suo elemento erotico, su come ci trasforma profondamente, sull’angoscia che ci coglie quando ne siamo privi o sulle nevrosi che instilla in noi in generale.

Solo per fare un esempio: siamo abitati a leggere saggi che illuminano intorno alla poetica pirandelliana dell’umorismo, al concetto fondamentale di maschera o alla crisi e frantumazione in una nessuna o centomila identità dei suoi personaggi, non però a ripercorrere le tappe della sua costante disperazione economica e dell’ansia quotidiana per trovare denaro con cui mantenere la propria famiglia, o quelle del disastro finanziario che ha dato voce alla pazzia dentro le sue mura di casa, e di come tutto questo abbia condizionato la professione di autore, financo i temi e le forme della sua scrittura. Queste riletture biografiche sono dei piccoli scorci sull’esperienza intima col denaro, che fu spesso traumatica e patologica come lo è anche per noi: di seguito, si è scelto di prendere in esame tre casi emblematici.

L’incredibile scialacquatore Charles Baudelaire

Molti scrittori francesi del XIX secolo hanno vissuto la propria vita oberati dai debiti, condannati dai tribunali o braccati da creditori inferociti, ma Charles Baudelaire si distingue da tutti quanti per il modo incredibilmente moderno in cui usava, senza alcuna cognizione, il denaro. In lui la matrice della questione è il conflitto famigliare e con lui salta il sistema educativo Borghese intorno alla gestione del denaro in modo oculato: la categoria cui potrebbe appartenere è quella antica, dantesca, degli scialacquatori, dei dilapidatori del proprio patrimonio e, se certo non fu l’unico, tra gli scrittori, ad avere le mani bucate (pensiamo, ad esempio, a Ugo Foscolo, che era in grado di indebitarsi fino al collo per una sciabola da indossare la sera), unica fu la rapidità con cui buttò via, poco più che diciottenne, i propri soldi, e questo ancor prima di intascare la sua parte di eredità paterna1. Baudelaire fu preda di una fulminea, fanciullesca, sconsiderata capacità di spendere e spandere che allarmò così tanto i componenti della sua famiglia allargata, come diremmo oggi, che lo fecero interdire: «1841: vita libera a Parigi», scrisse nella sua Nota autobiografica, con un’essenzialità e una concisione che in realtà dicono già tutto (o anche: «La salvezza sta al momento buono. La salvezza è il denaro, la gloria, la tranquillità, l’abolizione del Consiglio Guidiziario, la vita di Jeanne (…). Avere argomenti è avere denaro»2).

Dopo aver conseguito la maturità da privatista in quello stesso Liceo Louis-le-Grand di Parigi da cui era stato espulso per non aver consegnato ma ingoiato un biglietto passatogli da un compagno, il giovane Baudelaire cominciò ad assaporare la libertà con uno stile di vita da piccolo principe rinascimentale: spendeva cifre folli dal sarto per vestire come un dandy, si legò affettivamente a una minuta prostituta di nome Louchette che voleva riscattare, frequentava i ristoranti più cari di Parigi, cose che lo portarono, insieme ad altri tipi di eccessi e piaceri (già nel 1839 aveva contratto una malattia venerea), a dissipare in pochi mesi quasi 3.200 franchi, l’equivalente di ventottomila euro, pur avendo vitto e alloggio pagati dalla madre3.

In cerca di aiuto per pagare i debiti, si rivolse al fratellastro, nato dal primo matrimonio di François Baudelaire, padre di Charles, stilando un elenco di quanto dovuto: la lettera di risposta, riletta oggi, è esilarante, perché Alphonse, da bigotto giudice del tribunale di Fontainebleau, analizzando voce per voce, gli chiese come fosse possibile spendere 2.250 franchi per panciotti, abiti da sera, camicie da notte, cravatte, pantaloni, guanti e scarpe o accumulare così tanti debiti con gli amici o buttare duecento franchi per portare via da una casa chiusa una prostituta. Bravo a fargli la predica e a negargli un aiuto («non posso regalarti» dei soldi «per pagare le tue pazzie, le tue amanti, insomma le tue stoltezze»), lo fu ancor di più a far comunella con il comandante di battaglione (poi colonnello e infine generale) Jacques Aupick, il patrigno responsabile dell’allontanamento e internamento di Charles in pensionati e collegi già a partire dagli otto anni. Molto tempo dopo, in una lettera datata 6 maggio 1861, Baudelaire avrebbe ricordato di aver conosciuto una felicità incalcolabile nei mesi seguenti la morte del padre4, quando si ritrovò a sei anni solo con la madre (la quale riversò tutto il suo affetto e la sua malinconia sul proprio figlio), definendolo appunto come un periodo di «tenerezze infinite», di «lunghe passeggiate», e questa sensazione di intimità assoluta ritorna ad esempio nella poesia Il Balcone, le cui immagini – la gioia degli abbracci, la morbidezza del seno, le carezze ricevute – ritraggono Charles come un piccolo sposo della madre. Quando partecipò alle rivolte contro Luigi Filippo, Baudelaire, armato di fucile, gridò ai propri compagni sulle barricate: «Bisogna andare a fucilare il generale Aupick!», cioè l’usurpatore, colui che lo aveva spedito in collegio e che, come lo zio di Amleto, s’era infilato nel letto della madre dopo aver ucciso il padre.

Con lo scopo di allontanarlo dalle tentazioni di Parigi e insieme per distoglierlo dall’idea di comporre poesie, il consiglio di famiglia lo caricò su un bastimento diretto a Calcutta in quello stesso 1841, ma prima di arrivare a destinazione Charles fece marcia indietro per appropriarsi dell’eredità paterna, stimata in 100.050 franchi, più o meno seicentocinquantamila euro di oggi. Una bella somma, e infatti, ricominciando da dove aveva interrotto, il poeta si mise d’impegno per farla fuori tutta: dopo diciassette mesi di sperpero totale, quasi dimezzò il lascito, dissipando duecentocinquantamila euro5. C’è qualcosa di nevrotico, di patologico nei conti astronomici dai camiciai dai magliai dai sarti o nei pranzi con gli amici alla Tour d’Argent, nel far incetta di libri rari e di croste comprate come quadri di valore dagli antiquari: in questa somma trovò asilo anche il costo per la ristrutturazione e l’arredamento dell’appartamento in rue Femme sans tête di Jeanne Duval, alias Jeanne Lemer, la «regina dei peccati», la «donna impura» «nata dal fango» cantata nei Fiori del male, una prostituta mulatta raccolta letteralmente per strada con cui Baudelaire condivise dieci anni di passioni e di inferno: Manet poi la ritrasse vecchia e allettata, al tempo in cui, terminata la loro relazione, Charles scelse di non abbandonarla nel momento del bisogno («Ho fatto quello che generalmente l’egoismo degli uomini non fa»6).

L’irresponsabilità economica, che lega il tipo del dandy al bohemien tanto che spesso si passa dal primo al secondo (ma mai viceversa, perché i soldi spesi non tornano indietro), è una specie di ribellione al sistema borghese; anzi, non essere assuefatti ai principi imposti dal denaro fa saltare per aria le fondamenta della nostra società. Per cui era ovvio che la famiglia intervenisse dopo che Charles si era «lasciato andare alle più folli prodigalità», e così lo fece mettere sotto tutela dal tribunale della Senna, che nominò il notaio Ancelle suo curatore giudiziario (al suo tutore, che minacciò di uccidere perché teneva stretti i cordoni della borsa e che rappresentava l’emblema della moralità economica, della corretta gestione dei soldi, della ragionevolezza di quanto costi la vita, Baudelaire scrisse alcune tra le sue lettere più intime e confidenziali). Per tutta la vita cercò senza successo di guadagnare, sperando da un lato che gli venisse tolta l’interdizione perché si sentiva umiliato, dall’altro continuando a chiedere soldi alla madre perché, nonostante un mensile di duecento franchi, conduceva un’esistenza spesso ai limiti dell’indigenza (in una delle ultime lettere fece presente come tutto fosse andato a scatafascio lo stesso, che si sentiva vecchio e infelice e domandò, allora, a che pro averlo imprigionato in quel modo7).

Dilapidare il patrimonio significa offendere profondamente i valori della borghesia, forse ancor di più, paradossalmente, che commettere omicidio: inseguendo uno stile di vita al di sopra delle proprie possibilità, segnato da eccessi, droghe, soldi, che sono sogni fanciulleschi, il dandy incarnava la felicità inesauribile di poter vivere al di fuori della propria epoca, dunque al di fuori dell’età della prosa, che è l’età borghese. Da uomo medievale Dante inserì nel settimo cerchio, in un girone condiviso con i suicidi, gli scialacquatori, che sono nudi e rincorsi da mastini che li sbranano come loro hanno fatto a pezzi l’eredità: la loro pena, nel sistema del contrappasso, è una lacerazione, una separazione, e in questo senso si coglie il significato profondo del dilapidare come atto distruttivo della famiglia stessa, perché il denaro, il patrimonio, i possedimenti rappresentano per la borghesia l’identità più forte, ciò che il figlio deve conservare più dell’onore o del nome: scialacquare come un atto blasfemo, dunque, vero sacrilegio che crea, se visto dall’ottica di una madre o di un padre, una sorta di panico: in chi spende tutti i suoi soldi c’è un gene di dolore non gestibile, un nucleo di follia totale dopo il quale arriva solo il vuoto.

Il dandy e il bohemien personificano le due facce della stessa medaglia dove al centro c’è il borghese8: per tutto l’Ottocento lo scrittore, prima che si ideologizzi, prima di abbracciare il marxismo, assume queste due maschere; l’importante, non trovarsi al centro, dove impera la mediocritas: conduce una rivoluzione individualista dietro cui si cela, visibile, un odio profondo per la borghesia, e, così, o vivi nell’estrema povertà o in una ricchezza al di sopra delle tue possibilità. Il dandismo di Baudelaire è però un caso di Edipo conclamato, e non bisogna scavare troppo tra le righe tanto appare evidente e consapevole9: farsi espellere dal collegio e andare a vivere con una prostituta mulatta e mostrare di non avere una percezione del denaro come valore borghese, divertendosi a spendere tutto fino all’ultimo centesimo, assomigliano a una grande protesta, a una ribellione, a una disubbidienza al sistema. Come un piccolo Amleto arrabbiato che spacca tutto, Baudelaire si vendica della madre10, si vendica del patrigno, scosso da un fantasma che gli intima non di uccidere ma di dilapidare, di distruggere l’avere. Una frase epifanica, sconvolgente, della madre spiega ogni cosa: rispondendo a uno dei primi biografi di Baudelaire, che gli aveva fatto notare la grandezza ormai conclamata del figlio morto da qualche anno, disse che, se non ci fosse stata questa mania della letteratura, sarebbero stati molto più felici (e allora si può rileggere in chiave biografica la poesia Benedizione, dove una madre maledice Dio e lo fa oggetto del suo odio per aver avuto un figlio poeta). Detto con la disarmante verità di donna e madre, in cui non c’è traccia di ottusità, e all’inverso una predilezione per l’aspetto vitale dell’esistenza: rispetto all’infelicità vissuta, per lei sarebbe stato meglio che il figlio non avesse mai scritto.

L’imprenditore Honoré de Balzac. L’avventura del denaro

Per tutta la vita Balzac coltivò l’illusione di fare affari, sia come imprenditore sia come scrittore, pensando, a torto, che sarebbe diventato milionario: qualcosa però nelle sue molteplici imprese non funzionò mai e, di tante buone o anche ottime intuizioni che ebbe, nemmeno una andò a finire nella maniera in cui aveva fantasticato. Ogni volta che si alzava dalla scrivania, dopo mesi di clausura contrassegnati da ritmi di lavoro di sedici, diciotto ore al giorno, possibili grazie a corpose dosi di caffè che alla fine lo spedirono al creatore (cinquantamila tazzine secondo chi ha fatto il conto11), cominciavano i progetti grandiosi e le spese folli che lo portavano alla rovina: era convinto che non sarebbe stato difficile trovare la chiave per la porta della ricchezza, dal momento che nessuno come e prima di lui era stato in grado di analizzare la psicologia del mondo industriale ed economico: nella pratica quotidiana si mostrava invece ingenuo e credulone, per cui ciclicamente s’abbatteva su di lui un disastro finanziario che lo costringeva a tornare alla penna e al calamaio per acquietare i creditori.

Scrive Stefan Zweig, nella bellissima biografia pubblicata da Castelvecchi12, che Balzac fu una specie di Re Mida al contrario, capace di trasformare in debiti tutto ciò che toccava. Il destino tende a ripetere i propri moniti in forme sempre più beffarde quando non lo ascoltiamo con attenzione, e così, appena Balzac svendeva le proprie aziende, queste iniziavano come per incanto a prosperare; e con una certa crudeltà, più ampio era il buco che lasciava, più velocemente riuscivano ad appianarlo. Suona buffo sostenere oggi che il più grande romanziere di tutti i tempi voleva essere in realtà un grande uomo d’affari e, pur essendo consapevole del proprio genio, non sapeva forse che il suo più grande affare era invece la scrittura: tuttavia questa illusione di guadagnare, questo sogno perpetuamente infranto di trovare denari, la più autolesionista e rivelatrice tra le sue ossessioni, non va derisa col senno del poi, perché non era vuota retorica ma concreta poesia della realtà, per così dire, nel senso che poggiava su un nodo essenziale, di cui Balzac e i suoi personaggi ebbero una consapevolezza chiarissima: col denaro si può ottenere tutto.

Con altrettanta lucidità aveva compreso che la scrittura, nella società francese dell’Ottocento dove la borghesia aveva trionfato dando il sangue per affermare se stessa, era ormai diventata un commercio. Il suo esordio nell’industria del libro, prima ancora di diventare un autore affermato, non fu in qualità di scrittore ma come uno che vuole far soldi13: accettò cioè di scrivere per altri, divenne un “negro”, come si dice in gergo ancora oggi; al contempo sfornò una serie di manuali e di codici tipici della fabbrica dell’editoria (Il codice della gente onesta, L’arte di mettere la cravatta, L’arte di onorare i debiti e i propri debitori senza neanche un centesimo); e, cercando di seguire i gusti del tempo, stese raffazzonati romanzi d’appendice, di cappa e spada, o a tinte nere, che firmava con due pseudonimi, uno francese e uno inglese (Lord R’honne e Horace de Saint-Aubin), che gli fruttavano uno stipendio di millecinquecento, duemila franchi per cinque o dieci libri all’anno.

Ben presto comprese che, se non voleva essere sfruttato, doveva avere in mano una parte della filiera, cioè doveva farsi editore: fu così che si gettò nella stampa dell’opera omnia di alcuni classici francesi racchiusa in un solo volume. Ancora non aveva venduto il primo Lafontaine che già lavorava per far uscire il secondo, Moliere, ma la carta che gli avevano rifilato era macchiata, i caratteri così piccoli che serviva una lente di ingrandimento, e per di più il prezzo era completamente fuori mercato, 20 franchi a libro, poi sceso a 12: dopo un anno i quattordicimila franchi investiti, non da lui ma della benevola signora de Berny, si erano volatilizzati (furono sempre le donne, amanti materne e protettive, a finanziarlo e poi a salvarlo dalle continue catastrofi finanziarie: incauto speculatore e megalomane nel suo stile di vita, Balzac sapeva convincere anche i sassi e riuscì a scucire soldi perfino alla gelida, anaffettiva madre).

Si ritrovò dunque con un magazzino pieno di volumi invenduti14 (che qualche anno dopo cedette in cambio di altri libri con ancora meno mercato) e pensò che l’errore stava nel non aver dominato tutto il percorso del libro, come una merce per l’appunto, per cui rilanciò e aprì una tipografia: trentamila franchi se ne andarono per il brevetto e i macchinari, dodicimila per il tecnico, si indebitò fino al collo con un usuraio e anche con il padre, il quale si mostrò contento che il figlio mettesse su una piccola ditta: anche qui gli affari andarono male fin dall’inizio, non riuscì a pagare gli operai né i fornitori, le sue cambiali venivano respinte e si umiliò cercando finanziamenti porta a porta pur di mantenere in vita l’azienda, secondo una via crucis che poi avrebbe descritto mirabilmente in Cesare Birotteau e in tanti altri romanzi. Nell’estate del 1827 l’impresa fallì e all’età di ventotto anni era già completamente rovinato15: da allora in poi, per il resto dei suoi giorni, fu perseguitato dai creditori (persino la madre esigeva di essere risarcita, e ancora venti anni dopo cercò di riscuotere quanto prestato al figlio). Non contento, decise di rilevare una fonderia di caratteri: come molte imprese balzachiane, il ragionamento di fondo era giusto, come lo era il piano dei volumi unici o di fondare una stamperia in anni in cui la stampa era in ascesa, e lo stesso può dirsi della fonderia, basata sulla fonterreotipia, un nuovo procedimento di cui aveva letto. Dopo pochi mesi però fece bancarotta di nuovo e il marchio del fallimento si impresse sul nome dei Balzac: nel frattempo aveva imparato tutto sul denaro – come lo si accumula e come lo si perde velocemente, come si tratta con i fornitori, come ci si nasconde dai creditori o dagli usurai, come si oliano i funzionari, cosa significa lottare per una cambiale – e il denaro, con la volontà di potenza che instilla negli esseri umani, divenne il protagonista assoluto dei suoi romanzi.

Dopo il suo primo successo, La fisiologia del matrimonio (1830), poiché era pieno di debiti, firmò mille contratti con editori e tipografi; allo stesso tempo però assunse uno stile di vita da dandy, segnato da un lusso sfrenato nel mito per lui irraggiungibile dell’aristocrazia. I numeri sono titanici: settanta pubblicazioni nel 1830 e sessantacinque nel 1831: quattro anni dopo rilevò una rivista, «La chronique de Paris», reazionaria, legittimista; redasse articoli di tutti i tipi e, mentre anche questa iniziativa stava fallendo e l’ennesimo padrone di casa gli aveva pignorato i mobili per riavere 473 franchi e 70 centesimi, comprò mezzo ettaro di terreno con villetta a Sevres, sognando di piantare ananas: ancora non c’era un solo albero che con l’amico e poeta Gautier si mise in cerca di un negozio16; lo voleva a Montmartre, che gli sembrava un luogo adatto per vendere questo tipo di coltivazioni. Come ricorda Gautier, fuori nevicava ma lui già immaginava distese di ananas (e persino il prezzo, cinque franchi invece che un luigi). Pure la villa doveva essere sontuosa, e così chiamò schiere di operai, muratori, giardinieri: finì che la svendette per arginare le pretese dei creditori17.

Nello stesso periodo si precipitò in Sardegna perché un commerciante sardo gli aveva confidato che si potevano ancora sfruttare alcune miniere: arrivò troppo tardi, i veri capitalisti stavano già facendo fruttare gli investimenti, e l’amara verità è che il suo fiuto era ottimo ma era propizio solo all’artista Balzac, non all’imprenditore. Per mantenere la sua posizione sociale spese come non mai, arredando le sue case in modo sfarzoso e pacchiano; a un certo punto ebbe anche un tilbury, che era una carrozza a due ruote, e servi in livrea, e offriva pranzi magnifici, vini sontuosi: «vuoi fare la vita di Lucullo», gli disse un giorno Ewelina Hanska, che sposò dopo che aveva ereditato i soldi del marito18, una fortuna giunta troppo tardi, a tre mesi dalla morte (per Balzac la fantasia di una moglie ricca fu seconda solo a quella del grande affare). Col tempo imparò a vantarsi dei propri debiti e a nascondere la propria povertà così come si nascondeva dai creditori: ogni casa in cui abitava (spesso le affittava sotto falsi nomi) doveva contenere una stanza segreta dove rifugiarsi o una seconda scala per svignarsela in fretta, e arrivò persino a escogitare un sistema di parole d’ordine per tenere lontani i creditori.

Balzac comprese per primo il ruolo fondamentale della moda, che aveva inventato una nuova discriminazione sociale, e dunque quello dell’apparenza: dopo la rivoluzione francese, sosteneva, non c’erano più caste ma specie sociali che si distinguevano solo da segni, da oggetti esteriori, da status symbol, dall’equipaggio, come lo chiamava lui (la casa, la carrozza, i guanti, il divano ecc.), dagli hobby o dalle consuetudini e dai costumi che sono ancora oggi la manifestazione del nostro modo di vivere e della classe di appartenenza.

Disse un giorno che aveva due sconfinati desideri, essere celebre e riuscire a guadagnare19: caricava di fantasmagorie i propri affari e, quando comprava un dipinto di scuola italiana, era convinto col suo occhio di intravederci sotto la mano di Raffaello o di Tiziano, e questo accadeva con i mobili, le cornici, le teiere, ma appunto una delle qualità del rigattiere è far finta di non conoscere il valore di un proprio oggetto, di darti l’illusione che tu sei astuto20.

Ogni volta poggiava sopra i propri affari un carico onirico, e l’aspettativa di ricchezze immediate: questi suoi sogni rimandavano a una concezione epica della borghesia, al mito delle origini, romanticizzato, che essere un capitalista è partecipare di un genio. Balzac mise in scena l’avventura del denaro, il caleidoscopio rumoroso della mercanzia e, nella feroce giungla commerciale di Parigi, si sentì di poter sedere al banchetto del capitalismo, ma questa civiltà degli affari poteva soltanto raccontarla, non usufruirne.

L’istinto fanciullesco del denaro: il caso James Joyce

Esistono categorie e comportamenti ben riconoscibili nel modo in cui gestiamo il denaro e, di volta in volta, a seconda delle circostanze, possiamo individuare lo scroccone, il risparmiatore, il dilapidatore, il crapulone, il generoso, il tirchio e così via; altre forme o tipologie appaiono invece più sfuggenti, tanto che talvolta non siamo in grado di nominarle ed è come se percepissimo delle lacune nel nostro vocabolario economico. Il caso di James Joyce si presenta in questo senso esemplare perché, di fronte ai suoi comportamenti e al modo in cui non amministrava i suoi soldi, manca una definizione precisa che ne circoscriva la condotta: possiamo girarci intorno, toccare taluni punti, presentare evidenti contraddizioni parlando del suo rapporto col denaro; sentiamo però che pecchiamo sempre di un certa imprecisione.

Non fu in senso stretto un dandy e, anche se molte persone vennero colpite o tratte in inganno dalla sua elegante figura, da come si presentava, non aveva il culto del dandismo tipico di altri illustri scrittori e non aspirò a fare della propria vita un’opera d’arte; alla fine della giornata si ritrovò spesso con zero, con nulla in tasca, o meglio con un passivo imprecisato da dare a tanti, come se non avesse considerazione o comprensione per il valore del denaro21. Lo aiutò il fatto di essere un asso nel ricavare il massimo in termini economici dalla sua condizione di anima in pena, ottenendo prestiti e anticipi sullo stipendio, però l’epica del bohemien gli era estranea; non ebbe manie di grandezza né ansie sociali né volle fare l’imprenditore e forse, pur intuendo come avrebbe potuto diventare ricco, non si mostrò mai disposto a sacrificare la propria vita di scrittore per questo; fu costantemente attanagliato dai debiti e dalla mancanza cronica di denaro, ma il suo stipendio lo usava secondo l’attimo, senza l’apprensione del futuro, investendo nell’oggi, mai nel domani.

Il culto della conservazione e della solidità così tipici della classe borghese non significarono mai molto per lui. Quando arrivò nell’ottobre del 1904 insieme a Nora, Trieste era la terza città dell’impero dopo Vienna e Praga, oltre che il principale sbocco nell’Adriatico: l’industria e il commercio erano in piena espansione, tanto quanto il nazionalismo italiano e slavo, e in quel contesto cominciò la nuova vita di Joyce, il suo esilio volontario, come lo chiamò, durato poi trentasette anni. Andò subito a Pola per lavorare come insegnante di inglese alla scuola Berlitz22, dove ricevette il suo primo stipendio regolare, 2 sterline alla settimana per sedici ore settimanali; dopo pochi mesi si trasferì nella sede triestina e, dato che era un fenomeno a insegnare, negli annunci pubblicitari sul «Piccolo» era l’unico che veniva apostrofato col titolo di Dottore; il suo stipendio non superava le duecento corone (paragonabile a un reddito medio-basso di 1.200 euro), non molto ma sufficiente a vivere decentemente, se non fosse stato per il suo stile di vita. In una significativa lettera al fratello Stanislaus, che nella loro storia incarna la coscienza e il ruolo di vittima sacrificale, nel senso che si accollò i destini e soprattutto le spese della famiglia di James Joyce, il futuro scrittore indicava fin da subito le sue priorità: «A Trieste i prezzi non sono molto bassi e le difficoltà di un insegnante di inglese che deve vivere con una donna con uno stipendio adatto ad uno scaricatore di porto o a un fuochista e che si esige debba mantenere un aspetto “signorile” e nutrire il suo cuore intellettuale frequentando di quando in quando il teatro o una libreria sono gravissime»23.

Il sovvertimento di un certo tipo di gerarchie, a cui qui si accenna, fu, come dire, consustanziale all’anima di Joyce: ad esempio, in uno dei tanti momenti di difficoltà economica, Stanislaus, che condivideva la casa con il fratello, la moglie del fratello e i figli piccoli del fratello, e al quale era demandata l’intera gestione finanziaria che comprendeva affitto, cibo e vestiario (nel loro epistolario «pensaci tu» è una specie di ritornello, di mantra per James), si vide recapitare un giorno un bel pianoforte, che solo di deposito era costato quindici corone: oltre alle spese vive e ai soldi da dare ai creditori, piombavano anche costi aggiuntivi come questo, cioè per oggetti che non solo Stanislaus ma chiunque di noi avrebbe considerato del tutto superflui in una condizione di indigenza qual era la loro: per James invece erano fondamentali, come una speciale cura dell’anima e dell’armonia famigliare24, così come imprescindibile fu la frequentazione dell’opera e dei matinée appena avevano qualche soldo, o mangiare nei ristoranti (Nora non cucinava), o andare a teatro o aprire conti nelle librerie.

Ciò che colpisce a livello biografico è che Joyce visse sempre presentandosi o apparendo a quanti non avevano accesso diretto alla sua casa come un gran signore, tanto che alla Berlitz a un certo punto coltivarono la speranza che potesse acquistarla: in realtà viveva da signore nel senso che il denaro era per lui un accidente e allora uno degli inconvenienti poteva essere che in alcuni momenti il denaro mancasse, ma questo non significava che lui rinunciasse a piccoli lussi attraverso un gioco di prestiti e di crediti.

Il modello era quello paterno, solo svolto in un modo più raffinato25: quotidiano e sistematico fu in Joyce il non rispetto delle regole del denaro, della sua moralità, che noi spesso e a torto uniformiamo a quella borghese: nella gerarchia morale che il denaro impone al primo posto ci sono le spese indispensabili, quelle per i figli, la casa, la salute, e solo alla fine della lista si pensa alle cose non necessarie. Joyce ribaltò questa prospettiva e il denaro che guadagnava con il lavoro di insegnante lo impiegava in una maniera non corretta secondo certi standard, per cui aveva i creditori alla porta e comprava una collana molto bella e preziosa per Nora, possedevano pochi abiti e acquistava un libro raro con dedica.

Non divenne un vero e proprio dilapidatore ma possedeva una sorta di sprezzatura profonda, antieconomica, per il denaro, segnata dall’essere anche nella miseria un gran signore, ed era questa la sua libertà, il suo modo di approcciarsi all’esistenza26. Il rifiuto del calcolo della parsimonia non voleva dire che fosse assente un senso della realtà: quando accettò di lavorare a Roma presso un istituto di credito, era convinto di guadagnare di più e soprattutto di aver trovato un posto che non lo impegnasse troppo rispetto al momento della concentrazione della scrittura, delle ore destinate alla letteratura: l’impiego da travet lo condusse alla morte sociale, civile, artistica, e così fece ritorno a Trieste. Se ci fu un difetto in lui, in realtà una virtù, fu quello di non scendere mai a seri compromessi con il mondo del lavoro: con le sue lezioni private di inglese e quelle alla Berlitz, sostenimento per una vita, si consegnò a un precariato perenne, condizione che, se da un lato lo salvava, dall’altro determinava una sofferenza quotidiana nella gestione monetaria.

Non era un irresponsabile, e non a caso i suoi investimenti economici si rivelarono indovinati27; non erano paranoici come quelli di Balzac, esasperato dalla miniera d’oro: solo che lui si limitava a mettere le idee (e riusciva anche a farsi pagare, come un pubblicitario), ma poi dell’organizzazione se ne occupassero altri: emblematico il caso dell’intuizione (su input della sorella Eva) di aprire la prima sala dedicata al cinema nella natia Dublino, nel dicembre del 1909, dopo aver visto il successo di quelle triestine. Mise in piedi una cordata con imprenditori che investirono ventimila corone, stabilendo di dividere in parti uguali, e riuscì a farsi finanziare il viaggio in nave; trovò un posto adatto in Mary Street (dove ora ci sono i grandi magazzini Penneys e una targa commemorativa), scelse gli arredi, stampò locandine e biglietti, selezionò il personale, ma già il 2 gennaio ritornò a Trieste. Il Volta conteneva 420 spettatori a cui si potevano aggiungere 200 sedie da cucina, venivano proiettati film dalle 17 alle 22 con l’accompagnamento di una piccola orchestra d’archi, i prezzi andavano dai 2 ai 6 penny e i bambini pagavano metà prezzo. Dopo soli quattro mesi, nonostante le ottime recensioni, ma con una perdita di seicento sterline, i soci si sfilarono dall’impresa vendendo a una società britannica (il cinema rimase aperto fino al 1948): Joyce pensò di essere stato raggirato e chiese invano quaranta sterline che pensava gli spettassero. Non dissimile sorte ebbe l’idea di importare stoffe dall’Irlanda, sempre con una partecipazione agli utili e, così come il cinema fu anche un escamotage per pagarsi il passaggio a Dublino, anche in tal caso non aveva alcuna intenzione di aprire un negozio, di immergersi nell’impresa come fece Balzac quando decise di aprire una stamperia.

La sua speranza era di vendere e guadagnare senza colpo ferire, senza faticare troppo, il che è contro tutte le leggi imprenditoriali, e l’utopia del Terzo millennio, cioè quella di inventare un’app e diventare milionari, non sembra molto distante dall’impostazione joyciana. Del proprio potenziale economico non gli importava niente ed è come se Joyce avesse la certezza che non bisogna possedere chissà quale grande intelligenza per fare i soldi, bisogna soltanto essere disposti a sacrificare una parte della propria anima, cosa che egli non fece e Svevo sì. Semplicemente, l’economia della maggioranza non corrispondeva alla sua, per questo forse ci sentiamo vicini al fratello Stanislaus, che diceva di trovarsi di fronte a un enigma28, perché, se vivi nella miseria, non spendi i soldi che ti ho appena prestato per un pianoforte o per mangiare in un ristorante stellato. Pur vivendo nell’angoscia del non avere mai una lira, questa non educò Joyce dal punto di vista monetario: c’era in lui un egoismo nella gestione del denaro che mette paura, perché poi si appoggiava al fratello o a vari mecenati, riuscendo a scucire soldi pure ai suoi studenti, cosa che fece anche con Svevo, il quale andò a incontrare forse la persona più pericolosa di Trieste anche se socialmente innocua, che sembrava un niente rispetto alla potenza travolgente che lo investì dopo averlo conosciuto: come se fosse un taumaturgo, un mago o una sibilla, Joyce lesse il vero destino da scrittore di Svevo e lo trascinò di nuovo nel gorgo della letteratura. Svevo capì di trovarsi dinanzi al più grande scrittore vivente e forse Joyce spese i propri soldi in base a questa consapevolezza: dunque, non in quanto insegnante alla scuola Berlitz, ma in quanto colui che stava in quel momento scrivendo i Dublinesi oppure Dedalus, e cioè come un unto della letteratura, una condizione sacerdotale che proveniva dalla sua educazione da gesuita e che lo rendeva totalmente libero da angosce sociali o di ruolo sociale. Trovare denaro per lui era come trovare una forchetta per mangiare, aveva necessità solo di procacciarsi uno strumento che gli permettesse di faticare meno nello svolgimento del proprio elemento: che fosse in un buon periodo economico o no, la sua transustanziazione, la sua trasformazione del pensiero in scrittura, avveniva comunque.

Baudelaire sosteneva di non sopportare quei borghesi che nel fare l’elemosina a un ubriacone gli dicevano che con quei soldi non si doveva comprare il vino ma il pane da bagnare nell’acqua per un mese: fare la morale sulla propria generosità, dare ad altri ma a condizione di un loro ravvedimento, fu un po’ ciò che fece Stanislaus con James, senza riuscirci peraltro. Forse è azzardato sostenerlo, ma in Joyce si intravede una disposizione fanciullesca al denaro e, come un bambino che vive solo l’oggi spende per il giocattolo e non per una coperta per coprirsi dal freddo, il denaro aveva valore solo se lo appagava subito, perché andava inserito all’interno del principio del piacere e non del principio dell’utile. Il fatto che avesse guadagnato il proprio denaro lavorando acuiva questo aspetto, perché gli sembrava assurdo fare ore e ore di lezione di inglese e poi pagare il riscaldamento o l’elettricità o i debiti dal fornaio: in questo modo il denaro non risplendeva, non dava gioie, si annullava, ed era questo, forse, il nodo che non comprendeva Stanislaus quando Joyce, invece di rispiarmiare e mettere da parte o pagare i propri debiti, acquistava champagne per la sera.

  1. Cronologia, a cura di G. Montesano, pp. LX-LXI, in C. Baudelaire, Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, introduzione di G. Macchia, Milano, Mondadori, 1996.
  2. C. Baudelaire, Diari intimi, trad. e note di L. Zatto, a cura di G. Raboni, Milano, Mondadori, 1970, pp. 120 e sgg.
  3. Charles Baudelaire, vol. XXIII della collana «I giganti della letteratura mondiale», diretta da E. Orlandi, Milano, Mondadori, 1970, pp. 9 e sgg.
  4. Cfr. C. Baudelaire, Il vulcano malato. Lettere 1832-1866, a cura di F. C. Bigliosi, Roma, Fazi, 2007.
  5. Cfr. C. Baudelaire, Come non pagare i debiti. Lettere sull’orlo del tracollo finanziario, a cura di L. Flabbi, Roma, L’Orma editore, 2012.
  6. Cfr. C. Baudelaire, Lettere inedite ai famigliari, prefazione di G. Macchia, traduzione e note note di L. De Nardis, Milano, Rizzoli, 1968.
  7. Cfr. B.-H. Lévi, Gli ultimi giorni di Charles Baudelaire, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1989.
  8. Cfr. W. Benjamin, Charles Baudelaire: un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi e C.-C. Härle, Vicenza, Neri Pozza, 2012.
  9. Cfr. C. Baudelaire, Lettere alla madre, a cura di C. Ortesta, postfazione di G. Raboni, Milano, Mondadori, 1994.
  10. Cfr. W. Benjamin, I «passage» di Parigi, vol. I, a cura di R. Tiedemann, edizione italiana a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2000.
  11. Cfr. S. Zweig, Balzac. Il romanzo della sua vita, trad. it. di L. Mazzucchetti, Roma, Castelvecchi, 1946.
  12. Ivi, pp. 49 e sgg.
  13. L. Surville, Balzac mio fratello, introduzione di D. Galateria, Palermo, Sellerio, 2008.
  14. Cfr. M. Bongiovanni Bertini, Introduzione a Balzac, pp. I-XCVIII, in H. de Balzac, La commedia umana, vol. I, Milano, Mondadori, 1994.
  15. Cfr. L. Surville, Balzac mio fratello, op. cit.
  16. T. Gautier, La vita di Honoré de Balzac, Milano, Rizzoli, 1952.
  17. Cfr. F. Fiorentino, Introduzione a Balzac, Bari, Laterza, 1989.
  18. Cfr. Lettere di donne a Balzac, traduzione di M. A. Bogdanović, Genova, ECIG, 1995.
  19. R. Benjamin, Vita prodigiosa di Onorato Balzac, Milano, Barbieri, 1946.
  20. Cfr. M. Lavagetto, La macchina dell’errore: storia di una lettura, Torino, Einaudi, 1996.
  21. J. McCourt, James Joyce. Gli anni di Bloom, Milano, Mondadori, 2004.
  22. A. Gibson, James Joyce, Bologna, il Mulino, 2008.
  23. Cfr. J. Joyce, Lettere, a cura di G. Melchiori, Milano, Mondadori, 1974.
  24. Cfr. W. York Tindall, James Joyce, prefazione di G. Cambon, guida bibliografica di U. Eco, Milano, Bompiani, 1961.
  25. J. McCourt, James Joyce, op. cit., pp. 203 e sgg.
  26. Cfr. J. Joyce, Racconti e romanzi, a cura di G. Melchiori, Milano, Mondadori, 1997.
  27. S. Joyce, Ricordi di James Joyce, in «Letteratura», luglio-settembre 1941, pp. 26-44.
  28. Cfr. S. Joyce, Guardiano di mio fratello, Milano, Mondadori, 1967.

(fasc. 5, 25 ottobre 2015)