«La scoperta della provincia»: itinerario di una formazione [di F. Masci]
Nella letteratura italiana del Novecento la provincia può rappresentare, da una parte, un concetto capace di identificarsi in «una costruzione del pensiero, una convenzione socioculturale più che una specifica entità territoriale»[1], ma dall’altra può testimoniare una particolarità «da misurarsi non tanto sul metro delle distanze chilometriche quanto sulla base del ritardo accumulato rispetto alle trasformazioni ‒ mode, idee, tecnologie, cultura ‒ avviate dai grandi centri della modernità»[2].
Se però questo discorso può essere vero, come ricorda Riccardo Donati, «senza troppe variazioni, dall’Ottocento almeno fino agli anni del boom»[3], resta da discutere il valore e la presenza che il tema provinciale assume in tutta una serie di autori novecenteschi che, in un modo o nell’altro, riuscirono ad averci a che fare.
Il caso di Luciano Bianciardi (1922-1971) è estremamente significativo, nel contesto problematico appena accennato, per più motivi. È la provincia, infatti, a costituire un’occasione utile per mettere in scena, nella produzione giornalistica dell’autore tra il 1953 e il 1957, una folla molto varia di umanità da cogliere nelle sue pose e nelle sue manie e da cui Bianciardi fa derivare, indirettamente, un discorso critico-parodico sulle forme che assume.
Per quanto riguarda la collaborazione con «La Gazzetta» (1952-54), tra i molti materiali selezionabili, risalta subito, in L’etimo[4], la figura di un micragnoso pensionato con velleità di ricerca capace di consumare il suo tempo nella ricostruzione linguistico-etimologica di un termine internazionale come “rodeo”, tentando al contempo di dimostrarne, in modo fallimentare, la derivazione tosco-maremmana. D’altra parte, Il professore di lettere[5] di liceale memoria riesce a rappresentare alcune manifestazioni della cultura fascista italiana tra le due guerre. Il significato dei suoi programmi d’insegnamento e delle sue rielaborazioni didattiche sembra anzitutto riecheggiare motivi esplicitamente autobiografici: «La retorica imperversava nell’insegnamento della letteratura italiana. I componimenti scritti erano poi la vera fiera dell’impudenza; non mi pare che fossero altro se non una crescente variazione di aggettivi roboanti sui medesimi temi»[6]. Ma, da altri punti di vista, il potenziale caricaturale del ritratto è più che evidente:
Temi di cultura: commento ad un passo del discorso del duce, scelto a piacere; storia della rivoluzione fascista; l’ordinamento del cittadino soldato nell’antica Roma ed oggi. Per la gara sportiva: corsa veloce, salita alla fune, salto di una cavallina alta metri uno e venti. Inoltre si esige la perfetta conoscenza del moschetto modello novantuno e dei modelli che con esso si possono svolgere[7].
Oltre al vuoto apparato storiografico-retorico della cultura italiana primonovecentesca, ad apparire ridicola agli occhi di Bianciardi è anche l’idea di una politica vissuta, come dimostra il ritratto prodotto nell’articolo La moglie di Paolino[8], solo nella sua qualità di fenomeno di costume. Proprio perché esiste «un’eleganza libertaria, col doppiopetto grigio ferro, gli occhiali da tartaruga e possibilmente l’ombrello allusivo alla Chamberlain»[9], esiste parallelamente la volontà, e lo testimonia l’amico Paolino, di sintetizzare l’appartenenza agli schieramenti politici tramite precise scelte di stile:
Ma il mio amico Paolino P. è uno di quei giovani che per le solite ragioni vanno a sinistra, e che cercano quindi un modulo di eleganza assai più raffinata, da criptocomunisti: la raffinatezza sta proprio nel fatto di tenersi su di un tono generale grigio e mediocre, trasandato, esplodendo a tratti, specie d’estate, in vistosi completi a vento blu mare, sopra camicette bianchissime[10].
E sempre dedicato allo studio dei vizi del mondo provinciale è Vitelloni anche loro[11], dove tre personaggi servono a Bianciardi per comporre una sorta di mise en abyme delle questioni che il celebre film di Fellini I Vitelloni pone nel momento in cui rappresenta alcuni aspetti della società italiana degli anni Cinquanta. Tra astrazioni filosofiche («Quante volte li abbiamo visti i vitelloni? […] Eppure Fellini ce li ha rivelati, ha creato la categoria. Voglio dire kantianamente, la categoria»[12]), pettegolezzi («Sei proprio sicuro di quello che hai detto?» «Cosa?» «Di quella signora.» «Che ha abortito?» «Sì. È vero?» «Come no!»[13]) e fatti di cronaca («Ma poi, hai visto l’affare di Renzi e Aristarco? È stata tutta una buffonata»[14]), ad essere tematizzato è il motivo autobiografico della partenza e dall’allontanamento da «questa tristezza sciatta di vita provinciale»[15], che riguarderà l’autore stesso proprio intorno al 1954.
Nella successiva rubrica progettata per l’«Avanti» dal 1953 al 1963 il rapporto dell’autore con il tema provinciale sembra modificarsi e portare verso configurazioni relativamente inedite. Da una parte, il tentativo diventa quello di esaurire un’immagine stereotipata e convenzionale della provincia, in particolare della Maremma, cercando di restituirne una rappresentazione il più possibile concreta, fatta di dati, prospettive ed elementi materiali. Dall’altra permane comunque, anche in questi anni, la volontà di cogliere i momenti caratteristici, pittoreschi della vita provinciale. La prima tipologia di articoli, quindi, costituisce il luogo dove si determina la coscienza politica di Bianciardi, e dove ci si può permettere di rifiutare, nella scoperta del territorio, gli «itinerari suggeriti dalla tradizione: gli etruschi, per esempio, od i butteri, o i cinghiali»[16]. Per questo motivo possono risaltare tutta una serie di piccoli reportages dedicati alla vita dei lavoratori, boscaioli o minatori, e può esprimersi la preoccupazione di rappresentarli in modi diversi. Se, come accade in Abitano in vecchie capanne i boscaioli della Maremma[17], l’interesse è quello di descrivere la tipologia del lavoro e l’ambiente che lo ospita, non ci si dimentica di soffermarsi sulle forme rituali di questa particolare attività:
La veglia è l’unico rudimentale segno di una vita associata tra i boscaioli. Quando piove, qualche volta la sera dopo cena, le famiglie amiche […] si riuniscono in una capanna e passano insieme un’ora, prima di dormire. Di solito, raccontano favole e, meglio ancora, storie di cronaca nera delitti celebri e processi[18].
Nel caso dei minatori invece, che verranno fatti oggetto di una vera e propria inchiesta nel 1953, poi culminata, grazie alla collaborazione con Carlo Cassola, in un volume del 1956 edito per Laterza[19], l’obiettivo di Bianciardi è principalmente quello di denunciarne le precarie condizioni di lavoro e di sottolineare il sistema di sfruttamento a cui gli operai sono sottoposti:
Sugli operai si preme in vario modo: minime interdizioni del lavoro sono punite con multa e sospensione in prima istanza, poi con il licenziamento. Il lavoro si svolge con una temperatura che va da un minimo di 34 a un massimo di oltre 42 gradi: poiché il calore, per contratto, dev’essere retribuito con una indennità aggiunta, la società ricorre al sistema di immettere un gocciolamento d’aria nei tubi di ventilazione […], oppure fa pressione sui sorveglianti perché registrino una temperatura inferiore a quella reale[20].
La seconda tipologia di articoli, dal canto suo, perfeziona ulteriormente la vocazione bozzettistica dei primi ritratti, e la specifica in tutta una serie di contributi desiderosi di approfondire il potenziale dissacrante e giocoso della tradizione folklorica toscana. In La satira giocosa dei canterini dell’Amiata[21] Bianciardi apprezza il gioco retorico, fatto di similitudini stranianti e composto da un repertorio fisso di contenuti, presente nei canti popolari dei lavoratori di Castel del Piano. Il linguaggio e le immagini tratti dalla vita di tutti i giorni interagiscono attivamente con un patrimonio di forme e motivi derivati dalla tradizione letteraria:
A volte la strofa è cantata da un […] boscaiolo alto […], a lui toccano i versi più arditi, come la boccaccesca vicenda della Pinottola, una vecchia canzone di origine rinascimentale, […] o la storia di Bistone, il contadino grosso e furbacchione, che si cattiva la protezione del padrone chiudendo un occhio di fronte alle sue tresche con la moglie[22].
Allo stesso modo, sia Da una lingua morta nasce un nuovo linguaggio[23] sia Tatà Partenza si chiama la figlia[24] insistono ancora, grazie all’influenza del pensiero gramsciano, sulle pratiche di assimilazione, contaminazione e trasformazione evidenti tra i codici della cultura alta e di quella popolare, ma anche sui fenomeni di anarchia onomastica che, nella Maremma toscana, servono a circoscrivere l’abitudine “eversiva” «di dare ai propri figli nomi insoliti, storpiati, o addirittura inventati di sana pianta»[25]. Nel primo caso il materiale selezionato evidenzia principalmente i processi di assimilazione e ripetizione fonetica realizzati nel rapporto tra la liturgia cattolica e i fenomeni legati all’italiano parlato:
A Radicondoli, un paesino della campagna senese, troviamo il «Praestet fide supplementum» che è diventato addirittura: «Presa il figlio a sor Clemento», mentre il «Salus honor, virtus quoque» si traveste così «Salo, salo, Cristo scote». Sulla costa maremmana, a Castiglione della Pescaja, un verso di una preghiera rogatoria, che dice: «Te rogammo, exaudi nos», diventa: «Tre rogavano, e quattro no». Sempre a Castiglione, il «precedenti ab utroque» si deforma così: «Procedenti siamo troppi»[26].
Nel secondo caso la proliferazione incontrollata di nomi desueti viene pensata nuovamente in corrispondenza con l’influenza, accolta contrastivamente, di un modello culturale egemone: «In pochi altri luoghi si impongono nomi così lontani dall’uso comune: e forse la ragione sta nel fatto che queste terre non trovano, sul piano del costume, la forma limitatrice delle tradizioni»[27].
A questo punto resta da chiarire in quale misura risulta possibile interrogare la produzione narrativa dell’autore, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, tenendo in considerazione gli elementi scoperti grazie all’analisi parziale dei documenti giornalistici. Spazio capace di garantire, nella sua procurata “minorità”, sia la determinazione di una coscienza politica sia il processo di radicale disillusione che prepara il trasferimento verso Milano, e poi luogo dove affinare, nel confronto con i suoi abitanti, le particolarità di uno stile satirico: la provincia per Bianciardi implica qualcosa di più importante di un’immediata caratteristica biografica.
Le prime narrazioni. Parodia e sociologia della provincia [di R. Innocenti]
Nel passaggio dai bozzetti alle prime prove narrative risulta evidente che il discorso critico-parodico delle pose e delle manie provinciali è espressione della stessa coscienza politica che ha prodotto l’inchiesta I minatori della Maremma. L’ironia bianciardiana trova fondamento nella capacità di costruire un’analisi socioculturale a partire dalle condizioni materiali della società italiana del dopoguerra, si tratti di dipingere i grotteschi abitanti della provincia, di condannare il sistema neocapitalistico o di irridere gli intellettuali “ragionierizzati” dall’emergente cultura del marketing.
Il lavoro culturale[28], con cui Bianciardi esordì nel 1957, ha come protagonista indiscussa la provincia e spende molte pagine nella messa in scena dell’oziosità con cui i ceti medi riflessivi espletano le loro velleità artistiche o (pseudo)scientifiche. Il tema emerge sin dall’inizio del romanzo, con la schiera di «sapienti, dotti e intellettuali»[29], del tutto simili al pensionato e al professore delle caricature scritte da Bianciardi per «La Gazzetta», intenti a risolvere il rompicapo dell’origine della città in cui il racconto è ambientato. In questa schiera il narratore Luciano Bianchi, alter ego di Luciano, individua in particolare il clan dei «professori esteri», costretti a vivere nella piccola città «si può immaginare con quale loro pena e contrizione», che si consolano rovistando fra «codici, manoscritti e filze» della biblioteca locale e dell’archivio di stato[30]. È quasi sempre la frustrazione a muovere questi velleitari, i cui sogni di gloria non trovano posto in un ambiente angusto come quello di Grosseto.
Fra i «sapienti» spicca un ingegnere idraulico, il cui progetto di costruire un canale navigabile che congiunga la costa grossetana al Tevere, penetrando per centosessanta chilometri nell’entroterra, si arena «perché l’Italia è un piccolo paese, incapace di assumersi imprese di così vasta mole»[31]. Vedendosi costretto a scegliere una velleità più compatibile con la dimensione provinciale della città in cui vive, l’ingegnere «si era volto all’archeologia»:
Non c’era ritrovamento casuale che non lo vedesse precipitarsi a trattare con il contadino che, scassando il terreno del suo podere per piantare la vigna, aveva tirato fuori un frammento di statua, un’anfora rotta, un pezzo di bucchero graffito, una moneta. […] Il graffito era poi un triplice misterioso segno che, opportunamente interpretato, contribuiva alla dimostrazione delle origini antichissime e illustri della nostra città. La nostra città era sorta nel cuore della civiltà degli etruschi, che vi si erano stanziati, attratti dalla salubrità dell’aria, dalla ricchezza dei boschi – ottimo rifornimento di materia prima per i loro grandi arsenali navali – dalla fecondità dei campi[32].
I «professori esteri» e i vari ingegneri idraulici, rappresentanti del ceto medio riflessivo dipinto da Bianciardi, sono incapaci di agire concretamente, ponendosi obiettivi realizzabili e produttivi nei confronti della realtà provinciale che abitano, e preferiscono ripiegare su studi oziosi od operazioni identitarie (simili a quella del protagonista del bozzetto già menzionato, L’etimo) tese a glorificare la Maremma grossetana, connettendola alla storia illustre di popoli antichi. In provincia i costumi tardano a trasformarsi per la reticenza della piccola borghesia nei confronti del cambiamento e dell’attivismo che quel cambiamento dovrebbe produrre. Per contrastare la resistenza passiva dei dotti concittadini, Luciano Bianchi e il fratello Marcello abbracciano una concezione attivista e propositiva di città e di cittadinanza: «Il senso vero della città, proprio quello che sfuggiva a queste talpe di medievalisti eruditi, ed a quelle cornacchie di archeologi, eccolo qui: la città tutta periferia, aperta ai venti e ai forestieri, fatta di gente di tutti paesi»[33].
Questa l’idea condivisa da chi, come il narratore, appartiene alla «generazione bruciata»[34] dei giovani figli del ceto medio emergente e crede nelle possibilità di sviluppo della piccola città. La loro missione è quella di mobilitare e organizzare i concittadini, così da creare le condizioni materiali per poter incidere sull’immobilismo provinciale ed esprimere una nuova cultura. Gran parte di questo romanzo è dedicato alla descrizione dell’attività di questi giovani speranzosi, non risparmiati dalla satira dell’autore, le cui iniziative necessitano del contributo di intellettuali, critici e pensatori provenienti da Roma e Milano, da cui sembrano dipendere culturalmente:
Bonora andò a Roma a prendere certi contatti, disse, e tornò con alcune proposte concrete. […] «Un circolo del cinema,» aggiunse un critico venuto apposta da Roma «ha come scopo fondamentale la difesa del cinema italiano neorealista, ed in generale del cinema di denuncia. Nell’Unione Sovietica…»[35].
Il critico giunto da Roma, così come gli altri personaggi invitati nella piccola città per sostenere gli sforzi dei giovani attivisti, mostrano puntualmente l’ottusità delle loro prospettive critiche, frutto della stretta osservanza della linea di partito. Gli intellettuali del PCI, invece di fornire ai giovani provinciali gli strumenti necessari per affrancarsi dalla subalternità nei confronti dei grandi centri e far fiorire una vita culturale fresca e indipendente, alimentano il loro stato di minorità indirizzandoli verso l’ortodossia nei confronti della linea promossa dal PCI. È, dunque, conseguenziale che i fratelli Bianchi protagonisti del romanzo, incapaci di trascinare la piccola città e il suo ceto medio fuori dallo stato di “minorità”, finiscano per rimpolpare le fila dei dotti velleitari, avendo fallito la loro missione di rinnovamento culturale ed essendosi esaurita la spinta propulsiva dell’attivismo.
Altra sorte tocca ai due fratelli Bianchi nel romanzo successivo, L’integrazione[36], in cui la spinta propulsiva di cui sopra si è tradotta in un balzo di cinquecento chilometri verso Milano, centro italiano del neocapitalismo. Una lettera spedita da Bianciardi all’amico grossetano Mario Terrosi nel 1954, precedentemente alla stesura del Lavoro culturale, testimonia lo spirito con cui l’autore grossetano era emigrato a Milano:
Vivere a Milano, credilo pure, è molto triste. Non è Italia, qua, è Europa, e l’Europa è stupida. Tanto più che la gente non è buona, non è aperta, anche se questo succede per colpa non sua, ma sempre, come ti dico sopra, per la pressione del capitale milanese. […] Se io ci resisto (ma non mi ci ambiento affatto, mia moglie si è sbagliata) è perché penso questo: a Milano la gente che la pensa come noi, cioè i comunisti (anche senza tessera, la tessera non conta un accidente, anzi, ho conosciuto dei tesserati, qua, che sarebbe meglio andassero con la Montecatini, e qualcuno già c’è) han da combattere una battaglia molto grossa. La rivoluzione si farà, dopo tutto, proprio a Milano, non c’è dubbio, perché a Milano sta di casa il nemico nostro, Pirelli e tutti quelli come lui. E questa gente la si batte a Ribolla, è vero, ma soprattutto qua. Credi che è così[37].
In L’integrazione Marcello Bianchi, come Bianciardi, crede fermamente nella necessità di dirigere il proprio attivismo verso il centro del potere economico e di «tentare la mediazione»[38] con la classe operaia, organizzando e adunando quella massa critica che non erano riusciti a formare nella piccola città. Tuttavia, i protagonisti non possono che finire catturati dalla «giungla merdosa»[39] di Milano, cuore pulsante del neocapitalismo imperialista. Attraverso la descrizione critico-parodica della gestualità dei passanti, più grottesca che ironica, Bianciardi mette in risalto le differenze fra piccola e grande città:
Essendo così esiguo il margine a noi concesso, risultava impossibile, una volta scesi in strada, non dico arrestarsi o tornare indietro, ma anche rallentare il passo: le poche volte che, agli inizi, ci provammo, fu inevitabile l’urto con quelli che marciavano dietro. […] Così avanzava giorno per giorno la colonna vestita di grigio, diretta chissà dove. Non esisteva, nemmeno nell’idea, il passeggio. Non vedevi famigliole svagate che portassero in giro il bambino, non vedevi comitive lente e disarticolate di amici, né coppie allacciate. I giovani facevano all’amore in macchina, su due o quattro ruote[40].
La grandezza dell’Integrazione sta nella capacità di restituire con rapide pennellate il rapporto fra dimensione spaziale e sociale, opponendo la naturalezza dell’interazione umana in provincia all’alienazione metropolitana che alla fine del romanzo costringerà Luciano Bianchi a integrarsi e Marcello a chiudersi in un antagonismo individualista.
Immergendo i personaggi che popolavano i bozzetti nel campo di forze che determina non solo i rapporti che i provinciali intrattengono fra di loro, ma anche quelli che legano Grosseto-Kansas City a Roma e Milano, Bianciardi riesce a mettere in luce le mancanze del ceto medio riflessivo provinciale e a motivare, quindi, la subalternità culturale e poi economica della piccola città rispetto ai centri del potere. Il romanziere non si limita a parodiare i tentativi degli appartenenti alla piccola borghesia di provincia e dei suoi intellettuali di convergere e farsi protagonisti dello sviluppo (culturale e non) postbellico, nelle grandi o piccole città, ma individua le cause dell’inefficacia del loro agire politico, analizzando le condizioni materiali. Questa operazione critica troverà il suo compimento in La vita Agra[41], in cui Bianciardi tematizza la subalternità storica della Maremma, risalente ai tempi dei “paschi” del celebre Monte, e perviene, quindi, a una narrazione dalla sensibilità post-coloniale: la provincia si configura come una colonia che gli agenti del capitalismo imperialista (la Montecatini) drenano delle sue risorse, umane e non, e che deve essere riscattata da un gesto di attivismo radicale e violento.
- R. Donati, Raccontare la provincia, in Il romanzo in Italia. IV. Il secondo Novecento, a cura di G. Alfano e F. De Cristofaro, Roma, Carocci, 2018, p. 164. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 166. ↑
- L. Bianciardi, L’ètimo, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, a cura di L. Bianciardi, M. Coppola e A. Piccinini, Milano, Isbn Edizioni, 2008, pp. 182-85. ↑
- L. Bianciardi, Il professore di lettere, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., pp. 185-88. ↑
- L. Bianciardi, Cronologia, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., p. LI. ↑
- L. Bianciardi, Il professore di lettere, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., p. 186. ↑
- L. Bianciardi, La moglie di Paolino, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., pp. 207-10. ↑
- Ivi, p. 208. ↑
- Ibidem. ↑
- L. Bianciardi, Vitelloni anche loro, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., pp. 243-46. ↑
- Ivi, p. 243. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 245. ↑
- Ivi, p. 246. ↑
- L. Bianciardi, La periferia di Grosseto avanza verso la campagna, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., p. 305. ↑
- L. Bianciardi, Abitano in vecchie capanne i boscaioli della Maremma, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., pp. 312-18. ↑
- Ivi, p. 316. ↑
- C. Cassola, L. Bianciardi, I minatori della Maremma, Bari, Laterza, 1957. ↑
- L. Bianciardi, Si smobilita in silenzio nelle miniere di Ribolla, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., p. 332. ↑
- L. Bianciardi, La satira giocosa dei canterini dell’Amiata, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., pp. 335-39. ↑
- Ivi, p. 337. ↑
- L. Bianciardi, Da una lingua morta nasce un nuovo linguaggio, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., pp. 339-43. ↑
- L. Bianciardi, Tatà Partenza si chiama la figlia, in Id., L’antimeridiano. Volume secondo. Scritti giornalistici, op. cit., pp. 343-47. ↑
- Ivi, p. 344. ↑
- L. Bianciardi, Da una lingua morta nasce un nuovo linguaggio, op. cit., p. 342. ↑
- L. Bianciardi, Tatà Partenza si chiama la figlia, op. cit., p. 343. ↑
- L. Bianciardi, Il lavoro culturale, Milano, Feltrinelli, 1957. ↑
- L. Bianciardi, Il lavoro culturale, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 5. ↑
- Ivi, pp. 5-6. ↑
- Ivi, p. 10. ↑
- Ivi, p. 11. ↑
- Ivi, p. 15. ↑
- Ivi, p. 12 ↑
- Ivi, p. 54. ↑
- L. Bianciardi, L’Integrazione, Milano, Bompiani, 1960. ↑
- Lettera di L. Bianciardi a M. Terrosi, in P. Corrias, Vita agra di un anarchico, Milano, Baldini & Castoldi, 1993, p. 68. ↑
- L. Bianciardi, L’integrazione, Milano, Bompiani, 1993, p. 31. ↑
- Lettera di L. Bianciardi a M. Terrosi, in M. Terrosi, Bianciardi com’era. Lettere di Luciano Bianciardi ad un amico grossetano, Grosseto, Il Paese Reale, 1974, p. 22. ↑
- L. Bianciardi, L’integrazione, op. cit., p. 14. ↑
- L. Bianciardi, La vita agra, Milano, Rizzoli, 1962. L’autore del primo paragrafo è F. Masci; il secondo è a firma di R. Innocenti. ↑
(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. I)