Julia Kristeva lettrice di Proust: il “tempo” del sensibile e il “sensibile” come tempo

Author di Giovanna Russo

Proust e l’universo sensibile

Pubblicato in lingua inglese nel 1993, ampliato ed edito in Francia presso Gallimard ma ancora oggi privo di un’edizione in lingua italiana, Le temps sensible: Proust et l’expérience littéraire, della nota filosofa semiologa e psicoanalista francese di origini bulgare Julia Kristeva, merita certamente di essere annoverato tra i maggiori lavori dedicati a Marcel Proust nel corso del Novecento, e ciò non solo per l’interdisciplinarità caratterizzante le acute analisi dell’autrice, ma anche per la capacità di quest’ultima di riscoprire una (in-)attualità di Proust, gettando luce sugli aspetti del capolavoro proustiano che sembrano poter rispondere alle più specifiche esigenze del nostro tempo.

Se taluni aspetti dell’opera consentono di cogliere una relativa influenza di quella corrente filosofica dominante alla fine del XIX secolo in Francia e una vicinanza alle lucide analisi della società condotte da Gabriel Tarde, è forse più cogente sottolineare come siano stati piuttosto pensatori e filosofi successivi a ravvisare in esso un’autonoma e peculiare densità teorica e filosofica, resa sì esplicita nel corso delle ultime pagine del Temps retrouvé, ma in realtà esibita e demonstrata in concreto lungo l’intera opera.

Immergendoci con l’autrice nelle fitte pagine proustiane, seguendo quasi inermi il riavvolgersi della memoria del Narratore e la vita rievocata di Marcel, quella che prende forma dinanzi ai nostri occhi è l’esperienza di una soggettività che potremmo definire “glissante”, in grado cioè di penetrare con tutto il suo corpo e i suoi sensi in quell’universo vorticoso e quasi inquietante di sensorialità, senza irrigidirlo attraverso l’intervento dell’intelligenza riflessiva e del linguaggio volto all’utile, ma lasciandolo piuttosto “essere”, facendo sì che anche nel processo scritturale dell’opera sia il sensibile stesso a dirsi e ad esprimersi attraverso l’autore-Narratore, attraverso una scrittura fattasi vero e proprio “prolungamento del corpo e dei sensi”. La dimensione sensibile si configura, allora, come una sorta di spazio intermedio: il nostro commercio con il mondo sensibile, così come ci viene presentato nelle pagine proustiane, va a negare ogni possibile dicotomia tra i poli del pensiero e della sensazione, dunque quella scissione da sempre affermata dalla metafisica occidentale tra res cogitans e res extensa, e riaffermata anche negli estremi apparentemente opposti dell’empirismo e dell’intellettualismo. Più vicina, semmai, all’idea di un’anima che pensa sempre sostenuta da Leibniz in risposta al Saggio sull’intelletto umano di Locke[1] – vale a dire di una psichicità descrivibile come un “esser-soggetto-a” più che un “soggetto-di”, investita da piccole impressioni e segni che danno luogo a una forma di non-sapere riflessivo, avvertiti attraverso una sorta di “coscienza-senso” più che da una “coscienza del senso” –, è questa stessa concezione di una vita sensibile come trama in cui il visibile e l’invisibile si presentano l’uno come la piega dell’altro a essere individuata da Kristeva a partire dall’episodio della madeleine, nel tentativo di mostrare come l’elemento sensoriale, in Proust, non sia mai scisso, ma sempre inanellato alla dimensione psichica e mentale. Nel descrivere un tale ricordo che spinge per venire alla luce, come un ricordo al contempo sensoriale e amoroso

è la naturalità della sensazione a esser messa in discussione. Poiché il sapore è sapore di tè e di dolci, esso si radica fortemente tra le cose di questo mondo. Il sapore è mondo come lo è, a causa del gusto e di tutte le altre sensazioni, l’esperienza stessa che le restituisce. Ciò non toglie che essa “lo supera [il sapore] infinitamente: [che] non doveva condividerne la natura”. In effetti, fin dall’inizio, questa gioia che è l’esperienza significa: “Cosa significava?”[2]

La gioia inspiegabile che il narratore avverte – legata al sapore ma che al contempo lo supera – è indice di un senso che viene a delinearsi nel sensibile, di una significazione latente in attesa d’espressione, per cui ciò che il breve frammento letto finora ci descrive è il percorso, o meglio il tentativo di passare dalla sensazione, dalla dimensione di quell’incontro sensibile e del senso ancora celato che reca in sé, alle parole per esprimerlo, dunque per crearlo. Ed è a partire da qui che la nostra autrice attribuisce una peculiare sfumatura al ritorno del tempo perduto. Risalendo, infatti, al mito della caverna contenuto nel VII libro della Repubblica di Platone e rinvenendo al suo interno la traccia originaria di quell’“aporia della sensazione” in cui l’intera tradizione filosofica occidentale sembra cadere, passando poi attraverso Freud e la “scorciatoia logica” che quest’ultimo intraprende nel ricondurre e ridurre le Rappresentazioni di cosa alle Rappresentazioni di parola, è appellandosi invece all’ambito terapeutico a noi più prossimo che Kristeva individua nuovi elementi di riflessione relativi alla sensazione e al legame tra questa e il linguaggio. Nel riprendere il dibattito sull’affezione autistica, il cui sintomo consisterebbe nel mancato accesso di una vita sensoriale estremamente complessa alla sfera del linguaggio e della nominazione, Kristeva abbraccia una tesi sostenuta da Francis Tustin e da altri esperti, secondo la quale – potendo riscontrare in chiunque falle o incapacità all’interno dell’attività simbolica – ogni individuo deve confrontarsi con una sorta di “buco nero” presente nel proprio psichismo, uno stadio parossistico della sensazione a tal punto intensa da esserne inghiottito, privo com’è della capacità di appropriarsene e di poterne parlare. Non si tratta tanto di una sorta di origine altra, quanto di un’eterogeneità con la quale il linguaggio ha sempre da confrontarsi e che può essere riconosciuta solo andando a salvaguardare quella significanza stratificata che è l’apparato psichico e le due logiche o economie definibili come campo del “semiotico” e del “simbolico”. Ed è questa stessa intensità sensoriale che le pagine proustiane, secondo la filosofa, mirano a restituire: il “ritrovare” il tempo perduto, di conseguenza, coinciderà non tanto con un semplice riconciliarsi con un oggetto o un desiderio che un tempo ci ha colpiti e che abbiamo respinto, bensì con un farlo ad-venire, con un donare segni, un senso e un oggetto a ciò che non ne aveva, un ritrovarne la memoria che coincide, in realtà, con un crearla, creando parole e pensieri nuovi.

Kristeva condensa, dunque, quella che definisce la “chiave alchemica” del capolavoro proustiano nella formula di un “tempo sensibile”: merito di Proust, infatti, è d’aver dato forma, mettendolo in parole, a un tempo sensibile che racchiude e unisce in sé quelle categorie metafisiche da sempre considerate in opposizione tra loro; esseri e oggetti sensibili, esperienze e soggetti situati nel tempo vengono raccolti e restituiti, a noi lettori, attraverso il romanzo, così che quest’ultimo si presenta come «un viaggio fino al termine della memoria», il quale sfocia e ci conduce, attraverso i fenomeni e i segni atti ad esprimerli, «su quel confine in cui convivono – indissociabili e tuttavia concentrici – il vissuto e il dicibile»[3], sulla soglia tra l’esperienza e ciò che se ne può dire. L’elemento sensoriale e impressionistico – definito dallo stesso scrittore nei termini di un “doppio sigillo”, impressione «duplice, per metà inguainata nell’oggetto, prolungata dentro di noi per un’altra metà a noi soli accessibile»[4] – segna allora il legame e si pone all’incrocio tra il Sé e il mondo, non potendo essere né definito come realtà tout court né collocato in una dimensione puramente solipsistica né, ancora, ridotto a una mera passività. Piuttosto, la dimensione impressionistica è sempre già animata da una forma di “pensiero” del e nel sensibile, al confine tra psiche e soma, sempre già inscritta all’interno di una rete linguistica e tendente alla significazione – la quale non può essere ri(con)dotta alla sola fase tetica, di dominio conoscitivo e verbale sulle cose e sull’alterità, dal momento che include anche pratiche pre- ed extra-verbali, cifre di una dinamica energetica e materiale della singolarità che precede ogni distinzione tra soggetto e oggetto. Tentando di catturare e trasmettere l’impressione all’interno del linguaggio, di afferrare cioè l’inafferrabile, Proust ci comunica o, meglio, ci rende partecipi di una realtà che non è propriamente soggettiva, ma è quella dell’essere stesso, in quanto esperienza che giunge all’essenza stessa delle cose. Se quest’ultima, infatti, non si rivela attraverso la percezione della realtà presente, sarà allora l’immaginazione, sempre alla ricerca di ciò che è assente, a poterne godere, a costituire «il solo organo di cui [si dispone] per godere della bellezza»[5]. Tuttavia, ciò che l’esperienza impressionistica proustiana rivela è che la legge inderogabile secondo la quale si può immaginare solo ciò che è assente può essere sospesa, neutralizzata – o meglio, si potrebbe dire in prossimità alle riflessioni di Merleau-Ponty, ciò che si rivela è che una tale assenza di cui l’immaginazione sa e può godere non è mai scissa rispetto alla presenza stessa, ma che vi è piuttosto sempre una “zona” di invisibile all’interno del visibile. In ogni percezione e impressione attuale, pertanto, convivono tracce di rappresentazioni, immagini, impressioni diverse o simili appartenenti a un tempo passato e sedimentatesi in noi, divenute “immateriali” pur restando intatte nella loro concretezza.

Circondata da questa trama di pensieri privi di parole, di “ripresentazioni” più che di rappresentazioni, «la percezione si estende, lacerata, tra un mondo presente e un Sé storico, per dispiegarsi in quanto risolutamente “soggettiva e incomunicabile”»[6]. Gli oggetti delle nostre percezioni si rivelano così irriducibili alla mera concettualità, all’essere semplici referenti esterni delle nostre attività di denotazione e categorizzazione, per rivelarsi dotati piuttosto di una loro stessa “anima” inevitabilmente legata alla nostra, intrisi cioè di sensorialità, colmi di rimandi a oggetti e sensazioni differenti. Essendo, quindi, ogni esperienza sensibile, corporea, sempre già immessa e tendente in e verso l’ordine della significazione, i campi del pensiero e del sensibile si rivelano legati come vasi comunicanti, in un continuo entre-deux tra momento intuitivo (della sensazione sempre già avvertita, registrata) e momento analitico (di approfondimento della stessa); un entre-deux qui coincidente con la vita in atto, vissuta e riversata in quanto tale, da parte dell’autore come del Narratore, nella scrittura, la quale viene così destinata a una continua espansione.

Una polifonia sensoriale: linguaggio e tempo sensibile

Ma seguiamo, ora, il percorso che Kristeva dispiega per giungere alla formulazione di quella che ritiene essere la “chiave alchemica” dell’opera proustiana: il “tempo sensibile”. Svolgendo una ricostruzione della genesi dell’opera al fine di affermare la necessità del lutto, della perdita del “materno”, per poi ritrovarlo, attraverso l’apertura al simbolico, all’interno della scrittura, la filosofa mostra come il tempo proustiano si risolva in spazio, potendo essere ritrovato unicamente nello spazio dell’opera: è solo scendendo nel profondo della propria interiorità, per ritrovare le tracce che il mondo, le persone, gli altri esseri hanno lasciato in noi, che l’opera potrà compiersi e trovare la propria forma, forma che coinciderà con quella già avvertita dal Narratore nella chiesa di Combray – la forma stessa del Tempo.

Paragonabile all’opera dei pittori, il libro sarà una «trascrizione» del mondo reso alle sue cause, alle sue origini. Per realizzare questa fedeltà, occorre fuggire i simulacri, non accontentarsi delle apparenze, toccare un posto essenziale […]. Attraversando il mondo e gli altri, per ritrovarne il posto all’interno dell’Io conflittuale, l’opera rivela «un posto in continua crescita nel Tempo, tutti lo sentono». […] Questo “posto in continua crescita”, sentito, inaccessibile forse, ma costantemente promesso perché sempre preceduto da una preposizione destinataria, “à là”, per restare aperto, incompiuto nella rivoluzione dei diversi Io della soggettività – è il “tempo incorporato”. Il tempo di tutte le nostre sensazioni riflesse che annodano la soggettività al mondo esteriore e rivelano i suoni al di sotto delle maschere[7].

Ciò su cui Kristeva si sofferma, e che viene confermato dalle pagine finali della Recherche, è dunque la coincidenza che viene a rivelarsi tra la soggettività e il tempo stesso – ossia l’essere, la soggettività situata innanzitutto a livello della sensibilità e delle impressioni che si sedimentano in noi, nient’altro che tempo. È infatti nello stesso esistere, nell’alternarsi di sensazioni e cambiamenti sentiti e avvertiti anzitutto a livello patico, che la soggettività si scopre tempo – tempo che perde, che lascia dietro di sé come sua stessa sostanza, ma che sempre, al contempo, si conserva e ritrova in sé stessa, poiché neppure per un momento la molteplicità degli Io che la compongono consente un «riposo di non esistere, di non pensare, di non avere coscienza di me» (essi ne affermano anzi l’unità nella continua autoaffezione originaria di ogni nostra esperienza). E proprio sul concetto di esperienza Kristeva ritiene opportuno soffermarsi, poiché è nei termini di un’esperienza stessa che va letta la scrittura, ma anche la lettura, di À la recherche du temps perdu. Ex-per-ire: ogni esperienza si configura come un attraversamento, un venire o uscire “da”, per andare “verso” altro – ragion per cui essa comporta una «compresenza con la pienezza dell’Essere», un’«apertura all’altro che mi esalta o mi destabilizza».

L’esperienza fa scaturire un nuovo oggetto: afferramento immediato. Sorgimento improvviso, folgorante (Erlebnis), essa diviene in un secondo tempo conoscenza di quest’ultimo, sapere paziente (Erfahrung) […]. Culminando nelle riflessioni di Hegel e di Heidegger, la filosofia ha tracciato queste tappe dell’esperienza delle quali è la seconda (la conoscenza) ad assorbire la prima (il momento iniziale) in modo tale che quest’ultima, supponendo che la si possa isolare in una sfera a sé stante, si ritroverebbe ad essere un puro niente[8].

È attraverso l’esperienza che ogni processo di soggettivazione, di sviluppo e crescita del Sé, può aver luogo: l’incontro con l’altro costituisce l’irrompere di un cambiamento che ci destabilizza, e la cui immediatezza viene, solo in un secondo momento, mediata attraverso una negazione che, in termini hegeliani, è sempre “determinata”. Tuttavia, la tradizione filosofica occidentale e la preminenza in essa di un ego trascendentale non ha fatto che operare un torto nei confronti del momento “iniziale” dell’esperienza stessa, ossia della dimensione dell’aisthesis, di una presentazione sempre già risolta e messa a tacere all’interno della rappresentazione. È insomma «“l’esperienza” meno propriamente detta (il πάθος, l’affectio, l’Erlebnis)» – quella che «costituisce di quel processo il momento iniziale, la vivente vita nel suo primo farsi vita vissuta», «la polarità dell’affettivo»[9] – ad esser messa a tacere dall’«“esperienza” propriamente detta (ἐμπειρία, experientia, Erfahrung)», quella che «rappresenta il culmine del processo di presa di contatto diretta dell’uomo con le cose» e che dunque «occupa la polarità del cognitivo», «il gioco dei “significati”»[10]. Rispetto a ciò, Kristeva ritrova però un’altra prospettiva all’interno del testo proustiano:

L’esperienza proustiana ha questo di particolare: che l’immediatezza di quel primo sorgimento è sempre doppia: due spazi, due tempi, due sensazioni si mescolano nel desiderio del narratore, che appare come una condensazione metaforica originaria. Come se la prima parola fosse già immediatamente un’analogia. In questa scorciatoia, il tempo si apre, ma esso è anche fermo. […] L’immediato non svanisce per questo, ma viene “gonfiato” in maniera smisurata. Quanto al tempo continuo dei frammenti della trama, continuando a raccontare storie, esso resta preso nella tenaglia di questa metafora immediata che lo sottrae alla durata e gli conferisce il bagliore di un “puro tempo”[11].

Metafora, sdoppiamento, analogia originaria: l’immediato, la dimensione dell’incontro sensibile trova, in Proust, sempre un proprio “doppio”, si “irrobustisce”, e il tratto temporale fulmineo e improvviso dell’incontro subisce come una dilatazione, si apre pur restando fermo in sé; si potrebbe allora dire che, nella scrittura proustiana, sia la dimensione del patico, del sensus sui, della radice del senso di ogni esperienza, a essere riconsiderata in quanto tale e ad essere condotta, attraverso una tale dilatazione, verso la sfera della significazione, verso l’espressione di un senso che è sempre già presente, come in latenza, all’interno della sfera dell’aisthesis. Ogni esperienza non può, dunque, che comporsi di entrambi i momenti, ed è a questa perenne tensione che la filosofa si riferisce quando scrive che l’esperienza «avviene, o si prova, come una conversione», che «marca un trait d’union fragile, doloroso e gioioso dal corpo all’idea, che rende caduche tali distinzioni»[12].

È in riferimento a questo che Kristeva può parlare della scrittura proustiana nei termini di un’“esperienza” e di una “transustanziazione”. Corpo e idea, senso e significato, pulsioni e discorso sono inscindibili nonostante lo scarto che vi si frappone, ragion per cui un vero percorso di soggettivazione non può che avvenire in una costante negoziazione dei due poli e nel riconoscimento di un’economia del soggetto altra ed eterogenea rispetto al discorso e alla legge del simbolico, della presenza cioè di una negatività e di forze eterogenee alla coscienza che disturbano e irrompono anche nell’orizzonte linguistico e culturale, segnando l’impossibilità di una rappresentazione totalitaria e omogenea del soggetto della conoscenza. Il riconoscimento di un tale registro, tuttavia, non può che avvenire all’interno dello stesso ordine linguistico; anche il linguaggio, pertanto, non può che rinunciare alla propria assolutizzazione e alla pretesa di un discorso monolitico, per farsi esso stesso eterogeneo e per accogliere in sé quella sfera pulsionale e affettiva, insieme di operazioni preverbali e forze magmatiche appartenenti alla dimensione più profonda di ogni esistenza. Assorbendo e ospitando in sé la “materialità” di tali energie, la parola apre uno spazio altro all’interno dell’ordine linguistico e inaugura la possibilità di un nuovo legame tra simbolico e immaginario, attraverso un tratto sublimatorio che andrà a caratterizzare ogni esperienza artistica e, in particolar modo, il linguaggio poetico in quanto scrittura capace di transustanziazione.

La memoria ritrova, al di sotto delle idee e delle parole, la forza opaca di uno choc sensoriale che immerge l’essere parlante nell’Essere, inglobando in tal modo l’universo nell’immaginario soggettivo. L’arte della metafora e della frase consisterà nel trasmettere questo accesso, questa adesione ai confini dell’ontologico, la comunione della psiche con il mondo: l’esterno reinvestito nella propria interiorità che ne gode per parlarne. Simultaneamente all’incorporazione immaginativa del mondo, a quest’assorbimento dell’ontologico, Proust dona il suo corpo alla letteratura e, attraverso questa, al mondo […][13].

Ricavato dall’ambito della teologia cattolica, in cui indica quel processo alchemico che ha luogo nel momento dell’eucaristia attraverso il quale il pane e il vino, pur mantenendo la loro specie, diventano – mediante la parola – nella sostanza il corpo e il sangue di Cristo, il concetto di transustanziazione viene ripreso dalla nostra autrice in riferimento a quel tipo di scrittura composta da parole “sensuali” e immagini intrise di sensorialità, in grado di assorbire il lettore coinvolgendolo in tutto il corpo e nella pienezza dei suoi sensi, conducendolo in una vera e propria realtà sensibile che abita il testo come una sorta di nucleo invisibile presente nel visibile della trama.

Vi è una sorta di conversione dal mondo alla parola, e viceversa; ma, nel caso di Proust, la filosofa parla in effetti di una “doppia transustanziazione”: lo scrittore si fa soggetto di una pratica quasi estenuante, di una vera e propria esperienza letteraria condotta ai limiti del sacrificio. Avendo già vissuto a pieno contatto con il reale, Proust, dall’interno della sua camera, offre nuovamente tutto sé stesso, il suo corpo e i suoi sensi, al mondo esterno, dando vita a un’«incorporazione immaginativa del mondo», ritrovando intatta quella capacità di identificarsi con l’altro, con le cose, in una flessibilità che si riverbera nel linguaggio e che scopre, in esso, la possibilità di un intreccio nuovo e autentico tra l’idea, il simbolo, la parola da un lato, e il corpo, la carne, l’Essere stesso, dall’altro. Ritrovando il mondo all’interno dello spazio immaginario dell’opera e risvegliando il contatto con esso, conducendo la memoria stessa nelle “viscere” di ogni impatto sensoriale, lo scrittore dona, al contempo, il suo stesso corpo alla letteratura, per tornare a donarsi al mondo attraverso l’opera, e ciò in un duplice senso: da un lato, perché è attraverso la scrittura, il distacco necessario alla presa di parola, che l’autore può raggiungere la pienezza di ogni esperienza, il sapere di sapori lasciati sospesi nel passato e ora ritrovati, andando dal corpo all’idea; dall’altro, perché è attraverso il testo che Proust potrà risorgere, poiché ogni lettore della Recherche, nell’esperienza di lettura, non potrà che incontrarvi la corporeità dell’autore, la dimensione più intima qui incarnata, in un percorso simmetrico che va dalla parola al corpo. Il mondo, perciò, riscoperto nell’interiorità dell’autore e reinvestito dal suo interno, a partire dalle sue sensazioni, diventa carne, viene assorbito dalla corporeità dello scrittore e, attraverso questa, incorporato all’interno del testo: la carne si fa Verbo e, viceversa, il Verbo si fa carne, trasuda materialità, e ogni dicotomia tra i due poli non ha qui motivo di esistere. Arrivando a coincidere con la pienezza del reale, una tale scrittura sembra cancellare qualsiasi distinzione tra lo scrittore, la carne del mondo e le parole; come scrive Kristeva a proposito di Colette e potendo riferirlo anche a Proust: «L’alfabeto scrive il mondo, e il mondo esiste attraverso l’alfabeto: scrittura e mondo coesistono come due aspetti di un’unica esperienza per colei [o “colui”] che scrive in queste condizioni di trasporto febbrile che sfida la lingua»[14].

In questo modo, pur dando vita a un immaginario soggettivo, l’opera d’arte acquisisce uno statuto ontologico: in questo continuo viaggio di andata e ritorno dalle parole alle percezioni, dal corpo ai segni e viceversa, lo scrittore «è nell’Essere stesso, non solo nel significante»[15]. Non vi è un essere preesistente all’opera, bensì è la creazione artistica a fondarlo e a ricrearne la pienezza all’interno delle parole. E in ciò, chiaramente, un’importanza fondamentale è rivestita anche dal ruolo del tempo: la scrittura proustiana, legata all’attivazione della memoria e alla sfera della corporeità, dà vita a una condensazione di tempi, raccoglie la frammentarietà di temporalità disparate. Pertanto, la nozione di “transustanziazione” può ben riferirsi non solo al passaggio alchemico dal segno alla sensazione e viceversa, ma anche al fatto che, così come nel sacramento, ovvero nel “qui e ora” dell’eucaristia, viene “ripresentato” – più che rappresentato – l’evento stesso della morte e della resurrezione di Cristo, incarnando il passato all’interno del momento presente; ugualmente, in Proust, viene restituita e con la stessa forza di “ripresentazione” la sfera più intima, l’intensa sensorialità dell’autore, incarnando i ricordi e le impressioni passate all’interno del vissuto presente. Il tempo stesso, allora, si fa corpo, il corpo si fa scrittura, e quest’ultima, coincidente ormai con il tempo e lo spazio e inaugurando un tempo che si fa “sensibile”, risulta intrisa della pienezza dell’Essere e inaugura nel lettore stesso un coinvolgimento di tale intensità. Si tratterà, allora, di una scrittura poetica-poietica, che non tradisce né perde la dimensione impressionistica e affettiva ma, nel portarla nell’ordine del simbolico, è in grado al contempo di riviverla, riassaporarla, in un movimento “al limite” e in un sapere-sapore “del limite” stesso, di ciò che si situa ai confini dell’esprimibile e che, nel portarsi all’espressione, spinge il linguaggio a superare i suoi stessi limiti, a riscoprire in sé stesso quell’eterogeneità da cui inevitabilmente prende le mosse e che sempre continua ad animarlo.

(In)attualità di Proust

«La nostra personalità sociale non è altro che una creazione del pensiero altrui»[16]: è attraverso quest’affermazione che può essere sintetizzato “l’altro lato” del dialogo filosofico che l’opera proustiana sembra intrattenere, in particolar modo, con due correnti di pensiero quali la riflessione di Schopenhauer e le lucide analisi della società condotte da Gabriel Tarde. Se, infatti, una concezione teleologica ed essenzialista dell’arte non può che richiamare la filosofia di Schopenhauer come si diffonde in Francia a partire dal 1880, è lo studio dei personaggi proustiani – della posizione dell’autore-Narratore rispetto ad essi e alla società che restituisce a noi lettori – e del legame sociale così come in essa viene affermandosi che conduce Kristeva a riconoscere un’innegabile vicinanza fra le pagine proustiane e i tratti principali della riflessione filosofica e sociologica di Gabriel Tarde.

Discendenti del Grand Siècle, i personaggi di Proust sembrano già orientarsi verso quella società dello spettacolo che caratterizza il nostro tempo: il carattere compatto e identitario del personaggio, portatore di precisi valori, raggiunge qui l’apice della propria frantumazione. La statua diviene mera proiezione, il personnage si risolve in personne, in nessuno in quanto tale, o forse in “tanti”, componendosi di tanti aspetti “scuciti” altrove e “ricuciti” su di esso, di parole, pensieri, sensazioni e impressioni che non provengono se non dal Narratore stesso. Non vi è alcuna compattezza, qui, alcuna unità se non quella che la memoria, il tempo sensibile incorporato nell’opera può donar loro; l’esempio più significativo di tale meccanismo ci è fornito dall’esperienza dell’amore, dalla molteplicità dell’essere amato che soltanto attraverso il fantasma, il ricamo immaginifico che l’amante vi tesse intorno, può acquisire solidità, un aspetto definito che lo renderà unico ai nostri occhi e al nostro cuore.

Swann è un personaggio? È un solo personaggio? E Odette? Crediamo di no, loro stessi credono di no, piuttosto si trasformano, si degradano. L’unicità stessa del personaggio, ad esempio Albertine, si sbriciola in molteplici tratti. E le sue caratteristiche si ricongiungono unicamente nel discorso febbricitante del narratore innamorato […][17].

Ma lo stesso processo di sfaldamento attraversa il cuore della società: la compattezza che, un tempo, sembrava caratterizzare quest’ultima arriva anch’essa a sgretolarsi, fino a rivelare il carattere illusorio della sfera sociale e di ogni presunto legame che si rivela fondato unicamente sull’imitazione, sull’ipnosi.

Il narratore attraversa una mondanità vacillante – rispetto alla quale già Il nipote di Rameau aveva segnalato come nessuno, qui, occupi un posto, come tutti non facciano altro che assumere delle posture – e si rifugia nell’esperienza del tempo incorporato. Gli altri, nei rari momenti di intermittenza del cuore, sono dei personaggi[18].

Se l’aspetto sociale e psicologico di ogni personaggio comincia a vacillare, saranno il tempo ritrovato e la passione che li trascende a donargli nuovamente una sostanza, la solidità di un carattere. Rispetto al movimento caleidoscopico e al carattere frammentario della mondanità e della sfera sociale, dove persino la logica dell’appartenenza, dell’“essere” o “non essere” parte di un clan, di una fazione, di un gruppo, rivela la propria fragilità attraverso continue trasformazioni, rovesci e transizioni, il Narratore assume una postura peculiare, restandone al contempo “fuori” e “dentro”, rifiutando qualsiasi appartenenza e mantenendo in tal modo la capacità di osservare e prevedere i diversi aspetti, i diversi comportamenti e le posture che di volta in volta assumono i caratteri.

Un tale fattore, come accennavamo, avvicina le pagine proustiane alle riflessioni di Tarde, la cui sociologia va a inquadrare la società come un fatto culturale, una sorta di cerimonia fatta di riti, convenzioni, imitazioni e suggestioni, e i cui protagonisti sono come manipolati e guidati da una logica trascendente e difficile da padroneggiare, in grado di risvegliare e compiacere i loro stati più regressivi. Il pensiero di Tarde getta luce proprio sul carattere gregario degli insiemi sociali, fondati su un rapporto imitativo fra l’Io e l’altro da sé, così come su un bisogno di credere soddisfatto dalle più svariate manipolazioni ideologiche e religiose; e su una sorta di sonnambulismo generalizzato – di caos, di movimenti, impulsi, bisogni impellenti secondo i quali le masse agiscono e si muovono.

Essendo direzionato, l’individuo, tanto da ciò che riceve in eredità quanto da questo bisogno di credere e di “essere come”, appare chiaro come la libertà potrà essere raggiunta soltanto in una dis-assimilazione rispetto al gruppo. L’irrisorio e grottesco mimetismo dominante nel Faubourg Saint-Germain può, allora, essere restituito e dipinto, con ironia ed estrema lucidità, soltanto da chi è in grado di sfuggire ai suoi retaggi, vale a dire proprio dalla figura dell’artista così come intesa da Proust, in quanto separata dall’uomo sociale che egli pur sempre è, e che può esserne irretito: tra ingenuità e ironia, il Narratore si situa ai margini della società, ne resta in parte estraneo per riuscire a vederla così com’è davvero, ovvero come un che di falso, di costruito.

Ma vi è un aspetto del pensiero di Tarde da mettere in ulteriore rilievo: ponendosi agli antipodi di un determinato tipo di scienza sociale fermamente convinta sia di un’evoluzione della società basata su leggi ineluttabili sia dell’essere, ogni avvenimento storico, frutto necessario di forze e movimenti impersonali, quasi meccanici, Tarde trova all’origine di ogni corrente, che pur sempre attraversa le società umane, un impulso individuale, così come la presenza dello stesso genere di leggi che caratterizzano lo sviluppo del carattere di ogni singolo individuo. Così come ogni singolarità acquisisce, nel corso dell’educazione, determinati comportamenti e posture che si ripetono e si copiano fino a divenire un’abitudine, analogamente ogni azione del singolo che ricade nella sfera sociale darà inevitabilmente luogo a una serie di riprese, modifiche e imitazioni. L’individuo, pertanto, si riscopre inventore e imitatore, e nel rivelare quanto l’evoluzione e gli sviluppi della società debbano a pensieri e volontà di singoli caratteri, la filosofia di Tarde non può che incoraggiare un sentimento di solidarietà tra gli attori della commedia umana, oltre che risvegliare all’interno di ognuno un lucido riconoscimento della nostra responsabilità nei confronti degli altri.

Concentrandosi dunque sull’elemento individuale, sul dettaglio, per poter spiegare così l’insieme, Tarde ci restituisce una visione del fatto sociale non come un dato necessario e a sé stante, ma come avente alle spalle una condensazione di azioni, affetti, credenze, iniziative individuali; in più, la concezione tardiana della sfera sociale viene a collocarsi al di qua di qualsiasi possibile contratto o accordo stipulato da individui già autonomi e pienamente razionali. Riconoscendo piuttosto l’elemento della credenza come «né logicamente né psicologicamente posteriore alle sensazioni»; ritenendo che, «lungi dal nascere dall’aggregazione delle sensazioni, sia indispensabile alla loro formazione, così come al loro raggrupparsi»[19], Tarde ci presenta la ricchezza della sfera sociale antecedente a ogni possibile presa di decisione, e ogni “uguaglianza” tale in quanto stabilita, frutto di un accordo. Al di qua della dimensione contrattuale si situa questa sorta di contagio, di tensione imitativa che, lungi dall’essere un che di consapevole e frutto dell’esercizio intellettivo, non può che sorgere e passare da e attraverso il corpo stesso, la visione e la relazione del e con l’altro.

La società avviene grazie a tale imitazione, prima unilaterale e circoscritta, poi via via sempre più reciproca e allargata, imitazione che sta prima di qualsivoglia convenzione, la quale viene semmai solo a siglare certi aspetti parziali della vita associata. Il contratto non può esaurire la molteplice ricchezza della nostra vita, fatta di legami e di sguardi, di credenze e desideri […][20].

Più che di una fondazione o costituzione della società, si dovrà parlare di fatto di una sua “istituzione”, di un suo aver luogo a partire dalle azioni individuali e al contempo comuni delle diverse soggettività; di un prender forma in e attraverso il singolo soggetto, che andrà a individualizzarsi e a formarsi come tale solo attraverso la relazione all’altro, all’esterno, solo all’interno della società e delle correnti imitative e di credenze che la attraversano.

All’origine della società vi è, quindi, la differenza, l’azione singolare che sorge da riprese e modifiche di azioni di altri, e che sarà a sua volta oggetto di ripetizioni, imitazioni e modifiche. L’aspetto più grottesco della società proustiana, il mimetismo caratterizzante tanto la media borghesia quanto la più alta aristocrazia parigina, i tragici rovesciamenti e le trasformazioni interne alle classi sociali arrivano, quindi, a confermare tutto ciò e a rivelarci il carattere irrisorio di qualsiasi presunta originaria appartenenza. In luogo di un “universale” preesistente e stabilito al di là delle manifestazioni particolari, quello di Tarde può essere allora inteso come un “generale” avente luogo in e attraverso le stesse individualità, attraverso le diverse azioni singolari, ripetute e a loro volta potenzialmente riprese da altri.

Al termine dell’opera, in una società sconvolta e modificata dalla guerra e dal ribaltamento delle classi sociali, i caratteri proustiani non possono, dunque, che riconoscersi nelle loro singole differenze, in assenza di ogni stabile e duratura appartenenza a un determinato clan, a una determinata classe sociale, a un determinato ruolo o maschera che si rivela temporanea, effimera, costruita; e, se è in questo implicarsi di differenze che si riconosce il loro tratto comune, quest’ultimo non potrà che evidenziarsi dal ritrovarsi, le diverse singolarità, tutte ugualmente corrose dal Tempo, «giganti immersi negli anni», «come esseri che occupano un posto così considerevole accanto a quello così angusto che è riservato loro nello spazio, un posto, al contrario, prolungato a dismisura poiché toccano simultaneamente […] periodi vissuti da loro a tanta distanza e fra cui tanti giorni si sono depositati – nel Tempo»[21].

Tornando alla lettura kristeviana, è questa congiunzione tra le correnti filosofiche di Schopenhauer e di Tarde a rendere l’opera proustiana quanto mai attuale e vicina agli stessi tempi odierni. Se la ricchezza metaforica e frastica presente al suo interno si fa traccia di una sintonia tra il Narratore e l’Essere, la dinamica sociale e il gioco dei personaggi va, invece, a deludere le nostre aspirazioni e la fiducia in valori sociali forti e concreti. Rispetto a ciò, il sacro sembra allora risiedere soltanto nell’arte, la quale è, sì, estranea alla dimensione sociale, ma necessariamente la attraversa nel tentativo di attingere e restituire l’essenza del reale, sublimandola e inquadrandola nel campo dell’immaginario.

Nel suo faccia a faccia con la volontà del mondo, il soggetto apre i suoi limiti, si impregna delle cose e delle persone, e aspirando ad afferrarle, si sente da parte a parte immerso in loro. L’impressione immaginaria di far tutt’uno con l’Essere come volontà si fonda sull’identificazione proiettiva, utilizzando le latenze paranoiche della persona. Ma essa le stabilizza e le sublima inquadrandole precisamente nel campo dell’immaginario. Vi privilegia lo choc sensoriale e psichico con la natura, prende sul serio l’esperienza percettiva o l’erotismo. Ma circoscrive anche i benefici mondani, così come le ferite narcisistiche che procura un lutto sociale, come anche altrettanti fenomeni gratuiti[22].

Ed è qui che il pensiero kristeviano sfocia nell’attualità: nel rinunciare a questo contatto con l’Essere, nel rendersi soltanto volontà di potenza sociale, la ricerca del piacere si lascia alle spalle ogni possibilità di una rinascita del soggetto il quale, fermo alla superficie delle esperienze, sempre più lontano dalla propria interiorità, si riduce a mero elemento di una struttura, a un insieme di forze produttive, in balìa del capitale e del dominio odierno delle immagini. In seguito agli estremismi e al Terrore nato dalla Rivoluzione francese, gli stessi successori tedeschi del romanticismo hanno ridotto l’Essere alla società e l’esperienza alla sola esperienza sociale, all’interno della quale il soggetto si situa come dominante o dominato, signore o servo.

Dal terreno romantico di una natura naturans o di un Essere comune di cui si è parte, la ricerca di piacere ha assunto la forma di una volontà di potenza e di dominio sugli altri e sulla natura stessa, alla base dei diversi totalitarismi e delle guerre che hanno segnato il nostro secolo. All’interno di questo orizzonte, allora, che ruolo può ancora avere l’arte, in particolare la letteratura? Se la religione o l’analisi fenomenologica hanno talvolta cercato di occupare l’altro piatto della bilancia, quello di un lato metafisico in contrapposizione all’assoluta potenza della religione sociale e politica, il mantenimento di un tale equilibrio è in realtà una sfida ardua, per la quale, tuttavia, forse l’opera proustiana è in grado di fornirci strumenti:

mantenerci lucidi fino all’ironia nei confronti dell’Opinione, pur lasciandoci immersi negli zampilli dell’Essere? Con lui, il tempo della storia non ci sfugge, ma è futile. Ciononostante, abbiamo tutto lo spazio dell’extra-temporale per gioire di queste reminescenze sensoriali che ci fanno perdere i nostri contorni e ci consentono di raggiungere quel bagliore[23].

  1. Per un maggiore approfondimento, si veda F. C. Papparo, Il giardino interminato (nei dintorni dell’Io), Napoli, Orthotes, 2020, in particolare il capitolo cinque.
  2. J. Kristeva, Le temps sensible, Paris, Gallimard, 1994, p. 38.
  3. Ivi, p. 291
  4. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, trad. it. di G. Raboni, Milano, Mondadori, 2018, vol. VII, Il tempo ritrovato, p. 1955.
  5. Ivi, p. 1942
  6. J. Kristeva, Le temps sensible, op. cit., pp. 349-50.
  7. Ivi, pp. 334-35.
  8. Ivi, pp. 338-39.
  9. A. Masullo, Il tempo e la grazia. Per un’etica attiva della salvezza, Roma, Donzelli, 1995, p. 11.
  10. Ibidem.
  11. J. Kristeva, Le temps sensible, op. cit., pp. 339-40.
  12. Ibidem.
  13. Ivi, pp. 340-41.
  14. J. Kristeva, Le Génie féminin. III, Paris, Gallimard, 1999; trad. it. di M. Guerra Colette. Vita d’una donna, Roma, Donzelli, 2004, p. 4.
  15. R. M. Guberman, Julia Kristeva Interviews, New York, Columbia University Press, 1996, p. 109.
  16. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, op. cit., vol. I, Dalla parte di Swann, p. 16.
  17. J. Kristeva, Le temps sensible, op. cit., p. 237.
  18. Ivi, p. 238.
  19. G. Tarde, Credenza e desiderio, a cura di F. C. Papparo e S. Prinzi, Napoli, Cronopio, 2012, p. 31.
  20. S. Prinzi, Perché Tarde, in Gabriel Tarde. Sociologia, psicologia, filosofia, a cura di S. Prinzi, Napoli, Orthotes, 2016, p. 46.
  21. M. Proust, Il tempo ritrovato, op. cit., p. 2058.
  22. J. Kristeva, Le temps sensible, op. cit., p. 466.
  23. Ivi, p. 468.

(fasc. 46, 30 dicembre 2022)