Morselli e Proust: un confronto sul sentimento

Author di Maria Panetta

Dopo uno studio preliminare durato all’incirca un decennio (dal 1922 al 1932)[1], nell’agosto del 1943 Guido Morselli pubblica il primo saggio di una certa ampiezza, Proust o del sentimento[2]. Concluso nel maggio del 1942, edito da Garzanti con una prefazione di Antonio Banfi[3] e definito dall’autore, nelle pagine introduttive, una sorta di «guida»[4] alla Recherche[5], il volume è da leggere, a parere di chi scrive, soprattutto come una prima formulazione della poetica del Morselli scrittore.

Nell’aprile del 1943, il bolognese di adozione varesina è in esilio militare in Calabria (rimane a Catanzaro come ufficiale dall’inverno del 1943 al giugno del 1945) e scrive al padre tre lettere che gettano luce sulla vicenda editoriale dell’opera: nella prima spiega al genitore che le alternative per la pubblicazione del saggio sono due, ovvero Mondadori (ipotesi rispetto alla quale rivela di essere «del parere di attendere a dare una risposta definitiva»[6]) e Garzanti, soluzione che in effetti preferisce sia poiché la Casa potrebbe stampare l’opera in tempi brevi sia per dimostrarsi cortese nei riguardi dell’amico Antonio Banfi, oltre che dell’editore stesso. Nella seconda missiva al genitore Morselli ribadisce la preferenza per Garzanti precedentemente annunciata e nella terza comunica di essere in attesa delle bozze di stampa, che vorrebbe rivedere in tempi molto stretti. Precisa, inoltre, di voler acquistare copie dell’opera in prima persona, nel caso Garzanti lo richieda, sottolineando di volerlo fare «di tasca mia, dato che il mestiere delle armi mi rende abbastanza»[7], sebbene alcuni critici abbiano affermato che le spese vennero sostenute dal padre Giovanni[8].

A Milano il libro viene, dunque, edito da Garzanti il 30 agosto 1943 con una prefazione di Antonio Banfi, ma Morselli si trova nell’avamposto di guerra di Timpone Mannella e commenta mestamente la congiuntura nel suo Diario, in data 21 novembre: «Mi chiedo se sia possibile desumere un orientamento […] sul senso della nostra vita, di ciò che il destino – o la Provvidenza – ci ha riservato o ci viene apprestando […]. Ad es., vi è forse sottinteso un oscuro disegno nel fatto che la mia prima opera venga in luce lontano da me e senza che io ne possa avere notizia»[9].

Come ha ricordato Valentina Fortichiari, all’uscita del volume furono pubblicate alcune recensioni assai positive[10], tra le quali una di Cenzato[11], una di Zanelli[12] e una di Ramperti, dell’aprile del 1944, che celebrava in Morselli il «giovine combattente già onoratissimo al fronte»[13], ma distintosi anche in ambito critico già per il saggio su Proust, apparsogli «la rivelazione del critico italiano, prima ancora che del romanziere francese»[14].

Assai significativo – ai nostri fini – che il volume sia preceduto, sotto il titolo, da un’epigrafe tratta da Misura per misura: «c’è come una cifra nella tua vita, / che fa leggere chiaramente all’osservatore / la tua storia»[15]. Infatti, sebbene il curatore dell’edizione Ananke del 2007, Marco Piazza, affermi che «l’interesse di queste pagine risiede tutto […] nel coraggioso tentativo di presentare una lettura organica della Recherche che ponga in primo piano i principali risvolti filosofici del romanzo e accetti, senza farsene schiacciare, il confronto con la dimensione autobiografica»[16], egli stesso individua nella scoperta e nella descrizione della nostra esperienza interiore il vero centro-obiettivo della Recherche, il nucleo teorico attorno al quale ruota il saggio di Morselli, «il punto focale intorno a cui si dispongono le sue argomentazioni, solo in apparenza eccentriche rispetto a un simile nodo e principio interpretativo, su cui peraltro Morselli costruirà la propria personale estetica, esposta di lì a poco in Realismo e fantasia e messa in opera nell’ampia produzione romanzesca concepita dopo la guerra, e apparsa dopo la sua morte»[17].

Riflettendo su quelle pagine a distanza di tempo, Morselli confessa di aver avuto qualche dubbio sull’opportunità di pubblicare un contributo nel quale «s’incontreranno riferimenti e citazioni più numerosi e diffusi che non si richieda per chi abbia compiuta conoscenza dell’argomento»[18], ma è proprio dalla scelta di quelle citazioni che il lettore può trarre fruttuose indicazioni sulla poetica del critico letterario. L’autore ammette di averlo rimaneggiato in parte, ma confessa anche di non aver «voluto togliere a questo lavoretto il suo carattere originario», rischiando di sconfessare lo scopo per il quale era stato concepito: quello di incoraggiare alla lettura o alla rilettura dell’opera di Proust.

Si ricordi che il primo accenno a Proust nel Diario morselliano risale al 24 novembre 1943 ed è, quindi, posteriore alla pubblicazione del saggio:

Il romanzo moderno, essenzialmente psicologico e introspettivo, si riallaccia meglio al tipo delle Affinità elettive goethiane e del Werther che non al filone del Richardson o a quello dello Scott. Col Werther Goethe ha fornito il primo esemplare del romanzo autobiografico; con le Wahlverwandtschaften il modello del romanzo di caratteri e di analisi. A proposito di certo prato tra due alture boscose, percorso da un sentiero, che mi apparve di sfuggita durante una passeggiata, a Varese, e mi è rimasto stranamente impresso nel ricordo. Il valore essenziale che acquistano per noi e soprattutto nel ricordo certi aspetti del paesaggio rimane affatto inesplicabile se non ammettiamo che veramente la natura è soltanto una prospettiva fatta esteriore e sensibile dalla nostra interna vita sentimentale. Quel tratto di paesaggio quegli alberi quel cielo sono in un certo istante, e si mantengono di poi, la vivente allegoria di uno stato d’animo nostro. Direi di più, che qualche volta (come nel caso di quel prato contornato dai boschi che traversai a Varese) in un aspetto della natura si esteriorizza tutto un capitolo della nostra storia (della nostra storia più vera che è quella del sentimento). Proust ha toccato di ciò nel suo libro ma attribuendo questa capacità misteriosamente allusiva a tutte in genere le sensazioni, o almeno a tutte quelle capaci di rievocare il “tempo perduto”. Ma quella è invece prerogativa delle sensazioni che ci vengono dalla natura (quando la “contempliamo” cioè quando ci accostiamo a essa liberi da interessi e fini pratici). Sicché Proust non ha còlto il fenomeno nella sua essenza, e quindi non ha potuto soffermarcisi, interpretando la natura nel suo senso profondo che non è quello di un animismo universale ma di una compenetrazione di tutte le cose nella vita del nostro essere sentimentale. […] Codesta visione qualcuno potrebbe assimilarla a una concezione idillica della natura com’è quella che si è periodicamente ripresentata nella storia dello spirito. Ma le analogie non sono che superficiali. Gli idillici di tutti i tempi si sono limitati a fare della natura uno sfondo una occasione un pretesto; tutt’al più vi cercano un contrasto alla raffinatezza di una civiltà troppo evoluta, e un rifugio alla loro stanchezza di decadenti. Ma nella fede che ci fa sentire una segreta consonanza delle cose con il nostro animo, non vi è nulla di decadente. E la natura per chi ha questa fede non fornisce semplicemente lo scenario delle nostre esercitazioni letterarie o filosofiche (gli idillici e gli arcadici sono sempre stati degli ultraintellettuali), ma è una mirabile reincarnazione dello spirito, manifestazione di un mistero a cui ci si inizia religiosamente. Chi può negare che ci sia qualche cosa di divino nelle cose quando esse si fan vive per noi e ci parlano la stessa lingua arcana del nostro sentimento?

Nell’introduzione morselliana al testo, interessante ai nostri fini è la dichiarazione che, con questo contributo, «s’interrompa il silenzio addensatosi intorno alla Recherche[19] per riprendere, sia pure con riserve, quell’interpretazione autobiografica, che proprio qui da noi è stata così autorevolmente e vivacemente combattuta»[20]. Morselli esplicita che, riesaminando la questione, gli è parso che la tesi tradizionale «meritasse di essere difesa»[21], forse anche perché «coincideva con l’impressione spontanea, acritica, che avevamo avuto sin dai primi contatti con Proust». A sostegno di questa sua posizione cita un luogo del Côté de Guermantes in cui Proust osserva che «l’attività dei critici si riduce di regola» «a capovolgere le verità riconosciute dai suoi [sic] predecessori»[22] (da notare al riguardo che, fra i sostenitori della tesi del carattere non autobiografico della Recherche, figuravano personalità del calibro di Giacomo Debenedetti[23] e Aldo Capasso[24]).

In relazione a questa breve introduzione morselliana, com’è stato giustamente evidenziato anche dai curatori dell’edizione Ananke, è assai utile ricordare l’apporto della studiosa francese Dominique Vittoz, che nel 1998[25], rifacendosi al Genette di Seuils, intendendeva la figura dell’autore come la rappresentazione che l’autore dà di sé al proprio lettore, costruzione che si esprime al meglio proprio nei paratesti. Morselli, a detta della studiosa, si dipinge come un «critico attento all’autobiografismo altrui per autobiografismo proprio»[26] e, infatti, nella Recherche coglie proprio una nozione di autobiografia come «costruzione, per mezzo della scrittura, della persona dell’autore»[27], ponendosi, di fatto, sulla stessa linea di Proust, per il quale la scrittura letteraria è in rapporto con l’io profondo dello scrittore più che con la cronaca di fatti documentabili. Al riguardo, inoltre, Francesco D’Episcopo ha sottolineato, in un saggio uscito nello stesso 1998[28], l’importanza della dedica autografa di Morselli leggibile proprio su un volume di Proust o del sentimento regalato a un commilitone durante gli anni della guerra («Ritratto di uno che mi somiglia»), commentando: «la dedica offre un suggerimento significativo per una rilettura “ritrattistica” di Proust e della sua opera, che rimuoveva la fondamentale avvertenza di Proust e dello stesso Morselli ad evitare la trappola della facile e meccanica autobiografia e a rimeditare la decisiva funzione della scrittura come catarsi»[29].

Iniziando la prima parte del suo saggio, intitolata La “Recherche e la memoria involontaria”, Morselli definisce l’opera maggiore di Proust come «il poema della memoria»[30]: non ci interessa, in questa sede, ripercorrere tutte le argomentazioni del Morselli saggista sul capolavoro proustiano, ma valorizzare quegli snodi del saggio funzionali al nostro discorso. Pertanto, come anticipato, ci si soffermerà, in particolare, sui passaggi-chiave del testo utili a comprendere come Morselli, trattando dell’amato Proust e della Recherche, stia, in realtà, precipuamente delineando la propria poetica.

Il saggio, com’è noto, è suddiviso in due parti: la prima è dedicata alla memoria involontaria, ovvero alla casuale rievocazione di una sensazione passata per la quale è necessaria una condizione favorevole di isolamento e di intimità con sé stessi; la seconda, al sentimento.

Per Morselli, il merito di Proust non è solo quello di aver «fatto della memoria il primo motore della vita psichica»[31], ma la sua originalità consiste «nella maniera onde alla memoria egli attinge, e nell’aver fatto materia d’arte di quel suo procedimento»[32]. Secondo Morselli, infatti, le pagine più poetiche di Proust sono quelle che non descrivono il contenuto del ricordo, ma «come questo sia sorto in lui dall’inconscio»[33]; a suo dire, quale discendente di Montaigne (dei cui Saggi Morselli fece una lettura approfondita nel 1959 e nel 1967)[34], Descartes, Bayle, «non esita a sacrificare le funzioni volitive e razionali all’esaltazione della sfera emotiva: dichiara anzi l’insufficienza, la superficialità della ragione dell’intelligenza della cultura»[35]. Secondo il Proust di Morselli, è solo accostandoci, nell’intimo del nostro essere, «alle fonti di una conoscenza ingenua e irriflessa» che riusciremo a toccare l’«“essenza delle cose”, l’unica verace realtà», che ci si rivela soprattutto nel ricordo. Conoscere e conoscersi significa, infatti, ricordare, attingere a quella “memoria involontaria” che riesce a fondere in sé senso e sentimento. Come ha rilevato Simona Costa, nel precedente passaggio è enucleato

uno dei temi più cari a Morselli, il rapporto potenzialmente sussistente fra l’uomo e gli oggetti, rapporto poi ribadito a Leitmotiv, fin nei termini di “animismo”, non solo nei dialoghi di Realismo e fantasia, ma anche nelle pagine di Un dramma borghese. Il tema del nostro legame con le cose, sancito dalla memoria involontaria che custodisce le sensazioni smarrite alla coscienza e indissolubilmente legate a luoghi e oggetti d’un tempo, è dunque il cardine lungo cui Morselli imposta la sua indagine proustiana, ritmata su un recupero del passato mediato da una non materiale, ma spirituale prossimità[36].

Secondo Morselli, i critici che si sono occupati della Recherche hanno, in genere, peccato nel non aver cercato di desumere un criterio interpretativo generale dell’opera: si sono, però, distinti i “proustisti” italiani, che hanno ispirato i loro contributi a tale esigenza unitaria, che si rifaceva alla forma mentis desanctisiana, tesi – questa – ripresa dalla citata monografia del 1935 di Aldo Capasso su Proust. E al riguardo risulterebbe assai interessante approfondire l’influenza dell’estetica crociana, più ancora che di De Sanctis, sulle valutazioni critiche di Capasso e dello stesso Debenedetti sull’argomento[37]. Nonché sullo stesso Morselli, che comunque a propria volta precisa che il critico «non può restringersi a esaminare separatamente i luoghi salienti del libro, isolandoli, sia pure per esaltarne i poetici pregi»[38], ma deve ricostruirne l’«intimo nesso, che Proust non ci dichiara, e che tocca a noi mettere in luce»[39]. «E non si vuol negare che quello di tenersi bene accosto all’autore sia scrupolo encomiabile da parte del critico. Ma Proust, nella Recherche, ama qualche volta circondarsi di oscurità»[40], commenta l’autore, fornendo un ulteriore suggerimento preziosissimo ai suoi futuri esegeti: «avviene che ci lasci perplessi proprio sul significato di quei luoghi di cui ci fa intuire l’importanza capitale, e che affidi alla nostra perspicacia di scoprire il legame che li unisce tra loro e con l’intero svolgimento del racconto».

Significativo appare anche il fatto che Morselli includa Proust nel novero dei «molti “incompresi” letterari»[41], ed è ancora più sorprendente (a tale altezza temporale) questa definizione, se la si legge alla luce della successiva vicenda editoriale di Morselli stesso. Altrettanto significativa risulta la chiusa del paragrafo primo della Prima parte, in cui Morselli precisa che solo chi avrà risolto l’intero problema interpretativo sotteso alla Recherche potrà fornire una valutazione estetica dell’opera che vada oltre la superficie, ma al contempo ritiene che non sia nemmeno «augurabile»[42] che qualcuno riesca a «dare ordine e legge definitivi a quel vasto microcosmo che è la Recherche proustiana», facendo balenare, in tale ammissione, una concezione dell’arte secondo la quale la grande opera letteraria sempre, in qualche modo, sfugge alla piena comprensione e impedisce la puntuale illustrazione da parte del critico. E, allo stesso tempo, facendo emergere una sostanziale “sfiducia” nella possibilità della critica letteraria di penetrare completamente il senso di un’opera, forse proprio perché essa fa leva più che altro sulla capacità dell’interprete di interagire razionalmente con l’opera stessa, laddove specie il capolavoro proustiano procede perlopiù in base a “logiche” che d’intellettuale o cerebrale hanno ben poco.

La novità di Proust, ribadisce Morselli, consiste nella sua analisi della cosiddetta memoria involontaria e nell’importanza che egli le attribuisce nel corso della sua opera. In primo luogo, lo scrittore francese stabilisce che le impressioni che risorgono in virtù della memoria passiva sono «senza confronto più vicine alla realtà di ciò che noi abbiamo provato, che non siano le smorte, sommarie immagini che ne serbiamo nella memoria normale»[43], perché riportano alla coscienza sia la sensazione che ha innescato la rievocazione sia tutte quelle che la contornavano. Inoltre, in Proust le impressioni del passato si presentano con una nota di realtà e certezza che è prerogativa del presente, mantenendo, allo stesso tempo, anche l’idealità fantastica propria del ricordo, e tale sovrapposizione fra passato e presente finisce per illudere il protagonista della Recherche di essere fuori dal tempo. Al riguardo, può risultare utile citare anche un passo del Diario datato 25 novembre 1943, in cui Morselli annota: «Chi sa “ascoltarsi” vive più vite. Per chi attinge alla propria sensibilità profonda, il passato non è mai morto; non solo, ma la sua vita presente si dilata immensamente di là dai suoi limiti apparenti, ad abbracciare innumerevoli esperienze»[44]. Da non trascurare neanche il pensiero del 7 settembre 1944: «Per ben vivere (o soltanto per vivere) occorre che l’uomo spregi il passato, che ami il presente e confidi nell’avvenire. È un’infelice e innaturale condizione, quella di chi ama il passato dispregia il presente e teme l’avvenire; e purtroppo le circostanze e una ingenita tendenza del mio animo mi obbligano proprio a ciò»[45].

A questo punto della trattazione, due concetti appaiono di grande interesse: in primo luogo, Morselli cita un passo di Proust in cui, in traduzione, si dice che «Tante volte nel corso della mia vita, la realtà mi aveva deluso perché nel momento in cui la percepivo la mia immaginazione, che era il solo organo di cui disponessi per godere della bellezza, non poteva applicarsi ad essa in virtù della legge inderogabile secondo la quale si può immaginare solo ciò che è assente»[46], laddove mi pare di estrema rilevanza l’affermazione proustiana che si possa “immaginare solo ciò che è assente”[47].

In secondo luogo, mi sembra che sia molto significativo il fatto che Morselli a questo punto citi lo Schopenhauer del Mondo come volontà e rappresentazione; il passo da cui è tratta la sua citazione è il seguente:

La vita si presenta come un eterno inganno, nel piccolo come nel grande. Quando promette, non mantiene la promessa, se non per mostrare com’era poco desiderabile ciò che si era desiderato: siamo dunque sempre ingannati, ora dalla speranza ora da ciò che si era sperato. Quando dà, lo fa solo per prendere. La magia della lontananza ci mostra paradisi, che spariscono come illusioni ottiche dopo che ci siamo lasciati ingannare. Perciò, la felicità è sempre nel futuro, oppure nel passato, mentre il presente è come una piccola nube scura, che il vento spinge sulla pianura soleggiata: davanti e dietro tutto è chiaro, solo quella nuvola getta sempre un’ombra[48].

Della citazione è interessante soprattutto l’immagine finale del presente come nube oscura che getta ombra. Morselli sottolinea che, sebbene né i sogni sul futuro né i ricordi abbiano realtà, essi possono coesistere nella memoria involontaria, le cui impressioni partecipano del passato e del presente, risultando, così, fuori del tempo. Citando ancora Proust: «l’essere che assaporava allora in me quell’impressione la assaporava […] in ciò che essa aveva di extra-temporale: un essere che appariva soltanto quando, grazie a una di tali identità fra il presente e il passato, gli era dato stare nel solo ambiente in cui potesse vivere e godere dell’essenza delle cose, ossia al di fuori del tempo»[49]. Tale gioia, la cosiddetta jouissance, ha qualcosa di metafisico, perché la sensazione che il protagonista prova gli dischiude «uno spiraglio sull’Assoluto. Fuori del tempo, essa è in certo modo fuori del relativo, ed ha potenza di liberarne il nostro spirito»[50]: affranca l’uomo dall’ordine del tempo, per parafrasare Proust. Secondo Morselli, dunque, tante sono le vie dello spirito per giungere all’assoluto: «Proust schiva quelle solari, ma non sempre più dirette, dell’intelletto»[51].

Drammaticamente, però, Marcel si rende conto che tale contemplazione dell’eternità è fugace e fuggitiva, e che a nulla varrebbe neanche tornare nei luoghi che la sensazione ha evocato: infatti, «colà le sensazioni, rese attuali, perderebbero l’incanto che hanno nel ricordo: il contatto con le cose paralizza in noi quella facoltà essenziale che è l’immaginazione». Torna, dunque, il concetto che “si può immaginare solo ciò che è assente”, che ci riporta anche a Leopardi, notoriamente fra gli autori di riferimento per Morselli[52].

La tragica conclusione è che non è dato all’uomo fissare quei frammenti di esistenza che sono stati quasi magicamente sottratti al tempo. Con una notazione che potrebbe ricordare la Commedia dantesca[53] (ma che Morselli riconduce a Teresa d’Avila o alle visioni di Pascal), il critico aggiunge che la stessa natura umana «non sopporterebbe a lungo una simile visione»[54], citando il passo di Proust (dal Tempo ritrovato)[55]: se «il luogo attuale non avesse ripreso sollecitamente il sopravvento, io credo che avrei perso conoscenza». Al riguardo, infatti, Morselli aggiunge che l’arte congiunge, sì, ideale e reale e conferisce l’«idea d’esistenza»[56] al ricordo, ma non può assurgere a una sfera posta fuori dal tempo perché si alimenta del relativo, «è posizione di rapporti»; e per questo motivo il critico conclude che «non senza fondamento Proust asserisce in Temps Retrouvé che principio di essa è la metafora».

Imbattersi nella sensazione rievocatrice non dipende, dunque, dalla nostra volontà, ma dal caso; Morselli, però, concede che «possiamo predisporci alla rivelazione, come il mistico all’ascesi». L’essenza delle cose, infatti, non si dischiude a ogni uomo, e nemmeno in ogni momento della vita del “privilegiato” cui si rivelano le “impressioni psichiche”, come direbbe Poe: è necessaria, infatti, per la rivelazione, una particolare condizione di «simpatia con le cose, di “ricettività”: uno stato di grazia che Proust ha raggiunto solo nell’isolamento, lontano dal mondo e dall’azione, avendo rinunciato al godimento materiale»[57] (tale condizione di isolamento[58] è da tenere a mente nell’analisi dell’ultimo romanzo morselliano).

Utile alla nostra indagine è anche la citazione del passo proustiano in cui si spiega che, essendosi accorto che il contatto con l’essenza extratemporale delle cose era irrimediabilmente fugace, Marcel comprende che «il solo modo per goderne di più era tentare di conoscerle più compiutamente là dove esse si trovavano, vale a dire in fondo a me stesso»[59].

L’unico modo di accostarsi all’arte è, dunque, quello di tentare di “estrarre lo spirito” dell’impressione materiale entrata in noi attraverso i sensi: «bisognava cercare di interpretare le sensazioni come segni di altrettante leggi e idee, tentando di pensare, ossia di far uscire dalla penombra quel che avevo sentito, di convertirlo in un equivalente intellettuale. Ora, cos’era questo mezzo, che mi sembrava il solo, se non creare un’opera d’arte?»[60], si domanda Marcel. Da non dimenticare che, fra le annotazioni del Diario relative alla stesura di Uomini e amori, il 14 dicembre 1943 si trova scritto: «La memoria, diceva Saverio, e in ciò, forse senza saperlo, si accordava col Vico e con Proust, è una cosa con la fantasia. Di conseguenza, ricordare è creare»[61].

Un passaggio assai significativo è pure quello in cui Morselli ricorda quanto Marcel fosse colpito, sin da bambino, da certi aspetti delle cose, che gli erano apparse come «immagini di verità, di idee ch’egli non era riuscito a dissuggellare, ma che – gli pareva – avrebbero potuto illuminare la sua anima»[62] e fa esplicito riferimento a «quegli enigmatici messaggi che le cose inviavano di tempo in tempo a Marcello». Per Proust, infatti, le cose talvolta hanno, indipendentemente dal ricordo e oltre la loro consistenza materiale, «una specie di anima», e compito precipuo dell’artista gli si profila quello di «cercar di scorgere sotto la materia […] qualcosa di diverso»[63]. Sto pensando, in particolare, all’incipit del romanzo Dissipatio H.G. («Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di ‘loro’»[64]) e ad alcuni passaggi, tra i quali mi sembra fortemente evocativo quello delle «linotypes, i cui bracci scheletrici continuano, chissà come, a sollevarsi e a abbassarsi»[65] nella sede del giornale ove il protagonista lavorava da giovane.

Un altro passo del saggio che Morselli dedica a Proust mette in evidenza come il quid misterioso che le cose nascondono dentro di sé, che non coincide con la materia e «si cela dietro o sotto di essa, altro non è se non l’elemento spirituale che noi[66] si aggiunge al dato dei sensi»[67]. La sensazione, infatti, non ci limitiamo a registrarla con un atto di coscienza, ma «l’immergiamo nel nostro profondo, la imbeviamo nel nostro stato d’animo». Per questo motivo, il nostro spirito, in relazione alle sensazioni, è, allo stesso tempo, attivo e passivo; Morselli precisa che

ne riceve una impronta, ma anche le atteggia a sua immagine, e la realtà esterna, in virtù di questo sottile chimismo, si fa sostanza nostra, cosa dello spirito. Il sentimento, ansioso di effondersi, si riflette sul mondo materiale, gli comunica qualcosa del suo contenuto, conferendogli un valore spirituale, che la mente raro riesce a chiarirsi ma in cui l’animo trova il suo prediletto alimento.

Pertanto, l’indicibile jouissance da cui Marcel è investito gli deriva dal «sentimento che riconosce se stesso nelle cose, e ritrova così il passato, il perduto»[68].

Morselli rievoca anche un’antica leggenda celtica cara a Proust, secondo la quale gli spiriti di coloro che abbiamo perduto restano imprigionati in un albero o in una pietra fino al momento in cui eventualmente ci accada di passare accanto a quell’albero o a quell’oggetto inanimato, provocando il trasalimento delle anime prigioniere, che possono liberarsi dall’incantesimo solo se riescono a farci intendere in tempo la propria voce. Marcel comprende che «non solo l’anima dei trapassati, ma anche un pò [sic] di quella di noi vivi resta rinchiusa nelle cose»[69], verità affermata anche dal Baudelaire di Les fleurs du mal; ma è vero anche il contrario, ovvero che «ogni oggetto con cui abbiamo vissuto, con cui abbiamo avuto un contatto anche fuggevole, è legato a noi»[70] da questa «catena interminabile e tremante di ricordi»[71].

Le immagini che riaffiorano alla memoria ci consegnano, dunque, anche il contenuto emotivo degli oggetti, «quel sentimento di cui ciascuno di noi, per poco che abbia di vita affettiva, anima gli oggetti che lo circondano»[72].

In particolare, mi sembra assai utile notare come Morselli citi un passo tratto dal primo volume della Recherche, Dalla parte di Swann, nel quale si parla del fatto che la sostanza spirituale delle cose che pure mutano o periscono «non muore se non con noi»[73], permanendo in fondo al nostro essere «formata da immagini a cui le cose materiali hanno prestato il contorno e noi il colorito: proiezioni del nostro mondo emotivo entro le loro linee fisiche»[74]; un esempio è tratto da certe visioni della dolce Combray:

quel profumo di biancospino che imperversa lungo la siepe dove presto lo sostituiranno le rose di macchia, un rumore di passi senza eco sulla ghiaia di un viale, la bolla che l’acqua del fiume ha formato contro una pianta acquatica e che subito scoppia, la mia esaltazione li ha presi su di sé ed è riuscita a trasportarli attraverso il succedersi di tanti anni, mentre tutt’intorno le strade sono state cancellate e sono morti quelli che le percorsero e anche il loro ricordo è morto[75].

Il valore delle cose – ribadisce Morselli – è dato dal senso che noi vi annettiamo, e anche nei ricordi «ovunque si è messo un po’ di se stessi, tutto è fecondo, tutto è pericoloso»[76]. Pensare di separare i sentimenti dalle cose, distinzione sulla quale si fonda la memoria volontaria, si rivela dunque, per il Morselli lettore e critico di Proust, una «Mera astrazione»[77], laddove «nell’inconscio, a cui attinge la memoria involontaria, i nostri sentimenti d’un tempo restano indissolubilmente legati ai luoghi e alle cose, alle sensazioni che ne abbiamo ricevuto: e come una di queste risorga, ripalpitano in noi con intatta freschezza»[78] (e al riguardo viene da chiedersi se il «pozzo»[79] e la «caverna»[80] di cui narra Morselli in Dissipatio H.G., nella pagina che ricostruisce più o meno lucidamente l’atto mancato del suo suicidio, altro non siano che metafore che alludono all’inconscio).

Ben descrive Morselli, in Proust o del sentimento, la condizione “dimidiata­” di Marcel, che avverte la jouissance come anelito all’assoluto ed è «assorbito fuori di sè [sic], misticamente, nella contemplazione»[81], ma allo stesso tempo sente rivivere parti della propria sostanza sentimentale legate alle impressioni che risorgono: pertanto, coesistono in lui un uomo che si percepisce come affrancato dall’ordine del tempo e uno che gioisce dell’aver ritrovato il tempo perduto. Da questo “secondo Marcel”, che Morselli definisce «mortale (mentre l’altro si sentiva superiore alla morte), e “contingente” e sentimentale»[82], e non dal “mistico”, sboccia l’artista, che, a detta del critico, nel descrivere la propria “mirabile visione” (il riferimento alla Vita Nova appare scontato), «non è tenuto a distinguere rigorosamente»[83], indulgendo, così, alla nostalgia del tempo perduto.

La memoria sensoriale diviene, perciò, memoria affettiva e rivela la realtà interiore di Marcel, indagando sulla quale egli riuscirà a individuare le leggi che hanno governato la sua intera esistenza. La memoria involontaria innesca, dunque, un moto di espansione del passato sul presente che il ricordo comune non è in grado di suscitare e, al contempo, gli procura la consapevolezza dell’inutilità del ritorno nei luoghi materiali del passato, giacché quella del ricordo è una dimensione solo spirituale. «Non la prossimità materiale alle cose del passato, occorre, bensì questa spirituale contiguità»[84]: solo tramite lo spirito, infatti, possiamo rievocare il nostro tempo perduto, e solo l’arte può conferire a tale «miracolo» consistenza e durata; e Morselli orgogliosamente rivendica l’originalità della propria riflessione sulla Recherche, ribadendo che la conversione di Marcel all’arte è dovuta all’«ulteriore scoperta della “essenza sentimentale” delle sensazioni»[85]. Pertanto, egli va oltre la posizione di un reminiscor ergo sum per approdare a una concezione dell’arte come «interpretazione poetica delle cose che rivivono nel suo ricordo»[86]. Dunque, non si dà arte senza ricordo, e si può immaginare solo ciò che assente: due assunti da tenere bene a mente per il prosieguo del nostro discorso.

Le impressioni, prosegue Morselli commentando Proust, contraddicono continuamente le illusioni, gl’«infingimenti»[87] e «tutta l’imbiancatura d’ipocrisie onde la vita sociale viene ricoprendo, a molteplici stese, il nostro vero essere»[88]; compito dell’artista proustiano è proprio quello di rivelare la nostra realtà intima più profonda a noi stessi prima che agli altri. Secondo Morselli, infatti, all’artista Proust raccomanda in primo luogo l’obiettivo del γνῶθι σεαυτόν o ‘conosci te stesso’, e all’origine di tale esortazione c’è «un bisogno di verità, un’esigenza etica, da cui un apologeta potrebbe trarre qualche argomento da opporre alla quasi unanime sentenza sull’amoralità della Recherche»[89].

A dire di Morselli, Proust critica la tendenza di altri artisti a non approfondire ciò che l’arte ha operato nel loro spirito, col trasformarsi in sentimento. Definisce quello proustiano un impressionismo sui generis perché discrimina l’impressione dalla sensazione e attribuisce alla prima una natura spirituale, identificando l’attività “ricreativa” dell’arte (l’opera d’arte dev’essere ricreata «da noi e in noi»)[90] con «l’autoanalisi»[91]. Nel Tempo ritrovato, infatti, Proust precisa: «solo la percezione grossolana ed erronea mette tutto nell’oggetto, mentre tutto è nella mente»[92], affermazione che si potrebbe estendere anche alla già evocata vicenda del protagonista della Dissipatio morselliana, a meno che non si voglia davvero interpretare il romanzo come inseribile nel filone della letteratura apocalittica e/o fantascientifica[93], posizione critica che, anche alla luce delle considerazioni che si vanno esprimendo, personalmente non sento di condividere.

Di certo, Proust partecipa anche di quella «sensitività acutamente vibratile»[94] che accomuna Baudelaire, Valéry, Verlaine, d’Annunzio, Maeterlink, Rimbaud, ma «più d’una volta la rappresentazione di sensazioni è, in lui, tramite a una visione più profonda, che dalla brillante superficie delle cose lo riconduce all’analisi interiore»[95]. Ciò che a Proust interessa sono i cambiamenti interiori innescati dalle sensazioni che fanno vibrare corde segrete del nostro animo e hanno il potere di rinnovare la realtà sensibile e di «crearcene un’altra, esclusivamente nostra»[96]; ciò che desidera indagare è «il mondo ipogeo entro cui si sprofondano impressioni e sensazioni e nel quale forze oscure assiduamente elaborano e trasformano quell’arcano mutevole e versicolore che è in ogni istante il nostro stato d’animo. Mondo sotterraneo e non di meno di essenza spirituale»[97].

Difficile non riconnettere anche questo passo all’incipit di Dissipatio H.G., e soprattutto alla pagina in cui il protagonista si trova «all’orlo del pozzo»[98] nel quale pensa di gettarsi. Al riguardo, appare utile anche l’osservazione di Morselli sul fatto che non è arduo reperire nella Recherche passi che si potrebbero definire freudiani[99], sebbene il critico precisi che il subconscio dello scrittore francese è comunque dominato dallo spirito e, dunque, diverso da quello di Freud, incardinato sul sesso; e suggerisca di riesumare una parola antica per designarlo: praecordia. Nonostante ciò, sempre in funzione della lettura e dell’interpretazione del secondo paragrafo di Dissipatio H.G., in cui viene nominato un «lago chiuso, detto della Solitudine»[100], appaiono suggestivi e significativi i seguenti due passi tratti dalla Recherche ed estrapolati da Morselli: il primo riguarda le passioni che «agiscono in modo meramente secondario, attraverso l’immaginazione che sostituisce i moventi originari con altri moventi di ricambio, più decorosi dei primi»[101]. Il secondo è tratto dal Tempo ritrovato e fa riferimento a un “lago ignoto”, descrivendo uno «straordinario linguaggio, così diverso da quello che parliamo abitualmente, in cui l’emozione fa deviare ciò che volevamo dire e fa sbocciare al suo posto una frase affatto differente, emersa da un lago ignoto in cui vivono le espressioni che non hanno rapporto col pensiero e per ciò stesso lo rivelano»[102].

Sempre in relazione a Dissipatio H.G. e alla sparizione del genere umano che il romanzo prospetta o paventa, oltre che in assoluto, si rivela assai fruttuoso ricordare come Morselli precisi che per Proust le persone che ci circondano «veramente esistono solo se ad esse corrisponda in noi un’attività sentimentale: scompaiono o non sono più che ombre durante quelle che egli chiama le intermittences du coeur»[103], affermazione che potrebbe gettare una fulminante luce interpretativa pure sull’ultima opera-testamento dello scrittore bolognese/varesino, in cui la dissipatio[104] degli altri esseri umani potrebbe palesare, fra le altre cose, anche una (magari temporanea) disaffezione a loro del protagonista/voce narrante/autore, forse causata da un difetto di volontà, a sua volta scaturito da un periodo esistenziale di apatia, dato che «chi assicura ai nostri rapporti sentimentali una continuità almeno apparente, è la volontà»[105]. A conferma delle precedenti argomentazioni Morselli ribadisce che per Proust la realtà non è fuori di noi, ma «in noi, che la viviamo come successione di stati interiori, e l’artista è chiamato a estrarla da quello che Proust chiama “le lac interne” o “le lac inconnu”, dell’animo»[106]. L’immagine del lago in Dissipatio H.G., dunque, sembrerebbe poter derivare proprio da Temps Retrouvé.

Altro punto nodale, quello che l’arte è rivelazione della memoria, ma quest’ultima non può «aver fuoco che in coloro che abbiano rinunciato a vivere attivamente»[107]: una sorta di eco del pirandelliano “la vita la si vive o la si scrive”. Più precisamente, Morselli rivela che le «ore propizie sono quelle in cui, ripiegati su noi stessi, nel silenzio, nell’isolamento, in qualche modo ci ritraiamo dalla vita; e la rivelazione totale, definitiva, non è concessa a Marcello che quando comincia per lui l’attesa della morte»[108]. Il compito dello scrittore equivale, per Proust, a quello di un traduttore, dato che il contenuto dell’opera «esiste già in ciascuno di noi»[109].

Quando Morselli delinea il temperamento artistico di Proust, sembra parli di sé stesso: «non ha vena fantastica, sì meditativa, o contemplativa. Non è incline a intrecciar casi, e più che non narri analizza e descrive. Se in genere i narratori dànno oggi scarsa importanza alla favola dei loro racconti, all’ordito dei fatti, pochi ne hanno saputo così compiutamente prescindere come Proust»[110]. Discorrendo, più specificamente, dello stile proustiano, Morselli parla di un periodare, ampio ed elaborato, e di una pienezza non comuni ai narratori francesi contemporanei, al punto che qualcuno vi ha ravvisato un «modulo classico, o addirittura reminiscenze bibliche, dei libri sapienziali e poetici»[111], non sconosciuti, come sappiamo, a Morselli stesso.

Ancora, il critico si sofferma sul fatto che Proust ritiene l’opera d’arte una sorta di «strumento ottico»[112] che lo scrittore offre al proprio lettore, soccorrendolo nell’analisi di sé stesso: dunque, sebbene gli uomini siano per lui «mondi distinti e reciprocamente impenetrabili, Proust ammette dunque un minimo di analogia tra loro»[113], concezione non tanto diversa da quella morselliana dell’individuo-monade (che deriva al critico soprattutto dalla lettura di Leibniz)[114].

Secondo Morselli, Proust si contrappone a Ruskin, discostandosi dall’arte morale o sociale o patriottica o avente fini pratici, ma non la ritiene nemmeno compiuta e giustificata in sé stessa; dall’opera poetica bisogna bandire le vérités de l’intelligence, poiché quest’ultima risulta inutile all’artista. Lasciando trapelare la propria approfondita conoscenza anche dell’estetica crociana, lo scrittore afferma che, senza distinguere fra concetti e pseudo-concetti, Proust ritiene che le idee «formate dall’intelligenza […] non hanno che una verità possibile»[115]: egli rifugge dalla letteratura intellettuale, da quella didascalica e anche dal realismo. Inoltre, essendo l’opera d’arte una forma di conoscenza in grado di rivelare all’artista l’essenza della sua vita profonda, è anche «il solo mezzo col quale gli uomini possano comunicare fra loro, ciascuno di noi avendo una propria visione delle cose, non esprimibile, e perciò non comunicabile, con l’usuale linguaggio logico»[116].

Secondo Morselli, la poetica proustiana può essere efficacemente riassunta dall’affermazione di Wilde che l’arte «non rispecchia la vita, ma lo spettatore della vita» stessa; egli, infatti, non ritiene che il pensiero di Proust sia isolato e del tutto originale, e anzi sottolinea, ad esempio, quanto il bergsonismo abbia influito sulla concezione proustiana[117], sebbene lo scrittore lo abbia sempre negato, e ricorda il suo anti-intellettualismo che, sebbene egli predicasse come assoluto, in realtà lasciava spazio a qualche concessione ai valori razionali.

Come accennato, Morselli esprime chiaramente il proprio dissenso nei riguardi di critici come Capasso e Debenedetti, che condannano la maniera autobiografica e si affannano a dimostrare che la Recherche è un’opera prettamente d’invenzione: «Che il Marcello di Proust sia un personaggio fittizio, mi sembra da escludere»[118], afferma recisamente. Inoltre, sebbene Morselli lo critichi, mi sembra assai interessante che si preoccupi di far cenno all’opinione di René Boylesve[119], che aveva evidenziato la dimensione saggistica della scrittura proustiana (cui quella morselliana in tal senso è assimilabile): «amo il Proust saggista quanto il romanziere; ammiro che abbia potuto far coabitare sotto lo stesso titolo, grazie ad una formula la cui estensibilità tocca l’incredibile, due arti che si armonizzano così naturalmente nel romanziere nato, ma che tutti i canoni hanno fin qui tenute separate l’una dall’altra»[120].

L’intonazione della Recherche per Morselli è quella di chi non inventa, ma ricorda, e per questa ragione «il primo tomo di Swann e il secondo di Temp Retrouvé, nei quali culmina la soggettivazione del mondo esterno, non differiscono dalle tante pagine “obbiettive”, dov’è descritta la realtà storica, il contorno fisico e sociale della vita di Marcello»[121]. Come ha sottolineato Marco Piazza, infatti, Morselli coglie in Proust anche la «capacità, tutta balzacchiana, di rievocare la realtà socioculturale e politica di un’epoca, capacità che fa di Proust un “historien des mœurs”»[122].

Tornando sulla questione del genere letterario, Morselli la affronta esplicitamente nella chiusa del paragrafo sesto, definendo senza dubbio, almeno in termini editoriali, la Recherche come un romanzo, anche perché il genere «si è talmente allargato da comprendere ormai ogni componimento narrativo in prosa, di qualsivoglia indole purchè [sic] di una certa estensione»[123] (precisazione che anticipa anche il modo morselliano di scrivere romanzi). D’altronde, nel luglio del 1966 egli osservava a proposito della produzione di Iris Murdoch:

Disquisire sul romanzo per teorizzarne i contenuti, le strutture, la vocazione come si seguita a fare […] in Italia e in Francia, mi sembra tanto accademico e ozioso quanto pretendere di fissare che cosa sia stato e debba essere da cinquant’anni in qua «musica» o, diciamo, «pittura»: una di quelle imprese velleitariamente definitorie a cui si riferiva Hegel, e proprio in sede estetica e critica, quando ironizzava su coloro che vorrebbero «dare numero e legge alle foglie del bosco». Il romanzo oggi è la letteratura; il suo genus proximum è forse a malapena individuabile (ma sui margini dell’espressione creativa, o fuori di essa) nel saggio sociologico e storico-politico e della demoscopic research, su un certo piano nella science fiction e nel giallo, su un altro. Non una parte ma il tutto, non una categoria ma la circolarità del Literaturgeist che, dal romanzo movendo, nel romanzo si richiude su se stesso[124].

Secondo Morselli, l’unico romanzo, l’unica opera d’invenzione pura che Proust abbia lasciato è Un amour de Swann, l’intermezzo in cui si racconta la passione di Charles Swann per Odette de Crécy (da notare che, forse non a caso, anche nelle proprie opere Morselli introduce degli intermezzi): nonostante ciò, comunque a suo giudizio l’opinione tradizionale pecca nel considerare la Recherche una semplice autobiografia e non anche un’opera di finzione. In conclusione, la memoria in Proust è creatrice, è – per dirla con De Sanctis – “ricordevole fantasia”; pertanto, volendo dare una definizione della Recherche, Morselli la individua proprio alla confluenza fra genere romanzesco e genere autobiografico: histoire transposée d’une vie.

Il critico dedica un paragrafo della Prima parte del proprio saggio alla teoria della dimensione temporale del racconto, che privilegia, appunto, la dimensione temporale dell’esistenza rispetto a quella spaziale: a suo giudizio, la Recherche dà il senso della «profondità che il narratore attraversa, degli strati temporali che successivamente percorre nella rievocazione»[125], sebbene a suo parere sia esagerato parlare di Proust come dell’inventore della durée psychologique perché quest’ultima è il «fondamento della narrativa»[126]. Di alcuni procedimenti adoperati dal francese rintraccia illustri precedenti addirittura nell’Odissea o nel «grande romanzo»[127] a firma di Ippolito Nievo.

Ciò che, invece, a suo dire sarebbe utile approfondire è il rapporto fra il principio della durata e una rappresentazione che ha «per presupposto il dissolvimento dell’io nella pluralità instabile degli stati interiori»[128], perché non può esserci durata laddove non vi sia continuità. Al riguardo, Morselli precisa di ritenere che il fatto che la tecnica proustiana miri ad «afferrare le più labili e minute componenti psichiche»[129] non implichi necessariamente un’effettiva frammentazione della personalità spirituale. E aggiunge che l’interesse dimostrato da Proust per la durata lo scagiona dall’accusa mossagli da alcuni critici di partecipare dell’inclinazione anti-storica della maggior parte della letteratura francese a lui contemporanea.

Sebbene Proust ritenga che «non è arte il realismo, ma “visione cinematografica”»[130], Morselli sottolinea che nella Recherche egli si è discostato parecchio dalle proprie affermazioni più radicali (dato che intellettualismo[131] e realismo sono «componenti essenziali della sua opera»[132]), dimostrando che si può fare arte anche col «décrire les choses, e gli esseri, nella loro vivente immediatezza»[133], «anteriormente ad ogni soggettivazione»[134], con una «schietta vena pittorica»[135] e un «senso cordiale di simpatia umana»[136]. Discorrendo di Proust e del suo realismo, Morselli adopera un termine, “solipsismo”, che sarà, poi, ampiamente utilizzato dalla critica per far riferimento alla sua stessa opera:

Il solipsismo di Proust, che si potrebbe esprimere con la formula schopenhaueriana: hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me ens aliud non est, – soffre eccezioni: anzi ammette nella stessa Recherche la posizione opposta, che è poi quella normale, che il soggetto assume in quanto considera la realtà esterna come un aliud da sè [sic]. In codesto significato più ampio e gnoseologico del termine, si può parlare di un «realismo» di Proust, in opposizione al suo soggettivismo sentimentale[137].

E ovviamente il riferimento implicito di Morselli è a Schopenhauer, e più precisamente ai suoi rimandi alle Upanişad Vediche[138], imprescindibili per poter comprendere il rapporto fra la letteratura proustiana e i successivi dialoghi filosofici di Realismo e fantasia, indirizzati, nelle intenzioni di Morselli, a risolvere lo iato fra idealismo e realismo dal punto di vista teorico.

Interessante anche la contrapposizione che il critico bolognese rileva in Proust fra lo scrittore, che si studia, elaborando ciò che ha scoperto in sé stesso per dargli un valore logico universale; e l’artista, che registra la propria vera vita interiore, ascoltandosi e non studiandosi: l’esempio più lampante, a dire di Morselli, è la figura della nonna (Grand’Mère), che balza fuori dalla sensibilità proustiana, più che dalla sua intelligenza.

Procedendo nella stesura della Recherche, Proust, secondo il critico, ha avvertito un’attrazione crescente per il “non-io”, l’inizialmente rinnegata realtà esterna, ma spesso la realtà spirituale nell’opera assorbe in sé quella materiale e il mondo esterno «si svuota del suo valore specifico, non adempie altra funzione che di contorno alle vicende dell’animo dell’eroe, non ha altra vita se non quella ch’egli v’infonde»[139]. La Recherche, dunque, coniuga il soggettivismo di eredità romantica col realismo di «lignaggio classico»[140]: è allo stesso tempo «trasfigurazione della realtà e obbiettiva descrizione di essa».

Altro passaggio di rilievo: la vocazione all’arte di Marcel secondo Morselli si manifesta «quando ha principio la sua involuzione affettiva, quand’egli non è quasi più che proiezione del proprio passato, a cui sopravvive per inerzia: quando, malato e ormai vecchio, è incapace di amare e oramai anche di soffrire, ossia dei due atti essenziali di cui, secondo egli afferma, consiste la vita»[141]. A un tratto Marcel si rende conto di star vivendo solo per ricordare e, in quel preciso istante, sorge in lui, imperiosa, la necessità di produrre un’opera d’arte che sarà soprattutto rievocazione: come conclude Morselli stesso, «l’artista fiorisce sulle rovine dell’uomo»[142]. Da non sottovalutare, al riguardo, un pensiero appuntato nel Diario: «L’uomo è sempre egocentrico, sempre concentrato nel proprio io, ma non lo è mai tanto come quando è malato»[143].

Sul tema della rievocazione risulta illuminante anche un altro passaggio diaristico; trascrivendo un’osservazione sull’arte di Leonardo Borgese («ciò che dovrebbe dare “il senso del perpetuo e dell’immortale”»[144]), Morselli confessa di preferire a tale definizione classicheggiante una di Arnaldo Boccili a proposito dei romanzi di Bacchelli e di altra letteratura contemporanea (siamo nel giugno del 1956), che mirerebbe a «evadere dalla fuggevolezza e precarietà del presente nel “mondo dell’accaduto”, e cioè andrebbe “alla ricerca del tempo perduto”». Morselli commenta:

L’arte in questi scrittori, sarebbe cioè, rievocazione. Ma codesto non si può dire tal quale di ogni artista dell’età romantica? In Leopardi, per tanti riguardi classico, il motivo della rievocazione è capitale. Vero è che nell’«accaduto» non si cerca già una realtà certa e definita in contrapposizione al precario dell’oggi, ma si cerca una dolcezza, una bellezza che la realtà del presente non possiede e che il ricordo riesce a infondere al passato. Il gusto dei romantici nordici per il Medioevo ha proprio questa origine umilmente psicologica: ci si volge al passato non per amore di storia, o di storicismo, ma per l’illusione che il passato fosse più «poetico» e cioè più umano del ferreo presente.

Ci sembra che l’estetica crociana (o almeno la sua “vulgata”) detti un altro passaggio-cardine del ragionamento condotto in Proust o del sentimento: in base all’analisi morselliana, nella Recherche vanno distinte una maniera soggettiva e un’altra realistica e oggettiva, e «questa distinzione non coincide per nulla con l’antitesi tra arte e non-arte, ossia tra l’arte e il suo limite»[145]. Si torna, così, alla questione di matrice desanctisiana dell’unità dell’opera, che Morselli riconosce alla Recherche, puntualizzando, però, che il problema critico fondamentale al riguardo è determinare il “centro” dell’opera stessa: convenendo con autorevoli voci come quelle di Lelio Cremonte e di Debenedetti, il critico bolognese individua nel «tono evocativo»[146] in cui si esprime la nostalgia del tempo perduto l’elemento poetico unificatore della Recherche. Si tratta di un tono «tra grigio e roseo»[147], quello del ricordo o del rimpianto: il senso dell’irrimediabile precarietà umana diviene «lievito poetico» per Proust, facendo sorgere in lui la speranza di «fermare nell’arte la vita che gli sfugge». La sua “areligiosità”[148], poi, finisce per conferire ulteriore poeticità all’opera, nel tragico contrapporsi dell’idea della morte come distruzione totale dell’essere al suo «desiderio di vita inesausto»[149]. Raccontare, per Proust, significa dunque rivivere; e ricordare è rimpiangere: «il ricordo di una certa immagine non è che il rimpianto di un certo istante»[150].

Marcel, dunque, non è solo un sentimentale, nell’ottica di Morselli, ma un intellettuale e, se le verità d’intelligenza devono essere ammesse come fattore indispensabile dell’opera d’arte, l’elemento intellettualistico «rende necessario quello realistico, ossia un’arte “descrittiva”»[151]. A tal proposito, Morselli ricorda i critici che fanno della Recherche addirittura «un’opera documentaria, o una raccolta di essais. E, certo, il castone risplende quasi da quanto la gemma»[152], laddove è interessante come quest’ultima frase rispecchi la “vulgata” della distinzione crociana fra poesia e struttura.

Proprio riguardo al pensiero di Croce, qualche utile spunto fornisce ancora il Diario, nel quale si trova, ad esempio, annotato (in una lettura discutibile della teoria crociana):

Forse il principale carattere distintivo del neo-idealismo italiano (crociano) rispetto alla filosofia romantica da cui deriva, consiste nella svalutazione del sentimento. Croce è romantico solo a metà […] e ha cercato ogni mezzo per ridare alla ragione teoretica, genitrice di puri concetti, l’antica dignità, deprimendo in cambio l’importanza della funzione sentimentale. L’arte è sì liricità ma rispetto all’intuizione artistica il sentimento, il genuino fervido sentimento non è che un antecedente remoto, e l’intuizione tanto più vale quanto meglio si allontana dalla sua origine: quanto più (in ultima analisi) si snatura. – Con tutto ciò Croce non è riuscito a superare la difficoltà capitale dei rapporti tra arte (intuizione) e critica (giudizio): rapporti che si risolvono in una insuperabile antitesi. […] Dunque, per l’idealismo crociano l’arte è conoscenza ma il sentimento, dal quale pure essa ha origine, rimane relegato nella sfera pratica. E’ [sic], questa antinomìa, uno dei punti più criticabili del sistema. […] L’antinomia si eliminerebbe innalzando il sentimento alla sfera conoscitiva; e così il neo-idealismo sarebbe anche più coerente con la concezione romantica che lo ha generato. Ma è proprio questo che Croce non vuole[153].

I due aspetti – sentimentale e intellettuale – della Recherche convivono, dunque, per adoperare le parole dello stesso Proust, in un’«unità ignorante di se stessa e dunque vitale, non logica, che non ha proscritto la varietà né raffreddato l’esecuzione»[154].

Sempre a proposito di Croce, nella nota 2 apposta dalla curatrice al Quaderno II del Diario morselliano si cita anche un utile passo sulla dottrina estetica crociana tratto da Divagazioni quasi critiche sopra un critico recente di Ungaretti, ossia su Francesco Flora:

Il lineamento più notevole di essa (a. [sic] parte la sua caratteristica generale di organicità) non consisteva, come ancora si crede vulgo (e fuori d’Italia più che da noi), nella proclamata autonomia dell’arte – che era cosa già da tempo largamente ammessa – ma nella asserita e dimostrata alogicità dell’intuizione artistica. Nessuno dei Romantici, neanche Leopardi, la cui “immaginazione” non aveva mai del tutto divorziato dall’intelletto, era giunto a porre quel principio così risolutamente. Viceversa, il Croce si manteneva, a differenza di molti Romantici, tra cui De Sanctis, energicamente intellettualista in rapporto al problema correlativo dell’attività critica. Data la bipartizione della forma teoretica dallo spirito, parrebbe che la critica – la quale è accostamento a ciò che v’ha di più individuale veramente, l’arte – fosse più prossima al primo grado, che è appunto conoscenza dell’individuale. Croce la colloca invece nel secondo grado, che è appunto conoscenza dell’universale, e insomma la fa prerogativa del filosofo. Egli dovette certo rendersi conto delle difficoltà inerenti a questa posizione, per la fondamentale incomunicabilità reciproca d’intuizione e concetto. Ma la sua intransigenza su questo punto si spiega. Nel Croce è un alternarsi di romantici slanci e raziocinanti scrupoli; l’antitesi che si manifesta in tutta la cultura d’oggi, irrazionale contro razionale, è abbastanza facilmente rintracciabile nella sua filosofia[155].

Come poi precisa Morselli, la memoria involontaria in Proust esige una serie di condizioni: nell’episodio notissimo e suggestivo dei tre fatati alberi di Balbec (in All’ombra delle fanciulle in fiore), l’incapacità di Marcel d’interpretare la dolorosa eloquenza dei tre esseri vegetali («Vidi gli alberi allontanarsi agitando disperatamente le braccia, come se dicessero: Quello che non riesci a sapere da noi oggi, non lo saprai mai più. Se ci lasci ripiombare in fondo alla strada dalla quale cercavamo di issarci fino a te, tutta una parte di te stesso che noi ti stavamo portando cadrà per sempre nel nulla»[156]) gli provoca una profonda tristezza: «come se avessi perduto un amico o fossi morto io stesso, come se avessi rinnegato un morto o, imbattutomi in un dio, non l’avessi riconosciuto»[157]. Egli impara, da quell’episodio, che l’essenza delle cose, per disvelarsi, «vuole l’isolamento, la rinuncia all’azione mondana»[158].

In Dalla parte di Swann, Proust racconta la prima volta in cui Marcel, procuratosi carta e matita, butta giù una descrizione di campanili, il suo esordio letterario, e alla fine si sente felice e liberato dai campanili stessi e dalle suggestioni che sembravano nascondersi dietro di loro. Si chiede Morselli, a tal proposito, se quella gioia subitanea non sia la stessa che prova l’artista quando produce e si esprime[159], e a tal proposito indica solo d’Annunzio come scrittore contemporaneo che ne abbia discorso con maggiore entusiasmo di Proust.

Su questo passaggio, tornando al dialogo latente con l’estetica crociana, appare utile considerare anche la seguente osservazione di Morselli: l’assioma che «non si dà forma separatamente dal contenuto […] non sempre trova conferma in quello oscuro stadio che precede la creazione artistica. I famosi campanili non avrebbero avuto altro effetto che di accendere in Marcello l’estro, aprendo finalmente uno sbocco alle tendenze letterarie latenti in lui»[160]. E al riguardo ci soccorre anche una pagina di Diario che raccoglie materiali per la stesura di Uomini e amori: «Saverio non condivideva l’opinione della estetica contemporanea, secondo cui, esteticamente, il sentimento comincia a esistere solo quando si esprime. Per lui esso esiste prima e indipendentemente dall’espressione, e tra l’uno e l’altra è la differenza che corre dalla potenza all’atto»[161], in cui chiaramente fra le righe si fa riferimento all’estetica crociana in relazione alla questione della “svalutazione del sentimento” accennata in precedenza.

Discorrendo di quel proustiano “fanciullo sognante”, Morselli sottolinea che vi è in alcuni fanciulli un «istintivo animismo: essi infondono nelle cose una vita misteriosa, che è la vita del loro sentimento»[162]. Egli illustra che i fanciulli s’interessano al mondo esteriore soprattutto perché vi scoprono qualcosa di simile a una «rappresentazione allegorica dei loro stati interiori»[163]: della natura interessa loro solo «ciò che loro stessi vi hanno trasfuso»[164]. Il giovanissimo Marcel, dunque, cerca nella natura soprattutto sé stesso perché quella «rispondenza delle cose alle nostre emozioni […] attiene alla sfera più riposta dell’essere, è fenomeno che l’intelletto – anche in noi “grandi” – può misconoscere o ignorare. Si è attratti dalla natura, proprio perché pare che simpatizzi con le profonde ragioni del cuore, di cui talvolta non abbiamo piena coscienza e che, più spesso, riluttiamo ad ammettere»[165].

Dunque, i tre campanili non possono che avere valore allegorico, essendo simboli per Marcel di «arcane concordanze tra la natura e il suo animo. E “concordanze”, in un senso, vorrei dire, quasi leopardianamente interiore e poetico, potrebbero chiamarsi queste rivelazioni descritte da Proust»[166]: ma a temperare l’influenza di Leopardi su Morselli, ben presente sebbene – a mio avviso – non nel modo così preponderante ravvisato da alcuni critici, ci pensa Morselli stesso, quando, parlando di Proust, afferma che il giovane scrittore Marcel ritrae nella natura sé medesimo; o la ritrae perché «intimamente mescolata all’attività del suo spirito, vivente immagine di esso e depositaria dei suoi segreti. Si penserebbe quindi piuttosto a una sorta di simbolismo»[167], sebbene di natura opposta a quello di un Mallarmé o di un Valéry, che «partono da un concetto chiaro che esprimono poi per simboli»[168], laddove in Proust si tratterebbe del processo inverso.

Nella seconda parte del saggio, Il sentimento nella “Recherche”, Morselli ribadisce che Marcel è «nostalgico, contemplativo, egocentrico. Si isola dagli altri, se non altro in ispirito, misconosce quando non ignora l’amicizia la famiglia la patria. Non ammette altro dovere che quello d’inseguire la sua quintessenziale “réalité intérieure”, alla quale sacrifica senza esitare ogni altra realtà»[169], passaggio nel quale ritroviamo tanti elementi riconducibili anche all’atteggiamento quasi da misantropo della monade protagonista di Dissipatio H.G.[170].

Procedendo, leggiamo che in Proust non esistono valori universali né certezze, dato che ognuno di noi ha propri valori e la realtà che conta è quella individuale: «Ogni uomo è una monade originaria e differenziata in se stessa»[171], perché l’io si dissocia in una pluralità varia e discorde (in corsivo, nella citazione, l’occorrenza di uno dei termini-chiave più utili per decodificare lo stesso Morselli e la sua opera). Da tali premesse deriva che Proust non può postulare l’esistenza di un Assoluto e, anche quando lo sfiora (come nell’estasi che lo coglie a Balbec durante il convegno notturno con Albertine/“Albertina”), quell’Assoluto «si confonde col suo spirito»[172]. Infatti, l’eroe di Proust non aspira alla trascendenza.

Morselli nel saggio affronta anche il problema dell’«areligiosità»[173] della Recherche, che a suo dire non deriva dal medesimo atteggiamento di laicismo ostentato dai romanzieri positivisti e naturalisti: sebbene Proust rinunci ad ogni conforto superiore e nonostante l’agnosticismo della sua opera sia profondo, per Morselli si può quasi affermare che aleggia fra le sue pagine una certa simpatia per la Chiesa e per i suoi ministri. Il critico ritiene, infatti, che Marcel sia una di quelle nature in cui «tra i sensi e l’anima è facile equilibrio»[174], perché in lui sulle esigenze dei sensi e su quelle spirituali prevalgono quelle di una «sensitività, o sentimentalità, abnormemente acuita»[175], soverchianti e decisamente egoistiche.

Morselli tempera anche l’accusa di amoralismo rivolta a Proust da vari critici, sebbene a tal riguardo la posizione del francese sembri quella di una totale indifferenza. La ragione è sempre la stessa: la sfera essenziale dell’individuo, anche per quanto concerne il giudizio etico, per Proust resta quella del sentimento. Però, per l’egoista sentimentale Proust, ad esempio, l’amore, quando è doloroso e vince l’egoismo, riscatta le colpe eventualmente ad esso connesse: la sofferenza può essere, dunque, un potente mezzo di redenzione. Marcel non ha difficoltà a confessare una deficienza di senso morale in sé, e in questo – secondo Morselli – dimostra una tale consapevolezza interiore da riconoscersi egli stesso in colpa.

Marcel riesce ad amare intensamente ma è incapace di sacrificio, e dunque non è in grado di uscire da sé stesso e di ammettere l’esistenza di un’altra creatura con esigenze e bisogni diversi dai propri e da rispettare: il suo sentimento, dunque, diviene ricerca angosciosa di un bene che sempre gli sfugge e gli procura eterna insoddisfazione, causando inevitabili sofferenze anche agli oggetti del suo amore. È come se il dovere che sente incombere sull’artista – di concentrarsi sulla propria vita interiore – lo dispensasse dall’empatia verso i propri simili e dalla generosa comprensione nei riguardi dei propri compagni di strada. La sua schiavitù, secondo Morselli, è quella di essere distinto «da un’affettività ricca, complessa e ciononostante infeconda, perché si esaurisce in se stessa»[176] (tendenza che, forse, si potrebbe attribuire allo stesso Morselli, senza voler cadere nello psicologismo). A parere del critico bolognese, il fatto stesso che Proust si sia posto il problema se l’uomo debba almeno tentare di affrancarsi da tale schiavitù è un segno che per lui non si può parlare di assoluto amoralismo. Inoltre, come accennato, per lui il dolore non è solo strumento di conoscenza, ma ha un valore morale di risarcimento e riscatto.

Morselli nel saggio ricostruisce anche la temperie culturale nella quale nacque l’opera di Proust, inserendolo, seppur con qualche limitazione, nel gruppo degli scrittori della «Nouvelle Revue Française»; Marcel resta, però, «anche come spettatore della Guerra, uno dei tanti apolidi spirituali che la letteratura del primo Novecento ha espresso»[177].

Quanto, poi, alla questione piuttosto dibattuta dell’arte per l’arte, Morselli ritiene che Proust neghi ogni dipendenza del fatto estetico dalla morale o da altre finalità pratiche e dal pensiero, ma lo subordini all’attività sentimentale profonda del soggetto, di cui l’opera stessa non è che un mezzo espressivo. Proust si ricollega all’opera dei simbolisti che, reagendo «contro l’impersonalismo e il realismo dei parnassiani, e in definitiva restaurando il lirismo soggettivo degli spregiati romantici»[178], avevano spianato la strada alle tendenze più moderne, che affermavano l’assoluta supremazia della sensibilità individuale su tutti gli altri valori. Proust riconosce, dunque, l’arte come massimo interesse, ma solo perché serve a chiarire e ad esprimere la realtà vivente o interiore di cui si compone la vita vera di ciascuno: siamo, dunque, ben lontani da “l’art pour l’art”. «Meglio che a codesta dottrina – precisa il critico bolognese con un ulteriore, implicito riferimento anche a Croce –, si accosterebbe Proust alle estetiche dell’intuizione, con questo di particolare, ch’egli pone l’accento sul contenuto sentimentale anteriore all’espressione, contenuto che quelle lasciano in ombra per occuparsi soltanto del momento espressivo ossia dello stadio artistico vero e proprio»[179].

Fra le arti, inoltre, solo la conoscenza della musica assume per Proust un significato più profondo perché essa, col proprio potere evocativo, agisce efficacemente e immediatamente sulla sfera affettiva subconscia. Prepararsi all’arte per Proust significa «accumulare esperienze interiori; e per questo non occorre che vivere, o lasciarsi vivere»[180]: pertanto, possiamo considerare la Recherche la storia di una vocazione letteraria solo chiarendo che la letteratura per Proust non è scopo dell’esistenza, ma è subordinata ad essa come mezzo per penetrarne la realtà profonda (osservazione che senza difficoltà potremmo estendere allo stesso Morselli). Dunque, Proust non è un esteta ma un sentimentale, sia perché fa del sentimento l’oggetto della vera conoscenza sia per l’aura nostalgica di cui ha circonfuso la propria opera.

Un altro passaggio-chiave da tener presente anche nell’esegesi di Dissipatio H.G. è quello che precisa che il sentimento

determina la nostra visione delle cose: secondo le sue croyances, secondo la sua logica bizzarra, noi regoliamo senza saperlo o senza confessarcelo la nostra condotta, e alle sue alternative di attività o di stasi corrisponde per noi addirittura l’esistenza o la scomparsa degli esseri che ci circondano. I contrasti che si verificano in noi dipendono da ciò, che non riconosciamo questo valore determinante del sentimento, e ci ostiniamo a vedere l’essenza delle cose o degli esseri nelle loro qualità fisiche, nelle leggi astratte che l’intelletto vi costruisce sopra, nel valore economico o sociale che attribuiamo loro. Afferrati dalle necessità della vita materiale, proni alle convenzioni e ai pregiudizi, mancipii di una cultura per lo più aridamente retorica, preferiamo un cumulo di nozioni e di apprezzamenti viziati dall’astrazione e dall’ipocrisia alla sola vera conoscenza, la quale secondo Proust, in un altro senso ma non meno che per Socrate e per Montaigne, è la conoscenza di noi stessi. Chi vuol possedere la vera sapienza, s’interni nei [sic] proprio cuore, s’immerga nella corrente della vita interiore, si «ascolti» vivere[181].

Interessante ai nostri fini soprattutto che si parli di “esistenza” (in relazione, ad esempio, al lessico che domina il successivo Realismo e fantasia) e di “scomparsa degli esseri che ci circondano” (in riferimento al romanzo-testamento).

Morselli prosegue la propria analisi precisando che l’opera di Proust non ignora il senso, ma «non lo mette a fondamento della vita e dell’arte»[182]. I personaggi più “amorosi” della Recherche, infatti, non amano soltanto platonicamente, ma lo fanno soprattutto con il cuore; per alcune pagine Morselli fa riferimento esplicitamente alla Vita Nova, ad esempio per quanto concerne il convegno amoroso di Marcel con Albertine/“Albertina” a Balbec, quando il protagonista raggiunge una sorta di estasi, intuendo che la morte non è possibile e che lo spirito è senza limiti, proprio grazie all’amore, che «esalta e solleva a cosmica ampiezza»[183] la sua vita. Nella Recherche l’amore è, dunque, «sentimento, travaglio dello spirito e anche talvolta suo stato di grazia. Non è solamente spasimo e traviamento del senso»[184]. Anche nell’amore, infatti, la sensazione per lo scrittore francese è strumento e non fine.

Per l’eroe di Proust, definito un «egoista»[185], Morselli parla di «soggettivismo, se non addirittura […] solipsismo»[186], due dei suoi termini-chiave: infatti, Marcel si considera solo e si compiace della propria solitudine[187], che ritiene la condizione perfetta soprattutto per l’artista, che deve fuggire non solo il «profanum vulgus, ma persino i sodali»[188].

Gli esseri dai quali Marcel si sente attratto di fatto gli forniscono solo un «sostrato corporeo alla proiezione esterna del suo io»[189]. Nella Recherche, la gelosia[190] e l’abitudine (o la «consuetudine»[191]), infatti, sono le «vere determinanti del sentimento amoroso»[192], che si riduce a una funzione puramente passiva e può ottundersi del tutto, fino a quando non giunga un mutamento esterno che, «sommuovendo le acque stagnanti del ‟lac interne”, ne faccia riaffiorare quell’affetto che vi è sprofondato, e come perso»[193] nelle cosiddette “intermittenze del cuore”. Da non dimenticare, al riguardo, che tali affermazioni trovano riscontro anche nel Diario morselliano: «L’abitudine non è (come asseriscono) fatto utilitario, o economico: è fatto del sentimento. Ciò che accomuna gli uomini non sono le idee ma le abitudini»[194].

L’età e la malattia, in seguito, operano in Marcel un ulteriore esaurimento spirituale che lo induce a isolarsi progressivamente, processo in cui Morselli rileva «qualcosa non d’innaturale ma di morboso»[195]. Le illuminazioni intime, non frequenti e fugaci finché l’uomo è immerso nell’azione e nei piaceri materiali, divengono più probabili quando egli si avvicina alla morte e vive in una condizione di isolamento quasi ascetico (anche il motivo dell’ascesi diverrà centrale nella riflessione morselliana, a partire da Realismo e fantasia).

Morselli ritiene che la Recherche dal punto di vista morale rispecchi il proprio autore, che probabilmente ha cercato nella forma artistica una catarsi, mettendo a nudo la propria anima, nonostante Marcel non riesca nell’opera a uscire dal proprio «egotismo»[196] (altro termine-chiave da annotare).

Morselli rileva che proprio il Parnassianesimo aveva affermato il primato della sensibilità, che non era stato condotto dai romantici alle estreme conseguenze, ovvero al «totale assorbimento della realtà esterna, obbiettiva»[197]; anche nella narrativa, accanto all’estetismo e all’autobiografismo, si venne progressivamente consolidando il culto dell’io che assorbe completamente l’oggetto, tanto che ad esempio in amore la donna non veniva considerata che un’occasione o un pretesto per il suo amante per esaltare sé stesso nel sentimento provato.

Come precedenti della maniera proustiana, Morselli cita addirittura Petrarca e nuovamente Leopardi, con la sua attenzione alla ricordanza e alla rimembranza; ma, a suo parere, pur con il suo soggettivismo e il suo disprezzo di ogni realtà che non sia interiore, Proust si rivela anche uno scrittore intellettualissimo e un osservatore esatto, metodico e sottile: infatti, «Esprit de finesse ed esprit de géometrie si alleano in lui e si riflettono congiunti nella sua opera»[198].

A mio avviso, molto interessante anche che Morselli concluda il saggio rilevando che la fama di Proust, dopo un folgorante successo negli anni tra il 1922 e il 1930, sia in declino, tramonto che a suo dire è iniziato poiché, in anni frenetici, convulsi, ansiosi del futuro, egli aveva una visione retrospettiva e un animo nostalgico, assolutamente fuori tempo nel periodo inquieto e febbrile precedente la guerra e in quello travagliato del conflitto militare. Morselli prevedeva che, al termine delle vicende belliche, la Recherche avrebbe conosciuto un nuovo periodo di popolarità, sebbene i diritti della ragione stessero tornando ad affermarsi in contrapposizione a quelli dell’intuizione e della sensibilità. D’altro canto, però, nell’opera proustiana, a parere di Morselli:

Ragione e sensibilità, realismo classico e romantico soggettivismo vi figurano insieme, nè [sic] vi restano giustapposti, ma si risolvono in una superiore sintesi poetica. Come l’eterna antitesi classico-romantica – a cui in fondo si riduce il dibattito, – si possa superare quando l’ispirazione dell’artista sia sincera, attinta al profondo. Proust lo ha mostrato»[199].

  1. Cfr. G. Morselli, Diario, Milano, Adelphi, 1988, Quaderno XV, nota del 9-12 dicembre 1966.
  2. Si citerà sempre dall’edizione: G. Morselli, Proust o del sentimento, a cura di M. Piazza, note al testo di M. Francioni, Torino, Ananke, 2007. Non si dimentichi che Piazza è anche l’autore del saggio Una lettura dimenticata: il Proust filosofo di Guido Morselli, in «Quaderni Proustiani», n. 4, 2007, pp. 122-35.
  3. Poi riedita in A. Banfi, Scritti letterari, a cura di C. Cordié, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 235-37.
  4. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 31.
  5. Che probabilmente Morselli aveva letto nell’edizione delle Œuvres complètes de Marcel Proust, Paris, Gallimard, édition «à la gerbe», 1929-1935, 18 voll.
  6. Guido Morselli. I percorsi sommersi. Inediti, immagini, documenti, a cura di E. Borsa e S. D’Arienzo, presentazione di A. Stella, Novara, Interlinea Edizioni, 1999, p. 17.
  7. Guido Morselli: immagini di una vita, a cura di V. Fortichiari e con uno scritto di G. Pontiggia, Milano, Rizzoli, 2001, p. 70.
  8. Cfr. V. Fortichiari, Introduzione a G. Morselli, Romanzi, vol. I, a cura di E. Borsa e S. D’Arienzo, con la collaborazione di P. Fazio, introduzione e cronologia di V. Fortichiari, Milano, Adelphi, 2002, p. XVII; cfr. anche M. Piazza, Introduzione a G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 7. Si veda, poi, A. Gratton, In viaggio attraverso le coordinate di un silenzio: breve introduzione all’opera narrativa di Guido Morselli, art. cit., pp. 162-63: «I soli volumi editi in vita da Morselli, quindi, sono due saggi i quali non hanno visto nel valore letterario la giustificazione per la loro pubblicazione, bensì nell’intercessione economica di un parente stretto dell’autore. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: perché Morselli, le cui condizioni economiche si mantennero sempre discretamente agiate per tutto l’arco della propria esistenza, non ripropose tale pratica anche in ambito romanzesco? Perché “dopo aver lavorato per decenni a numerosi romanzi” non cercò di pubblicarli a proprie spese, sperando magari che una limitata diffusione iniziale suscitasse poi gli interessi di qualche editore, sul modello sveviano? Se la pratica dell’“auto-produzione” era già stata perseguita dal Morselli saggista, perché non riproporla anche in ambito romanzesco? La prima ed evidente riflessione chiama in causa il ridottissimo apporto speculativo incontrato dalla pubblicazione dei saggi morselliani. Se un tema come quello dell’ermeneutica proustiana, di scottante modernità a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 del Novecento, non riporta traccia di alcun intervento morselliano, sorte ben più amara tocca ai dialoghi saggistico-filosofici di Realismo e fantasia, i quali, prima di essere pubblicati da Bocca a spese dell’autore, erano stati rifiutati da Arnoldo Mondadori in quanto: “tra le nostre collezioni non ce n’è una nella quale la tua opera possa degnamente figurare, e tu sai che le richieste dei lettori italiani si orientano esclusivamente verso i libri che sono raccolti in collane” [Gratton cita Arnoldo Mondadori traendolo da V. Fortichiari, La fama è postuma, in «Linea d’ombra», XVI, 132, aprile 1998, p. 39.]. Ipotizzare che le delusioni raccolte dalle pubblicazioni dei saggi inducano Morselli a rinunciare a successive auto-produzioni, non è affatto scorretto. Per un autore schivo e riservato come Morselli, l’essersi messo in discussione attraverso la pubblicazione dei propri testi era un passo decisamente difficile. L’aver riscontrato, poi, un sostanziale disinteresse da parte dell’intelligentija italiana, era sufficiente a convincerlo ad abbandonare tale pratica».
  9. G. Morselli, Diario, op. cit., 21 novembre 1943, Quaderno I.
  10. Cfr. V. Fortichiari, Introduzione a G. Morselli, Romanzi, vol. I, op. cit., p. XVIII; Ead., Invito alla lettura di Guido Morselli, Milano, Mursia, 1984, pp. 37 e 160.
  11. Cfr. G. Cenzato, Alla ricerca del tempo perduto, in «Corriere della Sera», 22-23 gennaio 1944.
  12. Cfr. G. Zanelli, D’Annunzio-Proust, in «Il Resto del Carlino», 7 maggio 1944.
  13. Cfr. M. Ramperti, Gli esordi di un critico, in «La Stampa», 28 aprile 1944, dal quale si cita. Tra gli interventi successivi sul volume, si ricordino almeno: M. Bongiovanni Bertini, Introduzione a Proust, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 208; G. Bosetti, Signification socioculturelle et sociopolitique du proustisme en Italie, in «Transalpina», 7, 2004, pp. 27-40: 31; G. Bogliolo, Proust e la critica italiana, in M. Proust, Dalla parte di Swann, Milano, Rizzoli, 1985, pp. 51-73, e in particolare le pp. 60-61. Tra gli studiosi di Morselli che si sono occupati del saggio, da ricordare: M. Fiorentino, Guido Morselli tra critica e letteratura, op. cit., pp. 49-97; S. Costa, Morselli, op. cit., pp. 13-19; V. Fortichiari, Invito alla lettura di Guido Morselli, op. cit., pp. 27-38; P. Villani, Il «caso» Morselli. Il registro letterario filosofico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998, pp. 120-26.
  14. M. Ramperti, Gli esordi di un critico, art. cit.
  15. W. Shakespeare, Misura per misura, traduzione di L. Squarzina, introduzione di A. L. Zazo, Milano, Mondadori, 1990, III ed., p. 9.
  16. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 9.
  17. M. Piazza, Introduzione a G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 18. Al riguardo cfr. anche M. Fiorentino, Guido Morselli tra critica e narrativa, pref. di F. D’Episcopo, Napoli, Eurocomp, 2002, p. 65.
  18. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 31 (come la citazione che segue).
  19. Al riguardo, si veda M. Fiorentino, Guido Morselli tra critica e narrativa, op. cit., p. 95: dopo il primo decennio di successo e fortuna, iniziò, infatti, un periodo di scarsa attenzione critica all’opera.
  20. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 31.
  21. Ivi, p. 32 (come le due citazioni che seguono).
  22. Ivi, p. 32, nota 1.
  23. Cfr. G. Debenedetti, Saggi critici, Firenze, Solaria, 1929. Riguardo al rapporto fra Proust e Debenedetti (e non solo), cfr. M. Francioni, La presenza di Proust nel Novecento italiano. Debenedetti, Morselli, Sereni, Pisa, Pacini Editore, 2010; il cap. IV del volume, À la recherche du temps perdu nella scrittura di Guido Morselli, era già uscito, con lo stesso titolo ma in una forma sensibilmente diversa, in «Quaderni Proustiani», n. 4, a cura di G. Girimonti Greco e M. Piazza, 2007, pp. 136-57.
  24. Cfr. A. Capasso, Marcel Proust, Milano-Genova-Napoli, Società Anonima Ed. Dante Alighieri, 1935.
  25. Cfr. D. Vittoz, Guido Morselli e la figura dell’autore (con appendice inedita), in «Autografo», Ipotesi su Morselli, a. XIV, n. 37, luglio-dicembre 1998, pp. 23-48.
  26. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 33, nota 3.
  27. Ibidem.
  28. Cfr. F. D’Episcopo, L’eresia del sentimento – Guido Morselli, Napoli, Oxiana, 1998.
  29. Ivi, pp. 11-12.
  30. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 37.
  31. Ivi, pp. 37-38.
  32. Ivi, p. 38.
  33. Ibidem.
  34. Si trovano riferimenti a Montaigne in Un dramma borghese, Il comunista, Dissipatio H.G. etc.
  35. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 38 (come le due citazioni che seguono).
  36. S. Costa, Guido Morselli, Firenze, La Nuova Italia, 1981, p. 16. Al riguardo si veda la nota di Diario del 7 maggio 1963 (Quaderno XIV): «La morale degli antichi (greci), coi suoi precetti dell’apàtheia, dell’atarassia, ecc. è ben compendiata nel celebre preambolo di Epitteto. “Le cose sono di due specie, alcune sono in nostro potere, altre no. […] Dove è da notarsi che fra le cose che non ci appartengono, non solo vanno annoverate tutte quante indistintamente quelle che formano il mondo esterno, ma persino il nostro corpo, la nostra salute fisica. L’errore comune a tutti questi moralisti, consiste nel non tener conto del fatto, innegabile e fondamentale, che il nostro essere ha confini estremamente più estesi che non siano i limiti della nostra anima. Non parlo delle creature che amiamo; vorrei solo accennare agli oggetti, gli oggetti presunti materiali. Quella vecchia piazzetta della mia città, è parte integrante di me, dei miei ricordi, dei miei sentimenti, e perciò del mio stesso “presente”. Sì, potrei cercare di amputarla da me, di privarmi di questa estensione del mio essere, ma ci riuscirei solo a patto di mutilarmi. […] quel giorno in cui la vecchia piazzetta sarà demolita, o guastata, soffrirò, mi sentirò colpito nel mio stesso individuo sentimentale; ma frattanto avrò goduto innumerevoli volte, nel camminarci, della sua rispondenza col mio gusto e sentimento. […] Cfr. il giudizio di Leopardi premesso alla sua versione del Manuale di Epitteto. Per Leopardi, la vera nobiltà dell’animo non è la “atarassia” degli stoici».
  37. Cfr. A. Capasso, Debenedetti e Proust, in «Solaria», a. V, n. 1, 1930, pp. 25-38; V. Pietrantonio, Debenedetti e il suo doppio. Una traversata con Marcel Proust, Bologna, Il Mulino, 2003.
  38. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 40.
  39. Ibidem.
  40. Ivi, p. 39 (come la citazione che segue).
  41. Ivi, p. 40. Come ha ricostruito Mario Baudino, il Natale del 1912 fu uno dei peggiori della vita di Proust a causa di due rifiuti ricevuti da parte dell’editore Fasquelle e della «Nouvelle revue française», fondata da Gide ed edita da Gallimard. Dopo un ulteriore rifiuto da parte del direttore della casa editrice Ollendorff, Alfred Humboldt, il testo venne accettato da Grasset. Cfr. M. Baudino, Il gran rifiuto. Storie di autori e di libri rifiutati dagli editori, Milano, Passigli, 2009, pp. 22-30.
  42. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 41.
  43. Ivi, p. 44.
  44. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno I, 25 novembre 1943.
  45. Ivi, Quaderno IX, 7 settembre 1944.
  46. Per la traduzione italiana si fa riferimento a M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, ed. diretta da L. De Maria, note di A. Beretta Anguissola, D. Galateria, trad. di G. Raboni, prefazione di C. Bo, Milano, Mondadori, 1998, IX ed., voll. I-IV, vol. IV, p. 549.
  47. Concetto che si rivela assai utile nell’analisi dell’ultimo romanzo di Morselli, Dissipatio H.G., che, com’è noto, inizia con la misteriosa e improvvisa sparizione di tutto il genere umano dalla faccia della Terra, ad eccezione del protagonista, voce narrante. Sull’interpretazione del romanzo mi permetto di rimandare a M. Panetta, Da Fede e critica a Dissipatio H.G.: Morselli, il solipsismo e il peccato della superbia, in «Rivista di studi italiani», numero monografico dedicato a Guido Morselli, a cura di A. Gaudio, a. XXVII, n. 2, dicembre 2009, pp. 205-37 (www.rivistadistudiitaliani.it). Al riguardo si veda anche A. Gratton, In viaggio attraverso le coordinate di un silenzio: breve introduzione all’opera narrativa di Guido Morselli, in «Quaderns d’Italià», 14, 2009, pp. 159-76: 161: «la trama di Dissipatio H.G. sembrerebbe essere una sorta di rivalsa letteraria del Morselli narratore: l’esemplificazione narrativa di un vuoto pneumatico che, dopo essergli stato riservato dal mondo delle lettere per tutta la sua esistenza, si sublima sulle pagine del suo ultimo romanzo».
  48. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, intr. di G. Vattimo, trad. di A. Vigliani, N. Palanga, G. Riconda, Milano, Mondadori, 1989, pp. 1486-87 (corsivo mio).
  49. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. IV, op. cit., p. 548.
  50. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 47.
  51. Ibidem.
  52. Al riguardo si veda almeno F. Pierangeli, Le «Operette» e «Dissipatio H. G.» di Guido Morselli: dell’estinzione e di un’ultima pietà, in «Quel libro senza uguali». Le «Operette morali» e il Novecento italiano, a cura di N. Bellucci e A. Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 271-81.
  53. Sul rapporto fra Morselli e Dante si veda il recentissimo F. Pierangeli, Dante a margine e le interrogazioni di Guido Morselli, Milano, Mimesis, 2022.
  54. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 48.
  55. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. IV, op. cit., p. 553.
  56. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 49 (come le tre citazioni che seguono).
  57. Ivi, p. 50.
  58. Al riguardo cfr. anche A. Di Grado, La musica dell’uomo solo, in «In limine. Quaderni letterature viaggi teatri», numero su Guido Morselli a cura di A. Gaudio e F. Pierangeli, n. 8, agosto 2012, pp. 31-41, cit. a p. 35: «Irrimediabilmente, scontrosamente soli sono i protagonisti di tutti i romanzi di Morselli: uomini disincantati, coriacei se pur tentati, austeri e misantropi («fobantropo» […] si definirà, addirittura, il protagonista di Dissipatio), estranei al mondo, anzi stranieri. A definire il loro, e perciò la loro condizione borderline, ci soccorre un termine caro a Giuseppe Rensi, il filosofo italiano prediletto da Morselli (e più tardi riscoperto da Sciascia): otherworldliness […]. Potremmo tradurre: oltremondanità, ovvero esser oltre, altrove, alieni in questo mondo».
  59. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. IV, op. cit., pp. 555-56. Passo da tenere a mente anche in relazione all’esegesi di Dissipatio H.G.
  60. Ivi, p. 557.
  61. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno IV, 14 dicembre 1943.
  62. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 52 (come le due citazioni che seguono).
  63. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, ed. cit., vol. IV, p. 578.
  64. G. Morselli, Dissipatio H.G. [1977], Milano, Adelphi, 2009, XI ed., p. 9.
  65. Ivi, p. 10.
  66. Da notare questo “noi” (corsivo mio), che volutamente ricomprende Morselli stesso.
  67. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 52 (come le due citazioni che seguono).
  68. Ibidem. Alla luce di questo meccanismo, si potrebbe spiegare, forse, anche il motivo per cui il protagonista di Dissipatio H.G. afferma di essersi recato subito nella redazione del giornale per il quale lavorava da giovane per avere conferma della sparizione del resto del genere umano, riannodando, di fatto, i fili col proprio passato piuttosto che col presente.
  69. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 53.
  70. Ivi, p. 54.
  71. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, ed. cit., vol. IV, p. 564.
  72. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 54.
  73. Ivi, p. 55.
  74. Ibidem.
  75. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, vol. I, ed. cit., p. 224 (corsivo mio). L’immagine finale colpisce sempre in relazione alla suggestione che ha dato il via a Dissipatio H.G.
  76. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Albertine scomparsa, vol. IV, ed. cit., p. 153.
  77. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 56.
  78. Ivi, p. 57.
  79. G. Morselli, Dissipatio H.G., op. cit., p. 23.
  80. Ivi, p. 25.
  81. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 57.
  82. G. Morselli, Dissipatio H.G., op. cit., p. 57.
  83. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 58.
  84. Ivi, p. 59 (come la citazione che segue).
  85. Ivi, p. 60.
  86. Ibidem.
  87. Ivi, p. 62.
  88. Ibidem.
  89. Ivi, p. 64.
  90. Ivi, p. 66.
  91. Ibidem.
  92. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. IV, ed. cit., p. 598 (corsivo mio).
  93. Si veda, ad esempio, S. Lazzarin, Atomiche all’italiana. Il tema della catastrofe nucleare nella fantascienza italiana d’autore (1950-1978), in «Testo», 2010, 59, pp. 97-115.
  94. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 69.
  95. Ivi, p. 70.
  96. Ivi, p. 71.
  97. Ibidem (corsivi miei).
  98. G. Morselli, Dissipatio H.G., op. cit., p. 23.
  99. Il parallelismo con la psicoanalisi freudiana era stato sostenuto soprattutto da Georges Gabory in Essai sur Marcel Proust, Paris, Le Livre, 1926.
  100. G. Morselli, Dissipatio H.G., op. cit., p. 24.
  101. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, vol. I, ed. cit., pp. 157-58.
  102. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Il tempo ritrovato, vol. IV cit., p. 489 (corsivo mio).
  103. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 74 (i primi due corsivi nella citazione sono miei).
  104. Al riguardo cfr. S. Raffo, L’amorosa dissipatio dell’Io morselliano, in «In limine. Quaderni letterature viaggi teatri», numero su Guido Morselli cit., pp. 85-88, cit. a p. 87: «Sarebbe interessante verificare quanti altri testi della narrativa italiana del secondo Novecento presentano una ricorrenza dell’io così ossessiva e simmetrica. Il narratore interno è abbastanza consueto in un certo genere di romanzi post-moraviani, e sortisce sempre l’effetto di una ‘riduzione’ egocentrica che in realtà lavora a svantaggio dell’ego (vincente, compatto, a tutto tondo), giacché il ‘ritagliarsi’ dello spazio attorno al protagonista è in realtà un ‘dissiparsi’, non arricchisce le sue ‘chances’, ma al contrario lo espone a rischi infiniti: proprio per il fatto di ‘non sapere’ e ‘non vedere’ se non una limitata porzione di nozioni o di orizzonti, l’io narrante ci risulta inerme, indifeso, e riesce a coinvolgerci emotivamente più di un qualsiasi personaggio nominato con più o meno benevolo distacco dal narratore onnisciente, che come un burattinaio ha già preordinato le mosse dei suoi burattini». Sempre utile anche B. Pischedda, Morselli: una “Dissipatio” molto postmoderna, in «Filologia antica e moderna», X, 2000, n. 19, pp. 163-89.
  105. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 76. Sull’importanza della continuità nei sentimenti si legga la nota del Diario datata 16 dicembre 1965, Quaderno XV.
  106. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 80.
  107. Ivi, pp. 80-81.
  108. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 81 (corsivo mio).
  109. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Il tempo ritrovato, vol. IV, ed. cit., p. 571.
  110. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 81.
  111. Ivi, pp. 81-82.
  112. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Il tempo ritrovato, vol. IV, ed. cit., p. 596.
  113. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 82.
  114. Cfr. G. W. von Leibniz, La monadologia e altri scritti, a cura di G. Seregni, Milano, Athena, 1926.
  115. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Il tempo ritrovato, vol. IV, ed. cit., p. 559.
  116. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 85 (corsivo mio). Alla luce di tale affermazione Dissipatio H.G. si potrebbe venire a configurare come una sorta di estremo “messaggio nella bottiglia” lanciato da un “naufrago” a destinatari ignoti.
  117. Idea tratta da Adriano Tilgher, L’esthétique de Marcel Proust, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», t. CXV, 1933, fasc. 1-2, pp. 128-32; poi in Id., Studi di poetica, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1934, pp. 219-28 col titolo La poetica di Proust.
  118. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 93.
  119. R. Boylesve, Premières réflexions sur l’œuvre de Marcel Proust, in Hommage à Marcel Proust, 1871-1922, «La Nouvelle Revue Française», t. XX, 1923, p. 116.
  120. La traduzione è tratta dalla nota 4, a p. 93 del saggio di Morselli su Proust citato.
  121. Ivi, p. 95.
  122. M. Piazza, Introduzione a G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 11.
  123. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 103.
  124. G. Morselli, L’imprevedibilità dei tipi di romanzo e la «Ragazza» di Iris Murdoch, in «La Cultura», a. IV, n. 3, luglio 1966, pp. 421-23.
  125. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 108.
  126. Ivi, p. 109.
  127. Ivi, p. 110.
  128. Ibidem.
  129. Ibidem.
  130. Ivi, p. 113.
  131. Al riguardo si legga anche un paragrafo di G. Morselli, Teologia in crisi, in P. Villani, Un mistico ribelle. A-teologia e scrittura in Guido Morselli, Napoli, Graus edizioni, 2012, pp. 279-82.
  132. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 113.
  133. Ibidem.
  134. Ivi, p. 115.
  135. Ivi, p. 113.
  136. Ivi, p. 115.
  137. Ivi, p. 117 (il primo e l’ultimo corsivo nella citazione sono miei).
  138. Si veda A. Schopenhauer, Parerga e paralipomeni, a cura di G. Colli e M. Carpitella, trad. di M. Montinari ed E. Amendola Kuhn, Milano, Adelphi, 1983, voll. 2.
  139. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 126. Riflettendo su questa osservazione, potremmo anche interpretare Dissipatio H.G. in tal senso, come se il mondo inanimato che continua a vivere di vita propria, nonostante la sparizione del genere umano, potesse essere una proiezione del protagonista sulla realtà esterna e, dunque, si rivelasse come manovrato dalla sua stessa mente, sebbene in maniera per lui del tutto inconsapevole.
  140. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 127 (come la citazione che segue).
  141. Ivi, p. 129.
  142. Ibidem.
  143. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno XIII, 10 ottobre 1950.
  144. Ivi, 20 giugno 1956 (come le due citazioni che seguono).
  145. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 132.
  146. Ivi, p. 134.
  147. Ivi, p. 135 (come le due citazioni che seguono).
  148. Al riguardo, si veda: L. Cammarano, Proust: una ineliminabile religiosità “strutturale”, in «Quaderni Proustiani», n. 2, 2002, pp. 63-70.
  149. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 135.
  150. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, vol. I, p. 515. Lo stesso concetto si ritrova in una pagina del Diario morselliano del 14 dicembre 1943: cfr. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno IV, 14 dicembre 1943.
  151. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 139.
  152. Ibidem.
  153. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno II, 4 dicembre 1943 (il primo corsivo è mio).
  154. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La Prigioniera, vol. III, ed. cit., p. 558.
  155. G. Morselli, Diario, op. cit., p. 14, Quaderno II, nota 2. Su Croce si veda anche la nota del Diario del 13 gennaio 1945: G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno IX.
  156. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, All’ombra delle fanciulle in fiore, vol. I, p. 872.
  157. Ibidem.
  158. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 145 (corsivo mio).
  159. Al riguardo si veda F. Tuccillo, L’infelicità del vivere e la felicità della scrittura: i saggi di Guido Morselli, in «Riscontri», XXIX, 2007, 2-3, pp. 47-55.
  160. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 149.
  161. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno IV, 14 dicembre 1943.
  162. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 151.
  163. Ivi, p. 152.
  164. Ibidem.
  165. Ibidem.
  166. Ivi, p. 155.
  167. Ivi, p. 156.
  168. Ibidem.
  169. Ivi, p. 160 (corsivi miei).
  170. In realtà, una pagina sulla nostalgia e la malinconia si trova anche nel Diario, in relazione a Saverio, protagonista di Uomini e amori; cfr. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno IV, 29 dicembre 1943. Da leggere anche la successiva, scritta nello stesso giorno: «Desolante povertà della nostra fraseologia sentimentale! Nostalgia, stato d’animo, fantasticheria, réverie, malinconia, tristezza, sono, con pochi altri, i termini di cui disponiamo per esprimere tutta un’immensa gamma di valori spirituali».
  171. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 161 (corsivo mio).
  172. Ivi, p. 162.
  173. Ivi, p. 167.
  174. Ivi, p. 170. Si veda al riguardo un passo del Diario in cui si descrive Sandro (che poi diventerà Vito Cambria) di Uomini e amori negli stessi termini di «perfetto equilibrio tra i sensi e lo spirito»; cfr. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno V, 2 gennaio 1944.
  175. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 170.
  176. Ivi, p. 176.
  177. Ivi, p. 178.
  178. Ivi, p. 181.
  179. Ivi, p. 182.
  180. Ivi, p. 183.
  181. Ivi, p. 186. Il secondo corsivo è mio.
  182. Ivi, p. 187.
  183. Ivi, p. 190.
  184. Ibidem.
  185. Ivi, p. 193. Nel Diario, in data 19 giugno 1938, Morselli annota: «Uno dei tanti mali con cui è punito l’egoista, sta in questo: che intorno a sé egli non vede se non egoismo. Come a lui stesso, agli altri generosità, disinteresse debbono essere sconosciuti». Cfr. G. Morselli, Diario, prefazione di G. Pontiggia, testo e note a cura di V. Fortichiari, Milano, Adelphi, 1988, Quaderno I. Anche in Realismo e fantasia si parla di «egoismo del possesso» e «orgoglio della preda» in relazione alla pesca di un luccio: cfr. G. Morselli, Realismo e fantasia. Dialoghi, introduzione di V. Fortichiari, Varese, NEM, 2009, p. 154.
  186. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 193 (corsivi miei).
  187. Della città di Francoforte, in un articolo del 1937, si dice che «la solitudine sembra essere la sua più natural condizione»: G. Morselli, Vecchia Francoforte, in Id., La felicità non è un lusso, a cura di V. Fortichiari, Milano, Adelphi, 1994, pp. 11-22, cit. a p. 14.
  188. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 193.
  189. Ivi, p. 194.
  190. Sulla gelosia si ricordi la pagina di Diario riferita a Saverio, protagonista di Uomini e amori, e vergata il 28 dicembre 1943: «Non vi era uomo in cui egli non sospettasse un possibile rivale […]». Cfr. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno IV, 28 dicembre 1943; cfr. anche Quaderno X, 11 maggio 1946.
  191. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno X, 29 giugno 1946.
  192. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 195.
  193. Ivi, p. 196 (corsivo mio).
  194. G. Morselli, Diario, op. cit., Quaderno IV, 29 dicembre 1943.
  195. G. Morselli, Proust o del sentimento, op. cit., p. 197.
  196. Ivi, p. 203.
  197. Ivi, p. 207.
  198. Ivi, p. 215.
  199. Ivi, p. 222 (corsivo mio). Una versione più ampia e articolata di questo saggio è apparsa nella monografia M. Panetta, Le ossessioni di Morselli: soggettivismo, isolamento e tracotanza in Dissipatio H.G., Manziana (RM), Vecchiarelli, 2020, pp. 11-51 (per la quale si ringrazia di cuore l’editore Varo Vecchiarelli). La bibliografia del contributo è stata aggiornata al 2022. [Questo saggio è dedicato, con affetto e stima profondi, al filosofo Stefano Genio, che è stato uno dei primi a leggere – disinteressatamente e integralmente – la mia monografia morselliana subito dopo la sua pubblicazione].

(fasc. 46, 30 dicembre 2022)