Che alcuni scrittori, anche i più grandi, si citino a vicenda in modo esplicito o sottotraccia, è una prassi che la filosofia, l’ermeneutica e la critica letteraria conoscono fin troppo bene. Si potrebbe, forse, dire che la ricostruzione delle citazioni e l’archeologia dei debiti di un autore verso l’altro, benché mai definitivi per un progetto interpretativo complessivo, costituiscano di fatto gran parte del lavoro di queste discipline. E, se c’è un autore che ha fatto della citazione il proprio marchio di fabbrica, questo è Walter Benjamin.
Il suo modo di lavorare è molto noto: tutta la sua ricerca consisteva nella raccolta di citazioni, che custodiva gelosamente come un re con i gioielli della sua corona e che poi confluivano nel trattato o nel saggio da scrivere[1]. Ciò nondimeno, accade molto di frequente che alcuni autori siano restii ad ammettere i loro debiti, a palesare le fonti da cui hanno attinto per non compromettere l’assoluta originalità dell’opera o semplicemente perché alcune tesi le hanno assorbite al punto da aver trasformato il proprio pensiero senza averne preso minimamente consapevolezza. Il compito della critica sta anche in questo: tentare per quanto possibile di mostrare ciò che forse nemmeno agli autori era manifesto, e con questo proporre un’interpretazione, un’immagine veritiera del significato che un’opera custodisce in sé.
Perché allora Benjamin? Alle volte, la gioia di chi fa filosofia ed ermeneutica sta nel trovare insospettati punti di contatto fra due autori, la cui relazione poteva anche essere nota ma non così decisiva come poi alcuni rilievi fanno invece supporre. Come nel caso in cui, e mi si consenta questa metafora, si scopre in tarda età di essere stati amati dalla stessa persona di cui eravamo innamorati ma di cui non avevamo presentito un bel niente (e con questo ci avviciniamo così al nostro secondo autore). Cercherò, quindi, di intavolare un confronto fra due famosi testi, uno di Marcel Proust e l’altro di Walter Benjamin, tentando di intercettare un’eco che dal primo si prolunga sul secondo e di istituire un colloquio in cui entrambi possano illuminarsi a vicenda e dirci qualcosa di più sull’aspirazione alla felicità che intrama le nostre vite e la storia. Del resto, lo stesso Benjamin, in un preziosissimo frammento del Passagenwerk, afferma che la sua poderosa opera sull’Ottocento avrebbe dovuto iniziare allo stesso modo in cui comincia la Recherche, con un risveglio: «Così come Proust comincia la storia della sua vita con il risveglio, con il risveglio deve cominciare anche ogni esposizione storica; essa, anzi, non può propriamente trattare di altro. Questa esposizione tratta, dunque, del risveglio del XIX secolo»[2]. Il la del Passagenwerk nelle intenzioni di Benjamin avrebbe, quindi, dovuto essere proustiano. E forse questa traccia è ravvisabile persino più oltre[3].
L’aria del paradiso
La presenza di Proust in Benjamin è certamente meno consistente ed eclatante rispetto ad altri autori, e penso naturalmente, ad esempio, a Baudelaire, Kafka e Goethe[4]. Nondimeno, il rapporto fra i due fu profondo. Se si ricordano la ben nota prima traduzione in tedesco della Recherche (sebbene solo dei primi quattro volumi e assieme a Franz Hessel[5]) realizzata proprio da Benjamin, l’importanza teologico-filosofica che la traduzione rivestiva per il filosofo berlinese[6], gli altri saggi di argomento proustiano[7], le numerose lettere (tra cui spiccano quelle all’amico Scholem[8]), gli appunti del Passagenwerk in cui il nome di Proust è tra quelli più ricorrenti[9], più le opere genuinamente letterarie (e mi riferisco alla Berliner Kindheit[10] e agli Städtebilder), ciò basta a preventivare un influsso cospicuo dello scrittore sul filosofo. Direi però che tale influsso vada ricercato anche altrove. Azzardo nell’opera più celebre e più giustamente studiata che Benjamin ci abbia lasciato, le Thesen über den Begriff der Geschichte[11]. Ma andiamo in ordine cronologico, partendo dall’autore più “antico”.
La nostra prima citazione viene dal Temps retrouvé ed è una delle frasi più belle, e a mio giudizio anche una delle più commoventi, dell’intera Recherche:
Il est vrai que ces changements, nous les avons accomplis insensiblement; mais entre le souvenir qui nous revient brusquement et notre état actuel, de même qu’entre deux souvenirs d’années, de lieux, d’heures différentes, la distance est telle que cela suffirait, en dehors même d’une originalité spécifique, à les rendre incomparables les uns aux autres. Oui, si le souvenir, grâce à l’oubli, n’a pu contracter aucun lien, jeter aucun chaînon entre lui et la minute présente, s’il est resté à sa place, à sa date, s’il a gardé ses distances, son isolement dans le creux d’une vallé ou à la pointe d’un sommet, il fait tout à coup respirer un air nouveau, précisement parce que c’est un air qu’on a respiré autrefois, cet air plus pur que les poètes ont vainement essayé de faire régner dans le paradis et qui ne pourrait donner cette sensation profonde de renouvellement que s’il avait été réspiré déjà, car les vrais paradis sont les paradis qu’on a perdus[12].
Brevemente, il contesto proustiano è il seguente. Il Narratore si trova fra il cortile e la biblioteca del palazzo della principessa di Guermantes, luogo nel quale va in scena il lugubre Bal des Têtes, il secondo dei momenti risolutivi dell’intero romanzo[13]. Proprio qui e ora, quando credeva che nulla più avrebbe potuto cambiare la sua vita in meglio, disilluso sul fatto di non avere alcun talento e di aver attribuito alla letteratura un valore maggiore di quello che in realtà crede che possieda, ecco che accadono quei barbagli materico-temporali, i ricordi suscitati dalla memoria involontaria che provocano in lui la gioia decisiva che lo porterà a confidare ancora nel valore dell’arte e a benedire la sua vita. Si ha dunque, in altri termini, la premessa per il riscatto in forma letteraria dell’esistenza fin lì condotta, la quale egli credeva essere pervasa in modo inemendabile dal peccato, il tempo perduto.
Due tagli spazio-temporali sideralmente distanti tra loro – di cui si ignorava persino l’esistenza, essendo uno dei due, quello più remoto, sprofondato nell’oblio – improvvisamente risorgono a nuova vita, regalando una felicità così potente da redimere dal dolore e dalla somma afflizione che ormai avevano segnato in maniera quasi irreversibile il Narratore. Questi istanti che si uniscono nell’analogia di una sensazione, e che l’intelligenza per qualche ragione non aveva considerato per poi inabissarsi in modo assolutamente inconsapevole, fanno riemergere una parte di noi che credevamo indisponibile, come, nel caso del Narratore, la Combray dell’inizio del romanzo oppure la Venezia in cui anni prima era stato insieme alla madre. Ma la distanza che separa, la vertigine eretta dagli anni trascorsi che ci hanno prolungato nel tempo, d’un tratto viene annullata, e torniamo in un mondo sconosciuto che era in noi, ma che poteva venire alla luce solo in determinate circostanze. Proust afferma che è come visitare luoghi di “felicità” e di “purezza”, resi tali dalla distanza che li ha affrancati dall’efferatezza del divenire e li ha consegnati a un senza tempo attingibile grazie alla memoria involontaria o, come il Narratore apprenderà in seguito, grazie all’arte somma, la letteratura. Non potremmo cogliere affatto il rinnovamento, aggiunge Proust, se tale cambiamento non fosse accaduto, se gli anni non avessero istituito questa separazione.
Il tempo che avanza, edificando la distanza, e la memoria che la accorcia possono dirsi grazia, purificazione e redenzione: «Perché ciò che è guardato con gli occhi del ricordo è amato e redento, ciò che è vissuto così, in un attimo, cambia completamente aspetto, come se la distanza depurasse e desse forma, trasfigurando e sollevando»[14]. Anche quelli di Proust sono attimi, ma la sua opera è un respiro nell’eterno che con la parola dà spazio, tempo e misura, e che redime, trasfigura e innalza: «l’άλήθεια, la verità, implica non soltanto il portare a evidenza ciò che prima era nascosto ma anche l’uscire dal Lete, dal flusso dell’oblio, dal fiume della dimenticanza, in modo da conservare ciò che non può essere dimenticato»[15]. La memoria involontaria, come poi sarà la scrittura letteraria, ci fa riconoscere la vita passata come più luminosa, come qualcosa verso cui provare persino felicità in luogo della tristezza e del dolore che provavamo un tempo. Se non avessimo respirato l’aria di quel passato, dice Proust, non avremmo potuto assaporare il rinnovamento. Ma la sottigliezza del ragionamento proustiano non si ferma qui. Credo che lo scrittore voglia dire che la felicità sia possibile soltanto “al passato”. I veri paradisi, i luoghi cioè della felicità e della redenzione, sono infatti quelli che abbiamo perduto, come se solo la perdita potesse generare gioia, riscoperta tramite la renovatio che l’annullamento della distanza porta con sé. La felicità, per così dire, diventa tale nella perdita del tempo a cui si riferisce e si genera dal ritrovamento di tale tempo.
L’aria della storia
Questo, in buona sostanza, è Proust. Cosa accade ora con Benjamin? Credo che questa pagina proustiana abbia un riverbero (e forse non solo questo) in un altro brano benjaminiano, la seconda delle tesi sul concetto di storia, che riporto per intero:
«Zu den bemerkenswerthesten Eigentümlichkeiten des menschlichen Gemüths», sagt Lotze, «gehört… neben so vieler Selbstsucht im Einzelnen die allgemeine Neidlosigkeit jeder Gegenwart gegen ihre Zukunft». Diese Reflexion führt darauf, daß das Bild von Glück, das wir hegen, durch und durch von der Zeit tingiert ist, in welche der Verlauf unseres eigenen Daseins uns nun einmal verwiesen hat. Glück, das Neid in uns erwecken könnte, gibt es nur in der Luft, die wir geatmet haben, mit Menschen, zu denen wir hätten reden, mit Frauen, die sich uns hätten geben können. Es schwingt, mit andern Worten, in der Vorstellung des Glücks unveräußerlich die der Erlösung mit. Mit der Vorstellung der Vergangenheit, welche die Geschichte zu ihrer Sache macht, verhält es sich ebenso. Die Vergangenheit führt einen heimlichen Index mit, durch den sie auf die Erlösung verwiesen wird. Streift denn nicht uns selber ein Hauch der Luft, die um die Früheren gewesen ist? ist nicht im Stimmen, denen wir unser Ohr schenken, ein Echo von nun verstummten? haben die Frauen, die wir umwerben, nicht Schwestern, die sie nicht mehr gekannt haben? Ist dem so, dann besteht eine geheime Verabredung zwischen den gewesen Geschlechtern und unserem. Dann sind wir auf der Erde erwartet worden. Dann ist uns wie jedem Geschlecht, das vor uns war, eine schwache messianische Kraft mitgegeben, an welche die Vergagenheit Anspruch hat. Billig ist dieser Anspruch nicht abzufertigen. Der historische Materialist weiß darum[16].
Se considerata nella sua interezza, sembra che non ci sia nessun punto in comune. Sembra anche che gli argomenti di cui trattano i due testi siano semplicemente inconciliabili. Tuttavia, il fatto che Benjamin utilizzi, in quanto esperto conoscitore di Proust, un’espressione che può certamente aver concepito in modo originale ma che possiede un precedente così illustre e molto noto, almeno ai miei occhi appare ben più di una coincidenza. E, anche se lo fosse, sarei disposto ovviamente a concedere una felicissima convergenza teoretica. Ciò che comunque appare evidente nella concezione benjaminiana della storia, pur allo stato frammentario in cui si trova, è una plausibile matrice proustiana. Ma analizziamo il testo più da vicino.
L’attacco polemico che Benjamin usa per introdurre le sue tesi costituisce, anche qui, un netto cambio di prospettiva rispetto al senso comune. Se non altro, trovo molto curioso che della citazione di Lotze il filosofo berlinese conservi la Neid, l’‘invidia’ che, a detta dello storico, ogni presente dovrebbe provare verso il futuro, auspicando dunque un’azione motrice e proattiva su ciò che in senso temporale abbiamo “davanti”. Benjamin è, però, all’indietro che guarda. L’invidia si prova verso qualcuno o qualcosa che possiede ciò che noi non abbiamo. Ma qui credo che si tratti di un’invidia assai particolare, una forma molto peculiare di rammarico per quello che poteva accadere ma che non è accaduto, e che reclama di avere nuovamente tempo. L’affermazione di Lotze, commentata da Benjamin, significa immaginare (anche nel senso della Bild benjaminiana, e cioè come momento temporalmente singolarizzato e rappresentazionale) la felicità che può compiersi nel futuro in una concezione del passato in cui la storia, sia individuale che collettiva, non può essere modificata. Accettare Lotze, accogliere cioè che si può provare invidia e avere aspirazione a una felicità realizzabile soltanto nel futuro, vuol dire per Benjamin accettare il presente “così com’è”. E in che modo è il presente? A questa domanda possiamo rispondere facendo ricorso a entrambi i nostri autori di riferimento.
Il presente è maceria, è la distruzione su cui si staglia in volo l’angelo della storia, quella storia che per Benjamin «rimase dall’inizio alla fine un Trauerspiel»[17] e che è anche la devastazione esistenziale, fisica e temporale della Parigi della Prima guerra mondiale, dei corpi degli amici e delle amiche di un tempo del Narratore, e naturalmente anche di lui stesso. Una vibrazione comune attraversa, silenziosa ma potente, entrambi i brani. Come ne è attraversata, del resto, tutta l’opera di Benjamin e di Proust; vale a dire da quel desiderio di felicità e di redenzione che altro non sono, in realtà, che due modi diversi per riferirsi alla stessa cosa: l’istanza mai completamente risolvibile e sempre costante dell’umano di “salvarsi”[18]. Benjamin ha, dunque, perfettamente ragione quando nella prima tesi afferma che il motore invisibile della storia è la teologia, cioè quella tensione verso la compiutezza che motiva fin nel profondo, ed è ciò che sostengo, anche la Recherche. Relegati come siamo in questo presente che nulla concede alla felicità a venire, il filosofo e lo scrittore concepiscono una forma di riscatto, una fenomenologia della rassegnazione a cui far seguire una metafisica della redenzione. Dice Benjamin che la felicità che potrebbe destare in noi invidia è, in prima battuta, «in der Luft, die wir geatmet haben», nelle persone che avrebbero potuto esserci amiche e che avrebbero potuto arricchire la nostra vita ma cui abbiamo rinunciato, ma soprattutto nelle donne che avrebbero potuto dirci di sì, con Proust la più grande richiesta di salvezza che possiamo mai formulare, il Messia che è impossibile non desiderare e da cui sperare di ricevere la gioia decisiva. In altri termini, penso che Benjamin ci abbia spiegato in poco più di cinque righe che cosa sia la felicità per gli esseri umani: godere della pienezza del luogo e del tempo in cui ci troviamo, avere persone che nel nostro orizzonte esistenziale ci rendano la vita nutriente e significativa, darsi a qualcuno che dedichi la sua vita a noi – e noi a lui –, nel sentimento più intenso e riempitivo che si possa mai provare. Con la splendida sintesi di Moroncini, tali temi vengono articolati in questo modo: «Rendere giustizia ai fenomeni vuol dire dar voce ai vinti, far proprio nelle macerie del passato – ma anche nella catastrofe presente – ciò che ancora risuona: il desiderio di felicità calpestato, l’amore omesso, la gentilezza umana trascurata, il grido soffocato della vittima, l’andare a fondo di quell’esser “comuni” che costituisce l’essenza umana»[19].
Non sarà, però, certamente sfuggita la seconda evidenziazione. Può essere un caso, mi chiedo[20], che Benjamin per parlare di felicità utilizzi proprio la stessa formula di Proust, ovvero “quell’aria che abbiamo già respirato”, l’aria del passato purificata dalla consapevolezza della distanza generata dal trascorrere e dalla rammemorazione? Quel Proust che proprio di felicità aveva discusso a proposito di un passato da dover riscattare? L’espressione non cela per Benjamin soltanto un vezzo stilistico, ma direi un’intensificazione concettuale che da una parte illumina Proust e dall’altra consente di formulare diversamente l’interpretazione delle Thesen. Come notano acutamente i curatori dell’edizione einaudiana delle Thesen alla sezione Lemmi, a proposito del concetto fondamentale in Benjamin di Erlösung, ‘redenzione’, nella seconda tesi in particolare ci sarebbe un nesso tra l’immagine della felicità, che richiama alla redenzione essendole speculare, e il ricordo involontario: «Tuttavia, questa suggestione, di ascendenza proustiana, circa una memoria collettiva inconscia, che a tratti irrompe privilegiata e fugace, non verrà portata a piena espressione»[21]. Questa riflessione, incoraggiante ma abbastanza censoria, potrebbe preludere in realtà a una considerazione ulteriore: almeno a mio parere nessuna delle suggestioni enunciate nel testo conosce un’elaborazione tale da presumere una compiutezza, sicché il fatto che l’ascendenza proustiana venga riconosciuta mi sembra un fatto decisivo. Si tratta quindi anche di capire, come si sta cercando di sostenere, se si può parlare di un’ascendenza proustiana di altro genere e che trovi appunto fondamento a partire dalla congruenza testuale che ho rilevato. Ciò nondimeno, credo che su questo punto istruisca lo stesso Benjamin: «Ciò a cui Proust allude con l’esperimento della dislocazione dei mobili nel dormiveglia mattutino, ciò che Bloch definisce l’oscurità dell’attimo vissuto, non è nulla di diverso da ciò che qui va assicurato sul piano della storicità, e collettivamente. C’è un sapere non-ancora-cosciente di ciò che è stato, la cui estrazione alla superficie ha la struttura del risveglio»[22].
Con un cambio di passo improvviso, più o meno a metà del brano, Benjamin associa l’idea di felicità a quella di redenzione, l’identità cioè nella quale avevamo posto la vibrazione che intride sia le Thesen che la Recherche. L’idea della felicità reclamata come tendenza della forza teologica che sottostà al tempo dovrebbe essere, dice Benjamin, la proprietà principale della storia. Lo storico non è lo storiografo che studia gli avvenimenti ricercando in essi le possibilità inespresse del passato e che meritano di venir poste in essere; egli è anzitutto chi comprende che nel passato esiste una felicità irrealizzata e rispetto alla quale bisogna decidersi, per metterla in atto, pena la sua mancata redenzione. E non è questo ciò che Proust ci ha spiegato? Non è la felicità un concetto che può concepirsi solo al passato, che per lo scrittore era il passato individuale e che per il filosofo invece si universalizza nella storia come dimensione temporale in cui la vicenda umana accade nel mondo?
Felicità e redenzione
Il modo storico di appropriarsi del passato è riconoscere l’anelito alla felicità e alla redenzione che il passato reca sempre con sé. Non comprendere ciò significa permanere nelle pastoie di una storia irredenta e, come diretta conseguenza, assolutamente “infelice”. Il passato inteso per la prima volta e in modo pieno come storia grida, infatti, di essere ascoltato, di essere cambiato, di venire, ancora una volta, riscattato. Ma come giunge a compiutezza una simile concezione? Per Proust la risposta è facilmente desumibile: essendo la Recherche un’opera di riscatto, ciò avviene attraverso la scrittura letteraria, la trasfigurazione di un tempo esistenziale altrimenti vacuo e insignificante[23]. Per quanto concerne Benjamin, lo stato di incompiutezza[24] e di frammentarietà delle Thesen non consente di formulare ipotesi ermeneutiche più precise, ma, come il passato individuale, nel caso del Narratore, richiamava all’autenticità ergendolo alla più piena comprensione e dignità nella scrittura letteraria, allo stesso modo il passato collettivo diventa autentico non appena ci si accorga che per chiamarlo storia bisogna riscattare gli sconfitti, gli umili, i vinti, la vicenda dolorosa del mondo che non termina con la distruzione e le macerie ma che rinvia sempre a coloro che sono in vita nel presente, i quali possono affacciarsi in modo appropriato nel futuro solo se consapevoli di tutto questo.
Benjamin descrive, in maniera simmetrica, in cosa consista tale grido del passato che si protende nel presente. Parla, infatti, di coloro che non ci sono più, della stessa aria che loro hanno respirato e che magari oggi riempie i nostri polmoni; del silenzio di voci che prima parlavano e il cui suono, benché non più dotato di parola tonante, ha lasciato impressa una traccia che sta a noi saper nuovamente ascoltare; delle donne, che per la stranezza e anche la necessità del sentimento amoroso, hanno delle sorelle rese tali dall’amore che abbiamo provato per loro ma che, a meno di imprevedibili circostanze nella vita, non conosceranno mai. Se tutto questo è vero, continua Benjamin, devono esistere allora delle sovrapposizioni temporali in cui la storia si realizza come tale, in cui appunto il passato, da mera sequela di avvenimenti, assume un senso ulteriore, il senso storico. Quanto è significativo, infatti, il futuro di Proust ora che può sussistere un contatto tra l’adesso e lo ieri, che può essere ravvisato nel passato e nel presente qualcosa di più essenziale di entrambi? Risponderei che lo è in modo “assoluto”. Comprendere questo contatto significa appropriarsi della “mia” vita e di quelli che non ci sono più, la responsabilità nei confronti dei quali tocca a chi riesca ad assumersi il peso della ferita storica.
Questo è dunque il messianismo storico, che letto con Proust significa portare a compimento quello che nel passato restava involuto nelle pieghe del tempo perduto, poiché non saputo in quanto tale e non considerato come ferito e mutilo. Viviamo, dunque, nell’attesa del compimento, e insieme a noi chi ci ha preceduti. Nella storia c’è questa forza, che Benjamin definisce schwache, ‘debole’, non per intensità bensì per grado di manifestazione, essendo latente al passato e che bisogna intercettare per consentire a ciò che è stato di diventare storia nell’atto del suo compimento. Il passato merita questo Anspruch, avanza tale pretesa che va raccolta per redimere l’umanità. Per Benjamin insomma, come per Proust, non può esserci salvezza e alcun futuro se prima non si sono fatti i conti con il proprio passato, con il peccato che lo intride, con il dolore che lo ha segnato. È la condizione necessaria per riaprire il futuro, per il quale non si può cancellare ciò che è stato perché parte ineliminabile di quello che si è adesso. Quando la devastazione è totale e squilla con più vigore la tromba del momento del maggior pericolo, non è consentita nessuna fuga. L’unica forma di futuro concepibile diviene, allora, quello in cui può compiersi il riscatto del passato.
Per Proust, seguendo il racconto del suo Narratore nel Temps retrouvé, una volta maturata la decisione di iniziare a scrivere e compresa la sua vocazione, il riscatto è avvenuto con la scrittura della Recherche stessa. Il suo futuro successivo è stato alla lettera la trasformazione redentrice del suo vissuto in arte. Proust non ha intravisto altra forma di futuro possibile se non il riscatto del suo passato. Per Benjamin, la comprensione dialettica della storia avrebbe dovuto riscattare il passato degli oppressi. Tuttavia, un’obiezione più che legittima può essere indirizzata a questo ragionamento: non è questo il caso dell’estenuarsi di un pensiero tossico che tarpa possibilità esistenziali e storiche più piene, favorendo invece una memoria che in modo ossessivo ritorna su sé stessa, privandosi di un futuro libero? Non è quel futuro che si occupa completamente del passato qualcosa che potremmo definire come un aborto temporale? A volte l’oblio, piuttosto che essere sventato, va invece sostenuto, cancellando, se possibile, le situazioni dolorose che bloccano la vita. Ma dalla rappacificazione di ciò che è stato scaturisce sempre una grazia, ed è infatti, nel caso tanto di Proust quanto di Benjamin, il condono offerto al tempo e alla storia[25].
Siamo esseri alla ricerca continua della compiutezza, e trovarla significa liberarci anche da ciò che ci lega a questo mondo. Il fatto di essere risospinti nel passato è un moto del tutto naturale del vivente, il quale riconosce in ciò che ha vissuto la traccia della sua permanenza e le lacerazioni da risanare. Ma perché questo accade, perché dobbiamo sentirci, come Proust e Benjamin colgono ed esprimono in modo cristallino, sempre richiamati a un debito da estinguere, a una colpa da mondare, a un peccato da assolvere? Se questi due autori hanno fatto della redenzione e della felicità il principale binomio lessicale del loro mondo, bisogna aggiungere l’assoluzione, il sentirsi liberi e liberati, un cambio di prospettiva sul tempo esistenziale, quando cioè si vede la propria vita solo come qualcosa a perdere[26] e si immagina come unica soluzione il dare comunque significato a questo qualcosa che altrimenti sarebbe stato dannato per sempre, nell’ottica di un futuro assolutamente inutile come il passato che l’ha preceduto. E allora si interpella questo passato, ci si fa riempire da esso, ci si fa inondare dalla sofferenza, pur attenuata, di ciò che è stato un tempo per noi o, storicamente, per tutti. Si tenta di riunire in un intero originario e perduto i frammenti di una salvezza sparsa per il mondo e nel tempo, così come scolpito in modo icastico da Scholem per il suo amico Walter: «Tutto ciò che è storia, che non è redento, ha carattere frammentario»[27]. Qual è, allora, il portato pratico-esistenziale di una concezione simile? Recarsi nei luoghi in cui si è stati felici? Perdonare coloro che sono stati crudeli con noi? Tentare ancora di farsi dire di sì dalle donne che non ci hanno amato o che ci hanno trattati in modo orribile? Visitare i cimiteri della storia nel tentativo di riesumare i caduti?
Sia per Proust che per Benjamin il divenire inesorabile e irreversibile è la cifra del mondo, il suo enigma. E fu tale anche per un altro grande poeta, la cui parola può aiutarci a rispondere a questi ultimi e serrati interrogativi. Il segreto della poesia di Rilke, a cui ci rivolgiamo, è infatti il mistero dello svanimento del mondo, delle cose e degli umani, e gli sforzi immani che noi facciamo, anche con il canto poetico, di “trattenere”. Nel terzo sonetto an Orpheus, Rilke indica al giovane innamorato che canta il suo amore e l’esistenza, quell’esistenza la cui essenza è proprio il canto, di dimenticare di aver cantato poiché tutto scorre, persino il soffio della parola che si mischia col vento e che vorremmo con ogni sforzo far perdurare. Ma cantare – e farlo “veramente”, sembra sottintendere Rilke – significa concepire un altro respiro. Così l’ultimo verso: «Ein Hauch um nichts. Ein Wehn im Gott. Ein Wind»[28]. L’Hauch der Luft era anche di Benjamin, quel soffio o respiro ancora mosso da coloro che erano prima di noi. Questo soffio è nel niente, è nel dio, il quale è forse quel Messia che può fare il suo ingresso dalla porta lasciata aperta dal pensiero del presente che medita sul passato.
Il segreto del mondo è anche qui. Il soffio diventa respiro, il respiro diventa vento, che dalla memoria sovviene richiamandoci all’azione prima che sia finita, prima che il peso del peccato e del dolore ci porti irredenti al cospetto della morte. Ma il vento, che soffia dal passato, diventa tempesta[29]. È lo Sturm che spira troppo forte dal paradiso, con Proust il paradis perdu, che risospinge verso il futuro l’Engel di Benjamin e che non gli consente di fermarsi per ricostruire le macerie accumulate dalla tempesta. Lette con il loro aiuto, tali sono la vita e la storia, una tempesta rovinosa che devasta, distrugge e che bisogna placare in bonaccia. E proprio questa, alla fine, è la redenzione.
- Forse nessuno come Hannah Arendt ha colto alla radice il senso della scrittura benjaminiana; una citazione, per l’appunto, utile anche per il prosieguo del nostro discorso: «Il passato ha autorità se fissato come tradizione; l’autorità, in quanto si presenta storicamente, diventa tradizione. Walter Benjamin sapeva che rottura della tradizione e perdita di autorità erano irreparabili, e per questo decise di cercare nuove strade per confrontarsi con il passato. In questo confronto divenne maestro quando scoprì che al posto della tradibilità del passato era subentrata la sua citabilità, al posto della sua autorità la forza spettrale di stabilirsi a poco a poco nel presente e rubargli la falsa pace della spensierata auto-soddisfazione», in H. Arendt, Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle, in Ead., Il futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 86-87. ↑
- W. Benjamin, I «passages» di Parigi. Volume primo (Das Passagenwerk, 1982), ed. it. a cura di E. Gianni, Torino, Einaudi, 2010, p. 520. ↑
- Scelgo di tenere volutamente da parte le considerazioni, pur necessarie, sul rapporto fra memoria involontaria nel modo inteso da Proust e l’immagine dialettica di Benjamin, che meriterebbe certamente un lavoro più approfondito. In ogni caso, si può affermare che ciò che Proust sviluppa letterariamente sul piano esistenziale Benjamin lo fa dialetticamente su quello storico-politico. Ma l’aspirazione alla redenzione resta la stessa. Per un tentativo di riconciliazione cfr. comunque F. Garbelli, Proust and Benjamin: a figural reading, in «E|C. Rivista dell’Associazione di Studi Semiotici», XXV, 33, 2021, pp. 110-22. ↑
- Lo stesso G. Scholem, in ogni caso, sosteneva che forse insieme a Kafka nessun altro autore come Proust è accostabile al pensiero benjaminiano e che fu per lui motivo di serrato confronto metafisico. Cfr. quindi G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo (Walter Benjamin und sein Engel, 1972), trad. di M. T. Mandalari, Milano, Adelphi, 1978, pp. 85 e 108. ↑
- Sulla vicenda di questa traduzione cfr. G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità. Un percorso biografico e concettuale, Milano, Mimesis, 2016, pp. 141-43. ↑
- Cfr. ovviamente W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 2014, pp. 39-52. ↑
- Mi riferisco soprattutto al saggio del 1929 Zum Bilde Prousts, in cui Benjamin formula alcune delle immagini su Proust tra le più alte mai espresse. In particolare, in due passaggi Benjamin riporta il cieco, folle e ossessivo Glücksverlangen, la richiesta di felicità proustiana. Come afferma il Cocteau citato da Benjamin, i suoi occhi non erano felici. Una felicità imparentata con l’amore e la bellezza, ma soprattutto con un doppio Glückswillen, una voglia di felicità inscritta in una dialettica tra l’innodico e l’elegiaco, ovvero tra ciò che non è mai stato e il mai avvenuto, ma soprattutto nella restaurazione eterna della prima e originaria felicità. Cfr. in ogni caso W. Benjamin, Zum Bilde Prousts, in Id., Medienästhetische Schriften, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 2018, p. 11. ↑
- Cfr. W. Benjamin, G. Scholem, Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940, trad. di S. Campanini, Milano, Adelphi, 2019. ↑
- Per essere più precisi, le citazioni da Proust sono ben 37, e non a caso Proust è l’autore, assieme a Baudelaire e a Poe, maggiormente presente in tutta l’opera. Cfr. l’Indice dei nomi in W. Benjamin, I «passages» di Parigi. Volume secondo, op. cit., p. 1199. ↑
- Soprattutto in merito a quest’opera rimando al bellissimo saggio di P. Szondi, Speranza nel passato. Su Walter Benjamin, in W. Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento (Berliner Kindheit um Neunzehnhundert), trad. di E. Gianni, Torino, Einaudi, 2007, pp. 127-51, in cui vengono tematizzate le convergenze proustiane. ↑
- Sulle Thesen benjaminiane cfr. almeno P. Pullega, Commento alle «Tesi di filosofia della storia» di Walter Benjamin, Bologna, Cappelli, 1980; D. Gentili, Il tempo della storia. Le tesi «Sul concetto di storia» di Walter Benjamin, Macerata, Quodlibet Studio, 2020. ↑
- M. Proust, Le Temps retrouvé, a cura di P. E. Robert e B. Rogers, in Id., À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, Paris, Gallimard, 2019, p. 2265: «È vero che questi cambiamenti sono avvenuti in noi insensibilmente; ma tra il ricordo che torna a noi all’improvviso e il nostro stato attuale, così come tra due ricordi di anni, di luoghi, di ore diversi, la distanza è tale che basterebbe da sola, a prescindere da ogni specifica originalità, a renderli dissimili gli uni dagli altri. Sì, il ricordo, grazie all’oblio, non ha potuto contrarre alcun legame, stabilire nessun collegamento tra sé e il momento presente, se è rimasto al suo posto, alla sua data, se ha conservato le distanze, il suo isolamento nel profondo di una vallata o in cima a una vetta, ci fa di colpo respirare un’aria nuova proprio perché è un’aria che abbiamo già respirato in passato, quell’aria più pura che i poeti, invano, hanno tentato di far regnare in paradiso e che non potrebbe darci quella sensazione profonda di rinnovamento se non fosse già stata respirata, perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto», trad. di M. T. Nessi Somaini, Milano, Rizzoli, 2012, p. 249 (il tondo nel testo e il corsivo nella nota sono miei). ↑
- Su questo episodio mi permetto di rimandare a E. Palma, L’invecchiamento come emozione del Tempo nella Recherche di Marcel Proust, in «Siculorum Gymnasium. A Journal for the Humanities», 5, LXXII, 2019, pp. 313-30. Più in generale, credo che solo due interpreti si siano avvicinati a tali temi nella critica proustiana, a cui rimando: G. Debenedetti, Proust, a cura di M. Lavagetto e V. Pietrantonio, Torino, Bollati Boringhieri, 2005; R. Fernandez, Proust o la genealogia del romanzo moderno (Proust ou la généalogie du roman moderne, 1979), trad. di R. Mainardi, Milano, Bompiani, 1980. ↑
- A. Sichera, Pavese. Libri sacri, misteri, riscritture, Firenze, Olschki, 2015, p. 303. ↑
- A. G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Firenze, Olschki, 2020, p. 44. ↑
- «“Una delle peculiarità più notevoli dell’animo umano – dice Lotze –, è, accanto a un così grande egoismo nel singolo, la generale mancanza d’invidia di ogni presente per il proprio futuro”. Questa riflessione comporta che l’immagine di felicità che custodiamo in noi è del tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha oramai relegati il corso della nostra esistenza. Felicità che potrebbe risvegliare in noi l’invidia c’è solo nell’aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi. In altre parole, nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione. Ed è lo stesso per l’idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa», in W. Benjamin, Sul concetto di storia (Über den Begriff der Geschichte), a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 2011, pp. 20-23. ↑
- H. Eiland, M.W. Jennings, Walter Benjamin. Una biografia critica (Walter Benjamin. A Critical Life, 2014), trad. di A. La Rocca, Torino, Einaudi, 2016, p. 611. ↑
- È d’obbligo citare almeno un altro fondamentale testo benjaminiano, che rappresenta com’è noto un vero e proprio rovello critico, il Theologisch-politisches Fragment, di cui riporto almeno quest’affermazione, per noi decisiva: «Der Rythmus der messianischen Natur, ist Glück [‘Il ritmo della natura messianica è la felicità’]», in G. Guerra, T. Tagliacozzo (a cura di), Felicità e tramonto. Sul Frammento teologico-politico di Walter Benjamin, Macerata, Quodlibet Studio, 2019, p. 18. Per alcune riflessioni circostanziate sul Fragment rimando sempre a questo volume. In ogni caso, se è vero che la felicità fu una delle categorie metafisiche del pensiero di Benjamin sin dalla giovinezza, il fatto che il filosofo berlinese affermi che il ritmo della natura, del tempo e della storia umana è scandito proprio dalla felicità e dalla sua aspirazione, non può che creare un legame molto forte con quanto si sta cercando di argomentare, anzitutto con la seconda tesi che abbiamo in oggetto. ↑
- B. Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Napoli, Guida, 1984, p. 12. ↑
- Mi chiedo anche come avrebbe tradotto Benjamin quel passo in tedesco, se fosse arrivato a completare la traduzione integrale della Recherche. Ma magari, ed è la suggestione che propongo, la traduzione l’abbiamo proprio in quel «in der Luft, die wir geatmet haben» della seconda tesi. È bene comunque tenere presente anche la versione francese delle tesi, pur essendo indubbio che abbiano raggiunto un’articolazione maggiore in quella in lingua tedesca. Almeno ai miei occhi, la versione in francese della seconda tesi appare comunque profondamente diversa da quella tedesca. ↑
- W. Benjamin, Sul concetto di storia, op. cit., p. 209. ↑
- W. Benjamin, I «passages» di Parigi. Volume primo, op. cit., p. 433. ↑
- In riferimento alla teoresi che soggiace alla Berliner Kindheit, riporto la splendida sintesi benjaminiano-proustiana su questo tema di L. Rampello: «Come in Proust, come per Proust, il futuro dà la parola al passato, strappa il velo della processione insignificante degli eventi vissuti, bruciando questa trama al fuoco di una passione che è passione dell’immaginazione e non del ricordo. Decisiva non è la memoria, ma ciò che è condizione della memoria, sua essenziale intermittenza: l’oblio», in L. Rampello, Distruzione e costruzione della traccia, in L. Belloi, L. Lotti (a cura di), Walter Benjamin. Tempo storia linguaggio, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 43. ↑
- A questo proposito ricordo un’intuizione per me fondamentale di G. Schiavoni: «Non è da escludere che in questa sua inclinazione agisse un certo gnosticismo di sapore squisitamente ebraico, e in particolare l’idea che la luce divina – disseminatasi e dispersasi in mille rivoli e in mille oggetti in seguito alla rottura dei vasi che li contenevano al momento della Creazione – dovesse e potesse tornare a ricomporsi», in G. Schiavoni, Contro la compiutezza. Sul saggismo di Walter Benjamin, in G. Cantarutti (a cura di), Le ellissi della lingua. Da Moritz a Canetti, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 148. Questa idea, che naturalmente va molto al di là della pur importante declinazione saggistica benjaminiana, direi che potrebbe pervadere tutto Benjamin, dalla Vorrede del Trauerspielsbuch alle Thesen in oggetto, ovvero la dispersione nel passato e nella storia di semi di luce a cui restituire il fulgore originario. Su questo tema cfr. anche F. P. Cuniberto, Motivi gnostici nel Trauerspiel di Walter Benjamin, in A. Pinotti (a cura di), Giochi per melanconici. Sull’Origine del dramma barocco tedesco di Walter Benjamin, Milano, Mimesis, 2003, pp. 143-49. ↑
- A questo punto, il confronto fra Proust e Benjamin potrebbe suggerire di estendere tale convergenza tematica anche al resto delle Thesen, articolando dunque un’interpretazione più generale. Si tratta, però, di un progetto che esula dal nostro obiettivo ma che sarebbe meritevole di essere intrapreso, soprattutto in considerazione di questo passaggio a dir poco strepitoso della diciassettesima tesi, il quale, almeno ai miei occhi, costituisce un’ottima definizione della Recherche, del nucleo storico di cui discutiamo: «Der Ertrag seines Verfahrens besteht darin, daß im Werk das Lebenswerk, im Lebenswerk die Epoche und in der Epoche der gesamte Geschichtsverlauf aufbewahrt ist und aufgehoben. Die nahrhafte Frucht des historisch Begriffenen hat die Zeit als den kostbaren, aber des Geschmacks entratenden Samen in ihrem Innern», in W. Benjamin, Sul concetto di storia, op. cit., p. 52 («Il profitto del suo procedere consiste nel fatto che in un’opera è custodita e conservata tutta l’opera, nell’opera intera l’epoca e nell’epoca l’intero corso della storia. Il frutto nutriente di ciò che viene compreso storicamente ha al suo interno, come seme prezioso ma privo di sapore, il tempo», trad. ivi, p. 53). ↑
- Così R. Fernandez: «Malato cronico, agiato signore pienamente disponibile, nessuno, a quanto sembra, degli impegni e delle ansietà del comune individuo inficiano l’autore della Recherche du temps perdu, dal momento che per lui, alla resa dei conti, la vita non è altro che tempo da perdere», in Id., Proust o la genealogia del romanzo moderno, op. cit., p. 22. ↑
- G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, op. cit., p. 62. ↑
- R. M. Rilke, Die Sonetten an Orpheus, I, 3, v. 14. «Un respiro nel nulla. Un soffio nel dio. Un vento». ↑
- Ritengo importante riportare la nota 21 della già citata edizione Einaudi di p. 37, in cui si dice: «Il paradiso dell’origine, il cosiddetto “paradiso terrestre”, è l’unico luogo da cui può venire la bufera che spinge a ritroso l’angelo com’è raffigurato da P. Klee e descritto da Benjamin; non attestata nel midrash a Genesi, questa bufera appare una originale intuizione di Benjamin». Tale nota rende l’immagine ancora più potente. ↑
(fasc. 46, 30 dicembre 2022)