Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l’eccesso dell’infelicità indipendente dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all’odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e questo, tanto più quanto più l’uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso1.
(G. Leopardi)
Dio è in balia dell’uomo mediante il Suo Nome2.
(E. Jabès)
Dio stesso è l’autore di certe bestemmie3.
(N. Gómez Dávila)
1. Le «blasfeme labbra» della poesia: l’archetipo ungarettiano
È nota l’affermazione di Ungaretti secondo cui «la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando è una bestemmia»4. Le «blasfeme labbra»5 del poeta novecentesco oseranno, allora, rompere il silenzio, interrogare la divinità, colmare la lacuna e la lontananza in cui Dio dimora e si è ritirato, oltraggiando il suo nome, talvolta rinnegandolo. Esse rappresentano la «voce umana che miete l’eco dove prima vi era silenzio», e questa voce mortale «è al tempo stesso un miracolo e un oltraggio, un sacramento e una bestemmia»6.
Nella bestemmia novecentesca riecheggia il lamento dell’uomo, la sua impotenza nel riconoscere Dio e, infine, la sua nostalgia del sacro, la volontà di approssimarsi alla divinità, sebbene questa sovente si profili come un «Tu senza risposte»7 o come un interlocutore assente. Nell’inesausta tensione verso Dio la poesia attesterà proprio questo anelito primo, questo slancio perpetuo, sorgendo come creaturale «brama d’eterno»8: brama che si volgerà in struggimento nostalgico e, poi, in fonda disperazione dinanzi a un’alterità tanto anelata quanto avvertita come inattingibile, sigillata in una radicale e irriducibile lontananza.
Non è un caso che il secolo XX si apre e si chiude con una medesima invocazione, con un’identica constatazione, nella consapevolezza che tra il piano del divino, imperituro ed eterno, e quello umano, caduco ed effimero, non vi è più un rapporto, una relazione, un’alleanza. Così Ungaretti: «Da ciò che dura a ciò che passa,/ Signore (…)/ Fa’ che torni a correre un patto»9. E Luzi: «Si sgretola la malcresciuta torre,/ vistosamente si disaggrega il patto»10.
Sia Ungaretti sia Luzi esprimono nei rispettivi versi il desiderio di riallacciare un legame, di ristabilire un’alleanza con Dio, nella consapevolezza che quel patto è oramai compromesso. Luzi ricorre al motivo di una babelica “torre”11 come segno dell’incapacità dell’uomo di dialogare con la trascendenza. Ungaretti ribadisce la frattura insanabile che si pone tra l’uomo e Dio, la distanza che intercorre tra l’effimera ombra umana e la luminosa incorruttibilità del divino.
Fallito ogni tentativo di colmare quell’abissale distanza, di far riecheggiare la propria voce nello spazio della trascendenza, nel momento in cui la creatura vede naufragare la propria invocazione, l’eco smorzata della preghiera che nessuna alterità accoglie, la sua voce allora implode e stagna in un sordo e inerte languore: «il verbo stesso si arena, non potendo sollevarsi fino alla bestemmia o all’implorazione»12. L’ostacolo che preclude il suo accesso in uno spazio compiutamente dialogico determinerà, come si è visto, l’irrigidirsi del verbo, la sua paralisi, il suo incagliarsi nelle secche del silenzio, il suo stagnare tra gli interstizi di una pronuncia franta e balbettante.
A un certo punto accade, però, che quel grido umiliato e spoglio, quel verbo arenato, messo dinanzi al pensiero dell’alterità divina, giunge con fatica a balbettarne il nome, sino a farsi discorso, a incarnarsi, cioè, in una parola che a poco a poco giungerà a risuonare in compiuta pienezza: quella che era una voce strozzata, l’illanguidita eco di una parola amputata e spoglia, adesso risorge nel limpido fulgore del canto. Ecco che, allora, quel grido diviene bestemmia, che quella voce risuona in dolente pienezza nelle forme di un discorso blasfemo:
L’uomo, monotono universo,
Crede allargarsi i beni
E dalle sue mani febbrili
Non escono senza fine che limiti.
Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
Non teme e non seduce
se non il proprio grido.Ripara il logorio alzando tombe,
E per pensarti, Eterno,
Non ha che le bestemmie13.(G. Ungaretti, La Pietà IV, in Id., Sentimento del Tempo)
Con Ungaretti la bestemmia letteraria acquisisce una connotazione del tutto nuova rispetto alla tradizione lirica antecedente, da cui sostanzialmente si discosta per la rinnovata intenzionalità dialogica che la anima, nonché per le profonde significazioni religiose e dialettiche, in bilico tra vigorosa tensione speculativa e limpido rigore concettuale.
Un rapido confronto a livello tematico mostrerebbe lo scarto cospicuo intervenuto proprio nelle modalità allocutorie e nelle intenzioni comunicative che caratterizzano la bestemmia lirica novecentesca (che trova i propri luoghi archetipici, come vedremo, proprio nell’esperienza poetica ungarettiana), rispetto alla tradizione lirica antecedente, a quella che riecheggia, ad esempio, nella Commedia dantesca, nell’opera di Milton o, ancora, in quella di Goethe.
In Dante e Milton il ricorso alla blasfemia è, infatti, funzionale alla caratterizzazione di un personaggio, alla sua raffigurazione (si pensi a Vanni Fucci o a Prometeo nella Commedia o alla grandiosa figura di Satana che si accampa nel Paradiso perduto), oppure, come nel Faust di Goethe, è espressione di un materialismo a cui si àncora l’impianto ideologico ed estetico dell’opera. In ogni caso la bestemmia non è mai immediata manifestazione del soggetto lirico, compiuta emanazione di esso, profilandosi, invece, come strumento ancillare di una rappresentazione che a essa ricorre, diciamo così, per esigenze sceniche, con finalità puramente espressive e mimetiche.
Su un altro versante troveremmo l’invettiva blasfema di tanta poesia comico-realistica, quella che va da Cecco Angiolieri ai poeti scapigliati sino a Carducci, senza tralasciare, nell’ambito della poesia dialettale, un poeta come Belli. In questi casi la bestemmia, modulandosi in una cornice essenzialmente goliardica, si caratterizza per i toni mordaci e aspri, per una pronuncia incisiva e caustica che irride i feticci e gli idoli cristiani, in un fraseggio lirico oscillante tra l’ironico sberleffo e la crudele invettiva. Sua più evidente cifra a livello stilistico risiede, dunque, proprio nella modulazione beffarda dei toni e della rappresentazione, connotata da tinte in cui prevalgono le note sarcastiche e la caustica irrisione. Essa, tuttavia, non giungerà a un’autentica e produttiva corrosione delle strutture ideologico-religiose, pur prese di mira.
Anche in un poeta avvertito come Carducci, del resto, la retorica blasfema, lungi dall’esprimere una reale inquietudine, o dal culminare in un aspro confronto con Dio (come accade, restando nell’ambito della letteratura dell’800, in Baudelaire o Leopardi), si risolve piuttosto in una rappresentazione fiacca e inerte, in stucchevole oleografia. Si vedano, ad esempio, due strofe trascelte dal celebre inno A Satana, leziosa espressione di un’iconoclastia scialba e di maniera14:
Spennato arcangelo
Cade nel vano.
Ghiacciato è il fulmine
A Geova in mano.(G. Carducci, A Satana, in Id., Levia Gravia, vv. 29-32)
Colte in una luce caricaturale, nelle forme di una blanda deformazione parodica, le figure dell’«arcangelo» e di «Geova» divengono il bersaglio di un’irrisione beffarda e iconoclastica, ben lontana, però, dall’esprimere un’autentica inquietudine religiosa:
Tu spiri, o Satana,
nel verso mio
Se dal sen rompemi,
Sfidando il dio.(A Satana, vv. 57-60)
Sebbene Carducci qui discorra alquanto fiaccamente di una sfida a Dio, scialbo profeta di un’affettata e compiaciuta empietà che troverà, però, una nutrita schiera di seguaci in ambito lirico ottocentesco15, il reale bersaglio a cui in genere punta la poesia ottocentesca non è tanto la divinità (come, invece, accadrà nella lirica del ‘900) quanto piuttosto la Chiesa; in altri termini, la boriosa protervia con cui l’io lirico affronta e sfida il divino si accampa solo come un pretesto per colpire i suoi rappresentanti (siano essi chierici o beghini). La blasfemia novecentesca si carica, invece, di una tensione prettamente religiosa, per cui vedremo potenziate proprio le sue valenze teologiche, le sue significazioni religiose in un discorso che comunque appare sganciato da ogni orizzonte confessionale o dogmatico. La differenza capitale rispetto ai lirici antecedenti, tuttavia, risiede proprio nella profondità speculativa in cui culmina la bestemmia novecentesca, nonché nella raffinatissima caratura formale che ne sigilla gli schemi retorici e allocutori: essa, detto altrimenti, lungi dal porsi come parola convulsa e istintiva, appare, al contrario, governata da una radicale lucidità argomentativa, da un limpido rigore concettuale. Assunta in funzione prettamente dialettica, l’invettiva blasfema si configura, infatti, come un lucido e spietato sillogismo costruito per inchiodare Dio alle sue colpe, alla sua inesistenza, al suo nulla. Essa viene proferita non tanto per oltraggiare la divinità quanto piuttosto per interpellarla e per accusarla, per metterla di fronte ai suoi limiti e alle sue contraddizioni.
Il discorso blasfemo, in tal modo, consoliderà, in funzione dialettica, i propri apparati retorici, le proprie argomentazioni (a)teologiche, utilizzando, con raffinata sapienza oratoria, un forbito corredo stilistico e tutta una serie di dispositivi retorici (dal paradosso all’adynaton all’interrogazione) che divengono la prova cogente della sua meditata intenzionalità all’interno dell’impianto testuale. La bestemmia novecentesca, intrisa di razionalità, diviene, così, espressione di una scepsi lucida e dolente, che sovente instaura un fertile dialogo con tutta una tradizione speculativa (dalla mistica medievale di Eckhart sino alla teologia radicale novecentesca), modulata in un’imponente cornice dialettica che il poeta sapientemente allestisce ai margini della sua rappresentazione.
E non a caso Ungaretti, nei versi citati in precedenza e su cui torneremo, utilizza proprio il verbo «pensare» in relazione all’«Eterno», accostandolo al termine bestemmia, inaugurando un filone lirico legato alla blasfemia che avrà feconde incidenze sulla tradizione lirica successiva.
Più vicina all’inquieta e tragica blasfemia baudelairiana, segno di una religiosità sofferta, cupa e dolente16, o ai toni desolati e scabri di Leopardi (si pensi, ad esempio, all’Inno ad Arimane)17, autori nelle cui opere l’ingiuria e l’oltraggio alla divinità divengono espressione di una ricerca metafisica autentica e sofferta e che assumono un peso decisivo sia in una prospettiva religiosa sia teologica, la bestemmia novecentesca è, innanzitutto, voce in cui l’angoscia e il senso della finitezza e della solitudine umana precipitano e si rapprendono. In tal senso essa si profila come gesto con cui la creatura pungola e sprona una divinità che appare vacua e inerte, indifferente e lontana, come nei seguenti versi di Giovanni Testori:
Ma Tu non parli,
non dici.Sei il Dio sordo;
il Dio muto.(G. Testori, Nel Tuo sangue I, vv. 1-4)
Come ha scritto Benveniste, «On blasphème le nom de Dieu, car tout ce qu’on possède de Dieu est son nom. Par là seulement on peut l’atteindre, pour l’émouvoir ou pour le blesser: en prononçant son nom»18. Così, ad esempio, in Ungaretti: «Dio, coloro che ti implorano/ Non ti conoscono più che di nome?» (La Pietà I, vv. 18-19). Dinanzi al male e alla morte, di fronte al silenzio e all’apparente indifferenza di Dio, dinanzi alla sua incommensurabilità l’uomo dispone della bestemmia non tanto, o non solo, per invocarlo, per parlargli, quanto per pensare il divino: «E per pensarti, Eterno,/ non ha che le bestemmie» (da La Pietà IV, vv. 9-10).
Perché la nozione di bestemmia è qui associata al verbo pensare, alla nozione di pensiero? Per quale ragione la scelta non è ricaduta su un termine più congruo con il termine “bestemmia”? Ad esempio “parlare” o “invocare”? La scelta del verbo, a ben vedere, è come se per ora ponesse tra parentesi o relegasse sullo sfondo proprio la valenza dialogica della bestemmia, che qui, infatti, viene assunta in virtù delle sue limpide potenzialità dialettiche. Accanto a una funzione di tipo relazionale, cioè, la bestemmia ungarettiana assolve soprattutto a una funzione di tipo conoscitivo e analitico. Rappresenta, insomma, come si vedrà, una sorta di scandaglio gnoseologico che il poeta affonda nel baratro oscuro della trascendenza.
Ripercorriamo velocemente le strofe che compongono La Pietà ungarettiana, per poi soffermarci sull’ultimo movimento strofico, in cui viene elaborata una vera e propria etica della bestemmia.
Nell’incipit del testo il poeta compendia, in un’immagine tanto schietta quanto dolorosa, la propria condizione esistenziale: «Sono un uomo ferito» (I, v. 1). Recluso in un fondo «silenzio» che egli afferma di aver «popolato di nomi» (v. 10), eco vana e infeconda di ciò che si profilava come «inesauribile segreto», lontana cioè da una pronuncia che possa pienamente risuonare in quel silenzio, ora il poeta appare prostrato «in servitù di parole» (v. 12). L’atto poetico, così come la preghiera, attesta il sostanziale fallimento di una comunicazione che non raggiunge il proprio scopo, che non libera dai ceppi dell’angoscia, dal travaglio dell’esistenza, ma che diviene giogo che avvinghia l’uomo e lo tiene prigioniero19.
La vita si riduce ora a vacue parvenze, a spogli simulacri: «Regno sopra fantasmi» (v. 13). Priva di appigli, l’anima è simile a una foglia secca, «portata qua e là» (v. 15), in balia di un vento il cui suono è paragonato al verso di una «bestia immemorabile» (v. 17). Dio ora è solo un nome dietro il quale si nasconde un’alterità ignota e oscura, sconosciuta alla creatura: «Dio, coloro che t’implorano/ Non ti conoscono più che di nome?» (vv. 18-19). Viene qui ribadita la peculiarità di una parola inutilmente articolata, una parola senza oggetto, spoglia di ogni referente. Alla creatura non resta che pronunciare un nome dietro cui si nasconde il vuoto. Nella zona finale del primo movimento strofico l’io lirico prorompe in un appello che sfiora la blasfemia: «E compiangici dunque, crudeltà» (v. 32). E non è un caso che nei versi finali il poeta affermi: «Fulmina le mie povere emozioni,/ Liberami dall’inquietudine.// Sono stanco di urlare senza voce» (vv. 37-39): che vorrà dire, come si è visto in precedenza, implorare, cioè, un nome vacuo, un puro flatus vocis. Non a caso successivamente il poeta potrà affermare che a dare consistenza ai nomi è solo una «fiumana d’ombre», che la parola umana sconta, dunque, un destino di abbandono e di perdita, che in essa abita solo un’ombra vacua e inerte, che la parola infine accoglie solo i segni oscuri della mortalità: «È nei vivi la strada dei defunti// Siamo noi la fiumana d’ombre,/ (…) E loro è l’ombra che dà peso ai nomi» (II, vv. 7-8 ss.). La sola memoria che anima il nome, la parola, è una memoria che attiene alla morte, al regno dell’ombra, all’abisso. Così come un’immemoriale distanza si nasconde dietro il nome di Dio, quasi un diaframma che all’uomo non è dato di infrangere, né di scavalcare. Dinanzi a questo ignoto emerge la fonda frattura che separa la creatura dal divino. E veniamo all’ultima strofe della Pietà:
L’uomo, monotono universo,
Crede allargarsi i beni
E dalle sue mani febbrili
Non escono senza fine che limiti.(La Pietà IV, vv. 1-4)
Esaurita la carica eversiva e sediziosa che aveva spinto la creatura a levare con tracotante fierezza il suo grido contro il cielo, adesso l’uomo viene ritratto in una luce di uniforme e fiacca immobilità. La sua frenesia cupida e vorace anziché trovare requie non fa che sospingerlo entro angusti e disagevoli confini in cui resta imprigionato. La sua è una condizione di precaria indigenza che lo espone al pericolo del crollo, di una rovinosa caduta nell’abisso:
Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
Non teme e non seduce
se non il proprio grido.(La Pietà IV, vv. 5-8)
È «per sfidare Dio», come scrive Nicolás Gómez Dávila, che «l’uomo gonfia il proprio vuoto»20: solo un appiglio labile tiene l’uomo sospeso sul baratro. Egli, oramai, consuma la propria esistenza in una dimensione egotica da cui è espulsa ogni alterità. L’uomo, solo di fronte a se stesso, «Non teme e non seduce/ se non il proprio grido»: si faccia intanto attenzione alla sostanza di questo grido, a ciò che esso è divenuto. Il grido qui pare aver smarrito quella potente cifra dialogica che lo caratterizzava (quella che, ad esempio, connota le urla-fulmini della lirica Solitudine), per regredire a mero soliloquio. Quel timore, per cui il grido si inabissava dinanzi a un’alterità opaca e imperscrutabile (le «mie urla» «Sprofondano/ impaurite»), adesso è solo un fioco riverbero, la proiezione fievole di un’identità introflessa e smarrita.
Come si ricorderà, in una fase anteriore della ricerca ungarettiana, le urla sorgevano incontro alla trascendenza, erano cioè rivolte a un tu, esprimevano insomma un’autentica tensione dialogica; ora, invece, quel grido sussiste in una dimensione prettamente autoreferenziale, delineandosi come mera proiezione di un egotismo arido e infecondo.
Di fronte ai suoi mortali limiti, chiuso in un’esistenza che in sé più non trova giustificazione alcuna, nell’angoscia del divenire che erode e macera ogni cosa, allora l’uomo
Ripara il logorio alzando tombe,
E per pensarti, Eterno,
Non ha che le bestemmie.(La Pietà IV, vv. 9-11)
Trincerandosi dietro il frutto della propria febbrile operosità, egli si illude di eludere la morte. La tomba, metafora della monumentalità di un’opera che dà l’illusione della persistenza e della durata, assurge a garanzia contro il deteriorarsi di ogni cosa. Così, «stretto fra cose mortali», in una «fiumana d’ombre», soffocato quasi dalla propria umanità oscura e dolente, nella cognizione lucida delle sue anguste imperfezioni, al culmine della sua incompiutezza, l’uomo giunge a riflettere sull’«Eterno», a misurarsi con esso, per poi con esso scontrarsi, proprio nell’attimo in cui gli si spalanca dinanzi l’esorbitante divario che dall’Eterno lo separa.
Se in un celebre frammento la sfolgorante visione dell’«immenso», illuminando la creatura, pareva quasi redimerla dalla sua oscurità mortale («M’illumino/ D’immenso»)21, qui la cognizione dell’eterno giunge, invece, a umiliarla, sigillandola e facendola arretrare ancor di più entro gli angusti e cupi confini della sua mortalità: «Più non abbagli tu, se non uccidi?» (La Pietà III, v. 3). La teofania è visione abbacinante che coincide con la morte. Non più latrice di una luminosità redentrice, ora l’alterità è bagliore che sorge per uccidere.
Si pensi, di contro, all’attonito, seppur angoscioso stupore che pervade Leopardi o Pascal dinanzi al pensiero dell’infinito22: quello sbigottimento metafisico qui si tramuta in una rancorosa ostilità, nella dolente percezione dei propri limiti, avvertiti come ancor più gravosi nella cognizione di ciò che non ha fine. La scoperta di questa discrepanza abissale, tuttavia, non comporterà nell’uomo il prevalere di un duro antagonismo, né il senso di un’altera rivalsa, nei termini in cui ne avevano discorso, seppur nelle forme di un ateismo aspro e dolente, Nietzsche23 e poi Sartre24, sfociando piuttosto in un atteggiamento che potremmo definire di disforia estatica: l’allibito, amaro stupore dell’uomo si colora, cioè, di una nota di inquieto livore, caricandosi quasi di un’ostinazione risentita nei confronti del divino: «l’eternità è vissuta come uno scacco alla volontà»25, come direbbe Severino, essa è idea inflessibile che la mente dell’uomo non giunge ad assimilare, confine contro cui si scontra il pensiero dell’uomo sigillato nella propria mortalità dolente. Ed è in tale frangente che la creatura ricorre alla bestemmia, da intendersi ora non solo come oltraggio al nome di Dio, ma come vera e propria espressione di un tumultuoso fermento conoscitivo, di un aspro rovello gnoseologico.
La bestemmia, in tal senso, assurge a formula, a strumento di analisi e di conoscenza, diviene scandaglio gettato nell’abisso della trascendenza, discorso che dialetticamente mira a ricondurre l’opaca e incommensurabile ontologia divina entro le anguste griglie del pensiero e della conoscenza umana. In questa prospettiva il discorso blasfemo si pone anche come strumento dialogico che tenta di correggere quell’irriducibile asimmetria relazionale che contrassegna il rapporto con la Trascendenza: «E per pensarti, Eterno,/ Non ha che le bestemmie». L’uomo, detto altrimenti, si pone ora in una sorta di contemplazione blasfema di Dio.
Il verbo «pensare», in questo caso, esprime difatti sia l’atto di contemplare il divino sia l’azione dell’uomo colto nel momento in cui si misura con ciò che eccede i suoi limiti, soverchiandoli. Pensare è qui inteso anche come soppesare, e allude alla brama che attanaglia l’uomo di comprendere la divinità e di ricondurla entro gli angusti e fragili confini mortali. In entrambi i casi all’uomo non resta che la bestemmia per accostarsi a ciò che non comprende, ma che ora, almeno, è in grado di nominare e, dunque, di pensare.
Rovesciando la formula di Pasolini citata in precedenza, potremmo dire che proprio la bestemmia ha, dunque, permesso all’uomo di violare semanticamente la nozione di Dio26 e, cioè di conoscerlo, di rappresentarlo. In tale prospettiva essa nasconderebbe, però, un’insidia concettuale, il rischio cioè che nella nominazione blasfema il divino si converta in feticcio, degradi a simulacro, divenga cioè oggetto di un «pensiero idolatrico», nei termini in cui ne ha parlato Jean-Luc Marion:
L’idolatria cerca di dire bene ciò che il blasfemo dice in male; il blasfemo maledice ciò che l’idolatria crede di dire bene; sia l’uno che l’altra non si rendono conto di dire lo stesso nome; bene o male qui poco importa, dato che tutto sta nel decidere se un nome proprio può appropriarsi di Dio trasformandolo in un “Dio”; la bestemmia inconscia dell’idolatria, dunque, può essere denunciata autenticamente solo se nello stesso tempo si smaschera l’idolatria incoerente della bestemmia. È solo sulla base di un concetto che Dio sarà, equivalentemente, negato o provato, e sarà quindi considerato alla stregua di un idolo concettuale, omogeneo al terreno concettuale in generale27.
Il rischio, tuttavia, è eluso nel momento in cui oggetto della bestemmia non sarà un Dio connotato metafisicamente, bensì il Dio incarnato, il Dio fatto carne, il Cristo. Seguendo il ragionamento di Marion:
Per guadagnare un pensiero non idolatrico di Dio, il solo che sia capace di liberare “Dio” dalle virgolette, emancipando la sua apprensione dalle condizioni poste dall’onto-teo-logia, bisognerebbe dunque arrivare a pensare Dio al di fuori della metafisica, per lo meno nella misura in cui quest’ultima, con la bestemmia (la prova), conduce immancabilmente al crepuscolo degli idoli (ateismo concettuale)28.
La bestemmia sfuggirà alla logica di un «pensiero idolatrico» qualora sia rivolta non al Dio trascendente, bensì al Cristo, al Dio incarnato e espulso nell’immanenza, a un Dio estraneo a ogni orizzonte metafisico. In tal senso, l’immagine del Cristo, piuttosto che sembianze idolatriche, assume le limpide fattezze di un’icona, laddove in essa paradossalmente si rende visibile proprio la divinità colta nella sua lontananza imperscrutabile29:
Ora che osano dire
Le mie blasfeme labbra:
Cristo, pensoso palpito,
Perché la tua bontà
S’è tanto allontanata?(G. Ungaretti, Mio fiume anche tu I, vv. 24-28)
Ora il divino, seppur lontano e inattingibile, non è ignoto: è il Dio incarnato, il Dio della chenosi e della croce. Ora la divinità è ben riconoscibile, invocata con un nome specifico, coincidente con quello di Cristo. L’allocuzione dispone, adesso, di un referente preciso, pur se ancora non sanata appare la frattura che separa l’uomo dalla divinità. Ciò, come osserva Ossola, implicherà «non mediazione del Cristo», quanto, piuttosto, cognizione dolorosa dell’«assenza» di Dio, non redenzione e riscatto, «ma blasfema rovina»30. L’incontro con il Cristo, in questi termini, anziché placare le afflizioni e le angosce dell’uomo, ne esaspererà (fertile, qui, la lezione del modello teologico di Bonhoeffer) l’angosciosa inquietudine. Il Cristo di Ungaretti, infatti, non è quello della parusia, dell’avvento glorioso e della resurrezione, ma è il Dio della croce, il Dio della chenosi. È il Dio di Dostoevskij e di Holbein, il Dio di Hebbel e di Jean Paul, il Dio di Michelangelo. Ed è proprio riflettendo sulla Pietà michelangiolesca che Ungaretti abbozzerà una limpida theologia crucis il cui fulcro concettuale non risiede tanto nella gloria della resurrezione, quanto piuttosto nella corruzione e nel deteriorarsi della carne di Dio, laddove la natura del Cristo viene percepita in tutta la sua dolente, oscura corporeità:
Quando Michelangelo rappresenta nella sua ultima opera, la Pietà Rondanini, Cristo, Cristo è un corpo disanimato, un corpo vuoto (…) Michelangelo vede se non orrore (…). L’idea di risurrezione è un’idea che non si arriva ad assimilare. C’è sempre nella sua opera, come in sé, un’assenza, e quell’assenza produce vertigine (…) che sarebbe come la definizione materiale, spaziale, dell’assenza dell’essere31.
Nella Pietà michelangiolesca Ungaretti avverte la vertigine del vuoto, l’orrore dell’assenza. L’immagine scultorea comunica al poeta un profondo horror vacui che si sprigiona dal corpo «disanimato» del Cristo, che marchia le carni del Verbo, del logos svuotato e impallidito dinanzi al nulla della morte. Come scrive Pietro Coda:
Gesù (…) per la fede cristiana non è solo il Logos fatto carne, la Parola definitiva di Dio all’umanità (…) Ma è anche Colui che si “svuota” di Sé (…) sino a tutto donare sul legno della croce – anche Dio in Sé. Anzi, la rivelazione di Dio compiutasi nel Logos fatto carne s’attua precisamente attraverso questo suo libero e attivo spogliamento di Sé32.
Nel processo chenotico, in questa spoliazione di Dio in Cristo, «il Logos e il nulla vengono a coincidere»33, il vuoto abita le carni del Verbo, annichilendolo. Michelangelo rappresenta il Dio morto, il cadavere della divinità, il corpo morto di Dio da cui il poeta Ungaretti preferirà, però, volgere lo sguardo. Egli, infatti, perverrà a riscattare liricamente l’oscura e perturbante corporeità del Cristo (che invece, come vedremo, diverrà il fulcro del discorso lirico di autori come Pasolini e Testori), sublimandola in una dimensione corale che fa appello al dolore e alle angustie terrene trasfigurate in una luce cristica e creaturale in cui predomina l’elemento soteriologico. Il canto ungarettiano assumerà, allora, quasi le sembianze dell’inno di lode34.
Nei tre movimenti in cui si articola il componimento Mio fiume anche tu, si assiste a un graduale processo di avvicinamento della creatura al divino, che sfocia in accorata partecipazione alla dolente umanità del Cristo. Dalla desolata constatazione dell’allontanamento della divinità, si giunge alla solida consapevolezza dell’amore del Cristo per l’uomo: in questi termini Mio fiume anche tu può essere considerato una sorta di trittico in cui si raccontano le fasi di una sofferta conversione:
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.(G. Ungaretti, Mio fiume anche tu III, in Id., Il Dolore, vv. 6-17)
Dalle urla-fulmini al «grido senza voce», alla bestemmia, ecco che il canto erompe, sciogliendosi, infine, in un appello commosso, in un’invocazione tenera e accorata. In quell’«Ecco, ti chiamo» si avverte nitidamente la forza allocutoria di una voce che, lungamente rattenuta, in «roccia di gridi», in grumo sonoro, in grido introflesso e solitario, si sfalda, sgorga e d’improvviso zampilla in un pianto, non già individuale ma coralmente vissuto. La solitudine e l’abbandono scontato dall’uomo, quel «grido unanime», quel grumo ora si dilatano, si sciolgono in parola, in un pianto corale, e divengono la misura della ritrovata umanità della creatura: dal tragico vigore di un urlo blasfemo, ferino, bestiale alla carità di una parola finalmente umana35.
2. L’icona deturpata: la lirica novecentesca tra ateismo, invocazione e bestemmia
Voi, da preghiera e bestemmia e preghiera
affilati coltelli
del mio
silenzio36.(P. Celan)
Anche la bestemmia e la preghiera si giustificano nello stesso istante. Quando le proferite insieme, vi avvicinate al rappresentante supremo dell’Equivoco37.
(E. M. Cioran)
Bisogna che l’essenza divina sia corrotta da molto tempo se mettiamo in dubbio la sua salute e la sua virtù. Dio non è più presente; nemmeno le nostre bestemmie riescono a rianimarlo38.
(E. M. Cioran)
Ungaretti nel ‘900 assume allora, per il discorso che qui ci interessa, quasi il ruolo di teoreta della bestemmia, ma non di bestemmiatore. Invano, difatti, cercheremmo nel corpus della sua opera lirica una poesia o anche un solo verso che possa essere giudicato come ingiurioso nei confronti di Dio. La sua poesia si impone come potente rappresentazione tematica della nozione di bestemmia, ma difficilmente potremmo considerarla blasfema. Più giusto sarebbe affermare che egli elabora una vera e propria etica della bestemmia, ne sottolinea, cioè, la cifra autenticamente religiosa, laddove essa in qualche modo sembra favorire e rendere possibile il dialogo tra gli uomini e Dio.
La teoresi ungarettiana sulla bestemmia verrà decisamente convertita in prassi da alcuni poeti novecenteschi: dolenti e scabri bestemmiatori (si pensi a Caproni e a Testori), ma, anche, retori scaltri e smaliziati che incuneano formule e frasi blasfeme come limpide tessere all’interno del loro discorso lirico. Tradizioni poetiche successive radicalizzeranno, così, la vocazione dialogica della bestemmia, utilizzata ora in un’accezione prevalentemente dialettica, esasperandone la cifra conflittuale ma, nel contempo, perfezionandone impianto speculativo e tessiture retorico-stilistiche.
Si veda, ad esempio, Zanzotto:
Tu stolta eternità, mai vinta
adorante bestemmia,
polvere che si ribella, cielo
a me strappato, tu
viscere sempre gemebonde, terra…(A. Zanzotto, Spazio e spazio ancora mi confonde, in Id., Vocativo, vv. 18-22)
Si noti la contiguità testuale, di ungarettiana memoria, dei due termini «eternità» e «bestemmia». Ma si faccia piuttosto attenzione all’efficacia dei dispositivi retorici prescelti per connotare il termine «eternità», immagine che, nell’economia del testo, assume una limpida concretezza figurativa, sia per i toni in cui il poeta a essa si rivolge, declinati nelle forme di una confidenziale apostrofe, sia per il ricorso alla personificazione: «Tu stolta eternità»39. Proprio l’aggettivo prescelto in riferimento alla parola «eternità» ne accentua la connotazione antropomorfa, determinando, inoltre, la radicale degradazione simbolica e il corrosivo abbassamento concettuale della nozione stessa di «eterno». L’epiteto «stolto», infatti, uno dei più vitali sia in ambito veterotestamentario sia evangelico, è utilizzato, ad esempio, nei Salmi per definire l’uomo ateo, l’empio che rifiuta Dio o che ne nega l’esistenza40. È chiaro, dunque, che l’assunzione di tale parola in riferimento alla nozione di eterno ne intacca ogni valenza simbolico-semantica, assumendo un significato decisivo e dirompente nell’economia del discorso. Zanzotto forgia un sintagma dall’aspro valore ossimorico, che scompiglia radicalmente le coordinate assiologiche e il regime simbolico/concettuale entro cui si incastrano, dunque, sia la nozione biblica di «stolto» sia quella di «eternità». Siamo al cospetto di un’operazione che adultera e inquina il valore e il significato stesso di due nozioni centrali nelle grandi narrazioni bibliche, così come nell’immaginario e nella tradizione teologica e religiosa.
Il verso 19 culmina in un’immagine dal sorprendente rilievo espressivo: in quella «adorante bestemmia» si attiva, infatti, un folgorante cortocircuito semantico che trasfigura la nozione stessa dei due termini, inquinandone radicalmente le valenze simboliche e concettuali. Nelle forme di uno sconcertante e paradossale innesto, collimano e stridono due immagini che a poco a poco, tuttavia, paiono incastrarsi e fondersi, amalgamandosi in un raffinatissimo crogiuolo retorico che fa leva sulle figure dell’ossimoro e della sineddoche qui utilizzate in efficace sinergia. L’«adorante bestemmia», ossimoro sorprendente, allude per sineddoche all’uomo religioso o, meglio, a una distorta e adulterata vocazione religiosa nell’ambito della quale la bestemmia si profila come irriducibile e unica modalità interlocutoria (e, non a caso il poeta dice: «mai vinta/ adorante bestemmia»), che ha come paradossale finalità il culto, la venerazione, l’adorazione dell’eternità.
In pochi versi il poeta compendia la logica e il significato che animano la bestemmia lirica novecentesca: laddove Ungaretti ricorre al discorso blasfemo come scandaglio conoscitivo, Zanzotto, in uno di quei rari, «fulminei, fugacissimi riagganci cristiani»41 che è dato riscontrare nella sua opera, ne recupera e ne mette in luce la paradossale valenza religiosa.
Il motivo della bestemmia ritorna in un’altra poesia di Vocativo:
Quando paralizzata
la mano regge la fronte e la fulva
verticale bestemmia
cieli di perlati atolli incinera.(A. Zanzotto, Campèa, in Id., Vocativo, vv. 24-27)
Qui l’io lirico è colto in una condizione di dolente infermità, come raggelato in una melanconica inerzia: la mano paralizzata ne «regge la fronte», in una posa che potrebbe rinviare alla celebre incisione di Albrecht Dürer. È a questo stato di oscuro languore che si contrappone l’irruenza vigorosa di quella «verticale bestemmia». Essa ora risuona in un limpido fulgore, giungendo sino al cielo, incenerendolo. Dalla mestizia taciturna e pensosa dell’io lirico coagula e riaffiora a poco a poco l’eco fulgida e corrosiva della bestemmia. Alla paralisi che raggela il soggetto, alla sua catatonica inerzia fa da contrappunto l’inquieto e limpido dinamismo di una voce che ora si leva come distruttiva vampa, annichilendo il cielo. Qui la bestemmia è definita verticale, a denotarne l’ascensionale moto, il suo procedere dal basso verso l’alto, in una corrosiva allusione alla spazialità gerarchica in cui si compie la sua parabola, tesa verso quei «cieli di perlati atolli»: la raffinata metafora allude forse alla purezza di un luogo inviolato, al gemmato candore delle nubi, atolli del cielo, simbolo qui di un’aurorale purezza. Ed è negli intatti recessi di quel luogo che la bestemmia irrompe, che quella voce incinera lo spazio incorrotto del cielo. Essa ora varca la soglia dell’eterno, il bordo stesso su cui si era in precedenza rotta la voce di Baudelaire, il punto esatto nel quale sbiadiva morendo il suo ardente singhiozzo42. È quello anche il diaframma contro cui si erano infrante le urla-fulmini, il grido folgorante di Ungaretti43. Essa penetra uno spazio sino ad allora inviolato, rompe l’ostacolo che ne precludeva l’accesso, contro cui nulla avevano potuto né il dirompente ardore del grido che riecheggia nei Fari né la fòlgore irruente nel cui fuoco era insorto l’urlo ungarettiano.
La parola blasfema di Zanzotto non si arena nel silenzio, né decade tramortita, dissolvendosi in fioco languore. Essa non è parola che implode, arsa dal suo stesso fuoco, o che incenerisce dinanzi all’ustorio e abbacinante sguardo dell’Altro. Essa, invece, ascende per risuonare nel cielo e distruggerlo44. Quella bestemmia ruba il fuoco agli dèi: è questo il furto della fòlgore che ora ascende dalla terra per fulminare il cielo e incenerirlo. Quella bestemmia è fuoco che intacca la «Barriera divina», nei termini in cui ne ha parlato Emanuele Severino:
La Barriera è l’Ordine immutabile della natura. Solo se la penetra, la sfonda, la squarta, e comunque la fa arretrare, (l’uomo) può liberarsi un poco alla volta del suo peso e ottenere ciò che egli vuole. (…) La Barriera divina vive inviolata solo se uccide l’uomo; l’uomo vive soltanto se uccide Dio. Il fuoco è il simbolo essenziale della potenza divina; e Prometeo ruba il fuoco – uccide l’inviolabilità degli dèi – per darlo all’uomo45.
Laddove la voce di Baudelaire moriva nei pressi di questa Barriera e il fulmineo grido ungarettiano sprofondava impaurito dinanzi alla «campana fioca/ del cielo», al «Tremendum-Fascinans»46 del sacro, di ciò che è inviolabile e interdetto, la bestemmia di Zanzotto «uccide l’inviolabilità degli dèi»47, distrugge quel confine, incenerisce la barriera divina: essa si apre un «varco nella Barriera dell’Inflessibile, che si presenta alla volontà come la dimensione della Potenza suprema, demonica, divina»48 (e vedremo come tale incursione non sia che il preludio dell’uccisione di Dio, il primo passo verso la distruzione della divinità, la tragica prefigurazione del deicidio: «verticale bestemmia/ cieli di perlati atolli incinera»).
Si osservi, intanto, come l’impianto sintattico-retorico del verso assuma una limpida funzione strumentale nell’ambito del discorso: l’impiego dell’anastrofe (tramite cui l’oggetto viene anteposto al verbo: cieli/incinera), incrociata con l’iperbato (con cui il complemento «di perlati atolli» viene incastonato tra l’oggetto: «cieli», e il predicato: «incinera») genera una raffinatissima sinchisi: «verticale bestemmia/ cieli di perlati atolli incinera». È, così, ottenuto un ingorgo sintattico che determina un’efficace dislocazione sintagmatica nella pregnante adiacenza dei termini: «cieli» e «bestemmia». L’impianto strutturale del discorso in tal modo acuisce e potenzia l’entità della collisione semantica nonché la sovrapposizione simbolica tra le due nozioni.
In una fase precedente della sua ricerca anche Zanzotto, in un testo che vale la pena riprendere, aveva tematizzato la sconfitta della voce, la sua combustione, il suo raggrumarsi in cenere:
voci oscure come le mie ceneri
e strade ch’io vidi precipizi,viaggiai solo in un pugno, in un seme
di morte, colpito da un dio.(A. Zanzotto, Arse il motore, in Id., Dietro il paesaggio, vv. 23-26: corsivi nostri)
Ora la voce dell’io non è più oscura, né si effonde come sostanza fragile e cinerea, non è questa la voce di un soggetto «colpito da un dio», l’illividita eco che decade, sbiadendo nel vuoto. Quella voce è divenuta «verticale bestemmia», compatto grido lanciato contro il cielo, ponderata parola che ascende in calibrato volo. La voce dell’io sembra essersi, qui, riappropriata del proprio potere ustorio, della propria abbacinante violenza: e proprio la bestemmia ora consente alla voce creaturale di dispiegarsi nella sua potenza, in tutto il suo limpido fulgore. Quel fuoco che in una precedente fase inceneriva, facendola implodere, la parola stessa, sbriciolandola, adesso si profila come la cifra limpida e vigorosa che la anima. Eppure, quella voce, l’eco blasfema che incenerisce il cielo, non è qui espressione di una hýbris sfrontata, il segno in cui si alienano colleriche pulsioni: qui la bestemmia nasce entro i confini di una riflessività austera, di un’ascesi rigorosa, da una condizione di dolente stasi, «quando paralizzata/ la mano regge la fronte»: essa è il frutto limpido che si schiude nella pensosa solitudine del soggetto.
L’io lirico di Zanzotto è un io raggelato e melanconico, un io riflessivo, nel cui spazio insorgerà una parola efficacemente dialettica, un logos potente tramite il quale egli giungerà a minacciare e a corrodere il cielo. La bestemmia qui non è segno in cui coagula una distruttiva pulsione, non è voce greggia, parola infeconda e scabra. Essa è, invece, parola ana-litica, discorso rigoroso che sembra dipanarsi dalle robuste maglie del pensiero, incastrandosi entro solide griglie speculative, all’interno di ben ponderate coordinate dialogiche. È la nozione di logos, il concetto stesso di ratio che incarna la sua «verticale bestemmia»: limpido archetipo di un pensiero che fonda le proprie argomentazioni sul nulla, sull’impensabile, su ciò che non è possibile pensare: la distruzione del presupposto, l’erosione del fondamento, oltre il quale quella voce ora si propaga e risuona in pienezza. L’eco blasfema scavalca la barriera del divino, demolendola. Essa ora palpita e vibra sulle macerie di Dio, illumina il suo nulla; devastando lo spazio del sacro, incenerendolo, essa compiutamente incarna la paradossale cifra ontologica di un ente che esiste al di là Dio, oltre l’ipostasi suprema, nonostante la sua morte. Quella bestemmia è gesto che implica la distruzione del fondamento assoluto oltre il quale si dispiega il vuoto, eppur limpida risuona la voce dell’uomo. Ed è questa la voce che profana lo spazio del sacro, che vìola ciò che è interdetto, che lo interpella, sfidandolo, per poi distruggerlo: «E se il profano, in quanto costituito da parole emancipate, fosse solo una sfida al silenzio divino?»49. In questa domanda di Jabès emerge la logica che guida la «verticale bestemmia» di Zanzotto. Essa è parola emancipata dall’orrore del nulla, eco profana che, nel nominare Dio, lo distrugge. La bestemmia consegna l’Assoluto alla temporalità: è questo il senso di quella profanazione. In essa ha luogo il linguaggio che dice il nome di Dio e che lo consegna all’immanenza, che lo nomina nell’attimo stesso della sua morte. In tal senso la bestemmia è esperienza di una duplice morte: quella di Dio e quella della voce creaturale che poi nel nulla di Dio risorge. La bestemmia è voce che sorge col nulla, che in esso risuona in sfolgorante pienezza. Essa costituisce, in tal modo «il negativo fondamento della propria negatività»: nella negazione assoluta del presupposto essa assurge «a più originale e negativo (cioè abissale) fondamento metafisico»50. Essa, cioè, sperimenta «come nulla l’evento originario»51 del suo stesso insorgere, profilandosi come lo «shifter (il deittico) supremo che permette al pensiero di fare l’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio e di fondare, con ciò, la dimensione dell’essere nella sua differenza rispetto all’essente»52. La bestemmia è, cioè, luogo di un’apertura originaria entro cui la parola umana diviene voce prosciolta dai gorghi oscuri del divenire, eco assoluta che nel suo nominare sfonda la barriera dell’ineffabile, scavalca il diaframma dell’interdetto e che, nel suo nominarlo, lo abolisce in quanto significato, incenerendolo.
Nella «verticale bestemmia» di Zanzotto è compendiata proprio la logica che governa e muove la blasfemia lirica novecentesca. Essa non si impone soltanto in funzione catartica, ma, come si è avuto modo di osservare altre volte nel corso del nostro lavoro, assume un ruolo essenzialmente dialettico nell’ambito dell’accidentata relazione tra uomo e Dio. Procedendo nell’indagine, vedremo come la retorica blasfema assuma sovente le forme rigorose di un limpido ragionamento filosofico: in argomentazioni caustiche e stringenti il discorso lirico si snoda in inferenze culminanti in un inattaccabile capo d’accusa che pone il divino dinanzi alle sue colpe, mettendone efficacemente in luce le aporie, le radicali contraddizioni. O, al contrario, la bestemmia giungerà a profilarsi come appello tramite cui l’io lirico tenta di strappare il divino alla sua inesistenza, come formula atta a redimere e a salvaguardare la divinità dall’erosione del nulla, dall’abbaglio del vuoto in cui essa sembra sgusciare.
Di fronte al male e all’angoscia del vuoto, pur di non negarne l’esistenza, l’uomo bestemmia Dio, pur di non rinunciarvi, oltraggia il suo nome, lo ingiuria. Nella bestemmia lirica del ‘900 vi è spesso questo aspetto paradossale: essa viene proferita non solo in una catarsi liberatoria, ma soprattutto per destare Dio dal torpore del nulla, dalla sua catatonica inerzia, quasi diremmo per salvarlo dalla «nullità»: così scrive Testori in un testo sul quale torneremo, in cui sembra decomporsi e corrompersi. In essa potremmo dire che si attua da parte dell’uomo una paradossale e desolata celebrazione del divino, malgrado la cruda consapevolezza della sua inesistenza:
«Piaccia o non piaccia!»
disse. «Ma se Dio fa tanto»,
disse, «di non esistere, io,
quant’è vero Iddio, a Dio
io Gli spacco la Faccia».(G. Caproni, Lo stravolto, in Id., Il muro della terra)
Il testo di Caproni, nel cui breve spazio il nome di Dio è ripetuto tre volte, diviene espressione di un ateismo paradossale, un ateismo che rinnega e confuta i suoi stessi fondamenti. Come ha osservato Cioran, «Dio dovrebbe continuare a esistere anche davanti a prove irrefutabili della sua inesistenza»53. Similmente Caproni descrive un Dio che caparbiamente, e quasi con ostinazione, persevera nella propria inesistenza: i primi tre versi rendono compiuto il paradosso che inquadra e mette in luce non solo il tumulto e lo sconvolgimento in cui versa l’uomo (creatura stravolta il cui discorso farneticante e convulso sembra ascriverla quasi alla tipologia del folle), ma anche l’arrendevolezza di un Dio che pare sgusciare e cercare riparo nel suo stesso non esistere. Caproni in questi versi mette in luce in modo assai efficace la paradossale anomalia ontologica che contrassegna la figura del divino nell’epoca del nichilismo e della secolarizzazione, nell’accezione in cui ne ha discorso, ad esempio, Martin Heidegger: «Un Dio, che debba innanzitutto lasciar dimostrare la propria esistenza, è in ultima analisi un Dio ben poco divino, e l’esito della dimostrazione è, in massimo grado, una bestemmia»54. In tale prospettiva proprio la bestemmia occorre come strumento dialettico per pensare la divinità, per sancirne, in ultima analisi, l’esistenza. La schiettezza prosastica dell’allocuzione culmina nella vivace e colorita esclamazione dell’ultimo verso, in cui si accampa l’icastica immagine del volto divino che il poeta plasticamente rende con il termine «faccia»55, in direzione della quale lo stravolto brandisce minacciosamente il proprio pugno. Siamo al cospetto di un personaggio connotato da una gestualità sfrontata e blasfema, apparentato a certe figure della Commedia (si pensi, ad esempio, a Vanni Fucci). Ma qui lo stravolto vive una situazione ancor più tragica rispetto al dannato dantesco. Questi, difatti, conosce bene il Dio di cui si schernisce, verso il quale «squadra le fiche» (Inferno XXV, vv. 2-3) in segno di scherno e di rivolta. Lo stravolto caproniano, invece, brandisce i propri pungni verso il nulla, ovvero contro un simulacro, una vacua effigie, un’opaca parvenza. Egli minaccia il vuoto, nella speranza che in quel vuoto qualcuno dimori e sia presente, con l’auspicio che Dio accolga la provocazione e risponda56. Lo stesso vuoto, la medesima paradossale inesistenza contro cui leva i pugni l’io lirico di una poesia di Testori, in uno scontro crudo e impetuoso in cui il soggetto ingaggia quasi un corpo a corpo con Dio57:
Se è bestemmia
pensarti inesistente
non Ti chiedo pietà.
Davanti a Te
che ritenevo Dio,
alzo come un pugno
la mia idiota realtà.(G. Testori, Se è bestemmia, in Id., Nel Tuo sangue I)
Sebbene affermare l’inesistenza di Dio, dice Testori, equivalga a una bestemmia, l’uomo è però dispensato dall’invocare il perdono. Anche in questo caso il dialogo con Dio, incastrandosi nella griglia retorica del paradosso, si risolve in un ragionamento che si edifica a scapito di se stesso, in un’asserzione che demolisce i suoi stessi fondamenti. La blasfemia colpisce e inchioda un Dio definito inesistente, risuona nel vuoto di uno spazio in cui l’io lirico vive in una condizione di solitudine e di abbandono. Al cospetto di un’alterità degradata: «Davanti a Te/ che ritenevo Dio», spogliata oramai di ogni identità, privata del volto che il soggetto le aveva attribuito, l’uomo leva i pugni, arroccandosi con ostinato orgoglio nella propria nuda umanità, propugnando il proprio mondo, la propria «idiota realtà» che limpidamente si contrappone a un cielo irraggiungibile e lontano. E la percezione di tale lontananza implica, allora, l’arroccarsi orgoglioso della creatura entro i confini della propria umanità, ostentata con austera fierezza dinanzi all’assenza di Dio:
Sarò me stesso,
sarò vero,
sarò presente,
quando Tu come Dio
sarai per sempre assente.(G. Testori, Sarò me stesso, in Id., Nel Tuo sangue I)
Da questa poesia trapela una religiosità cupa e dolente nel registrare le tappe di una ricerca scandita dal livore e dall’amarezza verso un Dio che non risponde. Proprio l’imprecazione, allora, l’invettiva, l’insulto blasfemo assurgono a modalità interlocutoria privilegiata58:
T’ho amato con pietà
con furia T’ho adorato.
T’ho violato, sconciato,
bestemmiato.Tutto puoi dire di me
tranne che T’ho evitato.(G. Testori, T’ho amato con pietà, in Id., Nel Tuo sangue I)
Altrove, nei testi di Nel Tuo sangue, prende corpo e s’impone una religiosità materica e sanguigna, laddove emerge l’immagine di un Dio sconfitto e impotente, un Dio colpevole, che sottostà docilmente alla condanna e al giudizio dell’uomo:
Dopo il fallimento di Te
non resta che disprezzare ogni deità
e vivere nella disperata certezza
della Tua nullità.(G. Testori, Dopo il fallimento di Te, in Id., Nel Tuo sangue IV)
Nel testo risaltano i termini «fallimento», «disprezzare», «nullità». Il poeta, dopo aver decretato lo scacco della divinità, la sua sconfitta, come direbbe Sergio Quinzio59, avverte che all’uomo oramai non resta che il biasimo e il disprezzo verso «ogni deità». Proprio il termine utilizzato da Testori, «deità», ci persuade che anche qui, come in Caproni, il tono blasfemo non abbia carattere meramente eversivo. Il disprezzo, infatti, è rivolto non alla divinità in quanto tale, ma a uno degli attributi che, secondo la tradizione teologica e testamentaria, spettavano a Dio. Il termine denota il dio metafisico, il Dio lontano dall’uomo, estraneo alla realtà della carne, della morte e del peccato. Il fallimento di Dio nella poesia di Testori si riferisce, allora, allo scandalo della croce, alla disfatta del Golgota, all’abbassamento nella chenosi, alla «nullità» di un Dio che muore. E, si badi, Testori non utilizza il termine «nulla» (che pure in altri contesti assume fertili risonanze simboliche non meramente riconducibili a un nichilismo sterile, reazionario e demolitore), ma la parola «nullità», che esprime proprio l’annientamento, la degradazione, l’annichilirsi di Dio sulla croce.
In quella bestemmia risuonano quasi un’invocazione e una preghiera affinché Dio si avvicini all’uomo e soffra con lui. Solo con il disprezzo di ogni «deità», biasimando cioè un Dio che non partecipa all’angoscia e alle tribolazioni dell’uomo, è possibile accogliere il Dio debole, il Dio umano, il dio della chenosi e della spoliazione, il Dio «dagli occhi offuscati dalla morte», il Dio che rinuncia a ogni «superba deità» (Sulla croce, in Id., Nel Tuo sangue II, vv. 2 e 4), per incarnarsi e essere vicino alle sue creature. Come osserva Altizer, uno degli esponenti di spicco della teologia della “morte di Dio”: «sì, Dio muore nella crocifissione; in essa egli completa il movimento dell’incarnazione svuotando totalmente se stesso della sua primordiale sacralità»60: un Dio che rifiuta la gloria, che abdica alla propria onnipotenza, un Dio caduto e gettato nel baratro dell’esistenza e della morte:
Tu sei il Dio marcio,
il Dio incarnato.Sei il Dio Cristo,
il Dio sangue,
il Dio peccato.(G. Testori, Tu sei il Dio marcio, in Id., Nel Tuo sangue I)
Il verso incipitario risuona come un’aspra, corposa, struggente bestemmia: «Tu sei il Dio marcio»; Testori qui ritrae una divinità degradata, invischiata nella carne e nella materia, una divinità marcescente, colta in una luce impura, materica e sanguigna. La scansione anaforica, in un ritmo quasi da salmodia, culmina, in un climax ascendente, nella folgorante immagine finale, la quale s’impone col plastico rilievo di un’icona deturpata, di una sfigurata effigie. La blasfemia di Testori, condensata nel sorprendente ossimoro finale, qui tocca il proprio culmine.
L’inconciliabilità dei due termini «Dio-peccato», saldati nel sintagma della chiusa, determina così una sorta di deflagrazione a livello non solo delle strutture semantiche e iconiche, ma soprattutto per quanto riguarda quelle simboliche e concettuali rispettivamente veicolate dai due termini. Nell’istantanea secchezza del verso breve, Testori in un sol colpo demolisce non solo l’immagine di Dio, ma fa collassare proprio l’impalcatura teologica che tradizionalmente ne sorreggeva l’idea e su cui si appoggiavano il concetto e la nozione stessa del divino. La theologia crucis trova così, nella poesia di Testori, una compiuta radicalizzazione: la carnalità del Cristo appare suggellata dalla morte, ma senza il riscatto della resurrezione, priva della gloria della parusia. La scissione o, meglio, la «spaccatura (Spaltung) in Dio stesso», che secondo Moltmann è determinata dall’Incarnazione61 e che si risana con la resurrezione del Cristo62, in Testori appare invece irrisolta:
L’hai lasciato senza padre
ai piedi della croce.Mentre morivi
che nome urlava
se non il suo
la Tua voce?(L’hai lasciato senza padre, in Id., Nel Tuo sangue II)
Nel distico iniziale il poeta si rivolge al Dio Padre, accusandolo di aver abbandonato il Figlio, di averlo lasciato solo nell’immanenza cruda e desolata della morte. Il grido scabro e dolente del Cristo descritto nella strofe successiva compendia il senso di quell’abbandono e di quell’abissale solitudine. Si accentua, in tal modo, la divaricazione tra la nozione di trascendenza e quella di chenosi63: il Dio di Testori è un Dio lasciato solo, espulso dal cielo e rifiutato dal mondo, un Dio in bilico, che grida la propria disperazione a un Padre che lo abbandona. Il Figlio diviene, allora, immagine compiuta della sconfitta tragica del Padre, il paradigma esatto del fallimento della divinità.
Nella limpida e struggente figurazione lirica di Testori il volto del divino appare eroso e sfigurato: violandone il nome, egli ne deturpa anche il volto. Nella corporeità livida e dolente del Cristo testoriano (che per certi versi ricalca il Cristo di Pasolini64), un Dio che «copula/ con la carne e la morte» (Non è Dio chi copula, in Id., Nel Tuo sangue IV, vv. 1-2), non vi è, dunque, spazio per la redenzione. Decade, così, ogni implicazione soteriologica legata all’immagine del Cristo65. Dinanzi alle creature in attesa di un riscatto, di un avvento che le liberi dai ceppi del dolore e della morte, vi sono solo l’inerzia mortale di Dio, lo scandalo della croce, il fallimento dell’incarnazione.
Nella poesia di David Maria Turoldo questo fallimento si tramuta, da parte dell’uomo, nel presentimento di un inganno. Il sacrificio del Cristo non è servito a niente, la sua sofferenza non ha redento il mondo, il suo avvento è risultato inutile e vano:
Allora diremo
pure Cristo
ci ha ingannati?Sarà il nome più bestemmiato
il tuo dolcissimo nome,
o Cristo di Dio.(Il grande male, Allora diremo, vv. 1-6)
L’impronta blasfema pare sbiadire come mitigata dalla sostanziale devozione che l’io lirico nutre verso il «dolcissimo nome» di Cristo. In bilico tra venerazione e bestemmia, anche il discorso lirico di Turoldo metterà in luce il Cristo nella sua dolente umanità, non però nelle forme di degradata abiezione che assume in Testori. Turoldo piuttosto pone l’accento sulla radicale debolezza del Dio crocifisso, sulla dolente docilità dell’incarnazione. Nel suo dialogo il poeta si rivolge a un Dio spodestato e impotente, vincolato al male e alla sofferenza proprio come le sue creature:
Altro ora nell’impazienza di vederti
mi preme sapere, mio Dio:
quanto del nostro male ti sia imputabile,
del male che anche tu paghi,
di questo mostruoso male
pure per te inevitabile:in cosa possiamo dirci tua immagine,
se per questa infinita inquietudine
o per l’illusione di essere noi “onnipotenti”
ora che tu, per creazione, più non lo seiné puoi esserlo
a causa del pauroso dono:
Tu libertà non puoi più negare
se da noi quanto attendi e brami
è solo un atto d’amore.(G. Testori, Per un atto d’amore, in Id., Canti ultimi)
Entro i toni di una colloquiale pacatezza, con limpide argomentazioni il discorso lirico affronta una difficile e spinosa questione teologica: il poeta si chiede in che misura Dio possa essere ritenuto responsabile del male che affligge l’umanità, quale sia il suo grado di colpevolezza. E, dinanzi a un Dio che si rivela fragile, a un Dio inerme e sottomesso all’uomo, a un Dio che appare quasi in balia della creazione, il poeta giunge a pronunciare una sofferta assoluzione: l’inerzia di Dio, di fronte al male che affligge il mondo, non andrà intesa come indifferenza o apatico distacco. Egli rimane inerte non perché non voglia intervenire, ma perché non può: Dio ora appare raggelato nel proprio sgomento, paralizzato dalla sua stessa creazione66. Egli è un Dio che si rivela impotente proprio «a causa del pauroso dono»: quella radicale libertà che innalza l’uomo, ma che anche lo condanna, quella libertà spaventosa in cui l’uomo è gettato, quella terribile libertà67 che glorificandola, inchioda la creatura all’esistenza.
Ed è alla luce di questa libertà creaturale68 che Turoldo pone le basi per una nuova teodicea. Proprio la creazione, infatti, sancendo l’assoluta libertà dell’uomo, destituisce Dio della sua onnipotenza. Per dar luogo alla creazione, Dio, in qualche modo esautora e limita se stesso. È in questa contrazione, in questa ritrazione originaria, secondo una suggestiva immagine della mistica ebraica69, che risiede la sconfitta di Dio. La creazione ha origine da questo spodestamento, da questa primordiale autodeposizione70. Tra l’altro già Berdjaev aveva annotato: «La tragedia di Dio è – allora – quella che deriva da questa libertà». dal momento che la divinità «non poté vincere il male che questa libertà racchiudeva in sé, senza rischiare di comprometterla essa stessa. Ed è per questo che il mondo è tragico e il male vi regna sovrano»71. E il discorso sull’impotenza di Dio, centrale in ambito teologico e filosofico da Bonhoeffer72 a Jonas73 sino a Pareyson74, incardinerà le proprie argomentazioni proprio attorno alla questione del male75.
Come osserva Imbach,
La fede vien posta in discussione in modo radicale proprio là dove il male (come dolore) colpisce l’essere creato nella sua innocenza e nella sua miseria. Qui infatti è in gioco l’onnipotenza di Dio (e quindi Dio medesimo). Ché se si afferma l’onnipotenza di Dio, la sua giustizia appare problematica76.
In questa luce, infatti, ogni teodicea tradizionale appare vana: «non più l’uomo, ma Dio stesso è sotto accusa»77, e «un’assoluzione di Dio non è possibile finché resta aperto il problema»78: come spiegare, cioè, il male e la sofferenza alla luce della bontà e dell’onnipotenza di Dio? o, meglio, dinanzi all’iniqua e devastante presenza del male nel mondo, come poter pensare che Dio sia buono e onnipotente? Come annoterà Turoldo in versi di limpida e genuina linearità, da cui trapela l’urgenza di una risposta a lungo rattenuta,
No, tu non devi essere onnipotente.
Nessuno potrebbe dire come tu
possa vedere un bimbo soffrire!(No, tu non devi, in Id., Il grande male, vv. 1-3)
Da Dostoevskij79 a Camus80 sino a Wiesel81 è questa la tragica aporia che scompiglia la logica di ogni teodicea, dinanzi a cui il pensiero si arresta e si arrovella. È questa la contraddizione che atrofizza e vanifica ogni escatologia, che demolisce le stesse implicazioni soteriologiche dell’Incarnazione; è l’eccesso del male82 che rende vana ogni promessa escatologica di salvezza. Da qui la perplessità dell’uomo sfocia in aperta rivolta di fronte a un Dio che non comprende, dinanzi a un male che non può essere assimilato83 né dalla ragione né dal pensiero; ed è a questo punto che l’uomo giunge a sconfessare Dio, a rinnegarlo: «la sofferenza resta lo scoglio nel quale naufraga non solo l’ateismo», come osserva Moltmann, «ma anche il teismo di un Dio onnipotente e infinitamente buono»84. È questa l’aporia che, dunque, costringerà a ripensare la nozione stessa di Dio85, sì da giustificarne l’esistenza di fronte al male e al dolore che schiacciano e annichiliscono la creatura.
Il «processo a Dio»86 comincia da qui: di fronte al fatto che «ogni tentativo di giustificare Dio è al contempo una giustificazione della sofferenza (degli innocenti), del male»87; e tale aporia metterà in discussione la nozione stessa di divinità, contestando o, meglio, rinnegando uno dei due predicati che tradizionalmente spettavano a Dio: bontà od onnipotenza.
Un Dio impotente, dunque, un Dio debole e inerme, in balia della propria creazione, un Dio avvolto dalla sofferenza e dal male88. È questa la conclusione a cui giunge Turoldo89, secondo un’ottica che trova, come si è visto, fertili riscontri con il pensiero teologico novecentesco, da Bonhoeffer a Pareyson a Jonas a Quinzio. Ed è con questa consapevolezza che egli esorta a porre fine al «processo a Dio», a «non chiedere più nulla», a non contendere, sicché anche la parola blasfema s’infranga «contro i sassi», contro la durezza di una verità che racconta la sconfitta dell’uomo, ma anche quella di Dio, uniti adesso in una sola, reciproca «morte»:
Ma forse tutto è necessario. Siamo
il fiume della Sua morte.
Ognuno inchiodato al legno
della sua esistenza
a scontare la colpa che non commise
e quella che commise.
Qui si interrompano le dure
parole, il processo di Dio.
Non chiedere più nulla.
Rompete contro i sassi
l’amara bestemmia.(D. M. Turoldo, Udii una voce V, 6)
Con la poesia di Turoldo ha termine il «processo a Dio», a quel Dio che, avvolto dal dolore e dalla sofferenza, condivide con l’uomo un destino di abbandono e di solitudine. In tal senso la bestemmia non è più espressione di rivolta, il segno della radicale insubordinazione della creatura: essa, invece, rappresenta il sigillo di una sofferta riconciliazione: parola estrema che s’infrange nella consapevolezza che uomo e Dio sono impigliati in un medesimo destino di morte e di rovina90. La blasfemia scandisce in tal modo le tappe di un progressivo riavvicinamento tra Dio e uomo: essa giunge a suggellare un percorso di conoscenza che vede la creatura divisa fra tesa partecipazione e contestazione sofferta a una divinità avvertita in tutta la sua oscura, a tratti enigmatica, presenza.
Ma la bestemmia nell’opera di Turoldo assurge anche a cifra costitutiva della poesia stessa, intesa come dolente petizione a Dio e dolorosa ricerca di una traccia che possa condurre al «verbo»: ed è qui che avviene l’identificazione della figura del poeta con il Cristo:
Forse i poeti, Signore
saranno da Te crocifissi.
E così non può dirsi blasfemo
questo mio cantare:
da sé la carne cerca
il suo verbo.(D. M. Turoldo, Udii una voce, Settimo giorno a notte alta, vv. 9-14)
Sul volto del poeta Turoldo imprime la maschera del Cristo, secondo un topos assai vitale nella poesia europea tra Otto e Novecento91. Rovesciando l’immagine giovannea del Logos incarnato, la figura del poeta assurge a simbolo di una dolente umanità: il poeta crocifisso diviene emblema dell’uomo, il paradigma di una limpida e inquieta creaturalità: la «carne» in cerca del «suo verbo» rappresenta, cioè, l’uomo, ogni uomo in cammino verso il logos che è metafora del divino e, nel contempo, della poesia stessa. La poesia esprimerà, allora, questa tensione originaria, in essa abiterà quel soffio che la spinge e la costringe a mettersi in cammino in cerca del «verbo», di una pienezza, cioè, che la redima dalla sua costitutiva e radicale incompiutezza. Non può, dunque, dirsi «blasfemo» quel canto, se esso è mozione che trapela ed erompe insopprimibile, affiorando verso il «tu» originario; se esso risponde a un appello e obbedisce a un richiamo; non può dirsi blasfemo, se è espressione di un’urgenza radicale e irriducibile, che lo conduce fuori di sé alla ricerca dell’alterità; non può, quel cantare, dirsi blasfemo, se il suo destino sarà poi quello di spegnersi nel silenzio e nell’abbandono di chi non può o non riesce ad accoglierlo né a farlo risuonare. Se è così, sembra affermare Turoldo, ogni canto autenticamente religioso dovrà necessariamente riecheggiare come un’aspra e dolente bestemmia.
- G. Leopardi, Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori, 1999, II ed., p. 430 (506-507). ↵
- E. Jabès, Il libro della sovversione non sospetta, Milano, SE, 2005, p. 21. ↵
- N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 2001, p. 42. ↵
- G. Ungaretti, Ragioni d’una poesia, in Id., Vita d’un uomo, Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori, 1969, p. LXXX. ↵
- G. Ungaretti, Mio fiume anche tu I, in Id., Il Dolore, v. 25. ↵
- G. Steiner, Il silenzio e il poeta, in Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano, Milano, Garzanti, 2006, II ed., pp. 57-58. ↵
- D. M. Turoldo, Tu e lui, in Id., Canti ultimi, v. 4. ↵
- G. Ungaretti, Ragioni d’una poesia, op. cit., p. LXXI. ↵
- G. Ungaretti, La preghiera, in Id., Sentimento del Tempo, vv. 10-12. ↵
- M. Luzi, Frasi e incisi di un canto salutare, Si sgretola la malcresciuta torre, vv. 1-2. ↵
- Per cui cfr. P. Leoncini, Dalla Torre di Babele alla Pentecoste, in La Bibbia nella letteratura italiana, Opera diretta da Pietro Gibellini, III, Antico Testamento, a cura di Raffaella Bertazzoli e Silvia Longhi, Brescia, Morcelliana, 2011, pp. 127-36. ↵
- E. M. Cioran, La caduta nel tempo, Milano, Adelphi, 1995, p. 123. ↵
- G. Ungaretti, da Sentimento del Tempo, La pietà IV: corsivi nostri. ↵
- Sulla figura di Satana nella poesia carducciana e nel panorama lirico ottocentesco si rinvia a F. Danelon, Presenze di Satana nella letteratura italiana dell’Ottocento, in La Bibbia nella letteratura italiana, Opera diretta da Pietro Gibellini, III, Antico Testamento, op. cit., pp. 335-56. Per una ricognizione nell’ambito della letteratura romantica europea si veda M. Milner, Satana e il Romanticismo, con un intervento di Lucio Felici, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 7-36. ↵
- Potremmo, ad esempio, spigolando tra i lirici del secondo Ottocento, attingere a un formulario cospicuo di ingiurie e imprecazioni blasfeme che, se da un lato rappresentano lo stigma cogente di un radicato anticlericalismo, dall’altro sembrano ispirarsi a un rozzo quanto colorito gergo da osteria. Si veda, ad esempio, il Guerrini: «Ma l’uggia debelliam del secol tristo/ In un femineo sen celando il viso,/ Bevendo in fresco e bestemmiando Cristo» (Ebbro, in Id., Postuma, vv. 12-14). O, ancora, in una gestualità proterva e blasfema vedremmo l’io lirico porsi in un atteggiamento di fiero e sprezzante antagonismo. Ancora Guerrini: «La mia bandiera l’ho inchiodata a l’albero/ come una sfida a ‘l fulmine» (In mare, in Id., Nova polemica, vv. 11-12); «ma voglio il Dio de’ farisei deridere/ con l’ultima bestemmïa» (ivi, vv. 31-32). Più convincente per quanto riguarda espressività e tonalità liriche è la produzione poetica in ambito scapigliato (penso, ad esempio, al Praga di Preludio, Musica di chiesa o di Nox nella raccolta Penombre): «Poiché il dilemma, immobile,/ pesa sull’uom dal giorno/ che ad un primo cadavere/ si pose il fango intorno;/ poiché non altro è il mistico/ sole dell’emisfero/ che un luminoso zero!» (Nox, vv. 78-84). In una cruda e disincantata figurazione viene qui rinnegata ogni risonanza mistica del reale. Così il «sole», in una riuscita metafora di limpida caratura nichilista, è paragonato a uno «zero», prefigurando quasi lo sconcertante verso di Zanzotto: «Ogni OPUS è 0 più pus» (Dittico e fistole, in Id., Idioma, v. 14). Il divino si profila come luogo utopico e inattingibile o, meglio, come menzogna storicamente perpetrata da «auguri», «apostoli» e «bramini»: «Dove svanir le vergini,/ e le pietose donne?/ Ove son iti i bamboli/ e le povere nonne?/ Mentì il profeta o l’augure,/ l’apostolo, o il bramino?/ Chi giunse al Dio divino?» (Nox, vv. 92-98). ↵
- Par quasi superfluo indicare come luogo paradigmatico della bestemmia baudelairiana la sezione Rivolta nei Fiori del male che accoglie tre testi in tal senso emblematici: Il rinnegamento di San Pietro; Abele e Caino, Le litanie di Satana. Sulla religiosità della poesia di Baudelaire segnaliamo gli studi di S. Zeppi, Baudelaire e l’inquietudine di Dio. Dalla disperazione alla speranza, Roma, Edizioni Studium, 2002; B. Fondane, Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, Torino, Aragno, 2013; G. Cacciavillani, Baudelaire. La poesia del male, Roma, Donzelli, 2003. ↵
- Cfr. L. Felici, L’Arimane di Leopardi. Dio, il male e la morte, in M. Milner, Satana e il Romanticismo, op. cit., pp. 39-78. ↵
- É. Benveniste, La blasphémie et l’euphémie, in L’analyse du langage théologique: le nom de Dieu. Actes du colloque organisé par le Centre International d’Etudes Humanistes et par l’Institut d’Etudes Philosophiques de Rome, Rome, 5-11 Janvier 1969, a cura di E. Castelli, Paris, Aubier, 1969, p. 72. ↵
- Sulla religiosità di quest’inno si veda V. De Marinis, Ungaretti, “uomo ferito”, “uomo di pena”, in «La Civiltà Cattolica», I (1970), pp. 549 e sgg. e M. Grilli, Il pathos della parola. I profeti di Israele, Roma, Paoline Editoriale libri, 2000, pp. 98 e sgg. ↵
- N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 2001, p. 74. ↵
- G. Ungaretti, Mattina, in Id., L’Allegria. ↵
- Si legga, ad esempio, questo celebre passo di Pascal: «L’uomo contempli, dunque, la natura tutt’intera nella sua alta e piena maestà, allontanando lo sguardo dagli oggetti meschini. Miri quella luce sfolgorante, collocata come una lampada eterna a illuminare l’universo; la terra gli apparisca come un punto in confronto dell’immenso giro che quell’astro descrive, e lo riempia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un tratto minutissimo in confronto di quello descritto dagli astri roteanti nel firmamento. E se, a questo punto, la nostra vista si arresterà, l’immaginazione vada oltre: si stancherà di concepire prima che la natura di offrirle materia. Tutto questo mondo visibile è solo un punto impercettibile nell’ampio seno della natura. Nessun’idea vi si approssima. Possiamo pur gonfiare le nostre concezioni di là dagli spazi immaginabili: in confronto della realtà delle cose, partoriamo solo atomi. È una sfera infinita, il cui centro è in ogni dove e la circonferenza in nessun luogo. Infine, è il maggior segno sensibile dell’onnipotenza di Dio che la nostra immaginazione si perda in quel pensiero» (la citazione è tratta da B. Pascal, Pensieri, Torino, Einaudi, 1962: corsivi nostri). ↵
- È celebre l’asserzione nietzschiana rispetto all’inesistenza di Dio: «Se Dio esistesse, come potrei tollerare di non essere Dio io stesso?» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Id., Opere, ed. italiana diretta da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. VI, tomo i, Milano, Adelphi, 1968, p. 100). Come osserva Franz Rosenzweig, «La storia della filosofia non aveva mai visto un ateismo come quello di Nietzsche. Egli è il primo pensatore il quale non soltanto è ateo teoricamente, ma ben più correttamente e secondo l’uso teologico del termine “nega” Dio. Anzi, ancora più esattamente lo bestemmia. Poiché la famosa frase: “Se Dio esistesse, come potrei tollerare di non essere Dio io stesso?” ha il significato di una bestemmia, di una bestemmia violenta (…) Mai un filosofo aveva retto il confronto faccia a faccia con il Dio vivente al punto di parlare in questo modo. Il primo uomo reale della filosofia era anche il primo che vedeva Dio faccia a faccia, sia pure per negarlo. Infatti quella frase è la prima negazione filosofica di Dio nella quale Dio non sia indissolubilmente connesso al mondo» (F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, Milano, Vita e Pensiero, 2005, p. 19). Cfr. anche H. de Lubac, Feuerbach e Nietzsche in Id., Il dramma dell’umanesimo ateo, vol. II, Milano, Jaca Book, 1992, pp. 48 e sgg. ↵
- Cfr. V. Franco, I possibili e la libertà, Jean-Paul Sartre, in Ead., Etiche possibili. Il paradosso della morale dopo la morte di Dio, Roma, Donzelli, 1996, pp. 97-133. ↵
- E. Severino, Intorno al senso del nulla, Milano, Adelphi, 2013, p. 35. ↵
- Laddove Pasolini, riferendosi alla ricerca metafisica ungarettiana in L’Allegria, parlava di un Dio che «è ancora impersonale, nozione non ancora semanticamente violata» (P. P. Pasolini, Un poeta e Dio, in Id., Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, p. 254). ↵
- J.-L. Marion, Dio senza essere, Milano, Jaca Book, 1984, p. 55. ↵
- J.-L. Marion, L’essere, l’idolo, il concetto, in Di-segno. La giustizia nel discorso, a cura di Gianfranco Dalmasso, Milano, Jaca Book, 1984, p. 203. Di Jean-Luc Marion si veda anche il saggio L’idolo e la distanza, Milano, Jaca Book, 1979. ↵
- Scrive Marion: «Al contrario dell’idolo, che misurava la magra della nostra mira, l’icona sposta i limiti della nostra visibilità commisurandola a quella che le è propria, cioè alla sua gloria. Essa ci trasforma nella sua gloria, facendola risplendere sul nostro viso che le fa da specchio; ma uno specchio bruciato da questa stessa gloria, che si trasfigura di invisibile e che, a forza di essere saturata al di là di se stesso da questa gloria, ne diventa, esattamente anche se imperfettamente, l’icona: visibilità dell’invisibile come tale» (J.-L. Marion, Dio senza essere, op. cit., pp. 37-38). ↵
- C. Ossola, Giuseppe Ungaretti, Milano, Mursia, 1982, II ed., p. 311. ↵
- G. Ungaretti, Note a Sentimento del Tempo, in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori, 1969, p. 534. ↵
- P. Coda, Il logos e il nulla. Trinità, religioni, mistica, Roma, Città Nuova, 2004, p. 11. ↵
- Ibidem. ↵
- Come già aveva osservato Pasolini, nell’«inquietudine religiosa» di Ungaretti «si può rinvenire quella che è forse la sua maggiore individuazione di poeta, la disposizione all’inno» (P. P. Pasolini, Un poeta e Dio, op. cit., p. 360). ↵
- Il pianto della creatura si confonde in questo caso con il grido del Cristo. Il dolore umano è quello di Dio appartengono al mistero che accomuna la creatura e il creatore. ↵
- P. Celan, …Mormora la fontana, in Id., La rosa di Nessuno, vv. 1- 4. ↵
- E. M. Cioran, Lacrime e santi, Milano, Adelphi, 1990, p. 89. ↵
- Ivi, p. 73. ↵
- Secondo Uberto Motta, in questa poesia «pare dominare rispetto a ogni forma di ipotetica effrazione dell’immanente una lucida e angosciosa nota di tormento umano, che si avverte nel solco del proprio affanno interiore come in prossimità dei modi biblici della dannazione e della perdita dell’Eden» (U. Motta, Ritrovamenti di senso nella poesia di Zanzotto, Milano, Vita e Pensiero, 1996, p. 32). ↵
- «Lo stolto pensa: “Non c’è Dio”./ Sono corrotti, fanno cose abominevoli:/ nessuno più agisce bene (Salmo 14 (13)). ↵
- G. Sommavilla, Il bello e il vero. Scandagli tra poesia, filosofia e teologia, Milano, Jaca Book, 1996, p. 206. ↵
- «Car c’est vraiment, Seigneur, le meilleur témoignage/ Que nous puissons donner de notre dignité/ Que cet ardent sanglot qui roule d’âge en âge/ Et vient mourir au bord de votre eternité!» (C. Baudelaire, Les Phares, in Id., Les Fleurs du Mal, vv. 41-44). ↵
- «Ma le mie urla/ feriscono/ come fulmini/ la campana fioca/ del cielo/ Sprofondano/ impaurite» (G. Ungaretti, Solitudine, in Id., L’Allegria). ↵
- L’incursione avviene, dunque, contro il cielo, in un attacco che tenta di annichilire lo spazio celeste, di eroderne l’inesplorata essenza. Alcuni interpreti leggono, invece, la funzione di questa bestemmia come modalità allocutoria cui ricorre il soggetto lirico per raggiungere il nulla di Dio, la sua inesistenza, per indicarne l: «si celebra talvolta anche qui, con una certa strana fierezza, il “ricchissimo nihil” e una “terra cieca a ogni tentazione d’alba”, immaginando una “verticale bestemmia” che “incinera cieli”, come per indicare da dove il nihil ha origine: dalla “morte di Dio”» (G. Capovilla, Uomo contemporaneo, terra irredenta, in Id., Redenzione e riconciliazione, Milano, Jaca Book, 1983, p. 61). ↵
- E. Severino, La potenza dell’errare. Sulla storia dell’Occidente, Milano, BUR, 2014, p. 45. ↵
- Ibidem. ↵
- Ibidem. ↵
- Ivi, p. 95. ↵
- E. Jabès, Il libro della sovversione non sospetta, op. cit., p. 56. ↵
- G. Agamben, Il Linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino, Einaudi, 2008, p. 75. ↵
- Ivi, p. 93. ↵
- Ivi, p. 105. ↵
- E. M. Cioran, Lacrime e santi, op. cit., p. 89. ↵
- Citato in J.-L. Marion, L’essere, l’idolo, il concetto, op. cit., p. 201. ↵
- L’incisiva espressività del lemma scelto da Caproni, lungi dal porsi nell’ambito di una rappresentazione antropomorfa, occorre invece a sancire una figurazione iconica, piuttosto che idolatrica, secondo l’accezione e la dicotomia concettuale utilizzate Maurion: cfr. J.-L. Marion, Dio senza essere, op. cit., pp. 37-38. In tale prospettiva sarà da intendere il termine «icona» qui scelto nella titolazione del paragrafo. ↵
- Siamo al cospetto di un tipo di bestemmia letteraria lucidamente descritta da Imbach: «A qualche scrittore si offre come possibile via d’uscita la bestemmia. Ciò dimostra ancora una volta quanto sia difficile liberarsi da Dio. Che senso infatti avrebbe la bestemmia, se le accuse andassero a finire semplicemente nel nulla? Se non ci fosse almeno la speranza di incontrare colui di cui si nega l’esistenza? Infatti, una bestemmia senza oggetto si eliminerebbe da se stessa (…). La bestemmia non toglie la questione di Dio; semplicemente la rinvia» (J. Imbach, Dio nella letteratura contemporanea, Roma, Città Nuova, 1975, p. 68). ↵
- Testori stesso in una dichiarazione sulla poesia di Caproni utilizza l’immagine del “corpo a corpo” per descrivere il carattere conflittuale e irruente della ricerca di Dio: «Mai, credo, la negazione di Dio è stata, come in queste poesie (de Il franco cacciatore) di Caproni, la sua affermazione; quasi che Caproni avesse qui ingaggiato, con Dio, una battaglia, un ultimativo corpo-a-corpo (sic)» (citazione riportata in F. Castelli, “Ah, mio Dio. Perché non esisti?”. Giorgio Caproni, in «La Civiltà Cattolica», I, 2001, p. 255). ↵
- Cfr. C. Bo, Testori. L’urlo, la bestemmia, il canto dell’amore umile, Milano, Longanesi, 1995. ↵
- S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Milano, Adelphi, 1992. ↵
- Citato in B. Mondin, La teologia radicale o “della morte di Dio”, in Id., Storia della Teologia, vol. IV, Epoca contemporanea, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1997, p. 684. ↵
- «Quanto accaduto sulla Croce», osserva Moltmann, «costituisce un avvenimento tra Dio e se stesso. Si è trattato di una profonda spaccatura in Dio stesso, in quanto Dio ha abbandonato Dio contraddicendosi, e di un’intima unità, in quanto Dio era d’accordo con Dio e coerente con se stesso» (J. Moltmann, Il Dio crocefisso, op. cit., p. 231: corsivi nostri). Anche Luigi Pareyson giunge a conclusioni simili: «il significato della theologia crucis consiste non solo nell’idea che Dio, in quanto avvolto e nascosto nella sofferenza, va cercato nell’abbassamento della cenosi, dell’esinanizione, ma anche nell’idea che il dissidio è in Dio, e Dio è contro se stesso, e Dio si nega e si rinnega. (…) Questo superiore ateismo consiste nel concetto non meno profondo che paradossale d’un momento ateo della divinità. (…) Dio, nel punto culminante della sua tragica vicenda, nega se stesso: è la crocifissione, questo evento inaudito e sconvolgente, questo “suicidio” (…)» (L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino, Einaudi, 1995, pp. 199-200). Questo «momento ateo della divinità», il suo suicidio, secondo la suggestiva e pregnante formula di Pareyson, verrà rappresentato puntualmente da Giorgio Caproni: «Un semplice dato:/ Dio non s’è nascosto./ Dio s’è suicidato» (Deus absconditus, in Id., Il muro della terra), in cui prende forma la sconvolgente immagine di un Dio blasfemo, di un Dio nichilista, di un Dio che incarna compiutamente un destino di morte e di abbandono. Anche in questo caso il mistero della chenosi s’intorbida nell’idea di una divinità orfana di sé, di una divinità che sceglie la morte, una divinità che infine, però, secondo Caproni, non risorge. L’idea di questa scissione che scompiglia la relazione tra Padre e Figlio, tra Dio e Dio era stata già intuita da Hegel: «”Dio è morto, Dio stesso è morto”: è una straordinaria terribile rappresentazione, che porta alla rappresentazione del più profondo abisso della scissione» (la citazione è tratta da P. Coda, Il negativo e la Trinità, Ipotesi su Hegel, Roma, Città Nuova, 1987, p. 314). ↵
- «La croce del Figlio separa Dio da Dio a tal punto da causare in Lui una totale inimicizia, una radicale distinzione. La risurrezione del Figlio abbandonato da Dio riunisce Dio a se stesso sì da portare a una profonda comunione» (J. Moltmann, Il Dio crocefisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Brescia, Queriniana, 1973, p. 145). ↵
- Gianni Vattimo, ad esempio, individua una dicotomia radicale tra le due categorie (G. Vattimo, Credere di credere, Milano, Garzanti, 1999, pp. 50 e sgg.), poiché, secondo il ragionamento del filosofo, proprio la secolarizzazione si configura storicamente come una deriva della chenosi, o, meglio, essa è conseguenza dei presupposti insiti nel concetto e nella valenza stessa dell’incarnazione «come ripresa, proseguimento, ‘applicazione’ e interpretazione, dei contenuti della rivelazione cristiana, primo fra tutti il dogma dell’incarnazione di Dio» (G. Vattimo, Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 66). Il problema è stato affrontato anche da Massimo Cacciari nei termini di un’opposizione tra immanenza e trascendenza. Il filosofo riflette sulla dicotomia risolvendola non in un dualismo che assolutizza e contrappone i due termini, e nemmeno sciogliendola nel processo chenotico, nel corso del quale la trascendenza si spoglia di sé e irrompe nell’orizzonte della temporalità e della morte. Cacciari, invece, introduce la nozione di Indifferenza per connotare l’originaria, abissale libertà del logos, non vincolato né a un’irriducibile azione demiurgica e trascendentale né a un’immanenza che lo condurrebbe in una dimensione ontologica creaturale. In questa prospettiva, secondo Cacciari, «l’Inizio, come Indifferenza perfettamente libera dalla necessità di essere-origine, non può certo essere costretto nella necessità di non essere origine. Nessuna necessità di muoversi alla creazione – nessuna necessità di non muoversi» (M. Cacciari, Dell’inizio, Milano, Adelphi, 1990, p. 139). ↵
- La torbida corporeità del Cristo di Testori appare modellata secondo la fisionomia dolente e scabra del Cristo pasoliniano: «Tutte le piaghe sono al sole/ ed Egli muore sotto gli occhi/ di tutti: perfino la madre/ sotto il petto, il ventre, i ginocchi,/ guarda il Suo corpo patire./ L’alba e il vespro Gli fanno luce/ sulle braccia aperte e l’Aprile/ intenerisce il Suo esibire/ la morte a sguardi che Lo bruciano.// Perché Cristo fu esposto in Croce?/ Oh scossa del cuore al nudo/ corpo del giovinetto…atroce/ offesa al Suo pudore crudo…/ Il sole e gli sguardi! La voce/ estrema chiese a Dio perdono/ con un singhiozzo di vergogna/ rossa nel cielo senza suono,/ tra pupille fresche e annoiate/ di Lui: morte, sesso e gogna.// Bisogna esporsi (questo insegna/ il povero cristo inchiodato?),/ la chiarezza del cuore è degna/ di ogni scherno, di ogni peccato/ di ogni più nuda passione…/ (questo vuol dire il Crocifisso?/ sacrificare ogni giorno il dono/ rinunciare ogni giorno al perdono/ sporgersi ingenui sull’abisso).// Noi staremo offerti sulla croce,/ alla gogna, tra le pupille/ limpide di gioia feroce,/ scoprendo all’ironia le stille/ del sangue dal petto ai ginocchi,/ miti, ridicoli, tremando/ d’intelletto e passione nel gioco/ del cuore arso dal suo fuoco,/ per testimoniare lo scandalo» (La crocifissione, in Id., L’usignolo della Chiesa cattolica). Quello di Pasolini è un Cristo esposto alla morte e all’abisso. È un Dio che esibisce la morte, che si mostra nella sua nudità oscura e dolente. È un Dio fatto di «morte, sesso e gogna» (v. 18). È un Dio che insegna all’uomo a esporsi per testimoniare lo scandalo della crocifissa incarnazione: simbolo dolente dell’intera umanità. ↵
- All’espressionismo materico e grondante di Pasolini e di Testori si contrappone nell’iconografia lirica novecentesca l’asciuttezza scarna con cui Bartolo Cattafi forgia la propria immagine del Cristo: compiuta e desolata icona di un destino di gettatezza e di abbandono universali. Il Cristo di Cattafi è figura inerte, messa con le «spalle al muro», reificata nella sua immobilità, come sospesa in una sconsolata solitudine: «Non è un bel quadro/ tu con le spalle al muro/ squallido specchio d’acqua/ un porto alla mercé del solleone/ aspetti qualcuno/ che qualcosa passi/ polvere ristagnante/ nebbione di cemento/ polvere di pomice/ il grigio peggiore/ connivente il sole/ un’ora maledetta/ in questi posti/ le tue spalle al muro/ appeso a un chiodo» (Al muro, in Id., L’osso e l’anima). Significativo che anche qui, come già in Caproni (cfr. supra I 2), compaia sullo sfondo l’immagine di un «porto» come metafora non più di salvezza, ma di solitudine e di desolata perdizione. ↵
- «Dio non appare più nell’onnipotenza che salva», osserva Sergio Quinzio, «ma nella onnipotenza supplex, nell’impotenza che chiede la salvezza, l’umile, la misera ma dolcissima salvezza di essere consolato, che qualcuno abbia pietà per lui, che qualcuno muoia d’amore per lui, sia con lui» (S. Quinzio, Dalla gola del leone, Milano, Adelphi, 1980, p. 61). ↵
- Non rientrando immediatamente nell’economia e nelle finalità del nostro discorso, non si indugerà, qui, in una riflessione sulle implicazioni etiche di questa libertà in cui l’uomo si trova scagliato e di cui appare quasi prigioniero, secondo le indicazioni che da Dostoevskij a Berdjaev giungono sino all’esistenzialismo francese di Sartre e di Camus. In merito alla questione si rinvia al volume di Roberto Diodato, Il tragico della libertà, in Soggetto e libertà nella condizione postmoderna, a cura di Francesco Botturi, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 235-64. ↵
- «Diciamo che la possibilità del Male consiste nel tener fermo l’essere-libero come possesso. A questa idea contraddice l’assoluta gratuità del donare. Le due vie si decidono continuamente, senza mai esser-decise. Dio, nel suo agón col Niente, rivela appunto di non ritenere la propria libertà un assicurato possesso, ma la potenza che lascia-essere. L’essere-libero di Dio non è dunque la Libertà. Egli rivela che l’esser-libero è chiamato a corrispondere in tutto se stesso alla Libertà, donandosi integralmente, lasciando-essere al di là di ogni attesa, scambio, remunerazione. E chiama la sua creatura a com-patire questa im-possibile misura di Libertà, in nessun modo “entificabile”» (M. Cacciari, Della cosa ultima, Milano, Adelphi, 2004, p. 366). ↵
- Cfr. Gershom Sholem, Creazione dal nulla e autolimitazione di Dio, Genova, Marietti, 1986 e Id., Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino, Einaudi, 1993, pp. 270 e sgg. Come osserva Sergio Quinzio, «il contrarsi cabbalistico di Dio non consiste nella concentrazione della sua potenza in un luogo, come nel tempio di Gerusalemme, ma nel suo ritrarsi dal luogo: il luogo esiste dal momento in cui Dio si ritrae» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, cit., p. 40). ↵
- Nell’ambito del pensiero ottocentesco è interessante l’ipotesi teologica di Philipp Mainländer (Philipp Batz) che nella sua Filosofia della redenzione (1876) introduce il concetto di «autocadaverizzazione di Dio» per designare il gesto con cui Dio, annullando se stesso, dà inizio alla creazione (cfr. F. Volpi, Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 42). ↵
- N. A. Berdjaev, Il destino dell’uomo nel mondo contemporaneo, Milano, Bompiani, 1947, p. 47. Cfr. anche N. A. Berdjaev, Il senso della creazione. Saggio per una giustificazione dell’uomo, Milano, Jaca Book, 1994. ↵
- «Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. È assolutamente evidente, in Mt 8,17, che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza!» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1988, p. 440). ↵
- H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Genova, il melangolo, 2000. ↵
- L. Pareyson, Ontologia della libertà, op. cit., pp. 199 e sgg. ↵
- Cfr. P. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Brescia, Morcelliana, 1993. ↵
- J. Imbach, Dio nella letteratura contemporanea, op. cit., p. 68. ↵
- Ivi, p. 60. ↵
- Ivi, p. 69. ↵
- È, come è noto, Ivan il personaggio di Dostoevskij che meglio incarna il senso dello sgomento che poi sfocia in aperta rivolta dinanzi al dolore innocente e ingiustificato: «se le sofferenze dei bambini fossero destinate a completar quella somma di sofferenza, che era il prezzo necessario per l’acquisto della verità», dice Ivan al fratello Alëša, «in tal caso io dichiaro fin d’ora che tutta la verità non vale un tal prezzo (…) Quindi, il mio biglietto d’ingresso, io m’affretto a restituirlo (…) Non è che non accetti Dio, Aliòscia: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il mio biglietto» (F. Dostojevskij, I fratelli Karamàzov, trad. di Agostino Villa, Torino, Einaudi, 1962, IV ed., voll. 2, vol. I, pp. 370-71). Seguendo il ragionamento di Ivan, Luigi Pareyson commenta che, se da un lato «la sofferenza dei bambini attesta l’impotenza, anzi l’inesistenza di Dio», dall’altro «l’aumentata sofferenza dell’umanità attesta l’impotenza di Cristo, anzi l’esito controproducente della sua opera» (L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Torino, Einaudi, 1993, p. 190). Osserva Sergio Givone: «Dostoevskij porta decisamente l’ateismo dentro la fede e dopo aver negato, ateisticamente, Dio, sulla base del riconoscimento della irriducibile scandalosità del male, identifica Dio con questo stesso scandalo: perché, paradossalmente, è solo di fronte a Dio che il male è scandaloso, scandaloso al punto da piegare il divino a un assoluto soffrire» (S. Givone, Dostoevskij e la filosofia, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 163). Per una ricognizione tematica e filosofica sulla nozione di dolore inutile in Dostoevskij si rinvia al libro di A. Nocera, Angeli sigillati. I bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij, Milano, FrancoAngeli, 2010. ↵
- Cfr. al riguardo nel romanzo La peste il dialogo tra il dottor Rieux e il gesuita Paneloux nella scena in cui i due personaggi sono al capezzale di un fanciullo morente. ↵
- Alludiamo al capolavoro di Wiesel, La notte e precisamente alla scena in cui i deportati nel campo di concentramento sono costretti a sfilare dinanzi a un bambino agonizzante sulla forca: «Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora… Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: “Dov’è dunque Dio?”. E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: “Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…”» (E. Wiesel, La notte, Firenze, Giuntina, 1980, p. 67). L’immagine di Dio agonizzante assume un duplice valore: da un lato, dimostra che ogni teodicea è impossibile, poiché dinanzi alla morte e alla sofferenza di un innocente si decompone la nozione stessa di Dio; dall’altro, l’immagine di Dio che muore accanto al bambino, con il bambino, avvalora l’idea di un Dio debole e impotente, che soffre e partecipa al dolore della sua creazione. Ma la forza drammatica di quell’immagine risiede proprio nell’oscillazione tra questi due significati. ↵
- Alludiamo a P. Nemo, Giobbe e l’eccesso del male, Roma, Citta Nuova, 2009. ↵
- È questo il senso del termine «eccesso» riferito a «male» nella logica del pensiero di Nemo: «parlando di un male in eccesso, non vogliamo intendere un male estremo. Non è un termine semplicemente intensivo o superlativo (…). Il termine designa una relazione: è in eccesso il male che oltrepassa ciò di cui la tecnica viene a capo, foss’anche, in sé, benigno, addirittura quasi impercettibile, soltanto pensabile» (ivi, p. 75, nota 1). Il termine, pertanto, non indica ciò che eccede in intensità, bensì quel che sfugge a ogni sintesi, ciò che non si può sussumere, elaborare o integrare in sistema, ciò che in definitiva sfugge a ogni logica analitica. ↵
- J. Moltmann, Trinità e Regno di Dio. La dottrina su Dio, Brescia, Queriniana, 1983, p. 59. ↵
- Paradigmatico del ripensamento delle categorie ontologiche del divino è questo passo di Hans Jonas: «Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile (…) Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male. E poiché abbiamo concluso che il concetto di onnipotenza è in ogni caso un concetto in sé problematico, questo è l’attributo divino che deve venir abbandontato» (H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, op. cit., p. 34: corsivi nostri). ↵
- Citiamo il titolo di un paragrafo compreso nel saggio di J. Imbach, Dio nella letteratura contemporanea, op. cit., pp. 60-69. L’espressione ritorna anche in una poesia di Turoldo citata più avanti. ↵
- Ivi, pp. 60-61. ↵
- Cfr. le acute riflessioni di L. Chiuchiù, Il male fra libertà e sconfitta. Un dialogo fra Luigi Pareyson e Sergio Quinzio, in Il messia povero. Nichilismo e salvezza in Sergio Quinzio, a cura di Daniele Garota e Massimo Iritano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 148 e sgg. ↵
- È la medesima conclusione cui nei Fratelli Karamazov giunge Alëša, vanificando le pur stringenti argomentazioni del fratello Ivan. Alëša, infatti, oppone all’abominio del male e del dolore degli uomini, «lo scandalo del Redentore, cioè del Dio che soffre e muore». In questi termini, osserva Pareyson: «La sofferenza di Cristo è un evento tremendo e immane, che riesce a spiegare la tragedia dell’umanità solo in quanto estende la tragedia alla divinità. In questo senso la sofferenza inutile è esemplare: essa è un caso in cui il male è in Dio e quindi Dio deve soffrire. Con l’idea del Dio sofferente la sofferenza non è più limitata all’umanità, ma diventa infinita e s’insedia nel cuore stesso della realtà» (L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Torino, Einaudi, 1993, p. 211). ↵
- Cfr. D. Garota, L’Onnipotenza povera di Dio, Milano, Paoline, 2001. ↵
- L’omologia tra il Cristo e il poeta trova la propria origine, tramite la mediazione baudelairiana, nella figura del pagliaccio, del saltimbanco, del clown, «immagini iperboliche e volontariamente deformanti» che proprio nel corso dell’Ottocento «agli artisti piacque dare di se stessi e della condizione dell’arte» (J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, a cura di Corrado Bologna, Torino, Bollati Boringhieri, 1984, p. 38). Proprio nel saltimbanco baudelairiano Starobinski ha colto, come è noto, «l’archetipo del clown tragico» (ibidem), icona paradossale della modernità, tragica effigie che occhieggia dalle tele di Toulouse-Lautrec e di Rouault, o dalla calca policroma delle composizioni di Ensor, e, in questo, il simulacro del martire, il paradigma esatto della «vittima redentrice» (ivi, p. 125). Cfr. anche le riflessioni di H. U. von Balthasar, Nello spazio della metafisica. L’epoca moderna, Milano, Jaca Book, 2015, pp. 184-86 (al paragrafo Cristo nel clown. Rouault). L’identificazione tra il Cristo e la figura del poeta, comunque, appare compiutamente sancita in ambito lirico otto-novecentesco dai poeti “provinciali” francesi, da Rodenbach ad Albert Samain, sino al Guerrini e ai poeti crepuscolari. Si veda il Guerrini: «Al tuo martirio cupida e feroce/ Questa turba cui parli accorrerà;/ Ti verranno a veder sulla tua croce/ Tutti, e nessuno ti compiangerà» (Ad un poeta, in Id., Postuma, LXXIII, vv. 9-12); e Corazzini: «non oggi, o Primavera, ché di spine/ fatte del mio buon sangue porporine/ come Cristo ho corona ai miei capelli» (Ballata della Primavera, vv. 12-14); lo stesso Corazzini, in una poesia dedicata al poeta Fausto Maria Martini, ripropone l’omologia Cristo/poeta: «Nessuno immagina che il tuo volto/ piangevole e doloroso/ in quel piccolo specchio polveroso/ somigli quello di Cristo sul lino/ della Veronica!» (Stazione sesta, vv. 20-24). Il paradigma del poeta-vittima ritorna con la maschera del clown nella poesia di Edoardo Sanguineti, come ha ben mostrato F. Curi, Maschere, pagliacci, ciarlatani. Lettura di Cataletto, 12 di Sanguineti, in Id., Gli stati d’animo del corpo. Studi sulla letteratura italiana dell’Otto e del Novecento, Bologna, Pendragon, 2005. ↵
(fasc. 22, 25 agosto 2018)