La percezione del Sé e il rapporto con gli altri: un’analisi di alcuni passi di Calvino a partire da “Palomar”

Author di Maria Panetta

Palomar è stato pubblicato nel 1983 a Torino da Giulio Einaudi, editore con il quale Calvino notoriamente collaborava[1]. Trae il titolo dal nome di uno degli osservatori più importanti del mondo nel settore della ricerca astronomica, quello del Monte Palomar, situato nella Contea di San Diego, a circa 150 chilometri da Los Angeles e a 1710 metri di altitudine: ospita il telescopio Hale di 5 metri di apertura, completato nel 1949.

Sebbene Palomar sia definito un “romanzo”, si presenta come una raccolta di testi, alcuni editi in precedenza su periodici, collegati fra loro dalla medesima voce narrante, quella appunto del signor Palomar, ma non da una ben definita trama: come ha notato recentemente anche Salvatore Aldo Sanna[2], non ha uno sviluppo narrativo, ma si caratterizza per un taglio più speculativo.

Nella Presentazione elaborata da Calvino nel maggio del 1983 ma rimasta inedita fino al 1992, anno della pubblicazione del «Meridiano» Mondadori dei Romanzi e racconti[3], lo scrittore rivelava che la sua prima idea relativa a questo romanzo era stata quella di far dialogare due personaggi, ovvero Palomar e Mohole, che avrebbero dovuto tendere ‒ citando il testo ‒ «Palomar verso l’alto, il fuori, i multiformi aspetti dell’universo, Mohole verso il basso, l’oscuro, gli abissi interiori»[4]. Scrivendo, però, l’autore si accorse che «di Mohole non c’era nessun bisogno perché Palomar era anche Mohole: la parte di sé oscura e disincantata che questo personaggio generalmente ben disposto si portava dentro non aveva alcun bisogno di essere esteriorizzata in un personaggio a sé»[5]. Il paradigma attorno al quale ruota Il visconte dimezzato veniva, dunque, sostanzialmente riproposto in Palomar, ma anche risolto in unità, ponendo l’accento sull’ambivalenza, sulla complessità e sulla usuale compresenza di Bene e Male propria dell’animo umano.

In quella Presentazione c’è un altro passaggio di grande interesse: «è da parecchio tempo che cerco di rivalutare un esercizio letterario caduto in disuso e considerato inutile: la descrizione»[6]. Calvino, infatti, rivela di aver scartato, nel comporre il romanzo, alcune sue pagine relative a esperienze di viaggio perché presupponevano la citazione di «nozioni culturali»[7] che avrebbero stonato in un libro «impostato su un rapporto diretto con ciò che si vede»[8].

Il senso che parrebbe prevalere in Palomar, dunque, dovrebbe essere la vista (lo indica anche il riferimento al già citato Osservatorio); eppure, la conclusione appare riduttiva. Lo stesso Calvino lo conferma, spiegando, in una paginetta finale che precede l’Indice[9], che i testi raccolti a formare questo smilzo romanzo sui generis si possono suddividere in tre categorie: quelli della sezione 1, Le vacanze di Palomar, essendo esperienze visive di forme della natura, si vengono a configurare come “descrizioni”; quelli della sezione 2, Palomar in città, comprendendo elementi antropologici e culturali e coinvolgendo linguaggio, significati e simboli, si sviluppano in “racconti”; infine, quelli della sezione 3, I silenzi di Palomar, avendo un taglio più speculativo, possono essere definiti come vere e proprie “meditazioni”. L’occhio, dunque, inteso in senso fisico, ma anche come punto di vista di una narrazione e sguardo interiore di chi ‒ alla greca ‒ “sa” perché “ha visto”. Non sarà casuale, infatti, il fatto che la Presentazione si chiude con questa indicazione: «m’accorgo che la storia di Palomar si può riassumere in due frasi: “Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato”»[10]. Palomar, come numerose delle opere calviniane, si viene a configurare, quindi, come un vero e proprio percorso di conoscenza, anche e soprattutto interiore: conoscenza di Sé, oltre che del mondo.

Il primo testo, Lettura di un’onda, precisa che il signor Palomar compie un gesto intenzionale nel tentare di guardare e di seguire sulla spiaggia una singola onda: «volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso»[11] (al riguardo, è inevitabile anche l’accostamento a motivi trattati nella lezione americana sull’Esattezza). Calvino precisa che Palomar non è «assorto nella contemplazione delle onde […] perché sa bene quello che fa: vuole guardare un’onda e la guarda»[12]. Non si tratta, dunque, di semplice percezione della realtà, perché l’atto del guardare presuppone la coscienza attiva dell’osservatore.

Calvino utilizza una serie di verbi all’infinito per dare l’idea al lettore, non in ordine, del crescendo degli atti compiuti da Palomar nella propria osservazione delle onde: «osservare»[13], appunto; «vedere», «registrare», «considerare»[14], «limitare il suo campo d’osservazione», «fissare i confini di questo quadrato» di osservazione, «appuntare l’attenzione»[15] etc. Gli scopi immediati dichiarati sono quello di «capire com’è fatta un’onda»[16] e di «definire» un «modello»[17] di onda, ma la sua vera ambizione è quella di «padroneggiare la complessità del mondo riducendola al meccanismo più semplice» e, procedendo in senso opposto, di «estendere questa conoscenza all’intero universo»[18]: dall’universale al particolare e dal particolare all’universale. Calvino sottolinea che questa «operazione visiva»[19] «potrebbe essere un esercizio molto riposante e potrebbe salvarlo dalla nevrastenia, dall’infarto e dall’ulcera gastrica», ma la sua «impazienza di raggiungere un risultato completo e definitivo» vanifica il suo tentativo e Palomar si allontana dalla spiaggia, «coi nervi tesi com’era arrivato e ancor più insicuro di tutto»[20]. Ecco, dunque, che l’individualità del protagonista fa irruzione prepotentemente e che i suoi tratti caratteriali scardinano tutto il castello di ipotesi e di elucubrazioni mentali dalle quali pensava di poter ottenere risposte non solo sul singolo fenomeno fisico, ma sulle leggi che governano l’intero cosmo.

Calvino lo descrive in pochi tratti: «Uomo nervoso che vive in un mondo frenetico e congestionato, il signor Palomar tende a ridurre le proprie relazioni col mondo esterno e per difendersi dalla nevrastenia generale cerca quanto più può di tenere le sue sensazioni sotto controllo». E ancora:

Il signor Palomar soffre molto della sua difficoltà di rapporti col prossimo. Invidia le persone che hanno il dono di trovare sempre la cosa giusta da dire, il modo giusto di rivolgersi a ciascuno; che sono a loro agio con chiunque si trovino e che mettono gli altri a loro agio; che muovendosi con leggerezza tra la gente capiscono subito quando devono difendersene e prendere le loro distanze e quando guadagnarsi la simpatia e la confidenza; che danno il meglio di sé nel rapporto con gli altri e invogliano gli altri a dare il loro meglio; che sanno subito quale conto fare di una persona in rapporto a sé e in assoluto[21].

In questo breve paragrafo sono condensati Palomar, il suo ambiente, il suo rapporto conflittuale col mondo esterno, la sua progressiva contrazione delle relazioni interpersonali e il suo tentativo di difesa dal “caos” tramite il controllo delle sensazioni. Come sarà esplicitato chiaramente alla fine di tutto il percorso in L’universo come specchio, però, per lui il primo ostacolo al raggiungimento delle agognate atarassia e serenità è rappresentato proprio dal suo “io”, che si ribella al controllo, non essendo altro che uno “specchio” della nevrastenia che domina il mondo. Individuo e cosmo, infatti, in Palomar si corrispondono: l’uno è il riflesso dell’altro e l’uno è condizionato dall’altro continuamente. Per questo è vano ogni tentativo del protagonista di ripiegarsi su sé stesso per trovare riparo dalle sollecitazioni esterne. Come ha rilevato Ulrich Schulz-Buschhaus, «lo sguardo verso l’interno scopre lo stesso “universo pericolante, contorto, senza requie” che si è mostrato quotidianamente nello sguardo verso l’esterno. Ciò che appare dentro e fuori è “una realtà mal padroneggiabile” e, soprattutto – contro la probabilità di una “sfera […] che ha l’io per centro e il centro in ogni punto”, ‒ l’assenza dell’Io»[22].

Non si può fuggire da sé stessi, ammoniva Seneca: infatti, lo scatto d’impazienza di Palomar si traduce in un moto fisico di allontanamento dalla spiaggia, ma si tratta di una fuga perfettamente inutile, perché non elimina il problema alla radice. La mente, giunta al proprio limite (rappresentato dal «leggero senso di capogiro»[23] provato da Palomar), si arrende, traducendo il proprio desiderio inconscio di divaricazione e disconoscimento del Sé in un movimento, in uno spostamento corporeo nello spazio e nel tempo. E parallelamente il linguaggio, che si era prodotto in un variegato dispiegamento di risorse lessicali rappresentate dalle diverse voci verbali adoperate, viene ridotto a un silenzio non significante e non risolutivo, perché conseguenza di una banale e incontrollata reazione impulsiva.

Dato che questo primo testo era stato incluso da Calvino nella sezione delle “descrizioni”, è molto semplice rendersi conto che l’autore, nella già menzionata paginetta finale, ha barato, perché in Palomar di testi solo descrittivi non si può reperirne neanche uno. Il motivo è semplice: Calvino non perde occasione per suggerire implicitamente che un atto di pura osservazione non è possibile. Infatti, «non si può osservare un’onda senza tener conto degli aspetti complessi che concorrono a formarla e di quelli altrettanto complessi a cui essa dà luogo»[24], ma è ovvio che, nel momento in cui l’osservatore inizia a ragionare di cause ed effetti, si trasforma automaticamente da occhio in mente. Le sue “percezioni”, quindi, si fanno all’istante “sensazioni” e poi “considerazioni”, e la sua percezione del mondo esterno non può prescindere da quella del Sé. Il mondo esiste, dunque, perché esiste un osservatore con un proprio punto di vista e una propria individualità; e l’individuo ha una migliore percezione della propria esistenza nell’atto stesso di osservare il mondo fuori da Sé. Palomar si può, dunque, considerare anche come un tentativo sperimentale di traduzione in narrativa di considerazioni di carattere scientifico o filosofico. Concordo, infatti, con Gerhard Goebel-Schilling, che ha osservato che, forse anche in questo testo, Calvino ha tentato di adoperare il “cannocchiale aristotelico” della Letteratura, uno «strumento non fatto per osservare l’universo, sia esterno che interno, ma per fabbricarne un altro, meraviglioso; per ravvicinarsi cioè non cose lontane, ma per radunare “concetti quasi incompatibili” in un concetto mirabile»[25].

Nel terzo testo, La spada del sole, Palomar torna in mare per una nuotata serale e, osservando il riflesso del sole nell’acqua, lungo e tagliente come una spada di luce, arriva a concludere: «comunque sia, io faccio parte dei soggetti senzienti e pensanti, capaci di stabilire un rapporto con i raggi solari, e di interpretare e valutare le percezioni e le illusioni»[26]. Procedendo oltre col ragionamento, però, di nuovo giunge a rovesciare la prospettiva: «Se io vedo e penso e nuoto il riflesso, è perché all’altro estremo c’è il sole che lancia i suoi raggi. Conta solo l’origine di ciò che è […]. Tutto il resto è riflesso tra i riflessi, me compreso»[27]. Continuando a meditare, anche in questo caso Palomar peggiora la propria situazione; le idee, infatti, invece di schiarirsi, gli si confondono nella mente: «Che sollievo se riuscisse ad annullare il suo io parziale e dubbioso nella certezza d’un principio da cui tutto deriva!»[28]. Di fatto, la consolazione gli arriva solo alla fine della nuotata serale, quando si convince che «la spada esisterà anche senza di lui»[29], propendendo per la soluzione che vede la spada di luce poter sopravvivere anche in assenza di un osservatore e, non più schiacciato dalla propria responsabilità di occhio, si asciuga con un telo e torna a casa.

Nel testo Il fischio del merlo vengono, invece, indagate le possibilità del linguaggio: Palomar si domanda se due merli, fischiando, dialoghino fra loro e quale sia il significato del loro fischio, sempre ammettendo che esso abbia un significato. Si chiede anche se il vero senso di quello scambio sia racchiuso nelle pause tra un fischio e l’altro e poi, al solito, tenta di applicare il paradigma appena messo a fuoco alla conversazione umana, riflettendo sui suoi dialoghi con la moglie (che ha un miglior rapporto col mondo esterno). La possibilità di estendere le proprie riflessioni dal mondo animale a quello umano lo solleva dall’«angoscia»[30]: infatti, il «fischio uguale dell’uomo e del merlo ecco gli appare come un ponte gettato sull’abisso»[31]. Torna, però, a confondersi ‒ il percorso è sempre lo stesso ‒ e a essere preda dell’angoscia nel chiedersi se «il punto d’arrivo a cui tende tutto ciò che esiste»[32] sia il linguaggio oppure nel prospettare l’ipotesi che tutto ciò che esiste è «linguaggio, già dal principio dei tempi»[33]. Anche queste domande restano senza risposta; e il merlo e l’uomo sembrano corrispondersi nella reazione perplessa all’ascolto del fischio altrui.

Fa pensare alla manzoniana vigna di Renzo il testo Il prato infinito, in cui inizia a palesarsi meglio il gusto classificatorio del Calvino “botanico”: l’intento è sempre quello di percepire, come accadeva per le onde del mare, tutte le erbe («dicondra, loglietto e trifoglio»[34]) ed erbacce (come «dente-di leone»[35], «gramigna»[36], «cicoria […] borragine»[37]) contenute in un prato «in un solo colpo d’occhio»[38]: non contarle, ma “afferrarle con la mente”, pensarle. Gli viene spontaneo, perciò, passare dalla considerazione del prato ‒ ordinato come quello «inglese»[39] oppure «abbandonato a se stesso»[40] come quello «rustico»[41]? ‒ a quella dell’«universo come cosmo regolare e ordinato o come proliferazione caotica». E le sue riflessioni paiono proseguire nel testo successivo, Palomar guarda il cielo, assimilabile a La spada del sole: Palomar, infatti, si attarda ad attendere che la luna del pomeriggio, «fragile e pallida e sottile»[42], si trasformi nel «lago di lucentezza che sprizza raggi tutt’intorno e trabocca nel buio un alone di freddo argento e inonda di luce bianca le strade dei nottambuli»[43] perché empaticamente avverte che la timida luna, «la cui esistenza è ancora in forse»[44] prima che venga la sera, ha più «bisogno»[45] dell’«interessamento»[46] di un osservatore di quella trionfante della «splendida notte di plenilunio d’inverno»[47]. Una sorta di pietas nei confronti dell’astro nascente lo induce ad attendere che l’esistenza della luna non gli appaia più in pericolo per poter rincasare: anche in questo caso, però, la sensazione di potersi rendere utile al corpo celeste con la propria presenza osservante, in realtà, nasconde sia il timore di non rivestire un ruolo definito nel cosmo sia la necessità di ritagliarsi uno spazio identitario e di percepirsi attivo.

Non stupisce che proprio in L’occhio e i pianeti sia condensata la filosofia di vita di Palomar, che «cerca di sfuggire alla soggettività rifugiandosi tra i corpi celesti»[48] tramite l’osservazione al telescopio. La bellezza di Marte, Saturno e Giove gli appare talmente irreale da indurlo a pensare che sia «la diffidenza verso i nostri sensi che ci impedisce di sentirci a nostro agio nell’universo»[49]; la soluzione è quella di darsi una regola: «attenermi a ciò che vedo»[50]. La notte successiva, però, Palomar ritorna sul proprio terrazzo a osservare i pianeti a occhio nudo e percepisce lo scarto fra le due visioni, quella mediata e quella diretta: osserva che «la grande differenza è che qui è obbligato a tener conto delle proporzioni tra il pianeta, il resto del firmamento sparso nello spazio buio da tutti i lati, e lui che guarda, cosa che non succede se il rapporto è tra l’oggetto separato pianeta messo a fuoco dalla lente e lui soggetto, in un illusorio faccia a faccia»[51]. L’adattamento fra le due visioni consiste nel provare a inserire mentalmente quanto osservato al telescopio la sera prima all’interno della «minuscola macchia di luce che perfora il cielo»[52] per chi osservi a occhio nudo: in tal modo spera di «essersi appropriato veramente del pianeta, o almeno di quanto d’un pianeta può entrare dentro un occhio»[53]. Ancora una volta, il tentativo di conoscenza dell’universo non può prescindere dalla considerazione del punto di vista e della capacità visiva dell’osservatore: il rapporto con il mondo esterno passa necessariamente dal riconoscimento del ruolo del Sé. E non si dimentichi, al riguardo, che nella quasi coeva (1984) Lezione sulla Leggerezza Calvino sostiene che è «sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello»[54].

Il tema del percorso di conoscenza viene ripreso in La contemplazione delle stelle, in cui al tentativo d’identificazione delle costellazioni celesti viene in soccorso il linguaggio, e in particolare l’atto di nominare: attribuire un nome a una costellazione permette a Palomar di verificare subito se l’oggetto celeste vi si riconosce mediante «la prontezza a identificarsi con quel suono diventando una cosa sola»[55]. Però, in presenza del cielo stellato, l’incertezza del signor Palomar sembra aumentare: l’osservazione delle stelle trasmette, infatti, «un sapere instabile e contraddittorio»[56], almeno a chi, come lui, non ne ha fatto una pratica quotidiana; e anche del nulla egli tende a dubitare. Per conquistare la nozione di un tempo continuo e immutabile, quindi, Palomar ritiene sia necessaria, forse, anche «una rivoluzione interiore, quale egli può supporre solo in teoria, senza riuscirne a immaginare gli effetti sensibili sulle sue emozioni e sui ritmi della mente»: il «tempo labile e frammentario degli accadimenti terrestri»[57] sembrerebbe, dunque, avere la meglio sul tempo immutabile e certo degli antichi, anche perché quello a Palomar contemporaneo è il tempo della complessità, che non può che implicare instabilità e contraddizione. Del resto, sempre nella Lezione sulla Leggerezza si legge: «anche per Ovidio la conoscenza del mondo è dissoluzione della compattezza del mondo»[58].

La seconda sezione del volumetto è dedicata a testi dall’impronta più marcatamente “narrativa”, almeno a detta di Calvino: in Dal terrazzo esplode la sua vocazione classificatoria, con l’evocazione di tutti i tipi di volatili che solcano il cielo di Roma (piccioni, corvi, merli, pettirossi, passeri, rondoni, balestrucci, gabbiani etc.). Palomar anche in questo caso decide programmaticamente di limitarsi all’osservazione delle cose visibili, sebbene la sua natura lo induca ad aderire a intermittenza alle cose, a differenza della moglie. Non manca, però, di provare a immedesimarsi nei pennuti: «Cerca di pensare il mondo com’è visto dai volatili»[59] e arriva alla conclusione che «Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose […] ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile»[60]. In questo caso, il suo tentativo di immedesimazione lo conduce ad aderire alla visione che hanno dall’alto gli uccelli di Roma piuttosto che a quella di chi cammina sui selciati della città: una prospettiva che riconduce ancora una volta alla calviniana Lezione americana sulla Leggerezza e, in particolare, a un altro motivo assai caro a Calvino, quello della profondità delle cose leggere. E a tal proposito, come esempio tratto dalla notissima conferenza, si potrebbe citare il passo: «Come la melanconia è la tristezza diventata leggera, così lo humour è il comico che ha perso la pesantezza corporea (quella dimensione della carnalità umana che pure fa grandi Boccaccio e Rabelais) e mette in dubbio l’io e il mondo e tutta la rete di relazioni che li costituiscono»[61].

Anche in La pancia del geco la componente narrativa è piuttosto esile: il piccolo rettile rappresenta «la concentrazione immobile e l’aspetto nascosto, il rovescio di ciò che si mostra alla vista»[62] e si fa latore di un insegnamento prezioso per Palomar, addestrato fin da giovane a «fare qualcosa un po’ al di là dei propri mezzi»[63]: «forse è quello il suo segreto: soddisfatto d’essere, riduce il fare al minimo»[64] e, dunque, il geco è emblema di un comportamento che consente a Palomar di definire e riconoscere sé stesso per contrasto, differenziandosi con la propria ansiosa alacrità dalla vigile ma apparentemente neghittosa immobilità dell’animale. La strada verso la conoscenza del Sé è ancora lunga e irta di ostacoli, nel mondo caotico nel quale Palomar è immerso.

  1. Si presenta il testo tradotto in italiano della relazione tenuta il 3 ottobre 2024 al Congresso Italo Calvino 100+1 di Lisbona, organizzato dall’Universidade Católica Portuguesa; titolo originale: The perception of the self and the relationship with others: an analysis of some of Calvino’s novels starting from Palomar.
  2. Cfr. S. A. Sanna, «Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io?» (Palomar), in «L’universo come specchio». Saggi sull’opera di Italo Calvino, a cura di M. Föcking e C. Lüderssen, Firenze, F. Cesati Editore, 2021, pp. 181-82.
  3. Cfr. I. Calvino, Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, vol. II, Milano, Mondadori, 1992, pp. 1402-405.
  4. Tutte le citazioni sono tratte dall’edizione Mondadori degli «Oscar», Milano 2023 (I ed. 1994): ivi, p. V.
  5. Ivi, p. VII.
  6. Ivi, p. VIII.
  7. Ibidem.
  8. Ibidem.
  9. Ivi, p. 120.
  10. Ivi, p. IX.
  11. Ivi, p. 5.
  12. Ibidem.
  13. Ivi, p. 6, come i due infiniti che seguono.
  14. Ivi, p. 7, come le due citazioni seguenti.
  15. Ivi, p. 8.
  16. Ivi, p. 7.
  17. Ivi, p. 8, come il passo che segue.
  18. Ivi, p. 9.
  19. Ivi, p. 8, come le citazioni seguenti.
  20. Ivi, p. 9.
  21. Ivi, p. 103.
  22. Cfr. S. A. Sanna, «Ma come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io?» (Palomar) cit., pp. 183-88: 186.
  23. I. Calvino, Palomar, p. 9.
  24. Ivi, p. 6.
  25. G. Goebel-Schilling, Calvino ovvero il cannocchiale aristotelico, in «L’universo come specchio». Saggi sull’opera di Italo Calvino, a cura di M. Föcking e C. Lüderssen, op. cit., pp. 175-80: 178.
  26. Ivi, p. 14.
  27. Ivi, p. 15.
  28. Ibidem.
  29. Ivi, p. 18.
  30. Ivi, p. 26.
  31. Ibidem.
  32. Ivi, p. 27.
  33. Ibidem.
  34. Ivi, p. 28.
  35. Ivi, p. 29.
  36. Ibidem.
  37. Ivi, p. 31.
  38. Ibidem.
  39. Ibidem.
  40. Ivi, p. 30.
  41. Ibidem.
  42. Ivi, p. 32.
  43. Ivi, p. 34.
  44. Ivi, p. 32.
  45. Ibidem.
  46. Ibidem.
  47. Ivi, p. 34.
  48. Ivi, p. 36.
  49. Ivi, p. 37.
  50. Ibidem.
  51. Ivi, p. 39.
  52. Ibidem.
  53. Ibidem.
  54. I Calvino, Leggerezza, in Id., Lezioni americane [1988], Milano, Mondadori, 1999, pp. 5-35: 9.
  55. I. Calvino, Palomar cit., p. 42.
  56. Ivi, p. 43.
  57. Ibidem.
  58. I. Calvino, Leggerezza cit., p. 14.
  59. I. Calvino, Palomar cit., p. 49.
  60. Ivi, p. 51.
  61. I. Calvino, Leggerezza cit., p. 25.
  62. I. Calvino, Palomar cit., p. 53.
  63. Ivi, p. 54.
  64. Ibidem.

(fasc. 53, volume II, 13 ottobre 2024)