Attualità di Giacomo Matteotti

Author di Salvatore Cingari

Giacomo Matteotti, cento anni dopo la sua tragica scomparsa, non ci ha mai parlato così tanto. Aldo Capitini in Antifascismo fra i giovani (1966) ne rievocava il ruolo alla vigilia dell’intervento nella Grande Guerra. All’epoca nelle scuole superiori dominava l’ideologia nazionalista e interventista in cui lo stesso Aldo era cresciuto. Studenti e docenti erano fra i principali artefici della campagna a favore dell’entrata in guerra dell’Italia. Il confine fra interventismo e neutralismo era anche di classe: da una parte la futura élite dirigente, dall’altra operai e contadini, consapevoli che il futuro massacro avrebbe distrutto le loro vite per una causa altrui.

Matteotti – ricordava il teorico italiano della non violenza – nel febbraio del 1915 riteneva che, se il proletariato fosse riuscito a evitare l’entrata in guerra del paese, avrebbe maturato una tale forza da poter sottrarsi in futuro agli stessi interessi che spingevano per partecipare al conflitto. Se il partito socialista italiano fosse riuscito a imporre la pace, inoltre, avrebbe contribuito in modo decisivo a rilanciare l’Internazionale che, come si sa, naufragò miseramente, proprio compromettendosi con il lavacro di sangue voluto dalle borghesie europee, in cui peraltro affonda le radici il successo che, nei decenni successivi, ebbe fra le masse il mito dell’Unione Sovietica, nata da un atto di rottura con la guerra. Decenni di depistaggio cognitivo, in cui è stato scambiato per progressismo neoliberale, ci ha fatto dimenticare quanto il riformismo possa e sappia essere, in determinate condizioni, anche radicale: non esitava Matteotti a dire che, se i socialisti fossero stati determinati, nessun governo si sarebbe azzardato a gettare la nazione nella mischia, rischiando anche, all’interno, la guerra civile. Con poche parole profetiche, liquidava il senso dell’interventismo democratico che aveva abbagliato frange significative del socialismo moderato e del radicalismo democratico: «il militarismo – che è essenzialmente violenza ‒, non può limitarsi a funzione di giustizia; il Bene, che se n’è servito, diventa Male, per continuare a servirsene. […] La vittoria della Triplice Intesa preparerebbe inevitabilmente nuove guerre; il popolo tedesco non potrebbe non preparare la rivincita».

L’avversione alla guerra di Matteotti derivava dal fatto che il suo socialismo, per quanto riformista, teneva ben ferma la bussola della difesa dei ceti più deboli dallo sfruttamento delle classi dirigenti, che ormai finiva per sequestrare i loro stessi corpi per farne carne da cannone. È proprio in questa posizione di avversione alla guerra e di difesa delle classi lavoratrici che va compreso il senso del suo antifascismo e del suo sacrificio, non riducibile a una sterile retorica antiautoritaria di stampo liberale (tanto più che la stragrande maggioranza dei liberali, di fatto, sostennero Mussolini o comunque non impedirono l’ascesa al potere delle camice nere). Non poteva esserci vero antifascismo senza una critica delle politiche che avevano, prima del fascismo stesso, portato in guerra l’Italia e senza una denuncia degli interessi che, favorendo i ceti privilegiati, condannavano al disagio la maggioranza della popolazione. Quest’ultimo punto risulta evidente da un discorso in parlamento del novembre del 1921, su cui ha riportato l’attenzione lo spettacolo Parole di Giacomo Matteotti con interruzioni d’aula di Giampiero Borgia, interpretato da Elena Cotugno e andato in scena in vari teatri italiani, fra cui l’Argentina di Roma, il 10 giugno scorso.

Quasi all’inizio di quell’intervento Matteotti diceva:

Noi non ci lagniamo della violenza fascista. Siamo un partito che non si restringe dentro una semplice competizione politica, che non aspira a successione di Ministeri, che vuole invece arrivare ad una grandiosa trasformazione sociale; e […] sa che, ledendo un’infinità di interessi, ne avrà delle reazioni più o meno violente; e non se ne duole.

Questo valga per chi oggi chiede ai postfascisti dichiarazioni di antifascismo, senza pensare che in tal modo è l’antifascismo a uscirne svilito. Oggi una politica coerentemente antifascista non solo non dovrebbe mendicare dichiarazioni di antifascismo dall’avversario, ma dovrebbe sapere che le reazioni dei poteri forti (economici e mediatici) alle proprie iniziative possono essere solo la cartina di tornasole della bontà del proprio operato. Una «grandiosa trasformazione sociale»: a questo aspirava il riformismo di Matteotti e ciò non poteva avvenire fra gli applausi dell’avversario politico né con le sue attestazioni di fair play.

Non sarebbe avvenuto così in Spagna, in cui il governo repubblicano fu travolto dal franchismo non per odio alla libertà formale, bensì per impedire che questa diventasse sostanziale a discapito dei ceti più abbienti. Non sarebbe avvenuto in Sudamerica fra anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, anche grazie alla cosiddetta più grande democrazia del mondo, determinata a puntellare feroci dittature pur di non compromettere la propria egemonia e way of life.

Giuseppe Moscati ha ricordato di recente come Sandro Pertini, in un vibrante discorso alla Camera dei deputati del 26 settembre del 1973, paragonasse il corpo di Allende a quello di Matteotti, accomunati da uno stesso sacrificio[1]. Come si sa, quella storia avrebbe potuto ripetersi in Italia, dove il lato oscuro della democrazia tramava nell’ombra con il neofascismo che seminava il paese di terrore stragista, tanto da spingere Enrico Berlinguer a promuovere il “compromesso storico”, come raccontato di recente anche dal film di Andrea Segre.

Tornando al discorso di Matteotti, è notevole come il dirigente socialista si soffermasse a mostrare come la grande stampa “capitalistica”, quella che oggi si direbbe “mainstream”, falsificasse la verità dei fatti, alleggerendo continuamente le responsabilità dei fascisti nelle violenze che ormai da mesi insanguinavano il paese e attribuendo il più delle volte la colpa alle formazioni proletarie. Ma in realtà – ribadiva Matteotti ‒, il fascismo è una reazione «non tanto contro gli atti di violenza deplorati, quanto contro le conquiste economiche del proletariato». E proseguiva:

Le ragioni del fascismo, dicono i vostri giornali, sono da ricercarsi nella dittatura che il proletariato dei campi specialmente, esercitava in quelle regioni. Ora intendiamo bene in che cosa consisteva quella famosa dittatura. La dittatura del proletariato nelle campagne consiste essenzialmente in questo fatto. I contadini col patto del 1911 e anche più coll’ultimo patto del 1920 avevano raggiunto queste due conquiste fondamentali: il riconoscimento delle loro organizzazioni, l’imponibilità di manodopera. Così si era arrivati a una maggiore giustizia, a una maggiore civiltà. Ma questo l’Agraria più non volle; e, dopo aver firmato i patti, vuole infrangerli, perché non vuol sostenere il peso della manodopera agricola obbligatoria. Possono benissimo essere avvenuti degli abusi, ma ciò non dovrebbe avere importanza per negare l’essenza di quelle due conquiste civili.

Ma la parte più arretrata della borghesia – concludeva Matteotti – preferisce far perire lo Stato pur di salvaguardare la sua borsa. «Quando la libertà economica giovava alla classe borghese perché il proletariato non era organizzato – aggiungeva ‒, allora si esaltava la libertà, e si diceva che era la panacea di tutti i mali: oggi che il proletariato, per mezzo della libertà e delle proprie forme di organizzazione, intacca i profitti capitalistici ecco che la libertà viene negata e viene proclamata la violenza contro di essa».

Per essere degni oggi del sacrificio di Matteotti è necessario riattivare il senso profondo della nostra costituzione e non i suoi riflessi oleografici. La Costituzione antifascista è nata dal ripudio della guerra perché nelle trincee del 1915-1918 fu perpetrato lo sterminio di milioni di contadini e operai sull’altare degli interessi economici e geopolitici di una ristretta fetta di persone. Lo stesso destino sta per ripetersi oggi ed è per questo che un soggetto popolare e di massa che si richiami alla Costituzione non può che denunciare ogni forma di interventismo democratico dietro cui si celino gli interessi imperialistici di una ristretta élite tecnocratica e finanziaria, demistificando la disinformazione continua della stampa ufficiale. Qualsiasi soggetto che voglia proporsi come “democratico” non può non invocare – come Matteotti provò a fare – un’aggregazione di massa dei ceti deboli contro l’illimitato accrescersi dei poteri privati, che sempre più pongono ostacoli alla realizzazione libera della personalità della maggior parte dei soggetti, sancita dal costituzionalismo democratico non solo contro il fascismo ma anche contro il capitalismo deregolamentato che l’aveva preceduto e incubato, e si era poi schiantato nella grande depressione del ’29.

La triangolazione di potere mediatico e potere economico è, del resto, oggi ben più pervasiva che un secolo fa. La mercificazione della notizia e il farsi immagine del potere economico hanno oggi raggiunto una capacità di espansione biopolitica, con la rete, l’intelligenza artificiale e i dispositivi elettronici quasi innestati nei corpi degli umani. Da questo punto di vista Elon Musk è l’erede più diretto e infinitamente più potente del berlusconismo, volto ad abbattere, dopo la fine della deterrenza geopolitica e lo sfarinamento della classe operaia, gli ultimi monumenti rimasti della stagione del costituzionalismo democratico, del movimento operaio e ora anche delle lotte per i diritti civili. Ma, dall’altra parte, non c’è più un proletariato da sconfiggere, bensì un volgo disperso che nome non ha.

  1. Cfr. S. Pertini, Non vi è socialismo senza libertà. Corpi tra dittatura e democrazia, in «Il senso della Repubblica nel XXI secolo. Quaderni di storia politica e filosofia», n. 11, pp. 11-12.

(fasc. 54, 25 novembre 2024)