L’arte dell’isolamento. Note e spunti da un reportage triestino di Carlo Cassola

Author di Sandro de Nobile

Ad onta di quanto dichiarato nel 1975 al settimanale «Epoca»[1. Il divino mestiere (intervista di Piero Fortuna a Bellonci, Bevilacqua, Cassola, Fusco, Gatto, Pasolini, Tomizza, Zavattini), in «Epoca», 25 gennaio 1975, p. 67.], al quale confessa di sentirsi esclusivamente uno scrittore, e non un giornalista, Carlo Cassola, nella sua lunga e feconda attività scrittoria, accosta a più riprese all’impegno letterario il lavoro giornalistico, cui si presta principalmente negli anni ’40-50, salvo poi riprenderlo, in maniera sostanziale, attraverso la singolare saggistica ambientalista e pacifista datata anni ’70.

Lasciando da parte questa originale produzione della sua estrema maturità, l’impegno giornalistico cassoliano risulta, dunque, legato essenzialmente al periodo post-bellico, quello in cui egli, esaurita l’esperienza resistenziale, vissuta in prima linea, riversa il desiderio di intervenire sul reale nel lavoro presso varie testate, lavoro investito anche di un valore prettamente politico. Un valore in quegli anni rappresentato appieno da una figura quale quella di Romano Bilenchi, il quale, avvertendo tutta l’urgenza del cosiddetto “impegno” richiesto all’intellettuale, se ne fa l’icona più estremistica, abbandonando quasi completamente l’attività letteraria a favore di quella giornalistica.

Un tale esempio non può non far sentire il proprio peso nelle scelte del giovane Cassola, che a Bilenchi si lega in maniera indissolubile, dai primi articoli, datati 1945, apparsi su «La Nazione del Popolo», organo del C.L.N. toscano, sino all’esperienza del «Contemporaneo», per entrambi tanto cruciale quanto traumatica.

La partecipazione di Cassola alla rivista fondata dallo stesso Bilenchi, da Carlo Salinari e da Antonello Trombadori non poteva, del resto, non essere quantomeno singolare, stante la storia azionista dell’autore della Ragazza di Bube, una storia che però, negli anni successivi al conflitto, non trova miglior casa che quella comunista, dove pure lo scrittore dimora da eccentrico. Questa sua posizione defilata lo porterà, poi, quasi fisiologicamente all’abbandono della redazione, a seguito di un’inchiesta sulla cultura marxista che, nata sulla scorta delle rivelazioni di Krusciov al XX Congresso del P.C.U.S., si concluderà nel luglio del 1956 con un articolo[2. Emulazione socialista, in «Il Contemporaneo», a. III, n. 27, 7 luglio 1956, p. 1.] che nella sostanza evaderà tutti gli interrogativi emersi, anche quelli enunciati in ben due interventi[3. C. Cassola, Stato d’assedio, in «Il Contemporaneo», a. III, n. 12, 24 marzo 1956, p. 3, e Reazioni sentimentali, in «Il Contemporaneo», a. III, n. 19, 12 maggio 1956, p. 4.] da un Cassola che concluderà, quasi presago degli imminenti carri armati su Budapest, la sua collaborazione a una rivista per la quale tanto si era speso.

E dire che è proprio Cassola, il 27 marzo 1954, a firmare il primo reportage sul numero uno del periodico: si tratta di La strage di Niccioleta[4. C. Cassola, La strage di Niccioleta, in «Il Contemporaneo», a. I, n. 1, 27 marzo 1954, p. 6.], servizio su un eccidio nazi-fascista che getta una sorta di ponte memoriale tra l’epoca in cui viene scritto e quella resistenziale, suggerendo un’unità d’intenti delle forze antifasciste ritenuta evidentemente ancora possibile.

Il resoconto della strage è uno dei tanti pezzi di bravura giornalistica dell’autore volterrano, il quale già sulle colonne della «Nazione del Popolo», prima, e del «Mondo», poi, aveva avuto modo di far sfoggio di intuito e di capacità di scavo, tanto negli articoli di cronaca quanto, soprattutto, nelle varie inchieste eseguite, da quella su La Spezia[5. C. Cassola, L’avvenire di La Spezia, in «La Nazione del Popolo», 13 gennaio 1946, p. 1.] a quelle su Livorno[6. C. Cassola, Il commercio delle muse, in «Il Mondo», a. VI, n. 4, 26 gennaio 1954, p. 7.], laboratorio sul campo di quel genere “reportage” che lo porterà alle fatiche editoriali di Viaggio in Cina[7. C. Cassola, Viaggio in Cina, Milano, Feltrinelli, 1956.] e dei Minatori della Maremma[8. C. Cassola-L. Bianciardi, I minatori della Maremma, Bari, Laterza, 1956.].

Non è un caso, dunque, che «Il Contemporaneo» affidi proprio a lui un’inchiesta di capitale importanza quale quella resasi indispensabile al ritorno di Trieste sotto la piena potestà italiana. Ne viene fuori un reportage di notevole portata, pubblicato dalla rivista in tre numeri consecutivi (apparsi tra il 22 gennaio e il 5 febbraio 1955), nei quali la problematica è sviscerata prima dal punto di vista politico (Inchiesta a Trieste)[9. C. Cassola, Inchiesta a Trieste, in «Il Contemporaneo», a. II, n. 4, 22 gennaio 1955, pp. 1-2.], poi dal punto di vista economico (Il fronte del porto)[10. C. Cassola, Il fronte del porto, in «Il Contemporaneo», a. II, n. 5, 29 gennaio 1955, p. 6.], infine da quello culturale (Gli scrittori del Caffè Garibaldi)[11. C. Cassola, Gli scrittori del Caffè Garibaldi, in «Il Contemporaneo», a. II, n. 6, 5 febbraio 1955, p. 7.].

In ciascuna delle tre sezioni Cassola articola il proprio discorso in una prima parte, preponderante, di natura prettamente giornalistica, nella quale, anche con l’ausilio delle cifre, oltre che di una minuziosa descrizione, egli fornisce un quadro della situazione della città, e in una seconda, più breve e sommessa, nella quale espone le proprie considerazioni sulla possibile uscita dalla crisi.

Dal punto di vista politico, secondo l’autore, Trieste subisce decisamente la propria situazione di città di confine, un confine che spesso e volentieri trancia letteralmente in due interi paesi, a volte anche intere abitazioni. Rispetto a tale situazione, sancita dagli accordi di Londra, Cassola individua due possibili strade percorribili: quella dettata dal sentimento e quella suggerita dalla ragione.

Il sentimento dei triestini, comprensibilmente, è intriso di una profonda nostalgia nei confronti della situazione pre-bellica, soprattutto di quei luoghi, come l’Istria, considerati parte integrante della loro terra, luoghi cui essi si sentono legati da una familiarità che è già memoria, individuale, familiare e condivisa. Tuttavia, la comprensione dello scrittore si ferma a questo sentimento di lacerazione, non condividendo egli il passaggio di tale atteggiamento nostalgico sul piano politico. Tale passaggio pregiudica il pieno superamento della questione, alimentando quell’irredentismo e quel nazionalismo da sempre molto forti in terra giuliana.

Cassola valuta negativamente il successo delle destre a Trieste, e deleterio considera pure lo scivolamento su posizioni decisamente nazionaliste dei membri del quadripartito locale, perché gli sembra che tale atteggiamento, più che risolvere i problemi, acuisca le tensioni, giocate su un piano tanto internazionale quanto locale, tra la maggioranza italiana e la minoranza slava. Del resto, l’impressione avuta dal nostro è che la questione del ritorno all’Italia sia considerata un argomento tabù, che, a destra come a sinistra, si preferisce in qualche modo sottacere. Difatti egli, anche con un certo orgoglio, ricorda come l’unica forza espressasi positivamente sugli accordi di Londra sia stata la “sua” Unità Popolare, partito che ha contribuito a fondare, nel 1952, assieme ad altri transfughi della sinistra azionista[12. Cfr. C. Cassola, Letteratura e disarmo, Milano, Mondadori, 1978.].

Tuttavia, pur nelle difficoltà, l’autore vede nell’atteggiamento della sinistra nei confronti del tema una differenza sostanziale rispetto al comportamento tenuto invece dalla destra. Infatti il P.C.I., ormai da anni, grazie al lavoro di un politico del calibro di Vittorio Vidali, epurati gli elementi “titini”, è riuscito a superare la tradizionale contrapposizione tra italiani e slavi, riunendo il proletariato di ciascun popolo sotto la stessa bandiera, quella della lotta contro il capitalismo. Tale atteggiamento pare a Cassola il più aperto e significativo, anche dal punto di vista culturale, in quanto libera la città dal pregiudizio razziale, fondendo le due culture, con lo scopo di affrontare i problemi veri, ad onta delle questioni nazionalistiche. La soluzione data dai comunisti al problema etnico, inoltre, pare al nostro la più consona ai tempi, quella che meglio fa i conti con la realtà storica e con la prassi politica. Nonostante l’impegno del P.C.I., tuttavia, la situazione politica di Trieste non sembra a Cassola particolarmente rosea, in quanto il nazionalismo, dati alla mano, la fa ancora da padrone, come verrà confermato anche dall’articolo nel quale analizza la situazione culturale della città.

Tale stato di cose è generato anche dalla sostanziale debolezza della sinistra, debolezza dovuta, da un lato, alla natura prettamente borghese della città, imbottita di impiegati pubblici; dall’altro, alla fiacchezza dei partiti moderati di sinistra, socialisti e socialdemocratici, incapaci di contribuire in qualche modo al discorso di mediazione messo in atto dal P.C.I.. Eppure, sebbene le conclusioni del nostro non sembrino adombrare felici prospettive per Trieste, uno spiraglio Cassola lo mostra ugualmente: il passaggio all’Italia e la crisi economica metteranno sul piatto della bilancia politica nuove questioni, che potrebbero ribaltare, migliorandola, la situazione politica del capoluogo giuliano:

(…) il ritorno all’Italia non potrà non avere profonde ripercussioni. È evidente che l’influenza delle posizioni politiche in campo nazionale sarà d’ora innanzi assai più forte che per il passato sui partiti triestini. Ma soprattutto è da aspettarsi che la situazione politica di Trieste cambi anche in modo radicale in seguito all’acuirsi della crisi economica. La tragica situazione economica della città costituisce infatti la preoccupazione numero uno dei partiti politici, del governo, dell’amministrazione e dell’opinione pubblica triestina[13. C. Cassola, Inchiesta a Trieste, op. cit., p. 2.].

Conclusa con questa speranza, che però rappresenta anche un forte punto interrogativo, la propria disamina della situazione politica triestina, Cassola passa poi, nel Fronte del porto, titolo di chiara matrice cinematografica, a esaminare proprio quella crisi economica che egli giudica come uno dei possibili fattori di mutamento politico.

Trieste, in quegli anni, per la prima volta nella sua storia, è oggetto di forti processi di emigrazione. Un quinto della popolazione è senza occupazione, mentre un terzo dei lavoratori è occupato nel pubblico impiego, ingrossato a dismisura prima dal fascismo, poi dall’amministrazione autonoma. Di fronte a questa pesante crisi economica alcuni sono ottimisti, conservando fiducia nel recupero di quel suo ruolo di porta dell’Oriente già svolto sotto gli Asburgo, mentre altri si mostrano decisamente pessimisti, sottolineando l’arretratezza del porto, il decremento occupazionale determinato dall’avvento delle nuove tecnologie, l’impossibilità di scardinare la cortina di ferro.

Cassola, dal canto suo, si mostra possibilista. Certo, egli riconosce ai triestini una certa pigrizia imprenditoriale, dovuta ad anni e anni di protezionismo, come pure sottolinea le resistenze di buona parte dell’imprenditoria nei confronti della creazione di una zona franca, che favorirebbe i prodotti dell’Est. Eppure, egli ritiene che questa della zona franca, assieme alla riqualificazione del porto, sia l’unica strada percorribile per il rilancio dello sviluppo giuliano, un rilancio che egli pensa non possa essere spontaneo, proprio per quei difetti di pigrizia di cui si diceva, necessitando dell’attento e tempestivo intervento del governo:

(…) un fatto è certo, che la classe economica triestina, cresciuta nell’ambito di un sistema protezionistico, è pigra e priva del necessario spirito d’iniziativa. Solo un massiccio intervento statale, che non sia deviato dai molti e contrastanti interessi dei baroni dell’economia triestina e italiana, può liberare Trieste dall’incubo della catastrofe economica[14. C. Cassola, Il fronte del porto, op. cit., p. 6.].

Nel complesso, dunque, lo scrittore pare nutrire, pur al cospetto di ingenti problemi, una certa speranza rispetto al futuro triestino. Una speranza, certo, non motivata dalla situazione presente, che egli analizza senza pregiudizi e con molta schiettezza, individuando chiaramente lo stato di crisi, ma giustificata da un ritorno all’Italia che l’autore valuta positivamente, per una serie di motivi: in primo luogo, perché risolve una situazione drammaticamente incerta e tesa, anche e soprattutto a livello internazionale, che non consente un pieno sviluppo economico e sociale; in secondo luogo, perché respinge, sino a poterle ridurre all’impotenza, le posizioni politicamente più estreme, tanto slaviste quanto irredentiste quanto autonomiste; in terzo luogo, perché apre alla città una prospettiva nazionale che la liberi da una certa chiusura culturale che cozza decisamente contro la storicamente predominante vocazione mitteleuropea della città. A detta di Cassola, il ritorno all’Italia consentirà a Trieste di superare, soprattutto, la deleteria contrapposizione razziale tra slavi e italiani, all’interno di un discorso che abbia al centro non più il passaggio a questa o quella nazione, bensì le sorti della città.

Venendo alle problematiche più strettamente culturali sviscerate dal nostro, già in Inchiesta a Trieste egli si sofferma sulla sostanziale impotenza degli accademici dell’ateneo triestino, tutti o quasi estranei alla città e residenti in altri centri, e per questo incapaci di fornire il proprio contributo alla soluzione dei problemi del capoluogo giuliano, o al limite disinteressati a farlo. Tale carenza in qualche modo endemica e strutturale si sovrappone al clima culturale cittadino, descrittoci da Cassola in Gli scrittori del Caffé Garibaldi come reazionario e sostanzialmente ostile ai propri stessi figli.

Ciò che più stupisce dell’analisi cassoliana è proprio il ribaltamento delle attese del lettore, il quale sarebbe portato ad avere del panorama culturale triestino un’immagine d’eccellenza, determinata da figure eccezionali quali Svevo, Saba, Giotti e altri. Invece Cassola ci sorprende, regalandoci uno spaccato della cultura giuliana dell’epoca ben poco trionfale o confortante, manifestante al contrario una crisi in tutto e per tutto simile a quelle già individuate in campo politico ed economico, e a queste legata.

La Trieste culturale presentata dall’autore volterrano risulta ben più retrograda e provinciale di quanto, depositari dell’iconografia letteraria che la vorrebbe centro cosmopolita e fecondo, ci aspetteremmo: schiava da un lato di un sentire comune orientato verso l’irredentismo, dall’altro di un’élite cultural-editoriale depositaria dei valori del nazionalismo, essa pare a Cassola atta alla trasmissione dei soli valori funzionali alla battaglia politica dei reazionari, relegando ai margini persino quelle figure di riconosciuto valore intellettuale che il resto del mondo le invidiava e le invidia, ma che in realtà in patria restano relegate a un forzato isolamento.

La cultura cittadina borghese è, infatti, dominata dagli ambienti che fanno capo al quotidiano «Il Piccolo», che Cassola ricostruisce grazie alla testimonianza del volume Trieste viva di Rino Alessi[15. R. Alessi, Trieste viva. Fatti, uomini e pensieri, Roma, Casini, 1954.], proprietario del giornale.

Tali ambienti sono quelli in cui Slataper può essere interpretato in chiave esclusivamente nazionalistica, in cui si può tacere dell’antifascismo di uno Stuparich o di un Quarantotti Gambini, in cui si può tacere di Saba o Giotti; in cui, soprattutto, viene riconosciuto ed esaltato il valore di scrittori marginali o mediocri quali Ruggero Fauro Timeus, già redattore dell’«Idea Nazionale»; Riccardo Pitteri, che pubblica le sue poesie sulla «Scena Illustrata»; Francesco Salata, Attilio Tamaro, Bruno Coceani, sino al caso limite di Spiro Tibaldo Xydias, incensato da Alessi per il suo eroismo, ma che in realtà mai nulla pubblicò né scrisse. Questi intellettuali hanno tutti in comune la vocazione irredentista e nazionalista, sfociata poi, in diversi casi, attraverso il filtro del Partito Liberale Nazionale, in maniera automatica e naturale nel fascismo: a tutti loro Alessi riconosce la capacità di rappresentare al meglio le istanze culturali della città, evidentemente incentrate su discriminanti di natura politica che hanno ostacolato la piena comprensione e ricezione di esperienze appartate e meno compromesse col terreno della storia e dell’attualità (perlomeno, nel senso auspicato da Alessi e dal milieu che egli rappresenta, che è quello dell’alta borghesia mercantile), quali quelle di Svevo e Saba:

Dunque la classe dirigente triestina ha preteso dagli artisti giuliani un preciso engagement politico nel senso dell’irredentismo nazionalistico. Chi si è rifiutato di arruolarsi sotto questa bandiera è stato punito con la diffamazione o la congiura del silenzio. “I romanzi di Italo Svevo e le liriche di Umberto Saba non dissero nulla ai triestini mentre erano impegnati nelle guerre e nella lotta politica … Volerglielo far dire adesso, che siamo, diremo così, in fase di liquidazione di quei valori nazionali che diedero all’Italia le ore della sua vera grandezza, potrà essere un caso di zelo democratico, ma non un servizio reso alla letteratura giuliana”[16. C. Cassola, Gli scrittori del Caffè Garibaldi, op. cit., p. 7.].

Lo zelo democratico sarebbe quello che ha portato, il 19 ottobre del ’53, ricorrendo il settantesimo compleanno di Saba, a una manifestazione in suo onore al Circolo della Cultura e delle Arti, oppure, nel dicembre dello stesso anno, alla donazione all’Università, da parte dello stesso circolo (già presieduto da Giani Stuparich e Silvio Benco e nel quale è all’epoca attivo Biagio Marin), di un busto in bronzo di Svevo opera dello scultore Ruggero Rovan, occasioni entrambe stigmatizzate da Alessi in quanto ritenute postumi riconoscimenti a due intellettuali in realtà estranei allo spirito della città, in quanto lontani dall’ideologia irredentistica. Tale disposizione reazionaria della cultura borghese cittadina, che per Cassola finisce per rendere Trieste in tutto simile alla Lubecca che disconosce o misconosce il proprio Thomas Mann, se da un lato ha portato a un isterilimento del dibattito culturale, dall’altro ha condotto le figure intellettuali di maggior prestigio a rifiutare qualsiasi forma di partecipazione, tanto civile quanto intellettuale. E, mentre emarginava le proprie voci migliori, la cultura triestina è venuta, secondo Cassola, sempre più asservendosi all’idea politica dominante, quella nazionalista, provocando l’odierna crisi, chiaramente manifestata, ad esempio, dalle difficoltà di Giotti nel trovare adeguato apprezzamento nella propria città. È sintomatico, in tale ottica, come il “Caffé Garibaldi”, un tempo ritrovo dei migliori intellettuali triestini, abbia progressivamente perso il proprio prestigio culturale, perché l’isolamento a cui sono state costrette le voci migliori dell’intellighenzia cittadina ha, in ultima analisi, impedito che attorno a loro si formasse una qualche specie di scuola, di movimento, finanche di sodale colloquio.

Certo, tale isolamento costretto potrebbe anche aver avuto e continuare ad avere un’influenza positiva sui letterati triestini. Ad esempio, Anita Pittoni, pittrice, scrittrice, animatrice culturale legata a Giani Stuparich, nell’introdurre i versi di Giotti[17. V. Giotti, Versi, Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1953.], si chiede se esso sia stato o no un limite, formulando l’ipotesi che la triestinità letteraria, ovvero quella particolare inclinazione degli scrittori giuliani verso il dato riflessivo, psicologico, non nasca proprio da quell’isolamento politico e sociale di cui si diceva. E da quello stesso isolamento, a detta della studiosa, sorgerebbe pure quell’attitudine al rifiuto dei conformismi che costituisce la cifra prima dell’europeismo degli scrittori triestini, di quella loro capacità di fuggire la realtà locale e nazionale, per guardare oltre, nel tempo e nello spazio.

Cassola non rifiuta espressamente e in toto le ipotesi della Pittoni; tuttavia egli, riportando il discorso sul presente e sulla letteratura strettamente contemporanea, riconosce nell’isolamento dei letterati anche quei difetti che lo rendono deleterio dal punto di vista culturale. Soprattutto, egli individua nella cultura triestina contemporanea la carenza di quelle imprescindibili basi ideologiche date dai valori della Resistenza e dell’antifascismo, valori che, nel resto d’Italia, hanno agevolato la rinascita post-bellica, innervando l’arte in tutte le sue forme e presiedendo a un ricompattamento intellettuale piuttosto trasversale dal punto di vista sociale:

(…) negli ambienti culturali triestini si constata oggi un’assoluta mancanza di quello spirito unitario che in misura maggiore o minore caratterizza pur sempre gli ambienti culturali delle altre città italiane. È lo spirito unitario dato dalla Resistenza. A Trieste sembra che la Resistenza sia passata invano. Cultura popolare e cultura borghese sono rigidamente separate. I ceti popolari hanno le loro associazioni culturali, gli Amici del Calendario del Popolo, i circoli di quartiere, il cinematografo nella Casa del Portuale. Per contro il pubblico che frequenta il Circolo della Cultura e delle Arti è rigorosamente borghese[18. C. Cassola, Gli scrittori del Caffè Garibaldi, op. cit., p. 7.].

In sostanza, a livello nazionale, attorno ai valori dell’antifascismo, cultura popolare e cultura borghese si sono ritrovate e, in qualche modo, fuse, dando vita a una cultura per la prima volta realmente nazional-popolare. Ciò, proprio a causa di quell’isolamento degli intellettuali di cui si è detto, a Trieste non è avvenuto, provocando una parcellizzazione della cultura che ricorda quelle già stigmatizzate da Cassola in alcune delle inchieste toscane, ma che appare più grave in virtù dell’importanza del capoluogo giuliano all’interno della storia delle arti e del pensiero, stante la sua aura europea e mitteleuropea per la quale Cassola lo ritiene ancora preferibile a molte grandi città italiane in cui si respira, invece, un’aria di greve provincialismo, o di rimasticatura di spunti altrove elaborati. Così, per lo scrittore, quell’isolamento che per la Pittoni potrebbe anche avere un valore positivo, rischia, in futuro, di scadere in una deriva apolitica e asociale, finendo col provocare una sostanziale divaricazione tra la città reale e la sua cultura:

Troppo diffidiamo dell’abitudine che hanno i nostri artisti di vivere in comune, di esaurirsi nell’organizzazione della vita letteraria e culturale, di arrovellarsi con cenacoli, movimenti, manifesti, fronti letterari, culturali e politici, che alla fin fine lasciano il tempo che trovano. Ma non vorremmo che quello splendido isolamento che ha dato i romanzi di Italo Svevo divenisse alla fine distacco dal presente e dalla socialità e pervenisse, così, all’isterilimento[19. Ibidem.].

È vero che, una volta di più, in queste righe Cassola manifesta tutta la propria diffidenza nei confronti dell’organizzazione culturale, nella misura in cui questa mascheri un vuoto di contenuti; tuttavia, pare chiaro come per lui la crisi culturale di Trieste, e le prospettive scure che a questa paiono aprirsi, nascano dalla mancanza o dalla debolezza, nell’intellighenzia cittadina, di quei valori condivisi che, portati dall’antifascismo, soli potrebbero consentire la nascita di una cultura unitaria.

Che Cassola avesse o meno ragione nel rimproverare alla cultura triestina di punta la sua idiosincrasia nei confronti di movimenti politici, filosofici, letterari che, se da un lato fungono da stimolo, dall’altro rischiano di trasformarsi in pure e semplici mode, perdipiù vincolanti e castranti (soprattutto laddove cerchino al di fuori dell’arte le proprie coordinate), il suo reportage su Trieste ˗ e più nello specifico la parte afferente la cultura ˗ ci pare prezioso per comprendere, da un punto di vista esterno, un contesto particolarissimo come quello del capoluogo giuliano, dove la Storia percorre vie più contorte rispetto al resto del paese, dove l’attività letteraria incontra difficoltà più impervie che altrove; dove l’arte, mentre l’intellighenzia del resto del mondo va spingendosi verso le derive dell’eteronomia, sembra essersi salvata, nelle sue forme eccellenti, soltanto in virtù dell’emarginazione delle questioni politiche. Dove la cultura, allontanatasi finanche dai caffè letterari, si fa pure, e bene, nei salotti di chi sceglie di prendersene cura (come accade a casa Pittoni, dove ha sede la redazione della rivista «Zibaldone», frequentata ogni martedì da Stuparich e Giotti), uscendone purificata.

Dell’epoca in cui viene scritto, infine, l’articolo, Cassola mostra ancora una volta (se ce ne fosse bisogno) l’imprescindibilità delle ipoteche politiche su una cultura imbrigliata, come la società, nella dialettica polare della nascente Guerra fredda. Se, da un lato, ciò lo spinge a interpretare la Trieste culturale in senso schiettamente politico (chiedendo allo spirito degli intellettuali locali un’apertura verso istanze sociali che probabilmente non era nelle loro corde), dall’altro egli mostra il volto più arcignamente di destra della città, evidente nell’ostracismo nei confronti di quanti, pur eccellenti, non vollero piegarsi ai diktat dell’irredentismo e del nazionalismo.

A Trieste, in sostanza, si rende più evidente, perché voltato a destra, come l’esigenza di engagement, una richiesta pervasiva e a tratti frustrante, non fosse, negli anni Cinquanta, un attributo della sola cultura marxista, ma caratterizzasse un’intera epoca segnata da divisioni laceranti, che evidentemente trovavano le proprie radici ben prima del secondo conflitto mondiale e della Resistenza.

(fasc. 23, 25 ottobre 2018)