Sullo spartiacque: l’abalietà di Roberto Bazlen

Author di Salvatore Presti

Silenzioso, silenzioso, eternamente irraggiungibile, il gatto dal pelo di seta passava davanti (…)1.

Di Roberto (Bobi) Bazlen si è detto molto, tanto che la sua figura di letterato è stata oggetto di ben quattro romanzi2 e di biografie che, in taluni casi, sfiorano l’agiografia3.

Sfuggente e indefinito, naturalmente bigamo, uomo che ha letto tutti i libri, poeta mercuriale, Bartleby dell’editoria4, bracco letterario, consulente, agente letterario ante litteram, traduttore anonimo di testi dal tedesco e dall’inglese, introduttore della psicanalisi junghiana in Italia, paziente di Weiss e del junghiano Bernhardt, ispiratore di collane editoriali, ma finitore di famiglie, fine dicitore, affabulatore, sparlatore, scopritore di talenti, autore di note senza testo, di note a piè di pagina, scrittore di un unico romanzo incompiuto, amico dei suoi amici e di chi, osservandone da lontano le gesta e leggendo le poche cose pubblicate in morte, si rende conto di avere nei suoi confronti, sempre, un sentimento di prossimità, Bazlen percorre la propria anomalia e la svolge fino in fondo.

In un’Italia prefascista, fascista e postfascista, nelle patrie lettere suggestionate (e limitate) dall’inerzia di un crocianesimo dichiarato spesso, sottinteso sempre, Bobi apre alla novità percorrendo naturalmente, “per sua natura”, strade che agli altri sono impedite5. La padronanza delle lingue, la sua sostanziale apolidia6 venata di un senso di vaga appartenenza alla sua Trieste, il suo essere «al di fuori e al di là di tutto»7 lo rendono aperto a ogni contributo, desideroso di percorrere strade poco battute e molto poco convenzionali. Questo perché Bazlen, prima di ogni altra cosa, è un lettore che ama frequentare le periferie perché lì continua ad albergare quanto di più vitale pare esserci in letteratura.

L’elenco delle sue scoperte e dei suoi meriti è veramente notevole e va da Svevo al lancio italiano di Musil, all’Artaud del Paese dei Tarahumara, a Groddeck, a Kubin, disegnatore da Bobi definito sostanzialmente come un Kafka prima di Kafka e autore di un unico romanzo, L’altra parte.

Tanto resta della sua amicizia con Montale ma più di tutto restano le gambe di Dora Markus, personaggio equivoco, passato alle cronache poetiche grazie all’invito (da Eusebius – altro nome montaliano che si deve all’estro di Bobi – accolto dopo discreta meditazione) che Bazlen fece allo stesso Montale di narrarne la bellezza. Di Dora Markus si conoscono solo le gambe, che dovrebbero essere quelle di Gerti, amica e sodale di Bobi8.

L’episodio della lettera e della foto che stimola la poesia è fondamentale perché svela un lato poco conosciuto del rapporto Montale-Bazlen ma fa capire, più di ogni altra cosa, il concetto di una letteratura fra amici, e di come sia possibile, a partire da un paio di gambe, creare una suggestione. Si divertiva, Bobi, a suggerire, a troncare a stroncare e a tagliare in nome di un gusto personale.

I libri hanno parole e le parole suonano, perciò la lettura è un problema di orecchio allenato. Nelle sue Lettere editoriali si nota la sapienza del lettore feroce che ha gusto, senso critico, che ama tutto quel che stravolge il canone9 e tratta autori e libri come istantanee di un tempo più vasto che è il tempo della letteratura non compiaciuta, né tantomeno autocompiaciuta, che guarda alla vita e alla sua eclatante inesattezza e lì trova le storie e altre ne inventa.

Più importante, tuttavia, appare per noi il disegno che Bazlen immagina di poter realizzare attraverso una casa editrice che, assecondandolo nei suoi percorsi, possa segnare il sentiero dei “libri unici” che ha in mente. Il primo tentativo è con la casa editrice Boccia, poi fallito per problemi economici; un altro importante è quello portato avanti con Adriano Olivetti, di una casa editrice onnivora che pubblicasse testi che altre case omettevano, per timore o per insipienza, e facesse conoscere antichi testi in nuove traduzioni, la N.E.I., Nuova Editrice Ivrea, che poi confluirà nella più regolata Edizioni di Comunità dello stesso Olivetti, allontanandosi tuttavia dalla lettera bazleniana. Altro tentativo più circoscritto verrà portato avanti con la casa editrice Astrolabio. Lì Bazlen si concentrerà sulle traduzioni, ispirando l’importante collana di psicologia che farà conoscere all’Italia testi importantissimi come quelli di Jung.

Sarà con Adelphi che Bazlen potrà realizzare il suo ambizioso programma10 di libri unici.

Questa sua identità di uomo senza centro, che percorre qualsiasi strada avendo come faro gusto e passione, qualità e determinazione, capacità cioè di riconoscere la qualità e determinazione a imporla, questo suo essere apparentemente senza la scrittura sono le vie scelte da Bazlen per rappresentare la propria anomalia:

Io credo che non si possa più scrivere libri.

Perciò non scrivo libri –

Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina11.

Parlare dei suoi scritti senza parlare dei suoi silenzi è inutile, perché l’impossibilità di una parola propria, a un certo punto è tutt’uno con l’esigenza di diffondere l’altrui verbo, e lo scrittore e lo scopritore di talenti si fondono in un’unica nevrotica personalità. In Bazlen non c’è scrittura che non guardi altrove e l’io si aliena nei contenuti degli altri, nella loro vera o solo supposta grandezza. Come se risuonasse pur sempre quella grande frase che un giovanissimo Rimbaud pronuncia parlando di se stesso al proprio insegnante di retorica: «Je est un autre»12.

La costruzione di un percorso per frammenti dove i frammenti sono racconti altrui risponde, a mio avviso, a un’urgenza materiale prima ancora che mentale e psicologica. È la qualità del suo essere lettore che è in discussione, una qualità e un’intenzione pure. A ragione Calasso sostiene, nell’introduzione agli Scritti, che nella vexata quaestio della primazia tra vita e opera, tra l’uomo della vita, cioè, e quello del libro, «Bazlen rappresentava l’uomo del libro che è tutto nella vita e l’uomo della vita che è tutto nel libro. Fra le molte soluzioni che gli offriva il mondo distrutto aveva scelto questa impossibilità»13.

Il Novecento ha ben altri interpreti il cui spessore è indiscutibile, ma la reticenza di Bazlen, il suo fondamentale essere altrove rispetto alla pagina scritta è già critica, è già interpretazione, e precorre il modo globale post-postmoderno di intendere sapere e vita. La reticenza in Bazlen è pur sempre un processo di metabolizzazione. Comporta, l’atto del leggere, una scoperta di sé che nelle menti disgiuntive14 corrisponde (può corrispondere) a un’alterazione del senso, a un possesso che, in verità, è sempre un mancato possesso. Quel che si conosce lo interessa ben poco, le linee già tracciate dagli altri che prima hanno indicato una direzione gli appaiono come percorsi possibili ma non esaustivi di quell’immenso caotico calderone che sono gli scritti, che è la vita.

È il modo stesso di quella tensione che chiamiamo creazione con cui la cosa diviene divergendo. Sul rifiuto dei parametri borghesi di comprensione mi pare si giochi una parte non banale delle interpretazioni o dei calembour del triestino. Anche considerare le scelte di Ulisse come una prefigurazione del piccolo borghese, inquadrandolo come colui che anela alla comodità della casa e alla noia di una Penelope misconoscendo l’amore puro perché eterno di Calipso, è parte di questo rifiuto, è questo rifiuto15, che sottintende sempre la ricerca di una prospettiva non convenzionale. O si pensi al giudizio sull’Uomo senza qualità di Musil: nella famosa lettera del 12 giugno 1951 a Luciano Foà scrive:

Come valore sintomatico in ogni singola pagina, come valore assoluto in moltissime parti, rimane una delle faccende più grosse tra tutti i grandi esperimenti di narrativa non conformista, fatti dopo la prima guerra mondiale (…)16.

Pur ammirando la precisione di pensiero di Musil e il modo in cui conduce gli argomenti, Bobi assume la parte dell’avvocato del diavolo spiegando con dovizia di particolari il perché si tratti di «una faccenda complicata»: il libro è troppo lungo, troppo frammentario, troppo lento, troppo austriaco.

Dopodiché ti succede che attraverso questi interminabili dialoghi, saggi, trattati, feuilletons – e dopo di esserti abbondantemente irritato e annoiato – ti si formi lentamente un mondo vivissimo, le persone (…) assumono lentamente una densità e una plastica da grandissimi personaggi da romanzo, che l’azione, della quale non ti sei accorto, fila che è un gusto, e che non ti sei annoiato ma ti sei divertito, che hai compartecipato, che per due mesi sei vissuto in parte di quel mondo, e che ti sei innamorato di Agathe, sorella dell’uomo senza qualità17.

È accaduto, insomma, che la forma ha irretito il lettore e che quel che poteva a tutta prima sembrare un limite stilistico e una difficoltà si risolve in una narrazione avvolgente che prende per mano il lettore e lo trasporta in Cacanìa.

Il fatto che Bazlen abbia un conto aperto col problema della forma si può vedere in vari luoghi e in diverse contestualizzazioni. Nel suo Antiulisse, per esempio, il non-autore appunta un riferimento alla forma e al suo possibile sviluppo che riporto perché inserisce nella creazione gli importanti concetti di durata e di disgregazione:

Verso il culmine – il fatto che ogni forma, nella sua suprema possibilità di compimento, dura solo un secondo – l’ininterrottamente creativo – ma questo è impossibile, perché la forma sorge dal caos – e così la disgregazione, che fa parte del fatto che nasca una nuova forma –

Solo chi accetta la disgregazione è creativo, c’è anche la creatività del negativo – è dell’uomo potere non far nulla, arte di non dilazionare la morte –18.

Se la forma ha origine comunque sempre dal caos, creazione non è solo dare forma a un caos preesistente, ma è innanzitutto accettare la disgregazione di tutte le cose, osservandola: esiste infatti una creatività del negativo che si raggiunge estaticamente attraverso un atto di rinuncia, proprio perché è dell’uomo poter non far nulla.

Così, «La forma è il polo opposto del caos, non il definitivo superamento del caos. Equivoco dell’estetica europea del classicismo. L’artista classico crea la morte eterna»19. Voler mantenere la forma inchiodandola alla sua fissità contraddice la vita nella sua essenza attuale, nella sua varietà inafferrabile, posto che la forma non supera il caos ma ne definisce in altro modo l’essenza. Ampliare la forma: pare essere questo il compito che Bazlen si prefigge nella sua ricerca e lo fa cercando la qualità dell’espressione che rinnova ogni volta la visuale da cui leggere le storie o interpretare il mondo. Appena oltre si legge: «Che il prendere coscienza è nuova creazione e non opera di scavo e risveglio: viene data forma a una non-forma (e non a una forma ignota latente in noi)»20.

È sempre una presa di coscienza che abbraccia l’architettura delle cose e la reinterpreta, significa abbastanza cambiare il sistema percettivo, la modalità stessa con cui riceviamo e rielaboriamo le informazioni dall’esterno. Vedere tutto con un colpo d’occhio e rielaborare la visione personalizzandola per poterla ri-creare. Occorre trovare un accordo con se stessi, occorre smentirsi per fare di sé recettori sistematici dell’informale che è fuori da noi. Non è un problema di possesso, tuttavia. Termini come possesso, appropriazione, conquista non fanno parte (non debbono far parte) del linguaggio della creatività. Si tratta, infatti, di partecipazione, di fusione.

Ancora: «Ulisse non crea ordine, crea direzione – perciò da tanto tempo gli intellettuali vivono seguendo una linea chiara – ma la linea chiara è nel caos… (Croce e i suoi contadini)»21. Questa continuità degli intenti, questo processo di aggregazione e disgregazione, questo continuo rigenerarsi della letteratura che segue e smentisce la logica del precursore, vale a dire di chi ha pensato e scritto prima di noi, vengono espressi egregiamente in una delle frasi caustiche, di grande intensità, in cui Bazlen con un paio di colpi concentra una visione globale: «Non abbiamo modelli, abbiamo solo precursori»22.

L’occhio percepisce l’interno come l’esterno e così sussume lo spazio, divenendone parte cosciente, recettiva, appunto. L’elemento dell’immaginazione e quello della visione spaziale agiscono in questa confusione e rigenerano il percepito nel momento in cui lo reinterpretano. Creatività è questa invenzione che non può fare a meno dell’ipostasi del già creato o del già detto, che può disconoscere il paradigma (o peggio, il canone!) ma solo dopo averlo imparato. La primavoltità in questo senso è (anche) un disimparare. Introiettare l’opera per rideterminarla, rivederla per smussarne le angolature, per rifarne i contenuti. Occorre che ci sia un’attività di frantumazione cosciente del senso delle cose, una frantumazione e una riproposizione dello spazio aperto dell’opera, un riposizionamento dei valori refrattario al modello ma in distorta continuità col passato. Ecco cosa scrive a proposito di Carlo Levi:

solo dove c’è scelta, c’è arte – cioè dove domina la resistenza, o il dubbio – che per influsso dell’uomo qualcosa diventi qualcos’altro, che dove dominava una legge naturale, per mezzo di un filtraggio attraverso l’uomo si sviluppi un’altra legge – l’artista che viene spinto da ragioni inconsce a dare forma coscientemente all’inconscio – tutto il resto è burocrazia, programma, vanità –

Presentando l’opera di Dorner, Ueberwindung der «Kunst»23, a Luciano Foà24, se ne dice addirittura entusiasta, per il metodo astorico adottato dall’autore, il quale sostanzialmente afferma la progressiva dismissione delle idee eterne che si riducono a «forze spirituali determinanti eterne», e aggiunge, col tono di chi si scusa di essere scaduto nel personalismo:

ho un conto personale troppo aperto con la arte e il amore e i valori eterni e tutto il resto per poter giudicare con imparzialità. Non che abbia perso la testa: sono idee che sono nell’aria (anche se i Kunstgeschichtler (storici dell’arte) non ne sanno niente, per sapere dell’aria bisogna saper respirare) (…)25.

L’attacco agli storici dell’arte e più in generale all’idea che si possano canonizzare e definire grammaticalmente anche le correnti artistiche viene condotto nel nome di una libera creatività che vede nell’arte un flusso ininterrotto e non interrompibile. Respirare è l’imperativo, assorbire senza definire, lasciarsi trasportare dall’occhio e dall’orecchio, far parte del tutto senza per forza giudicarlo.

Dalla lettura di Blanchot uscirà fuori questo concetto dell’artista come di colui che sceglie anche al di là dei cosiddetti valori eterni e dell’arte come potenza che scardina la notte. Euridice è la tensione-verso, ma l’opera di Orfeo, dell’artista, non consiste semplicemente nel raggiungere quel punto ma consiste nel portarlo alla luce dandogli una forma, nello spingere lo sguardo oltre, osando l’inosabile.

La sostanziale impossibilità della parola di rendere il suo oggetto rende indefinito lo spazio letterario ma allo stesso tempo annulla il ruolo attivo dell’autore e destabilizza il lettore. Bazlen nota come L’Espace littéraire di Blanchot tenda tutto verso il capitolo intitolato Lo sguardo di Orfeo, presente nella parte quinta del volume: nella sua recensione editoriale al testo, pur muovendo da un’iniziale perplessità nei confronti del suo autore, così scrive a Luciano Foà, sostanzialmente consigliandone la pubblicazione per Einaudi:

E mi sono trovato davanti a sei pagine stupende, scritte non al di qua né al di là ma sullo spartiacque, dove la paradossalità inafferrabile del rapporto artista-opera è espressa come non l’ho trovata espressa mai26.

Ed è proprio questa paradossalità inafferrabile, per cui la profondità si rivela in quella grande dissimulazione che è l’opera stessa, il punto focale di una mancanza, di una scelta contrassegnata dalla sostanziale noluntas nei confronti della scrittura e dei suoi effetti. Perché, se è vero che i libri crescono e divengono nel giudizio degli altri, è anche vero che il rifiuto di quel giudizio sostiene la purezza ideale del fare, ossia dello scrivere. Lo scrivere diventa atto che si consuma in sé, che trova in se stesso la propria motivazione e la misconosce, dimenticando l’opera. Chi sceglie di guardare dimentica l’opera.

Questo leggiamo in Blanchot:

L’opera di Orfeo non consiste tuttavia nell’assicurare l’avvicinamento a questo “punto” scendendo verso la profondità. La sua opera è di riportarlo al giorno e di dargli, nel giorno, forma, figura e realtà. Orfeo può tutto, fuorché guardare in faccia questo “punto”, fuorché guardare il centro della notte nella notte. Può scendere verso esso, può, con potere ancora più forte, attirarlo a sé, e, con sé, attirarlo verso l’alto, ma distogliendosene. (…) Ma Orfeo, nella sua migrazione, dimentica l’opera che deve compiere, e la dimentica necessariamente, perché l’esigenza ultima del suo movimento non è di dare vita a un’opera ma nel fatto che qualcuno stia dinanzi a questo “punto”, ne colga l’essenza, dove essa appare, dove è essenziale ed essenzialmente apparenza: dentro la notte.

Il mito greco dice: si può produrre un’opera solo se l’esperienza smisurata della profondità – esperienza che i Greci riconoscono necessaria all’opera, e in cui l’opera è a prova della sua dismisura – non è perseguita per se stessa. La profondità non si consegna apertamente, e si rivela soltanto dissimulandosi nell’opera27.

Come se Bazlen con la sua sostanziale rinuncia a essere pubblicato, non a scrivere, stia egli stesso sullo spartiacque, non definisca l’opera e si sospenda come artista (o come letterato), interrompendo di fatto quella paradossalità e inaugurandone un’altra: non lo scrittore che non scrive ma quello che non dà forma compiuta alla sua scrittura, non la definisce e in questo senso non la sfinisce, la mantiene viva. L’in progress della scrittura realizzato attraverso la sostanziale negazione di uno dei suoi aspetti, perché scrivere nasconde sempre una difficoltà28.

Verrebbe da dire che, alla maniera dell’amato Bernhard, Bazlen pensi che la personalità sia estesa e si costruisca in ogni istante attraverso qualunque tipologia di esperienza. Questo è il suo rapporto coi libri, con la loro evidenza semantica, con uno spazio letterario che proprio in tal modo si allarga svelandosi, e tale è la prospettiva da lui seguita, quella dei libri unici, che contengono da soli il mondo. Ma questo è il senso delle esperienze del Capitano di lungo corso, romanzo aperto e incompiuto (aperto perché incompiuto?).

L’abalietà di Bazlen si può scorgere anche nel protagonista del romanzo, il Capitano, la cui cifra è la solitudine. Il romanzo è la storia di questa solitudine che si determina progressivamente attraverso varie avventure e tutta una serie di incontri. Del Capitano e degli altri protagonisti casuali non viene mai detto il nome, a indicare una distanza mitica, a significare la distanza dei personaggi dall’autore, il fatto che essi non arrivino a consistere psicologicamente ma stiano alla stregua di immagini o di figure. L’impressione è quella di leggere attraverso un vetro, come se non ci fosse piena adesione, in un distacco che è esso stesso una forma estrema di consapevolezza.

Il rapporto contrastato fra il Capitano e la moglie, la loro progressiva mancanza di tenerezza fino al reciproco allontanamento, sono causati all’inizio da un paio di pantaloni rossi che il Capitano accetta con indolenza salvo poi dimenticare perfino di indossarli. La moglie gli diventa estranea e i suoi baci non profumano più29, per cui il Capitano sceglie di stare in mare ancora più a lungo. Lei, dal canto suo, sentendosi ignorata, abbandona i doveri, comincia a frequentare la taverna del porto e stringe amicizia col Monocolo, col Butterato e infine con Gambadilegno che ne diverrà l’amante. È una sorta di progressiva discesa agli inferi dell’abbandono, quella della moglie, che, a poco a poco, nella perdizione riscoprirà se stessa. Il rifiuto dei pantaloni, piccolo gesto, s’ingigantisce nell’immaginario tanto che le avventure successive del Capitano, gli incontri con le Sirene, la descrizione della Balena, il dialogo con la fanciulla del Bosco, l’incontro con l’Orientale, il naufragio finale vengono fatti dipendere dal quel gesto:

Era tutto ovvio e consequenziale, lo aveva saputo sempre, sempre, e lo aveva anche voluto, quella volta, quando aveva rifiutato i pantaloni rossi – quello era stato il primo atto di preparazione al naufragio – quanto indietro bisogna risalire, la metà di una vita con sofferenza e odio e sogni e lavoro e orgoglio, attraverso quante case bisogna passare per arrivare a un bel naufragio plausibile, elaborato, curato (…)30.

Il viaggio che a volte pare presentarsi come un cammino di iniziazione, in realtà, non porta a niente, oppure conduce al naufragio, che è lotta e rinuncia assieme, abbandono e fallimento e forza e rinascita. Si viaggia per viaggiare, non c’è scopo, non c’è causa che non sia quella progressione attraverso cui si finisce per scoprire – o per coprire – se stessi. Il bel naufragio plausibile viene inseguito attraverso il racconto di avventure implausibili o fantastiche in un’atmosfera quasi di sogno, comunque poco reale. In una delle bellissime Lettere editoriali a Luciano Foà, datata 17 giugno 1957, a commento di Die Dämonon di Doderer, testo che verrà stampato in italiano dalla casa editrice Einaudi solo nel 1979, Bazlen scrive testualmente:

Per cavarmela con poche parole (so che è inesatto) ammettiamo che Substanz e Leistung siano divisibili: si potrebbe allora dire che mentre in certi buoni scrittori di buona sostanza: (Thomas Mann, in parte anche Joyce) la Leistung diventa sostanza, in Doderer invece non serve ad altro che a nascondere, a mascherare una mancanza di sostanza assoluta, il vuoto puro31.

Con Leistung Bazlen intende la prestazione. È possibile utilizzare quella che, a mio avviso, è una dichiarazione di poetica (negli scritti di Bazlen pubblicati la poetica nasce quasi sempre dalla critica) per comprendere meglio l’impostazione del romanzo.

La Leistung è nel simbolico, nel velato, nelle atmosfere che contrassegnano ogni momento del racconto. La Substanz del romanzo sono le avventure, il rapporto contrastato con la moglie, gli incontri e le scoperte meravigliose, ma l’indifferenza anaffettiva, se mi si passa il termine, con cui il Capitano affronta le propria esistenza segna tra lui e il mondo una distanza che è, a un tempo, Leistung e Substanz. Potremmo dire dunque che, in un gioco prospettico, nel Capitano di lungo corso la prestazione supplisce all’assenza di sostanza e la sostanza supplisce all’assenza di prestazione.

Nella sua Prefazione a Svevo32, una critica ai critici e alla loro grassa e scontata canonicità può servire a inquadrare le scelte stilistiche di Bobi nel suo romanzo:

Un mondo dunque già completamente levigato, senza avventurieri e pionieri della cultura; ‘il problema’ risolto apriori, nessuna necessità che sorga il rivoluzionario delle forme, tutto già conseguenza logica di logiche conseguenze, ogni gesto indiscutibile e accettato in pieno, che si stacca senza dissonanze da uno sfondo pure accettato in pieno, mai la sensazione della mancanza di ‘copertura’ fra gesto, parola e ambiente, per cui al letterato italiano non rimane che un gioco quasi completamente combinatorio, versare in combinazioni indifferenti, vecchi sentimenti in vecchie forme, e continuare a polire, levigar, affinare una parola e una cadenza già troppo affinata attraverso il filtro di dozzine di generazioni33.

La Leistung in Svevo è nella ricerca di una forma non convenzionale. L’autore non è stato capito a causa di questa sua ricerca e delle supposte imperfezioni della sua lingua, ma ciò che non è stato capito di Svevo è la sua modernità, il suo essere oltre, l’aver trovato quel lato innovativo e proficuo che mancava alla letteratura italiana. Quando Bazlen scopre Svevo, infatti, in lui vede qualcosa che la distrazione crociana dei critici letterari non aveva scorto, e, nel momento in cui ne parla a Montale e quando abbozza la sua critica al grande concittadino, come in una dichiarazione di poetica, spiega come mai un autore simile rappresenti una prima volta nella nostra letteratura agée34. I critici italiani vengono, allora, visti come sentinelle neofobiche che uniformano al loro gusto tutto quel che si presenta minimamente come nuovo e dunque impediscono la novità della forma frenando qualsiasi autentica creatività.

Quando il Capitano sceglie di passare dalla teoria all’azione e annuncia all’equipaggio la propria volontà di un grande viaggio mai tentato prima (pp. 49 e sgg.), abbandona la lettura del Libro Sacro e delle vie della rivelazione e sceglie l’azione, andando nientemeno che a caccia di Sirene, come un moderno Ulisse. Sceglie qualcosa di mai tentato prima, una nuova esistenza pericolosa e viva. Il Capitano spinge la nave al confine e arriva a sentire il canto delle Sirene, prima del naufragio35. È come se in tutto il romanzo Bazlen giocasse a mostrare l’assenza conducendo per mano il potenziale lettore verso uno spaesamento da libro unico. Il tono quasi sempre favolistico fa il resto, tanto che si rimane irretiti dalla trama (o dalla sua assenza). Questo accade perché Il Capitano di lungo corso è un romanzo di simboli, di discese e di risalite, di inizi e trasformazioni, di rimandi e di intenzioni. Ogni luogo, ciascuna situazione si presentano come la costruzione di un percorso in cui l’elemento mitico ha, per così dire, una spiegazione afferente alla quotidianità e il simbolico, nella quotidianità, perde apparentemente la propria aura.

Analizzeremo di seguito alcuni dei simboli e dei luoghi presenti nel romanzo, in particolare la balena, il mare e il naufragio, le sirene, la città grigia, rappresentandoceli come la costruzione di un percorso che sembra avere come proprio punto di riferimento lo Stirb und werde, il Muori e diventa così caro alla psicanalisi bernhardiana. Si tratta di «un morire e diventare, ma senza trasformazione!»36.

Il mare è il luogo in cui questo accade. Il mare è prodromico al naufragio, la prima fase delle avventure del Capitano si conclude con un naufragio che introduce a una nuova vita. Negli appunti del Quaderno B, Bazlen scrive: «Vive la morte per acqua… poi portato dalla corrente»37.

Io non so se, come sostiene Giulia de Savorgnani38, nel capitolo sulla Balena, in tedesco intitolato Walfish, sia riconoscibile l’influsso di Jung, e soprattutto la sua teoria sull’«inconscio» collettivo. Né in che senso, nella pancia della balena, il Capitano compia un viaggio escatologico né in quale modo l’avventura, raccontata al pubblico di una taverna dal nostro eroe ubriaco, richiami alla mente il topos letterario della Nekyia, della discesa nell’Ade. Se Catabasi c’è, essa viene resa con tono parodistico: dalla balena si viene sputati, si scivola fuori e si viene sputati. Anche il mondo, dice il Capitano «sarà sputato fuori»39. Da cosa? Non c’è la morte in senso fisico, ma la morte è rinascita, rinnovamento e possibilità di un nuovo inizio. I capitoli sulla figlia del Borgomastro sono questo inizio, un recupero della quotidianità perduta, col mare alle spalle. Ma non c’è resurrezione per il Capitano senza la speranza, la sconfinata speranza del mare, senza la sua forza oscena e complice.

La vita in città viene attaccata e, negli appunti intitolati La Città Grigia, gli uomini sono grigi in quanto le istituzioni borghesi ne sfiniscono qualsivoglia innovazione; abitano una forma completa e ripetitiva che non ammette scarti. Per questo il Capitano è destinato a partire, perciò il suo percorso non può compiersi, perché il suo è lo sguardo di chi va oltre e non accetta la scontatezza del presente. Egli nel mare trova sempre quell’assenza di limiti che lo ispira. Nel Quaderno E, negli appunti intitolati Antiulisse, un inciso è rivelatore, «la meta si forma vivendo»40, che, se da un lato ricorda il più prosaico ungarettiano «la morte si sconta vivendo», dall’altro è il migliore commento alle avventure del Capitano, alla sua costruzione di un percorso. Ed ecco che il cammino descritto appare più chiaro: da un iniziale e inesorabile allontanamento per acqua, dalle scoperte alla lettura del Libro Sacro con le sue sette vie, dal naufragio al ritorno alla vita, si rivela al protagonista la bellezza pura dell’andare. La sua volontà non specifica il proprio oggetto e, tuttavia, vuole. Così il Capitano attraversa la distanza, la copre, la costruisce col suo equipaggio di cui conosciamo solo il Mozzo e il Timoniere. Il suo andare lo porterà alle Sirene, il cui canto non ammalia: esse sono espressione di tipi femminili. La prima Sirena, oltre al bacio, promette un appartamento con riscaldamento centralizzato; una si presenta come indomabile (e indomita), la bella gli chiede un appuntamento; la falsa magra, materna, lo coccola; la pratica gli dichiara di saper far tutto «anche stenografare», la Sirena regale abbandona chi non è al suo livello, una ha ottanta anni, la Sirena bambina vuole la mano e vuole che il Capitano le spieghi il mondo, una dipinge l’inconscio (e prende il pullover dalla tintoria), un’altra rinnega il padre e la madre, una è comunista e reca in sé segni di inquietudine sessuale; una, sedicenne, è viziosa; l’altra, «grassa e volgare»41. Solo dopo queste conoscenze, dopo, cioè, aver scrutato il limite, il Capitano può naufragare e incontrare la Balena. La nuova vita è per acqua: il naufragio gli restituisce la libertà.

Ci si poteva aspettare, adesso, grandi rivolgimenti nella sua coscienza, ma non ce n’era traccia. Forse la grande metamorfosi consisteva solo nel fatto che lui era tutto un dolore fisico trapassato da schegge di coscienza42.

È il suo corpo a subire il dolore e il corpo reagisce nuotando fino allo sfinimento. Il suo corpo supera la crisi e lo proietta fuori dal mare, oltre la coscienza, oltre la volontà. Il perché di quanto accade lo troviamo in un appunto del Quaderno B: «Per gli uomini dell’inferno valgono le leggi dell’inferno – per gli uomini della trasformazione valgono le leggi della trasformazione»43.

Il simbolico presente nel libro può ingenerare interpretazioni equivoche. Se, come vorrebbero molti esegeti, esso consente un gioco di rimandi pressoché infinito, perché non interpretare il passaggio del Capitano alla Città Grigia col termine heideggeriano di Deiezione (Verfallen), significando con questo la caduta del Capitano (dell’Esserci) nella banalità e nell’inautenticità del quotidiano? Quando approda all’Isola, prima, e alla Città Grigia, dopo, il Capitano scopre che è sbagliata tutta la vita sulla terra. Anche questi frammenti raccontano di una liberazione, di un «muori e diventa»: «Ho vissuto la loro vita, devo proprio avere avuto una cattiva coscienza e così ho vissuto la loro vita, ora li posso disprezzare con buona coscienza» e questo finché non «venne lo splendido giorno in cui non aveva fatto nessuno dei suoi doveri»44, unico vivo in mezzo ai morti.

«(…) il Capitano era vicino alla morte, ma era tremendamente colto», scrive Bazlen, e pare dialogare a distanza con Valéry quando aveva affermato:

è difficile e duro essere ciò che si è, ˗ non essere ciò che si vorrebbe essere. – Duro soprattutto per le persone «colte». (…) Ogni «grand’uomo» non è mai se stesso – ma è riuscito a plasmarsi su un modello o su un metro dato.

Ciò che è se stesso, il suo «genio» – è precisamente quel potere di ricostruirsi e non già ciò che fu e ancor meno ciò che è finalmente diventato45.

Così il triestino:

ma i poeti sospetti sono grandi perché riconoscono la grandezza, non si tratta forse di dominare ciò che è grande? Ulisse, dove finisce il dominare e dove comincia il sopraffare con l’astuzia – soluzioni, la morte non è una soluzione, è solo una fine della nostra lamentevole arte, è la liberazione verso una quiete meschina, ma non per questo nuotava il Capitano, soltanto perché i suoi muscoli continuavano a nuotare – le liberazioni non sono sempre delle soluzioni…46.

Anche il romanzo è, dunque, un sostanziale negarsi all’opera che può essere inteso come una dichiarazione d’indipendenza e di libertà ma che è soprattutto un nuovo modo, inedito, d’intendere l’autorialità. La modernità di tale atteggiamento considera la vita e il testo disseminati di possibilità che vanno oltre l’intenzione dell’autore, ma che sono unici in rapporto a se stessi, a ciò che è stato scritto prima, a quel che è stato letto per come è stato letto. Nei vari quaderni di appunti ci sono le possibilità del Capitano, gli ancora prima della scrittura, le intenzioni che non si concretizzano o che sono soggette a più rifacimenti, le esitazioni, le mancate interazioni, i disegni e i progetti, perciò il Capitano naufraga e non naufraga, vuol fuggire e rimane, sposa e non sposa la Fanciulla del Bosco o la figlia del Borgomastro, distrugge il ricordo della moglie e la desidera, non muore e «vive la morte per smembramento»47. Perciò, «Gli restano il pensiero nuovo. E i sette sentieri della liberazione»48.

In Bobi Bazlen, dunque, non mai è un problema solo di scrittura in senso classico, ma di “spazio della scrittura”49, realizzato attraverso la ricerca di un pensiero nuovo. La scrittura viene intesa come oggetto, spazio fisico e visivo, come mezzo che permette di vedere e di essere. Come se si assistesse a un’estensione di questo spazio alla vita, alla sua fragorosa insignificanza e in questa estensione l’opera scritta da altri acquisisse un suo statuto particolare diventando materia di una nuova globale composizione.

Se lo spazio è enorme, in quanto oltre alla scrittura in senso tradizionale riguarda tutto ciò che esiste, l’autore è sempre sulla soglia del detto, in una sorta di esistenza limbica ipertestuale. In questo senso, nel tentativo cioè di oltrepassare la soglia dei significati, di essere al di là delle intenzioni dell’autore, anche il lavoro del critico è autorale e abbisogna del testo e del contesto. Bazlen, in altre parole, costruisce una rete tesa ad azzerare (o a diminuire) la distanza fenomenologica tra il lettore/i lettori, l’editore e l’autore. Se per Barthes la testualità è aperta e si presenta come un mondo da scoprire indefinitamente grazie anche a una riorganizzazione del testo50, l’estensione di fatto sostenuta da Bazlen comporta, a mio avviso, un’apertura che è nelle cose, nell’esistenza e nei libri, più che nell’organizzazione del testo. Considerare il libro come l’esistenza, un universo aperto, con tanto di avviso ai naviganti a lasciarsi andare e riconoscere il fascino sfacciato della sfaccettata realtà, non vuol dire (o non solo) considerarlo, alla maniera di Foucault, un «meccanismo di rimandi»51, ma vuol dire tirarne fuori la sua unicità e la sua primavoltità. Quando Bazlen scrive sul Quaderno P «L’unico valore è la primavoltità»52, dichiara di cercare la novità assoluta (o relativa) del testo rispetto a ciò che è stato diffuso fino ad allora, oppure, in relazione all’autore, la prima volta di una strada, di un’apertura, di una ricerca di senso, di uno scarto o di uno spaesamento.

  1. R. Bazlen, Scritti, a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1984, p. 144. Le carte sono state pubblicate e tradotte dal tedesco, lingua preferita dal triestino, dallo stesso Calasso. Il libro comprende Il Capitano di lungo corso, pubblicato per la prima volta nel 1973, Note senza testo, nel 1970, Lettere editoriali, uscite nel 1968 con una nota di Sergio Solmi, Lettere a Montale, apparse nel 1984.
  2. Si tratta di Manoscritto di Fabrizio Onofri che è del 1948, di L’orologio di Carlo Levi che è del 1950, di Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice del 1983 e Giacomino di Antonio Debenedetti del 1994.
  3. Mi pare che il recente libro della Battocletti su Bazlen pecchi qua e là di questa tentazione agiografica, che esalta e giustifica spesso, laddove dovrebbe limitarsi meno prosaicamente a raccontare. La Battocletti ha il proprio eroe e lo tutela contro ogni intromissione: cfr. C. Battocletti, Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, Milano, La Nave di Teseo, 2017.
  4. La definizione si deve a Massimo Gatta, Il raffinato Bartleby dell’editoria italiana, in «La Biblioteca di via Senato», a. VII, n. 11/66, nov. 2015, pp. 12-21.
  5. Così R. Damiani, Roberto Bazlen scrittore di nessun libro, in «Studi Novecenteschi», vol. 14, n. 33, giugno 1987, pp. 73-91: «Da questa immobilità, spaziante sui mondi possibili, egli mise in moto, quasi senza far nulla, e non lasciando che qualche inevitabile traccia, tutta una cultura, che si è rivelata infine come una vena aurifera del Novecento italiano» (p. 73).
  6. M. La Ferla, Diritto al silenzio, Palermo, Sellerio, 1994, p. 85.
  7. E. Montale, Variazioni, in «Corriere della Sera», 9 marzo 1969.
  8. In una lettera a Rossana Bettarini così scrive Gerti Frankl, allora coniugata con Carlo Tolazzi: «Dora Markus Montale non ha mai incontrato», in Contributi di Rosanna Bettarini, Gianfranco Contini, Dante Isella e Giorgio Zampa, «Antologia Viesseux», 64, ottobre-dicembre 1981, p. 19. In una delle Lettere a Montale, datata 25 settembre 1928, in Scritti, p. 381, leggiamo: «GERTI e CARLO: Bene. A Trieste, loro ospite, un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama DORA MARKUS. –». In Dora Markus potrebbero convergere, tuttavia, le figure femminili di Dora, Gerti e Clizia. Cfr. G. De Savorgnani, Bobi Bazlen. Sotto il segno di Mercurio, Trieste, Lint, 1998, p. 51.
  9. Si scrive per se stessi e per estranei, affermava Gertrude Stein. H. Bloom, Il canone Occidentale, Milano, Bompiani, 2005 (I ed. 1994), p. 32, giocando a estendere l’affermazione scrive: «Si legge per se stessi e per estranei». Ma, se il pallino del grande critico statunitense è il canone con tutte le sue sfumature e i suoi addenda, per Bazlen è piuttosto vero che si legge per se stessi e per gli estranei ma seguendo un criterio sostanzialmente anticanonico.
  10. Per le notizie sulla nascita di Adelphi e sull’apporto decisivo di Bobi Bazlen si veda V. Riboli, Roberto Bazlen editore nascosto, prefazione di G. de Savorgnani, 2013 (cfr. edoc.site_roberto-bazlen-editore-nascosto-defpdf.pdf, pp. 303 e sgg.); si veda anche il fondamentale AA.VV., Adelphi. Editoria dall’altra parte, Roma, Oblique studio, 2016 (rs_adelphi_ott16.pdf).
  11. R. Bazlen, Scritti, op. cit., p. 203. Si tratta del Quaderno E.
  12. A. Rimbaud, Opere, a cura di D. Grange Fiori, Milano, Mondadori, 1992, p. 450, lettera a Georges Izambard, Charleville, 13 maggio 1871. La frase viene usata più volte da Rimbaud, per esempio nella cosiddetta Lettera del Veggente a Paul Demeny, il successivo 15 maggio, p. 452. Se appare, dunque, vero che “Io è un altro” per Bazlen appare parimenti vero, parafrasando Lyotard, che «il sé è poco»: F. Lyotard, Il postmoderno, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 32. Sta in questo, a mio avviso, il senso della sua abalietà.
  13. R. Calasso, Da un punto vuoto, introduzione a R. Bazlen, Scritti, op. cit., p. 18.
  14. La suggestione la prendo da P. Valery, Cahiers, a cura di J. Robinson-Valéry, Paris, Gallimard, 1973; trad. it. Quaderni I, a cura di R. Guarini, Milano, Adelphi, 2017 (I ed. 1985), p. 21: «Io stimo, soprattutto, le menti disgiuntive».
  15. Cfr. R. Bazlen, Scritti, op. cit., pp. 211, 212, 216.
  16. Ivi, p. 273.
  17. Ivi, p. 278.
  18. Ivi, p. 212: corsivo mio.
  19. Ivi, p. 188.
  20. Ivi, p. 190.
  21. Ivi, p. 213.
  22. Ivi, p. 229.
  23. L’opera dal titolo Il superamento dell’«arte» verrà pubblicata da Adelphi nel 1964 con la traduzione di Enrico Fubini e Luciano Fabbri.
  24. Sui rapporti con Luciano Foà si veda G. De Savorgnani, Bobi Bazlen. Sotto il segno di Mercurio, op. cit., p. 76, il capitolo dedicato a Milano, Roma e dintorni, che riporta la testimonianza rilasciata dallo stesso Foà in Scrisse sempre ma non finì mai…, intervista di G. Ziini a L. F., in «il Piccolo», 14 aprile 1993, p. 4: «(…) distruggendo amabilmente le mie idee che avevano nella politica il loro fulcro, e rivelandosi le sue, che sovvertivano il mio mondo e che a poco a poco trovavano nel mio animo una inaspettata corrispondenza». L’incontro con Foà viene raccontato molto bene da Battocletti, op. cit., p. 155.
  25. R. Bazlen, Scritti, op. cit., p. 304.
  26. Ivi, p. 306. Su Orfeo troviamo nelle Note senza testo due veloci appunti: «ORFEO: non guardare la donna mentre è nell’oltretomba» (p. 177) e «Orfeo/ Euridice: non si può vedere la donna nell’oltretomba – si esce, e lei seguirà» (p. 199).
  27. M. Blanchot, Lo spazio letterario, Milano, Einaudi, 1975, p. 147.
  28. Sulla difficoltà della scrittura si veda la nota a p. 256 a proposito di un articolo su Longanesi, Leo Longanesi, parliamo dell’elefante, in R. Bazlen, Scritti, op. cit., pp. 256-58, in cui viene riportata una lettera del 14 ottobre 1947 all’amico Luciano Foà: «Ero perfino disposto a ‘scrivere’ – e sai quanto mi pesi».
  29. R. Bazlen, Scritti, op. cit., p. 25.
  30. Ivi, pp. 76-77.
  31. Ivi, p. 284.
  32. Cfr. R. Bazlen, Scritti, op. cit., pp. 240-55.
  33. Ivi, p. 241.
  34. Cfr. le pp. 237-41 dei suddetti Scritti.
  35. Cfr. R. Bazlen, Scritti, op. cit., pp. 59-61.
  36. E. Bernhard, Mitobiografia, Milano, Adelphi, 2007 (I ed. 1969), p. 92. Bernhard descrive il «muori e diventa» in altri luoghi della sua opera, mostrando come per lui sia importante nella crescita della personalità. Di Bernhard, psicanalista junghiano, Bazlen – ricordiamo – fu un paziente fedele.
  37. R. Bazlen, Scritti, op. cit., p. 81.
  38. Cfr. G. De Savorgnani, Bobi Bazlen. Sotto il segno di Mercurio, op. cit., p. 162.
  39. R. Bazlen, Scritti, op. cit., p. 65.
  40. Ivi, p. 211.
  41. Ivi, pp. 59-61.
  42. Ivi, p. 72.
  43. Ivi, p. 156.
  44. Ivi, pp. 99-100.
  45. P. Valéry, Quaderni, I, op. cit., p. 359.
  46. R. Bazlen, Scritti, op. cit., p. 75.
  47. Ivi, p. 164.
  48. Ivi, p. 163.
  49. Uso “spazio della scrittura” amplificando il senso della perifrasi presente in J. D. Bolter, Writing Space. The computer, hypertext and the History of Literacy, Hillsdale N.J., Laurence Herlbaum, 1990, trad. it. Lo spazio dello scrivere. Computer, ipertesti e storia della scrittura, a cura di M. Groppo e. I. Graziani, Milano, Vita e pensiero, 1993.
  50. Si veda per esempio l’analisi che il critico compie della novella Sarrasino di H. de Balzac in R. Barthes, S/Z, Paris, Seuil, 1964; trad. it. di Lidia Lonzi, S/Z, Torino, Einaudi, 1970, in cui il racconto è stato suddiviso in 561 “blocchi di significazione” cui corrispondono i 93 blocchi del commento di Barthes.
  51. La definizione è contenuta in M. Foucault, Archeologie du savoir, Paris, Gallimard, 1969, trad. it. L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1980, p. 32.
  52. R. Bazlen, Scritti, op. cit., p. 230.

(fasc. 23, 25 ottobre 2018)