Per lungo tempo è sembrato che la letteratura del nord d’Europa prediligesse solo temi foschi e spaventosi: la follia, la morte, il senso di colpa, il dolore, spesso inscritti all’interno d’un disegno etico e sociale. Sullo sfondo s’ergeva l’eccezionalità della natura pura, incontaminata, matrigna perché indifferente se non proprio ostile ai destini umani, eppure insieme luogo prediletto dello stato d’animo, territorio da esplorare come nella tradizione di Linneo, da indagare persino nelle sue eccezioni più minute, infinitesimali (con il necessario corollario della condizione di solitudine).
Più di recente abbiamo felicemente contribuito, in quanto avidi lettori-consumatori, al successo del genere poliziesco o thriller scandinavo, cioè sempre proveniente da quelle stesse terre fredde e solitarie in cui ancora oggi gli scrittori di una certa età ricordano d’esser cresciuti nelle loro stanze da bambini con le letture della Bibbia, dei drammi di Ibsen, delle fiabe dove i boschi sono abitati da streghe e orsi e lupi, in una sorta di crasi del magico con lo spettrale, dell’ignoto col soprannaturale. Improvvisamente la Scandinavia, luogo di suicidi secondo i nostri più triti stereotipi da statistiche globali, e di disperate inquietudini esistenziali, s’è popolata di delitti, di crimini, di violenze urbane che sancivano, ai nostri occhi, la perdita dell’innocenza in civiltà considerate al contrario d’eccellenza nelle democrazie occidentali. La loro letteratura si è riempita di storie in cui, grazie alla potenza della ratio, l’investigatore è in grado di rimettere a posto le cose, di dare un senso all’esplosione del male e stabilire i presupposti per una futura punizione dei colpevoli, restituendo in questo modo alla società il proprio ordine morale perduto. Questa massiccia produzione di romanzi di genere forse ha riconfigurato, talvolta depotenziandolo in un senso molto più tranquillizzante, il conflitto tra tenebra e luce che era stato motivo di fondo della letteratura scandinava considerata più alta e impegnata ˗ e in parte è tuttora tema fondante di alcuni dei suoi autori più significativi quali, ad esempio, Per Olov Enquist o Lars Gustafsson. Siamo stati svezzati dal duo Maj Sjöwal e Per Wahlöö, pionieri del giallo sociale svedese1, entrando nello spirito di un gruppo di agenti di Stoccolma capitanati da Martin Beck, il cui disgusto per la vita ci è apparso fin da subito quasi proverbiale; famigliare è poi divenuta per noi la depressione compulsiva del commissario Kurt Wallander, magistralmente raccontato da Henning Mankell2; infine, è arrivata la trilogia di Stig Larsson3, e un’eroina antisistema come Lisbeth Salander, che non poteva che attrarre i nuovi lettori forti nati all’interno soprattutto del pubblico femminile. Poco dopo o in contemporanea, una valanga di autori norvegesi, svedesi, danesi, finlandesi ci ha sommerso di investigatori e investigatrici spesso outsider ma non sempre solitari, immersi nella routine della vita quotidiana ma in grado di scoperchiare la faccia nascosta del potere o della civiltà democratica, emblemi essi stessi della ragione più che della giustizia, e le cui azioni contengono un intento engagèe, da denuncia sociale (il femminicidio, il razzismo, la rinascita di movimenti filonazisti nel nord dell’Europa, la xenofobia, la questione della migrazione ecc.). Proprio quando già si faceva strada l’accusa per gli scrittori scandinavi d’essere passati da fenomeno letterario a cliché ripetitivo del genere poliziesco, ecco che il nostro mercato editoriale ha dovuto registrare però una nuova sorpresa letteraria nordica, avvincente anch’essa e ricca di possibili richiami alla tradizione, cioè la presenza d’una variegata, quanto imprevista, sicuramente divertente, letteratura umoristica: tra i ghiacci lassù, insomma, si ride (e si ride per iscritto).
Qualche tempo fa, in un articolo sul «País» dal titolo Risas gélidas4, Javier Martin faceva notare come il Nord e il Sud si fossero scambiati di posto; a causa della crisi economica che attanaglia e impoverisce tutti noi europei mediterranei da lungo tempo, il Sud si mostra più melanconico e meditativo, mentre il Nord è divenuto terra di omicidi e grasse risate.
In Italia l’alloro di scrittore feticcio seguito da un gran numero di lettori per le sue storie così deliziosamente naif, in un senso quasi sovversivo, dissacrante (e di liberazione dalle costrizioni di una severa morale sociale), se l’è conquistato da più di un decennio Arto Paasilinna, forte delle oltre 350 mila copie vendute con i suoi libri da Iperborea. Ci avevano detto che con l’avvento del luteranesimo nel Cinquecento erano stati banditi le immagini e il riso, e poi, da un avamposto ai confini con la Lapponia, la natìa Kittilä (1942), piovono storie surreali che ci fanno omericamente sghignazzare e in cui è l’ironia e non il dogma dell’ideologia a indicarci la via dell’utopia.
In più di un’occasione Paasilinna ha rivelato le avventurose quanto drammatiche circostanze della sua nascita, in fuga con gli altri fratelli e sorelle su di un camion ai confini delle terre dei Sami, negli anni del conflitto tra l’impero sovietico e la Repubblica finlandese, come a voler stabilire una consequenzialità, un’interdipendenza di fatto, per cui biografia e contesti letterari si sarebbero influenzati vicendevolmente. L’elogio della fuga, il parteggiare in un modo incondizionato per i tanti disertori della cosiddetta civiltà che imperversano nelle sue storie, è certamente l’epitome del suo mondo narrativo, sempre declinato in un accurato miscuglio di humour e sarcasmo che cattura o ammicca, furbescamente, alla nostra intelligenza. La chiave per accedervi risiede proprio nella volontà di giocare con uno dei desideri collettivi più ricorrenti, e resistenti, tra noi poveri esseri umani, cioè l’appagante fantasticheria di poter ricominciare la propria esistenza altrove, la ricerca di un luogo ideale in cui vivere una diversa identità finalmente liberi dalle imposizioni culturali e religiose della società cristiana nordoccidentale (o dalle nostre scelte che ne hanno eseguito gli ordini) – e, in un orizzonte finnico, anche dalla rigidità dei costumi e dalla morale tipicamente protestante (così visceralmente attratta, però, da una seconda anima, quella slava, presente non fuori dai territori ma internamente, nel dna, nella mente, nel cuore, assai perturbante e irrazionale, come faceva notare un giorno a chi scrive, nel suo bar di Helsinki, il regista Mika Kaurismäki).
Ciascuna delle novelle di Paasilinna, come a lui stesso piace definire i propri romanzi in una forse volontaria confusione tra il concetto di freschezza, l’idea di un rinnovamento delle trame e il riferimento a un genere tramontato, è attraversata da una vena utopica in cui alla fuga come condizione esistenziale dei protagonisti corrisponde la volontà di costruire un ordine più umano, secondo le regole del buon senso e del vivere comune, mai specificatamente in solitudine ma con tutti quelli che ci stanno. Gli improbabili incroci affettivi che prendono corpo nei suoi libri, curiose amicizie come quelle tra un vecchio agrimensore e un tassista, un gangster e un maggiore dell’esercito alcolizzato, un giornalista e una lepre ferita che diventa bianca d’inverno o ancora un cucciolo di orso e il pastore che decide di allevarlo in casa fino a quando non si scambiano i ruoli (il primo sempre più inserito nei contesti sociali, l’altro sempre più selvaggio e solitario), appagano certo il godimento del lettore, lo solleticano e lo invogliano a continuare nella storia; soprattutto però servono, in questo vorticoso, surreale, accavallarsi delle coincidenze o stridere dei contrasti, dato dall’improbabilità delle coppie, a sorreggere ogni sua costruzione narrativa, hanno cioè una valenza anche di tecnica letteraria, ripetitiva e per questo essenziale.
Tali binomi sembrano voler certificare per l’appunto l’incrollabile fiducia nelle possibilità di una sovversione ragionevole, insieme illusoria e non violenta, che può attuarsi a patto di saper rinunciare alla vita precedente, con tutto ciò che questo comporta. Di solito i suoi picareschi eroi danno vita a un proprio personalissimo locus amoenus in cui rifugiarsi, il che non determina mai un ritorno rousseauiano allo stato primitivo, ma mescola sapientemente comodità del progresso e rispetto dei luoghi, tecnologia e natura: tutto questo può avvenire all’interno dello spazio non propriamente urbano della Lapponia, considerata dai protagonisti un baluardo difensivo della grande Madre Terra in grado di proteggerli dagli scocciatori che vorrebbero riportarli indietro, alla vita sicura della nostra “superiore civiltà”, che è invece sempre ingombrante e schiacciante: insomma, una sorta di nido materno i cui ruscelli, laghi, boschi di conifere e persino paludi rendono l’individuo libero almeno quanto la società lo corrompe facendolo suo schiavo; ma la rinascita è possibile anche in un altrove meno finnico, ad esempio in isole lontane dalla stupidità commerciale della società dei consumi, più o meno individuabili sulle cartine geografiche, e soprattutto pronte ad accogliere stili di vita improntati alla comunione dei beni e alla felicità collettiva.
Per l’uomo Paasilinna l’anno della sua fuga personale risale più compiutamente al 1975, quando, deluso di sé stesso e annoiato dal suo lavoro, decise di abbandonare il giornalismo dedicandosi in toto alla narrativa, forte anche del successo del libro L’anno della lepre5, storia dissacrante e surreale di un cronista quarantenne, che, inseguendo l’esemplare artico ferito a una zampa, fa perdere le proprie tracce infilandosi beatamente nella foresta e così compiendo un breve viaggio rigenerante alla ricerca della libertà perduta. In un certo senso lo scrittore lappone doveva prima mettere in scena il suo sogno per poterlo poi con calma attuare, eppure il processo di elaborazione deve essere stato assai lungo, se si legge anche Prigionieri del Paradiso6, pubblicato l’anno immediatamente precedente, nel 1974: l’evasione non è qui ancora un atto della volontà dell’intelletto come poi sarà nelle novelle successive, bensì la conseguenza di un evento del tutto casuale. Protagonista è una volta di più un giornalista dall’autostima in picchiata, diretto in Australia per un improbabile reportage sui «più grandi bevitori di birra del mondo», che si imbarca con «infermiere, medici, ostetriche, forestali» scandinavi pagati dall’Onu per avviare un’attività di prevenzione delle nascite nonché, parimenti, un’industria del legno nel subcontinente indiano (due campi in cui notoriamente i nordici tendono ad eccellere). Stracolmo di spirali intrauterine e in balia di una tempesta tropicale, l’aereo compie un ammaraggio su un’isola indonesiana dalla spiaggia bianchissima, circondata da una giungla a prima vista impenetrabile. La masnada di infermiere svedesi e taglialegna finnici non si perde, però, d’animo: dopo un comprensibile periodo di adattamento, in cui emergono discrepanze religiose e conflitti nazionalistici, il gruppo si dà un’organizzazione politica improntata alla socialdemocrazia, e fronteggia l’emergenza del cibo con la consueta praticità nordica, sfruttando le conoscenze scientifiche acquisite nella fase di apprendimento scolastico, o sacrificando la potenza della tecnica moderna allo scopo collettivo della sopravvivenza in un ambiente ostile: ecco allora che i naufraghi usano le spirali come ami da pesca, si ingegnano a legare assieme i giubbotti salvagente per farne un frigorifero e costruiscono infine una confortevole sauna, vero e proprio apogeo della felicità per ogni suo personaggio. Paasilinna si diverte dunque a capovolgere il topos letterario dell’isola deserta fondandovi una società nuova, veramente socialista, secondo le speranze, da lui condivise, dei movimenti rivoluzionari degli anni Settanta; una storia in grado anche di dimostrare, con verve e humour, quanto Hobbes avesse torto nel credere che l’uomo allo stato naturale viva sempre in un’angoscia costante, sotto la minaccia dei suoi simili bramosi di spogliarlo dei propri averi, grazie appunto ad una spartizione equa del lavoro, all’assenza di coercizione e punizioni, alla responsabilizzazione del singolo e alla riduzione ai minimi termini della sicurezza e della sorveglianza. Radicalismo contestatario e ideologia restano a prima vista fuori dalla porta e, mentre il dissenso di una generazione esplodeva nell’Europa occidentale, l’allora quasi ex giornalista ed ex boscaiolo (fu il padre ad insegnargli il mestiere, così ha sempre sostenuto, ammaliando il suo pubblico) cercava di edificare in un suo immaginario altrove un ordine comunitario, dove pur tuttavia in primo luogo spirito e carne fossero strettamente correlati, superando le ipocrisie e le illusioni di una civiltà che si riteneva – e si ritiene tuttora ˗ «liberale».
I superstiti di Prigionieri del Paradiso appaiono propriamente come degli anti Robinson Crosue, si rivelano cioè totalmente privi dell’idea del dominio sugli altri esseri umani e sulla natura, cercando anzi di governare il loro piccolo mondo in cui sono precipitati dall’alto più che di trasformarlo, di renderlo simile alla loro società di partenza. I riferimenti al romanzo di Defoe sono, in effetti, molteplici ma ribaltati sul piano della forma e dei significati: ad esempio, come Robinson trova dopo il naufragio dei resti umani in forma di oggetti (tre cappelli, un berretto e due scarpe scompagnate), così il nostro narratore giornalista rintraccia uno dopo l’altro dei segni altrettanto inequivocabili – un berretto blu da hostess, l’impronta di tacchi a spillo e dei collant che si infila in tasca – che rimandano a un immaginario di seduzione e assai meno alla tragedia della perdita della vita umana; e quando anche viene evocata l’arbitrarietà divina e la sua sostanziale indifferenza ai nostri destini, l’intenzione è sempre quella dissacratoria della presa in giro. Robinson è, notoriamente, l’archetipo del capitalista, dell’avventuriero che sopravvive in un’isola deserta piegandola ai suoi voleri fino a colonizzarla, è l’emblema di colui che trasforma un tragico destino in un’occasione di sfruttamento e schiavitù, anche grazie alla tecnologia, a quegli strumenti appendici dell’intelligenza che esaltano il suo senso pratico: gli eroi paasilinniani capovolgono in modo leggero e ironico questo prototipo dell’ontologia del pensiero liberale, denocciolando dal nucleo del racconto ogni forma di ansia e invece dedicandosi a edificare un socialismo più autentico, più solidale di quello dei paesi nordeuropei, il che non impedisce, almeno in questa fase, il ritorno coatto dei naufraghi non così prigionieri del paradiso al conformismo della civiltà; e dunque viene sancita la sconfitta d’ogni sogno di fuga.
Un aspetto curioso delle sue novelle è che arriva sempre il momento in cui i suoi strampalati e funambolici eroi devono mettersi a costruire una casa, volenti o nolenti. Potrebbe sembrare un’attività superflua, ancorché faticosa, invece è un vero e proprio rito di passaggio, un momento rivelatore per vedere se fanno sul serio oppure no. Talvolta sono aiutati da qualche inverosimile, e altrettanto picaresco, alleato trovato strada facendo, perché le amicizie che nascono nelle sue pagine squadrano incroci d’ogni tipo, come detto; ma questo ausilio non sminuisce, è ovvio, il valore intrinseco, e assolutamente sovversivo, della loro impresa edile. Armati di infinita pazienza e di una manualità da veri intenditori del bricolage, i protagonisti di Paasilinna si impadroniscono degli strumenti essenziali per sopravvivere al rigido inverno finlandese – un’ascia, una sega, chiodi, qualche martello ˗, maneggiandoli con una passione che tradisce l’ambizione di poter essere considerati fondatori di una nuova comunità. Per lo più la loro condizione è quella di fuggiaschi nelle foreste della Lapponia, in quella infinita prolusione di terre artiche e fiumi e laghi che lo scrittore ben conosce, dal momento che la sua Kittila è uno degli ultimi avamposti a nord del circolo Artico, e che sembrano costituire per lui sempre il principio di ogni possibile avventura. Fuggono dalle foreste della modernità, da quelle labirintiche città divenute invivibili giungle postfordiste, fuggono dai laccioli e dalle ipocrisie della società civile per rifugiarsi nelle foreste naturali dalle quali siamo nel tempo lentamente usciti, e tuttavia finiscono poi con l’edificare ripari sempre assai confortevoli, spesso dotandoli di supporti tecnologici (che non siano però troppo invasivi), e dunque duplicando artificialmente le comodità dell’habitat di partenza pur certo con un diverso spirito e un diverso rispetto per l’ambiente circostante. Una volta approdati in questo altrove illimitato e selvaggio, sospinti dal richiamo della libertà, dal fiducioso ritorno alla natura artica, gli stravaganti personaggi di Paasilinna dunque si mettono a costruire un avamposto solidamente finnico e questa ricreazione della casa rappresenta in fondo una specie di utopia che il nostro scrittore rincorre, mischiando abilmente un’ironia costante a bassa intensità con qualche lieve tocco surreale nel congegno narrativo. Il tema, come detto, è presente in quasi tutte le sue novelle: basti qui citare a mo’ di esempi la capanna sul monte Kuopsu in Il bosco delle volpi7, che a poco a poco diventa casa di delizie e di relax, con tanto di vasca da bagno e immancabile sauna; o anche gli innumerevoli, ingegnosi rifugi che il braccato e fuggiasco Gunnar Huttunen è costretto a ricostruire in Il mugnaio urlante8 e che vengono ogni volta distrutti dai suoi persecutori: in effetti, c’è sempre qualcuno che s’impegna nel frenare l’anelito alla libertà un po’ anarcoide dei suoi paladini, e spesso sono proprio gli esponenti della società civile o delle Istituzioni, come il sindaco, il medico condotto, i militari, le gerarchie ecclesiastiche o i funzionari amministrativi, dipinti come i vessilli dell’impedimento alla felicità individuale, rigidi osservatori delle norme della comunità, che accettano chi possa trasgredirle. Intorno all’elogio della fuga e alla conseguente ricerca di un luogo ideale dove poter vivere in pace, è sorto anche, nel tempo, un aneddoto biografico: durante una presentazione al Salone del Libro di Torino nel 2014, lo stesso Paasilinna ha raccontato all’estensore di queste righe che durante l’estate avrebbe eretto con le proprie mani la sua ottava abitazione di legno, e che non ci si doveva stupire più di tanto perché in una canzone popolare finlandese, che secondo lui tutti sono soliti cantare ˗ «soprattutto quando hanno bevuto parecchio», disse ˗ c’è un verso che inneggia alla fantasia del maschio finnico di forgiare almeno una volta nella vita una casetta di legno.
Ciascuna delle sue novelle può essere intesa in chiave di rinegoziazione del contratto sociale che ci lega gli uni agli altri, quasi una necessità per i protagonisti di Paasilinna, che sentono fortemente limitata la propria individualità e che non si riconoscono nel tessuto culturale definito dal capitalismo e successivamente dalla globalizzazione. In tal modo la letteratura diviene anche un metodo per creare anticorpi a quel che del mondo vediamo e non ci piace, anche se la polemica contro un certo tipo di società in lui non è mai ideologica: al netto di ogni elemento di divertimento e di gioco, tuttavia anche il modello sdegnato, eremitico di Thoreau appare assai distante. Lo specchio su cui si riflette l’invito a sbarazzarsi delle inibizioni e della censura della ragione è inscritto in una medesima, costante relazione che ritorna in alcune sue storie: cioè, in quelle curiose amicizie o relazioni che i protagonisti instaurano con degli animali che si mostrano capaci di uno speculare allontanamento dalle loro abitudini, e che poi li conduce verso una progressiva antropomorfizzazione. Già in L’anno della lepre, che come detto rappresenta il primo successo dello scrittore lappone, l’inseguimento nella foresta da parte del giornalista Vatanen di una lepre ferita, la successiva adozione del roditore e il loro peregrinare di villaggio in villaggio, si traduceva immediatamente nel tentativo di sfuggire alla gabbia degli obblighi sociali – il matrimonio, il lavoro, la religione ˗, e nell’idea che si poteva raggiungere appunto una nuova vita solo rinunciando a quella precedente. Con Il migliore amico dell’orso9 Paasilinna raggiunge uno stadio successivo, perché il cucciolo d’orso che i parrocchiani regalano al pastore luterano Huuskonen afflitto da una crisi di vocazione, e che egli porterà con sé in un viaggio iniziatico dal Mar Baltico all’isoletta di Gozo fino al ritorno in Lapponia, diviene in un certo senso il portavoce di una diversa istanza di umanità. Certo, questo piccolo orso, che di nome fa Satanasso, apprende velocemente alcune basiche regole del vivere tra gli uomini civili: impara a farsi la doccia, «anche se malvolentieri», a stirare senza pieghe le camicie del reverendo, a fare la valigia in cinque minuti e a servire cocktail deliziosi sul ponte di una nave, ma questa capacità di reinventarsi fa sì che in lui si incarni in realtà tutta la passione per il paradosso e il gioco surreale, con quella bramosia di infrangere le regole del perbenismo nordico che anima profondamente lo spirito libero del nostro lappone.
L’argano che muove la struttura delle novelle di Paasilinna è dunque il puro godimento di chi vuole o vede realizzare le proprie pulsioni positive: nel meccanismo che sempre si ripete, come se raccontasse ogni volta una stessa storia, gli ingredienti sembrano talora calare dall’alto, e da qui nasce quella consequenzialità un po’ artificiosa che è possibile riscontrare talvolta nelle sue trame. D’altro canto, sono proprio le qualità scaturite dal riso, in primis le sue intenzioni radicali e il ritrovamento di quel che sappiamo già, uniti all’accurata levità della prosa e alla capacità di giocare con uno dei nostri desideri più ricorrenti, cioè piantare tutto e fuggire dai doveri prettamente borghesi, a restituire l’idea che i suoi libri siano come qualcuno che bussi alla nostra porta, di mattina, portando con sé buone nuove. I suoi protagonisti mettono in scena una grande ricerca di evasione fisica e mentale dalle dottrine mercantilistiche della civiltà, ma la loro è una sovversione ragionevole, talvolta illusoria, sempre non violenta: il mugnaio che ulula a pieni polmoni (Il mugnaio urlante), il giornalista che insegue una lepre ferita infilandosi beatamente nella foresta (L’anno della lepre), il pastore in crisi di vocazione che alleva in casa un cucciolo d’orso (Il migliore amico dell’orso) sentono fortemente limitata la propria individualità e cercano di rinegoziare il contratto sociale che li lega agli altri, nonostante ci sia sempre chi cerca di frenare il loro anarcoide, innocuo, anelito alla libertà.
Secondo Nicola Rainò, suo storico traduttore, le radici dell’umorismo di Paasilinna sono antiche, si rifanno a Plauto e Rabelais, al ribaltamento carnascialesco della realtà sulla scia anche delle letture di Bachtin, per cui gli orsi diventano religiosi e i preti assatanati di sesso: «Si è inventato anche il luogo da cui fuggire, che non è la Finlandia reale, ma una arcaica, medievale, dove la gente vive con un forte senso del peccato senza trovare mai pace. Da noi è reputato un maître à penser, in patria viene accusato d’ambientare le sue trame in uno scenario esotico tra renne e scoiattoli e trova i suoi sostenitori non tra i lettori forti, ma tra un pubblico molto più popolare». Bisognerebbe guardare, dice Rainò, alla grande pittura finlandese per trovare i prodromi della narrativa di Paasilinna: «Lì dove c’è la gioia e lo smarrimento della natura, ci sono la cupezza, il senso di colpa, la provincia con i suoi morti, le sue ossessioni, i tormenti notturni»; il suo gioco artistico sarebbe quello di cucinare il mito della natura incontaminata nato nell’Ottocento con l’idea di un paese ancora contadino e medievale, dove la gente vive questo desiderio d’evasione come fosse un sogno, un delirio, a volte derivato dall’alcool e alle volte dalla ricerca di un altrove, di un paradiso in cui approdare.
Con Paasilinna, con la sua utopia sessantottina volta al comico, è avvenuta una sorta di rivoluzione geografica, il pubblico si è accorto che al nord esiste un umorismo tutto particolare e anche innovativo, non più solo legato ai codici dell’understatement, che tra i nordici è portato a livelli parossistici, di solito; il paragone, in termini logici, viene sempre fatto con Aki Kaurismaki, con il suo modo grottesco, surreale, distorto, di esprimere una contestazione: è un umorismo molto di denuncia, in generale, quello nordico, uscito prepotentemente alla ribalta in questi anni nel mercato editoriale internazionale, che si basa sugli ossimori, che gira, che ribalta la visione delle cose cambiando la tua ottica e facendoti scoprire ciò che non avevi scorto, ciò che ti era sfuggito.
Se i naufraghi nell’isola indonesiana di Prigionieri del Paradiso cercano di governare il piccolo universo idilliaco in cui si sono giocoforza ritrovati senza cercare di cambiarlo, dotandolo però di certi confort, sfruttando in sostanza l’occasione di evasione per reinventarsi una vita (o meglio prendendosi una vacanza dalla vita quotidiana), su un altro fronte si pone invece l’umorismo aforismatico di Kari Hotakainen (Pori, 1957), considerato una specie di sociologo della Finlandia contemporanea – e in questo senso la sua produzione appare più simile alla cinematografia dei fratelli Kaurismaki, nei cui film si ride per non piangere. Per certi versi Hotakainen è una sorta di contraltare satirico e feroce alla re-inventata Finlandia di Paasilinna, che si fa abile complice del nostro esotismo nordico, della nostra esaltazione per la natura incontaminata e gli spazi selvaggi. Quasi ribaltando la falsariga bergsoniana, per cui «il riso è un castigo sociale», Hotakainen ritrae, da scrittore urbano, la fine della trincea, la fine di una civiltà, cioè della Finlandia colta e gelosa delle sue tradizioni, sovrastata dalla calata dei nuovi barbari, i ricchi contadini che hanno venduto i loro boschi e speculato in borsa con successo: se la scrittura umoristica di Paasilinna è fortemente ridondante, fortemente barocca, Hotakainen ha un tratto più complicato, laddove una sintassi dal tratto essenziale serve a sorreggere un umorismo sintetico e acido. L’angoscia del lavoratore di Helsinki Matti Virtanen in Via della trincea10, travolto dalla venuta dei nuovi proprietari di azioni Nokia e il suo sogno (già deriso da Gadda) della villetta unifamiliare col giardino e i meli, o la sofferenza, lo sforzo di raccontarsi da parte di Salme Malmikkunas (Un pezzo d’uomo11), somigliano più a filosofie della disperazione, servono a smascherare l’inganno e i paradossi della modernità scandinava: il tema profondo di Hotakainen è la follia del sistema democratico, così ordinato che diventa totalitario, laddove la fuga è una fuga dalla pazzia condivisa e stratificata uniformemente nella società nordica. Chiusi in se stessi e portati alla riflessione come il proprio demiurgo, i personaggi ridono perché non c’è niente di meglio da fare, e le loro parole hanno la valenza di smorfie: non è un caso che ritorna spesso come oggetto di scena nei suoi romanzi il registratore e lui stesso è solito andare nelle caffetterie o nelle stazioni di servizio o nei locali più disparati per registrare le conversazioni delle persone ed è negli scarti, negli isterismi di questi dialoghi che nasce il suo umorismo, così colmo di paradossi e di contraddizioni.
Divertire è uno dei grandi registri letterari e il rovesciamento della realtà o la ripetizione stereotipata e meccanica ne sono strumenti privilegiati. Le nuove generazioni fanno il verso agli amati maestri: L’accattone e la lepre12 di Tuomas Kyrö (Helsinki, 1974) è una parodia del romanzo paasilinianno a quarant’anni dalla sua uscita, in cui un immigrato rumeno salva una lepre e si ritrova a salire la scala sociale (e politica) finlandese, da mendicante a primo ministro. Anche immaginarsi un nonno che salta da una finestra di una casa di cura per sfuggire alla sua festa di compleanno e che ruba una valigia piena di denaro, andando incontro a una serie di avventure picaresche (tra cui un elefante portato a spasso per la Svezia su un autobus) si è dimostrata sicuramente una buona idea. Tradotto in trenta lingue, Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve13 di Jonas Jonasson (Växjö, 1961) ha venduto tre milioni di copie ed è stato il caso editoriale che ha acceso i fari sull’umorismo nordico: la parte più pasticciata del romanzo è quella che ricorda Zelig o Forrest Gamp con una serie di flashback che ripercorrono l’amicizia con molti leader mondiali del centenario Allan, esperto di esplosivi ma privo di sensi di colpa come il compaesano inventore della dinamite Alfred Nobel. Anche se non prendono le cose come vengono, un po’ ingenui e inetti (l’inettitudine è una strategia del comportamento, come sappiamo) sono anche i personaggi di Erlend Loe (Trondheim, 1969), spesso intenti a buttare giù elenchi come il protagonista di Naif.Super14, venticinquenne in crisi d’identità; o che vengono ripresi mentre si perdono nel susseguirsi di associazioni mentali, di riflessioni e digressioni che interiorizzano anche i luoghi comuni, mostrando quanto siano ironiche le banalizzazioni di problemi complessi (Tutto sulla Finlandia15). La lontananza dalla serietà esistenziale della narrativa norvegese degli anni Novanta non poteva essere più rimarcata: l’ironia relativizza il reale, prende atto della sua insufficienza, talvolta si fa critica sociale e altre acquieta le energie contestatarie.
«Abbiamo una visione monolitica del Nord, come triste, suicidale, depressiva – spiega Emilia Lodigiani, editore di molti di questi autori con la sua casa editrice, Iperborea – ma la nota umoristica è presente nelle saghe o nel pensiero di Kierkegaard, come nell’ironia sottile e leggera di Tove Jansson (Helsinki, 1914), la prima umorista. L’understatement è portato a livelli estremi dagli scrittori nordici: i danesi insistono sull’aspetto paradossale, i norvegesi sono legati alle realtà, ad un umorismo che mostra l’assurdità delle strutture sociali, i più stravaganti e originali sono i finlandesi». La comicità può essere tuttavia una forma di diserzione, soprattutto quando ci si ritrova in situazioni limite: il bizzarro patriarca degli umoristi danesi, Jørn Riel (Odense, 1931), autore di una quarantina di opere, metà delle quali situate nei deserti di ghiaccio della Groenlandia, riformula un topos delle letterature nordiche, quello della natura pura e arcigna, eppure ambiente pieno di vite da raccontare. Lo fa risemantizzando la tradizione millenaria del racconto orale, chiamata skrøna, in cui singoli episodi esperienziali vengono gonfiati ai limiti del grottesco, infarciti di cose che non stanno né in cielo né in terra ma dove alla fine tutto torna. Safari artico, La vergine fredda, Una storia marittima16 sono alcuni titoli di raccolte delle umoristiche avventure di alcuni cacciatori di pelli, nella lotta impari con un clima inclemente e per i quali la ricerca di un senso del vivere cammina sempre sul limitare della pazzia. Se si guarda alla realtà senza grandi indoramenti, spesso o si finisce nel tragico o si finisce nel comico: in Svezia la surrealtà e la parodia albergano anche nel Nord, anzi si risemantizzano nel raggio di pochi chilometri, in quella isolata provincia del Västerbotten che ha «prodotto parecchi scemi del villaggio, o scrittori, difficile distinguerli», come ha scritto Per Olov Enquist nella propria autobiografia (Un’altra vita) alludendo a se stesso, a Stig Larsson, a Sara Lidman, a Katarina Mazetti e Torgny Lindgren. Forse c’entra il bisnonno italiano, ma la Mazetti (1944) ha scritto un libro sugli opposti apparentemente inconciliabili che pure si attraggono: si intitola Tomba di famiglia17 ed è la storia di una bibliotecaria che si innamora di un allevatore di vacche. Eccentrici e cocciuti appaiono i protagonisti di Lindgren (Raggsjö, 1938): sia che riscrivano, incisione dopo incisione, la Bibbia del Doré (Per non sapere né leggere né scrivere) sia che girino in motocicletta nel nord della Svezia alla ricerca della ricetta perfetta della pӧlsa di selvaggina (La ricetta perfetta), le loro imprese eroicamente comiche servono a innescare un senso di riscatto, di rivincita. Il messaggio serio arriva comunque, ed è questa la linea comune.
Il maestro degli skrøna è però Mikael Niemi (Pajala, 1959), il cui senso del comico è volto a ridimensionare uomini e istituzioni: Musica rock da Vittula18 è un ironico romanzo di formazione che inizia in un quartiere della città di Pajala, Vittula appunto, che è anche il nome dell’organo genitale femminile, e segue la crescita di un bambino, rappresentante della generazione degli anni ’60, in un ambiente ideologicamente diviso tra le culture svedesi e finlandesi. Il manifesto dei cosmonisti19 è invece un pastiche fantascientifico, un viaggio nello spazio in compagnia di un camionista intergalattico verso luoghi, incontri e situazioni volutamente paradossali: «L’universo è grande. L’universo è infinito. L’entità più grande che ci sia nell’universo è l’universo. Ma qual è la seconda in ordine di grandezza? La risposta è: il groviglio». Ecco, l’umorismo che credevamo nordico, freddo e autoironico, ben sovrastrutturato, è invece satira sul vuoto delle forme, senso dell’assurdo, gioco del surreale e dell’imponderabile – impersonati dall’orsetto di Paasilinna, Satanasso, che impara a farsi la doccia e a servire cocktail deliziosi sul ponte di una nave. In sostanza, il riso adatto a risollevarci il morale dopo che il determinismo negativo è penetrato nelle nostre ossa. Come ricordava Kundera, se il tragico consola perché offre l’illusione della grandezza umana, il comico rivela crudelmente l’insignificanza di tutte le cose20.
- Dal ’65 (con Roseanna) al ’75 (Terroristi), scrissero un lungo ciclo di dieci romanzi polizieschi ripubblicati in questi anni da Sellerio proprio su indicazione di Andrea Camilleri. ↵
- Anch’essa una serie di tredici romanzi, dal ’91, anno di Assassinio senza volto, al 2009, quando uscì L’uomo inquieto. L’intero ciclo è edito da Marsilio. ↵
- Com’è noto, la trilogia Millennio è uscita postuma: nel 2005, Gli uomini che odiano le donne; nel 2006, La ragazza che giocava con il fuoco; nel 2007, La regina dei castelli di carta, tutti editi da Marsilio. ↵
- J. Martin, Risas gelidas, in «El País», 9 marzo 2013. ↵
- A. Paasilinna, L’anno della lepre (1975), tradotto in italiano nel 1994 da E. Boella, con introduzione di F. Carbone, per la casa editrice milanese Iperborea. ↵
- A. Paasilinna, Prigionieri del paradiso (1974), tradotto in italiano nel 2009 da M. Ganassini per Iperborea. ↵
- A. Paasilinna, Il bosco delle volpi impiccate (1983), tradotto in italiano nel 1996 da E. Boella, con introduzione di F. Carbone, per Iperborea. ↵
- A. Paasilinna, Il mugnaio urlante (1981), tradotto in italiano da E. Boella nel 1997, con un’introduzione di F. Carbone, per Iperborea. ↵
- A. Paasilinna, Il migliore amico dell’orso (1995), tradotto in italiano nel 2008 da N. Rainò per Iperborea. ↵
- K. Hotakainen, Via della trincea (2002), tradotto in italiano nel 2009 da N. Rainò, con introduzione di P. Nori e postfazione di N. Rainò, per Iperborea. ↵
- K. Hotakainen, Un pezzo di uomo (2009), tradotto in italiano nel 2012 da N. Rainò per Iperborea. ↵
- T. Kyrö, L’anno del coniglio, nella traduzione italiana di N. Rainò, uscita nel 2015 per Iperborea con una postfazione dello stesso traduttore. ↵
- J. Jonasson, Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, trad. di M. Podestà Heir, Milano, Bompiani, 2009. ↵
- E. Loe, Naif.Super (1996), in Italia tradotto nel 2002 da G. Paterniti per Iperborea. ↵
- E. Loe, Tutto sulla Finlandia (2001), in Italia tradotto nel 2001 da G. Paterniti, con una postfazione di N. Lecca, per Iperborea. ↵
- J. Riel, Safari artico (1974-1976), trad. it. e introduzione di S. L. Convertini, Milano, Iperborea, 1998; La vergine fredda (1976-1977), trad. it. di S. L. Convertini, Iperborea 2002; Una storia marittima (1986), trad. it. e postfazione di M. V. D’Avino, Iperborea 2004. ↵
- K. Mazetti, Tomba di famiglia, trad. it. di Laura Cangemi, Roma, Elliot Edizioni, 2011. ↵
- M. Niemi, Musica rock da Vittula (2000), in Italia tradotto da K. De Marco nel 2002, con una postfazione del traduttore, per Iperborea. ↵
- M. Niemi, Il manifesto dei cos monisti (2004), in Italia tradotto nel 2007 da L. Cangemi, con una postfazione della traduttrice, per Iperborea. ↵
- Una sintetica parte di questo lavoro è uscita col titolo Tendenza Lisbeth. L’eroina di Larsson che ha cambiato le signore in giallo, in «La Repubblica», 5 agosto 2010 (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/08/05/tendenza-lisbeth-eroina-di-larsson-che.html?ref=search). ↵
(fasc. 5, 25 ottobre 2015)