Per un critico letterario prendere coscienza che non potrà mai essere un romanziere o un poeta è un momento drammatico dell’esistenza, spiegava Flaubert, e anche tristissimo, perché, pur riuscendo ad assaporare tutta la bellezza che un singolo verso di Dante o di Petrarca contiene, pur essendo consapevole di cosa sia la vera grandezza, non ne fa parte, è come condannato a non saperla riprodurre. Ogni giorno si ritrova in compagnia dei nobili illustri che abitano il Castello della letteratura, ogni giorno si ciba dei prodotti del loro orto, ogni momento sente l’ebbrezza della vastità universale della loro arte, ne è intimamente attraversato: ma, al di fuori di questa sorta di “necrofilia”, che può tradursi in altissime e illuminanti pagine di critica letteraria, quasi mai riesce a essere altrettanto profondo, analitico, convincente (e, se alcuni scrittori non vengono più pubblicati, sia detto per inciso, non è solo perché non parlano ai lettori di oggi ma perché abbiamo smesso di studiarli, di interrogare le loro parole). In questo senso la scrittura è molto crudele: finché lo studioso resta nel campo della biografia o di un saggio, è in grado di creare spazi finemente inventati; quando, invece, se ne allontana, rischia moltissimo. Soprattutto, c’è un peccato davvero mortale in cui un critico può incorrere: quando si vive tra le ombre dei grandi, si può cedere alla tentazione di sentirsi un po’ come loro, e allora a un certo punto può venire la fantasia di scrivere un bel romanzo, pensando che non sia troppo difficile, ed è questa la vanità che a volte fa precipitare nel vuoto.
I termini di questa equazione sono più liquidi e complessi di quanto si pensi, ma in generale ci sono due punti fermi: si può essere colti, acuti, coscienziosamente studiosi o possedere vari titoli accademici, ma la scrittura (la creazione) non appartiene necessariamente a queste categorie. Si è detto, ad esempio, che Svevo non usasse correttamente l’italiano perché non lo conosceva benissimo, ma ciò non impedisce certo di ammirare la sua scrittura. In secondo luogo, gli attestati di stima che amici e devoti dispensano al critico per il suo (ultimo) romanzo, in primis sotto forma di premi letterari, creano una profonda illusione, e conducono tante volte verso una falsa considerazione di sé. Queste medaglie sono in realtà perfidi, sdrucciolevoli doni, dal momento che vengono elargiti secondo logiche e motivi che non afferiscono alla qualità della scrittura creativa.
Il romanzo Come donna innamorata di Marco Santagata, che è docente di letteratura italiana e di cui si ricorda, tra gli altri, un bel saggio su Petrarca, è la dimostrazione per eccellenza di quanto andiamo dicendo. Mediocre come scrittura, come idee, come concezione della letteratura e dello scopo per cui si scrive (al di là delle ragioni intime e personali, che sono insindacabili), questo libro, un breve riassunto romanzato della vita di Dante, sembra confermare che, quando uno studioso non rimane nel proprio ambito, rischia di dare la misura della propria “pena”, che è quella di non possedere la grazia. Nella vita si può diventare umili servitori della letteratura, ma, quando si vuole cambiare campo di gioco, si può cadere preda della vanità.
Il dilettantismo, l’improvvisazione sono caratteristiche tipiche della nostra epoca, e quindi dovremmo averci fatto l’abitudine; ed è anche probabile che, se il gruppo Gems non l’avesse candidato al Premio Strega, nessuno probabilmente si sarebbe occupato del libro di Santagata. Il suo Dante è scialbo e pallido, e non perché alcune delle vicende biografiche riportate siano inesatte (la vita di Beatrice come agiografia, una santa con tanto di martirio, è una felice intuizione), ma perché sono sbiadite dalla scrittura. Fin dalle prime battute il lettore viene letteralmente attanagliato dalla noia: i gesti dei personaggi non appaiono mai credibili, non c’è verità; gli scontri tra Cerchi e Donati o il rapporto coniugale con Gemma o l’amicizia con Calvalcanti o ancora la figura di Beatrice diventano tutti terribili cliché narrativi. Ci si ritrova sommersi da una serie ininterrotta di frasi fatte: «le righe che aveva vergato», «il sorso d’acqua fresca», «il pulsare delle tempie», il «poeta sfiorito ancora in boccio», l’immancabile «era Amore a dettare i suoi versi», il «piangere di felicità» e il fatto che «erano forse lacrime d’amore», o il vento che spazza la strada, il buongiorno cordiale, e colui che portava bene gli anni ecc. Sembra che il professore abbia in parte dimenticato ciò che ben conosce intorno alla teoria della letteratura: i puntini di sospensione adoperati a casaccio, la koinè povera e senza forza, la struttura del discorso alquanto bislacca, persino dantismi o pseudo-tali («la donna soletta») sono mal posti e alla fine risultano indigesti. È sufficiente aprire una pagina a caso per rimanere assolutamente sconcertati: «Era felice. Quando il cervello gira, lui è felice. Felice nel giorno del pianto? Non poteva essere che un segno…»; «Rimasto solo, prese la carta e calamaio e si sedette. Affilò la penna e si accinse a scrivere. In realtà era quasi un trascrivere»; «Quella notte avevano fatto l’amore. Si erano amati con tenerezza, e dopo avevano parlato a lungo. Mai, prima, si erano confidati tanti segreti, mai avevano condiviso tanti ricordi», e così via. Ecco il Dante di Santagata. C’è, invece, un’immagine meravigliosa, che dà le vertigini, in Borges, quella di Dante che cammina a Venezia, in esilio, e pensa a cosa avrebbe dovuto scrivere dopo la Divina Commedia (che cosa si potrà mai scrivere, dopo?).
L’intreccio in Come donna innamorata non risulta mai verosimile perché non è calato in un milieu, così come silhouette appaiono Cavalcanti e gli altri personaggi. Dall’Inferno o dal Purgatorio si potrebbero, ad esempio, estrarre moltissimi episodi «bohémien» dalla vita di Dante, con il gruppo di amici, con Forese Donati, e così fantasticare di una gioventù straordinaria, di dialoghi fra loro pieni di battute e ammiccamenti: qui, invece, tutto è approssimativo, apatico, senza sostanza. L’intero impianto generale non ha senso, non c’è una sola frase “bella”, non un aggettivo illuminante, un particolare, per cui tutto rischia di volgere involontariamente al ridicolo. Se l’allenamento allo studio è proprio di un uomo maturo, non altrettanto si può dire di quello alla scrittura. Mentre lo si legge, si può soltanto ricordare le sue fonti, se ne risente l’eco; forse è un ripasso, una perifrasi. Ad esempio, il racconto dell’incontro tra Dante e Beatrice a una festa di matrimonio è anni luce distante dalla profondità della Vita Nova: lo sgomento e il tartagliamento raccontati da Dante si perdono completamente e ne esce fuori, invece, il resoconto di una vita grigia, triste, con tante illusioni perdute, tipica di un piccolo borghese inetto da romanzo del Novecento.
Questo non è un testo colto né incute timore; inoltre, certi fatti noti vanno narrati bene, perché altrimenti non risuonano ai lettori: per esempio, Cavalcanti che rimprovera Dante perché si è iscritto alla consorteria è un altro luogo comune. Nel romanzo manca l’usuale amore per la parola del critico e si finisce per provare quasi una sorta di imbarazzo per Santagata, che sta simulando di possedere una tecnica del racconto. Il romanziere sembra quasi mettersi in posa, e sarebbe alquanto strano se egli stesso non fosse consapevole di tutto questo: nella maggior parte dei casi, di questi casi, infatti, anche se è difficile ammetterlo pubblicamente, si ha una perfetta coscienza del proprio fallimento.
Arturo Toscanini, quando capì di non poter diventare ciò che ambiva ad essere, rinunciò alla carriera di compositore: fu sempre un interprete superbo delle partiture musicali altrui e la sua grandezza sta anche nel fatto che lasciò perdere: probabilmente avrebbe vinto tutti i premi che voleva, ma non insistette oltre. La rinuncia è sempre una grande lezione. Talvolta, infatti, la bravura consiste proprio nel rimanere un devoto amante, un appassionato, un analitico e spregiudicato lettore.
Il bravo critico è come un vampiro, la sua vocazione è alta e nobile: succhia il sangue di grandi scrittori, come Tolstoj o Goethe ad esempio, e insieme riesce a illuminare alcuni nuovi aspetti della loro arte o a ricordarne altri colpevolmente dimenticati. Potremmo, nonostante tutto, divertirci a compilare una sorta di storia dei critici che si sono dati al romanzo dimostrandosene incapaci o, allo stesso modo, di romanzieri che sono precipitati nella banalità facendo critica letteraria: possedere le due qualità insieme è molto raro. Ci sono stati critici che hanno avuto la tentazione della narrativa ma sono stati così bravi da rimanerne nell’alveo, da continuare a coltivare il proprio giardino, come Longhi o Garboli, capaci di sfogare la propria vena creativa attraverso il ritratto o il ricordo o l’esegesi o l’interpretazione, ed anzi in quei contesti il loro stile si è come arricchito. Negli ultimi anni la lista dei critici che si sono scontrati con questo muro si è infittita, forse un po’ anche perché, visto che il nostro “laghetto editoriale” si sta prosciugando a causa di una fortissima contrazione della ricezione e della percezione (della qualità) dei libri, la figura del critico è divenuta così compressa e insignificante che bisogna pubblicare romanzi per accreditare la propria immagine ed essere riconosciuti. Colasanti, Manacorda, Magris, Baricco, per citarne alcuni, tutti più o meno abili divulgatori, alcuni filologi ed esegeti impeccabili, hanno scritto romanzi mediocri, ma almeno due di loro si considerano solo scrittori e i loro libri non sono peggiori di tanti altri usciti nello stesso momento; lo scivolamento nel mémoire, nell’autobiografia, inteso come ricerca di un rifugio, con un depotenziamento della narrazione pura, accomuna tra l’altro sia scrittori sia critici.
Il passaggio dalla saggistica alla narrativa, e viceversa, viene vissuto con minore frizione e scandalo nella letteratura nordamericana (di cui noi siamo una piccola colonia): in Italia, di solito, a un lavoro come quello di Santagata si oppone un silenzio assoluto, il che è più velenoso ancora. È vero che l’importante è partecipare, ma aver messo questo romanzo sotto la luce dei riflettori candidandolo allo Strega somiglia, invece, a un’esposizione al ludibrio. A che pro candidarlo? Gli attestati di stima creano, come detto, più di un’illusione.
Non c’è astio o inimicizia in questo giudizio: il sogno di far scendere Dante dal suo lugubre piedistallo scolastico in questo caso è miseramente naufragato.
(fasc. 6, 25 dicembre 2015)