Le dediche dei libri di Benedetto Croce

Author di Paolo D'Angelo

È molto difficile pensare che la dedica di un libro possa contribuire in qualche modo alla comprensione del libro stesso, e ancora più strano parrebbe credere che dall’insieme delle dediche dei libri di un autore si possa ricavare qualcosa di interessante sulla sua fisionomia intellettuale. Tutto questo è pacifico per le dediche di esemplare, cioè per quelle dediche che l’autore appone sulla singola copia all’atto della consegna o dell’invio ad altri. Oltre al fatto che è obiettivamente molto difficile rintracciarle, esse interesseranno al massimo qualche bibliofilo in cerca di copie autografate. Ma la stessa cosa sembra valere anche per le dediche d’opera, cioè quelle dediche che appaiono nella versione a stampa, di solito subito dopo il frontespizio. Anch’esse, se pur facilmente documentabili, non sembrano aprire nessuna via aggiuntiva di accesso all’opera, e rimanere irrimediabilmente chiuse nell’ambito dei rapporti personali, familiari o di amicizia.

Questa sostanziale irrilevanza della dedica ai fini dell’interpretazione dell’opera sembra confermata dalla scarsissima attenzione che le dediche, anche d’opera, hanno sempre suscitato, e che trova eccezioni quasi solo quando una dedica è stata aggiunta o cancellata, come nei casi a loro modo celebri della dedica a Napoleone del Génie du Christianisme di Chateaubriand introdotta nella seconda edizione o quella simmetrica della dedica a Husserl di Sein und Zeit, cancellata da Heidegger dopo la promulgazione delle leggi antisemite in Germania. Tanto è vero che l’unico studio specifico della funzione della dedica – almeno l’unico di cui sono a conoscenza – è quello contenuto in Soglie di Gérard Genette, libro che studia i «Dintorni del testo», come i titoli, le epigrafi, le prefazioni, le note e, appunto, le dediche. E proprio da Genette ho tratto la prima distinzione, tra dediche d’esemplare e dediche d’opera, facilitata in francese dal fatto che quella lingua ha due verbi diversi per l’una e l’altra operazione: si dice dédier per la dedica d’opera e dédicacer per la dedica d’esemplare[1].

Nonostante tutto ciò, credo che prestare un po’di attenzione alle dediche con le quali Croce ha accompagnato parecchie delle sue opere abbia qualche importanza, almeno nel senso che ci restituisce alcuni tratti non secondari della sua psicologia e della sua umanità. Certo, sono il primo a pensare che occuparsi delle dediche di Croce non serva a nulla per entrare nelle sue teorie e per capire la sua filosofia, ma ritengo che per lo meno dal punto di vista biografico esse abbiano un interesse non secondario. Sicuramente lo hanno per me, che, avendo appena pubblicato per l’editore Il Mulino una biografia di Croce, potrei dire, parafrasando l’«io non sono che un critico» pronunciato da Iago in Shakespeare, di non essere che un biografo[2].

La prima osservazione che farei è che Croce utilizza moltissimo le dediche. Praticamente tutte le opere di Croce che non sono raccolte di saggi (e anche alcune che lo sono) portano in esordio una dedica.

Le raccolte di saggi non sono di solito dedicate, e il motivo è abbastanza intuibile, trattandosi di saggi per lo più scritti in tempi e circostanze diverse. Non recano dedica, ad esempio, i volumi della Letteratura della Nuova Italia, di Poesia e non Poesia, di Poesia antica e moderna. Non hanno dedica Una famiglia di patrioti ed Etica e politica. Anche nel caso delle raccolte di saggi ci sono, tuttavia, notevoli eccezioni: i Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana usciti in prima edizione nel 1910 recano una dedica ad Antonio Fusco, «morto in Messina il 28 decembre 1908», cioè perito nel terribile terremoto di Messina e Reggio. Antonio Fusco era particolarmente caro a Croce. In una lettera a Vossler Croce scriveva: «il povero Fusco sembra sia rimasto sotto le macerie […] e per me la perdita di Fusco è come la perdita di in figlio», e a Fusco Croce aveva dedicato un commosso ricordo su «La Critica» del 1909. Di lui lo colpiva certamente la dignità con cui affrontava le molte difficoltà di una vita irta di ostacoli. Fusco era stato sacerdote (aveva abbandonato l’abito talare non molto tempo prima di morire), proveniva da una famiglia semplice, aveva studiato a Napoli senza gran frutto e poi si era trasferito in Germania cercando di migliorare la sua preparazione, aveva lavorato come precettore in case private fino a quando, anche con l’aiuto di Croce, non aveva potuto vincere un posto pubblico nella scuola di Sciacca, dove però aveva dovuto sopportare le ristrettezze economiche, le prepotenze dei locali, la miseria intellettuale dei colleghi. Croce era riuscito a farlo trasferire a Messina nel 1906 (qui aveva trovato un ambiente migliore, legandosi anche a docenti dell’università) e aveva fatto pubblicare diversi suoi lavori, da quelli su Castelvetro fino al saggio su Flaubert.

Il filosofo aveva vissuto da adolescente la perdita del padre, della madre e della sorella nel terremoto di Casamicciola del 1883, e ne rimase segnato tutta la vita. Il disastro del 1908 a Messina suscitò in lui un’emozione enorme, riaccendendo i ricordi della propria personale tragedia. La preoccupazione per la sorte degli amici, come Giuseppe Lombardo Radice, e anche di studiosi a lui meno legati, come Gaetano Salvemini (che a Messina perse la moglie e i cinque figli: e Croce, negli anni immediatamente successivi, gli fu vicino come mai lo era stato e come non lo sarebbe stato in seguito), ha un preciso riscontro nella chiusa del ricordo di Fusco affidato a «La Critica»:

Quando mi giunse a Napoli la notizia del terremoto di Messina, tra le immagini che mi si affollarono rapide alla fantasia fu, tra le prime, quella del Fusco, con quel suo volto malinconico, con quella sua aria trepida e spaurita come di chi sia sempre in sospetto di qualche colpo della sventura; e subito mi sorse in cuore, irrefrenabile, il presentimento, anzi la desolata certezza della sventura. […] Per più giorni io e altri amici domandammo e cercammo dappertutto, e facemmo cercare. […] Una fallace notizia, comparsa sui giornali, ci ridette, crudelmente, la vana speranza per qualche istante. Ma nessuno l’aveva visto, nessuno sapeva di lui. Vissuto nel dolore, era dileguato nel silenzio[3].

Il caso della dedica a Fusco di una raccolta di saggi, per quanto dettato dalle circostanze particolarissime che abbiamo appena visto, non è tuttavia isolato. Anche gli Ultimi saggi recano una dedica, quella a Julius von Schlosser, lo studioso austriaco coetaneo di Croce e traduttore di alcune sue opere in tedesco. Ma di lui parleremo dopo, quando ci occuperemo di un’altra tipologia di dediche crociane, quella delle dediche a personaggi stranieri famosi.

Restando, invece, nella categoria “dediche di raccolte di saggi”, vorrei segnalare due eccezioni. La prima è quella di Uomini e cose della vecchia Italia, dedicato a Francesco Ruffini fin dalla prima edizione del 1926. Anche lui coetaneo di Croce, giurista e docente universitario, Ruffini conosceva il filosofo da tempo, ma i rapporti tra i due, inizialmente non del tutto armoniosi, si erano rinsaldati soprattutto nel periodo di ascesa del fascismo, verso il quale Ruffini aveva manifestato fin da subito profonda avversione. E con Ruffini Croce si sarebbe incontrato molto spesso, durante i soggiorni in Piemonte, negli anni successivi. Dopo la sua morte, sulla «Critica» del 1934, Croce ne avrebbe scritto un ricordo commosso, nel quale leggiamo questa frase significativa: «quel che davvero unisce gli esseri umani è qualcosa di più profondo che non il consenso delle idee: è il consenso nel sentimento verso la vita vissuta»[4].

L’altra è quella della dedica del libro estremo di Croce, le Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, apparso l’anno stesso della morte di Croce, il 1952, e che reca la dedica al banchiere Raffaele Mattioli, motivata nell’Avvertenza con queste parole: «Dedico questo volume a Raffaele Mattioli, che mi ha dato e mi dà continue prove della sua amicizia in questa età della vita in cui dell’amicizia si sente più forte il bisogno ed essa torna più cara».

Se quelle appena viste sono le principali eccezioni alla regola secondo la quale Croce non dedica le raccolte di saggi, val la pena qui di segnalare subito l’eccezione simmetrica di un’opera monografica, importante, e priva di dedica: la Storia d’Italia del 1928, forse perché troppi sarebbero stati i dedicatarii possibili, o forse per non creare possibili imbarazzi a qualcuno, dedicandogli un’opera che sarebbe subito apparsa come una critica al regime da poco instaurato.

Subito dopo la distinzione tra dedica d’opera e dedica d’esemplare, Genette ne introduce un’altra, quella tra la dedica moderna, diciamo così, disinteressata, e la dedica in uso fino al Settecento, quando spesso la dedica a un nobile o a un potente serviva per ottenere privilegi e al limite un finanziamento per la stampa. Ovvio che di questo secondo tipo di dedica, nella quale il dedicatario svolge un ruolo paragonabile a quello di un committente, non si trovino esempi in Croce, come praticamente in tutti i libri dell’età contemporanea. Se proprio volessimo trovare una corrispondenza – lo ammetto, parecchio tirata per i capelli – con le dediche di Croce, potremmo tentarla con le dediche apposte a plaquettes per nozze: usanza ancora molto frequente, nelle classi elevate, all’inizio del Novecento. Ricordo due opuscoli per nozze ai quali Croce, che non amava questo tipo di scritti di occasione, non sottrasse la propria collaborazione.

Il primo è quello a Onorato Fava, poeta e scrittore – uno dei “Nove Musi”, tra cui Croce, che usavano riunirsi in una trattoria del Vomero –, a lui dedicato in occasione del matrimonio con Giulia Massucci, Donne in pittura e matrimoni in poesia (1891):

Ma perché, mio caro Fava, io sto qui a parlare dell’Olanda, delle Fiandre, delle mogli, e della vita coniugale dei grandi pittori di quei paesi? Perché, all’annunzio del tuo matrimonio, il mio pensiero s’è portato verso l’Olanda? Ritrovare i legami di un’associazione d’idee non è sempre facile: saranno stati questa volta i tuoi libri tradotti in olandese, e stampati ad Arnheim o a L’Aja? Comunque, giacché sono in Olanda, ci resto ancora …[5].

Si noti l’accenno personale, e il legame autobiografico. Il riferimento all’Olanda, infatti, è e non è metaforico: Croce aveva viaggiato in Olanda proprio nel 1891, e il suo pezzo si chiude con la citazione di un poeta olandese in lingua originale.

Molti anni dopo, Croce dedicherà a Giuseppe Lombardo Radice e a sua moglie Gemma Harasim, in occasione delle loro nozze, avvenute nel 1910, una raccolta dei propri scritti composti quando era ancora uno scolaro, prima del terremoto di Casamicciola, nel 1882, intitolandoli Il primo passo:

A Giuseppe Lombardo Radice e alla sua gentile sposa, della quale non da ora io pregio il fine ingegno e il nobile cuore di educatrice, mi permetto di offrire nell’occasione delle loro nozze, invece di un testo inedito o di una dotta dissertazione, quei quattro articoli dell’«Opinione letteraria», che furono i miei primi – il mio primo passo – ristampati senza mutarvi parola e senza ritoccarne i tratti puerili. Accolgano essi, e guardino con un sorriso, questa ingiallita fotografia, ripescata tra vecchi ricordi, che ritrae il loro amico qual era ai suoi sedici anni[6].

Si tratta di Le Lettere Virgiliane del Bettinelli; Bettinelli e Dante; la Canzone Alla Fortuna del Guidi; Didone, tutti pubblicati da Croce nel 1882 su «L’Opinione letteraria», supplemento letterario del settimanale «L’Opinione» del marchese D’Arcais. Nell’opuscolo Croce ricorda:

Tra gli scolaretti di Liceo che rivolsero le loro vergini forze all’Opinione letteraria […] fui anch’io. Il quale, tra l’estate e l’autunno del 1882, mandai al D’Arcais, con molta trepidazione, quattro articoli, che per l’appunto erano stati prima componimenti di scuola, presentati in terza liceale all’insegnante di lettere italiane, Ferdinando Flores. Il Flores (che era insieme professore di Letteratura Greca nell’Università di Napoli) lasciava volentieri che i suoi alunni si sbizzarrissero in temi di libera elezione, suggeriti dalle personali letture e impressioni. Così si spiega come io, che passavo per l’erudito della classe, prendessi a trattare del Bettinelli e di Alessandro Guidi[7].

Può essere curioso ricordare che Croce fece qualcosa di simile anche in occasione del proprio matrimonio con Adele Rossi, nel 1914, facendo stampare da Laterza una plaquette intitolata Iuvenilia, nella quale raccolse i primi frutti della sua attività erudita successiva alla catastrofe. La dedica alla moglie è singolarmente interessante:

Qualche anno fa, ristampai per le nozze di un amico quattro miei articoli critici del 1882, che furono il mio “primo passo”. Ed ora raccolgo in questo fascicoletto alcuni scrittarelli da me pubblicati tra i diciassette e i ventun anni, e li dono a te, cara Adele, che avrai piacere di leggermi qual ero allora, e sei fortunata, vorrei aggiungere, di non avermi conosciuto allora, in quella travagliosa tristezza che si chiama gioventù[8].

Gli scritti sono: Ranuccio Farnese e Sisto V; Una vecchia questione, Arte e morale; Dante Alighieri, poeta latino del secolo XV; Pensieri sull’arte; La poesia didascalica.

Si tratta di una scelta tra i lavori composti in quegli anni giovanili; altri, infatti, sarebbero poi stati ristampati in altre raccolte. Croce qui scrive di escluderli «perché non aggiungerebbero nulla ai tratti fisionomici, che si desumono dagli scritti che ho qui raccolti. Parlo della fisionomia “intellettuale”: ché, se poi vuoi vedermi anche nel mio aspetto fisico di allora, guarda l’unico ritratto, che è di quegli anni».

È oltremodo interessante osservare che questa dedica è praticamente l’unica dedica a familiari e insomma a persone cui Croce è legato da una relazione personale, intima, assieme a quella che si legge in apertura dell’opera filosofica probabilmente più famosa e influente tra quelle scritte da Croce. Stiamo parlando, lo si sarà già intuito, della dedica che campeggia sul quarto foglio dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: «Alla memoria dei miei genitori Pasquale e Luisa Sipari e di mia sorella Maria». Ed è difficile trattenersi dal pensare che per dedicare un libro ai familiari scomparsi Croce abbia atteso il libro di cui già intuiva, se non il successo pubblico (che infatti in parte lo sorprese), certo l’importanza decisiva nel suo percorso intellettuale e in qualche modo quello fondativo della sua filosofia.

Si tratta anche di uno dei rari casi di dediche a persone scomparse. Le dediche “in memoria” sono infatti molto poche: singolare tra tutte quella retrospettiva a Francesco De Sanctis e a Giosuè Carducci che campeggia su La poesia, libro pubblicato nel 1936 quando il primo era scomparso da oltre cinquanta anni e il secondo da quasi trenta. Al di là di questo omaggio a distanza, andranno ricordate quella a Bartolommeo Capasso in Storie e leggende napoletane, e soprattutto quella ad Antonio Labriola nella seconda edizione di Materialismo storico ed economia marxistica (che così viene ad essere un’altra delle raccolte di saggi che recano una dedica). Ma la prima edizione non aveva dedica e la seconda seguiva di poco la scomparsa, nel 1904, dell’unico maestro che Croce abbia avuto: «Alla memoria di Antonio Labriola Che m’iniziò a questi studi».

Con queste dediche siamo già, però, entrati nel campo della “dedica motivata”, alla quale appartengono la gran parte delle dediche crociane. Genette la descrive così:

La dedica d’opera […] mostra una relazione, intellettuale o privata, reale o simbolica, e questa esibizione è sempre al servizio dell’opera, come argomento di valorizzazione o tema di discussione” […] La sua propria funzione, non per questo trascurabile, si esaurisce in questa esibizione, esplicita o meno. Il ruolo di patrocinio o di cauzione morale, intellettuale o estetica si è essenzialmente preservato: non si può, alla soglia o alla fine di un’opera, menzionare una persona senza in qualche modo invocarlo […] e dunque implicarlo come una sorta di ispiratore ideale[9].

La motivazione della dedica rivolta ad amici che sono stati anche compagni di studi e di ricerche è talvolta esplicitata direttamente nella dedica, come nel caso della Storia del Regno di Napoli indirizzata a Michelangelo Schipa, anch’egli uno del “Nove Musi” e collaboratore di «Napoli Nobilissima»: «All’amico Michelangelo Schipa che l’intera vita ha consacrata a illustrare la storia del mezzogiorno d’Italia»; o in quello della Rivoluzione napoletana del 1799 a Giuseppe Ceci (il “decimo Muso” dell’epigramma «Al grato arrivo di Peppino Ceci/i nove Musi diventaron dieci»): «All’amico Giuseppe Ceci in ricordo di comuni studi giovanili». In altri, nella scelta del dedicatario è implicita la motivazione, anche se alla radice della dedica c’è sempre un rapporto personale di amicizia: così nel caso della dedica all’ispanista Eugenio Mele di La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, o in quello del saggio su Goethe del 1919 al germanista Arturo Farinelli «All’amico Arturo Farinelli in ricordo dell’inverno torinese 1917-1918». Altre volte il legame motivazionale è più debole, come nella dedica al grande amico conte Alessandro Casati delle Vite di avventure, di fede e di passione, o assente del tutto come in quella all’amico di gioventù Pasquale del Pezzo, duca di Caianello, del volumetto edito da Loescher in cui veniva ripubblicata e ampliata la memoria sulla storia del 1893 (Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte, 1896).

Tra le dediche amicali spiccano, per ragioni diverse, quella a Gentile della Bibliografia Vichiana del 1904 e quella a Francesco Torraca dei Teatri di Napoli nell’edizione Laterza del 1916. Nel primo caso, la dedica è senza dubbio calorosa: «All’amico Giovanni Gentile come a un di coloro che con Vico sentono non doversi altrove il fine degli studi riporre che nel coltivare una specie di divinità nell’animo nostro», ma a voler essere maligni si potrebbe notare che Croce dedica a Gentile un lavoro bibliografico e non un testo filosofico, quasi a rimarcare la distanza tra le loro posizioni in questo campo, allora ancora sottotraccia ma destinata a emergere rapidamente. La dedica a Torraca dei Teatri è, invece, l’unico caso di mutamento di destinatario della dedica che ho avuto modo di riscontrare. Infatti, la prima edizione era dedicata ad Alessandro Ademollo, lo storico che aveva compiuto una ricerca simile a quella crociana per i teatri romani, ma era ormai scomparso da parecchi anni, mentre la seconda viene da Croce dedicata allo storico della letteratura col quale era da tempo in rapporti epistolari e personali.

Una dedica amicale singolare, perché diretta genericamente «ai miei amici», è quella di Poesia popolare e poesia d’arte, ma che, visti i versetti da una parafrasi dell’Apocalisse che la accompagnano, si spiega forse con il momento storico in cui fu scritta: «Ai miei amici Questo libro sull’antica poesia italiana. Vedralli il mondo e li dirà simili / ad olivi che han fronde ai mesi algenti / a lampade le cui fiamme gentili / Estinguere non può l’ira dei venti».

Alcuni dei libri di Croce hanno come dedicatarii personaggi stranieri famosi. Non necessita spiegazioni la dedica a Wilhelm Windelband – anzi a Guglielmo Windelband – della Filosofia di Giambattista Vico, dato che lo storico della filosofia tedesco aveva inserito Vico nella seconda edizione della sua Geschichte der neueren Philosophie. Ma altre dediche sono accompagnate da una lettera, che diventa così una vera e propria epistola dedicatoria, rinverdendo una tradizione ormai obsoleta e rara nelle dediche degli autori novecentesche. Così nel caso dello storico zurighese Eduard Fueter, al quale è dedicata la Storia della storiografia italiana del secolo decimonono:

Gentile amico, ricorderà un giorno del gennaio 1914, in Zurigo, in cui, tornando insieme in battello dalla sua casa campestre, e discorrendosi dell’edizione francese che allora si preparava della sua Storia della storiografia moderna, io le facevo notare che nel suo libro, così bene informato delle cose italiane fino al secolo decimottavo, c’era una lacuna per quel che concerneva la storiografia italiana del secolo decimonono, del periodo del Risorgimento. Ed ella conveniva con me circa questa lacuna, ed io allora le dissi che mi sarei adoperato a riempirla con uno speciale lavoro. Quel lavoro forma ora questi due volumi, e a me viene spontaneo il pensiero di dedicarlo a Lei, anzitutto come attestato di stima per così valoroso compagno nelle indagini storiche, e poi anche per una ragione sentimentale. Il breve soggiorno che feci a Zurigo, in quell’inverno del 1914, mi è rimasto nell’anima come un dolce momento idillico della mia vita, e, direi, della vita della società contemporanea. C’intrattenemmo, allora, amichevolmente, di letteratura e filosofia, e tutti noi, svizzeri e italiani e tedeschi e francesi, e ci sentivamo tranquilli, affratellati nei comuni studi; e nei nostri discorsi non s’interpose un qualsiasi sospetto che di lì a pochi mesi, saremmo stati violentemente divisi, gettati di qua e di là dalla feroce forza delle cose, e costretti a udire, e forse taluni di noi perfino a dire, aspre e ingiuste parole. Quante volte, nel corso della guerra, sono tornato come a rifugio e a riposo all’immagine di Zurigo, bianca di neve, del gennaio 1914, e alle sembianze degli amici, coi quali allora conversai! E vi torno anche ora, e da quel passato mi piace trarre un augurio per l’avvenire.

Anche la dedica a Carl Vossler, l’amico tedesco col quale Croce fu in corrispondenza per un cinquantennio, della Storia dell’età barocca in Italia, si appoggia a una epistola dedicatoria, anche se più breve:

Ti dedico questo libro nella ricorrenza del trentesimo anno da quando ci conosciamo. Avevo letto nei Literaturblatt für germanische und romanische Philologie una recensione, segnata col tuo nome, di un mio saggio riguardante la commedia dell’arte, quando, nell’estate del 1899, c’incontrammo a villeggiare insieme a Perugia, e passammo alcuni mesi tra lunghe e confidenti conversazioni e discussioni, che molte volte si sono rinnovate nel corso di questo trentennio. Né solo la filosofia del linguaggio e quella dell’arte e la metodologia della storia e le ricerche e i giudizi di storia letteraria e culturale sono stati i punti della nostra unione spirituale, ma, cosa più essenziale, il modo di concepire e sentire la vita; e tanti avvenimenti e mutamenti sono accaduti da quel tempo, per tante gravi prove siamo passati, e pure quell’intendere agli stessi segni, e la nostra amicizia, sono rimasti costanti. E non è mancato a farli saldi il necessario elemento di diversità, che a noi viene soprattutto dai paesi a cui apparteniamo, dai loro particolari atteggiamenti e dalle loro particolari tradizioni di cultura: diversità, che ha efficacia di stimolo e di arricchimento scambievole.

Gli Ultimi saggi del 1935, che abbiamo già ricordato come eccezione alla regola per cui Croce di solito non dedica raccolte di saggi, sono dedicati a un altro grande amico e divulgatore delle idee di Croce nei paesi tedeschi, lo storico dell’arte austriaco Julius Schlosser, con queste parole: «A Giulio Schlosser, nel cui vivo e limpido intelletto questi miei pensieri sanno di ritrovare una rinnovata fecondità» (e infatti non pochi degli Ultimi saggi avevano argomento estetico, a partire dall’Aesthetica in nuce che li apre.

Ma il più famoso dei dedicatari stranieri di un’opera crociana è senz’altro il grande scrittore Thomas Mann. All’autore dei Buddenbrook Croce dedicò, e non c’è bisogno di insistere sul valore civile e simbolico di questa dedica, la Storia d’Europa, con un’epigrafe dantesca: «Pur mo’ venian li tuoi pensier tra i miei / con simil atto e con simile faccia, sì che d’entrambi un sol consiglio fei». Le lettere scambiate tra i due a proposito dell’intenzione di Croce di dedicare il libro sono state ristampate da poco nel volumetto di scritti autobiografici di Croce Soliloquio[10]:

Vorrei concludere con una curiosità. Tra tutti i tipi di dedica, inclusa la dedica di esemplare, la più rara è senza dubbio l’autodedica, la dedica indirizzata dall’autore a sé stesso. Io conosco solo un caso, quello di una pièce giovanile di Joyce, intitolata A brilliant Career. Ma ne posso aggiungere uno tratto da quello che rimane il più singolare degli scritti eruditi giovanili di Croce, la Lucrezia d’Alagno, consacrato alla giovane di nobile famiglia che divenne, diciottenne, la favorita del re Alfonso D’Aragona, allora cinquantaquattrenne. Lo scritto è notevole soprattutto perché esibisce un tono disinvolto, conversativo. È un Croce stranamente a metà strada tra la congerie di fatti eruditi, che rischiano di sommergere la narrazione, e la spigliatezza dal narratore, che non può sottrarsi all’aspetto pruriginoso della vicenda: se Lucrezia fosse l’amante del re o se, come ella sostenne, si fosse sempre negata allo spasimante in attesa delle nozze regali. Labriola, spiccio come al solito, liquidava la questione in questo modo: «Ho letto la vostra biografia di quella tale sgualdrina». Lo scritto venne pubblicato da Croce su «La rassegna pugliese», e venne firmato con lo pseudonimo Gustave Colline, il filosofo squattrinato Delle scene della vita di Bohème di Henry Murger (che poi diventerà il basso che canta Vecchia Zimarra nell’opera di Puccini). Ebbene, a chi è dedicata la Lucrezia d’Alagno? «A G. C.» ovvero a Gustave Colline, cioè a Croce stesso.

  1. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 115 e sgg.
  2. P. D’Angelo, Benedetto Croce. La biografia I. Gli anni 1866-1918, Bologna, Il Mulino, 2023.
  3. B. Croce, Antonio Fusco, in «La Critica», 1909; poi in Id., Pagine sparse, vol. II, Napoli, Ricciardi, 1943, pp. 48-58.
  4. B. Croce, Francesco Ruffini, in «La Critica», 1934, pp. 229-30.
  5. B. Croce, Mogli in pittura e matrimoni in poesia, in Id., Aneddoti di varia letteratura, Napoli, Ricciardi, 1942, vol. II, pp. 61-64.
  6. B. Croce, Il primo passo, in Id., Pagine sparse, vol. I., Napoli, Ricciardi, 1943, p. 420.
  7. Ibidem.
  8. In B. Croce, Pagine sparse, vol. I cit., p. 441.
  9. G. Genette, Soglie, op. cit., p. 133.
  10. B. Croce, Soliloquio e altre pagine autobiografiche, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 2022.

(fasc. 47, 25 febbraio 2023)