L’opera come prigione del tempo. Proust, Jung e la scrittura dell’inconscio

Author di Gian Paolo Caprettini

Il tema ha sapore biblico, richiama appunto i libri (biblia) che conservano per l’eternità le opere dell’Essere, come gli uomini-libro in chiusura di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953), che imparano a memoria un determinato testo e lo tramandano:

Mi ricordo qualche altra cosa, ma quale? Parte dell’Ecclesiaste e dell’Apocalisse. Parte di quel libro, una parte almeno, presto, prima che scompaia di nuovo, prima che la scossa si dilegui, prima che il vento muoia. Libro dell’Ecclesiaste. Ecco qua». Se lo ripeté in silenzio, disteso bocconi sulla terra tremante, ne recitò le parole più volte ed esse erano perfette, ora, senza Dentifricio Denham, era semplicemente il Predicatore stesso che se ne stava tutto solo, ritto nella sua mente, e lo guardava[1].

Per continuare negli anacronismi, valga l’incipit della Vita nuova, testo quasi totalmente visionario e onirico, punteggiato di apparizioni e trasfigurazioni, dove Dante dichiara fin da subito le intersezioni sulle quali ci soffermeremo: «In quella parte del libro della mia memoria, dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica, la qual dice: Incipit vita nova»[2]. Una scrittura il cui esito (cap. XLII) è una «mirabile visione», una «intelligenza nova» che consiste nel riuscire a dire di lei, Beatrice, «quello che mai non fue detto d’alcuna»; una scrittura che da memoria si fa risveglio, proiezione, preparazione alla “gloria” dell’amata, cioè all’uscita dal tempo, per omnia saecula.

Insomma, l’intreccio libro-tempo, per cui il libro potrebbe essere pensato come custodia e insieme trappola del tempo, ha a che fare con la memoria e con il suo esercizio, che non è soltanto retrospettivo ma anche proiettivo, quindi rivolto al passato e al futuro, riservando al presente la qualità di tempo della scrittura e della lettura, non altro. Imparare a memoria parti di un libro significa, pertanto, sottrarlo al divenire, alle interpretazioni che lo scardinano e lo trasformano, farlo esistere e permanere in una tradizione attraverso il meccanismo del ricordo, lasciandolo apparentemente così com’è. Accettare in definitiva il testo come evento, e le parole come manifestazione.

Ed è sotto questo aspetto che dovremmo pensare anche il correlato rapporto libro-vita, non come un trascorrere che si sedimenta e si ricostruisce, attraverso le parole, ma come un esistere sotto altra forma, indenne da ogni flusso, ripristinabile attraverso sue citazioni, che diventano quasi come formule di un oracolo, come parole sacre di un rito che punteggiano la vita.

Una «contemplazione fuggitiva», diremmo con Proust, quella che produce sensazioni di memoria, una lettura della realtà e dei fenomeni che subiscono la metamorfosi della mente che lavora. Il libro allora come quaderno dell’inconscio, nel gioco delle due dimensioni individuate da Carl Gustav Jung: l’Io, il soggetto della coscienza di colui che ha scritto, e di colui che legge, quello che sopra abbiamo chiamato “il presente”, e il Sé, che contiene invece, oltre alla coscienza, le ragioni dell’inconscio e i «processi di formazione artistica»[3], cioè il progettare l’opera e il decifrarla; l’autore e il lettore, non più come due funzioni ma come due soggetti alle prese con gli archetipi e con l’ombra, con le identità stratificate e con le parti oscure. Fuori dal presente, loro, immersi nell’atemporalità indistinta ma anche nella fenomenologia variabile delle interpretazioni, dove ricordiamo Maurice Merleau-Ponty è impossibile separare le cose dal loro modo di apparire.

Se, per la scrittura e la lettura, il tempo è rispettivamente dedicato al lavorare all’opera e all’apprezzamento dei risultati, attraverso specifiche durate, per lo scrittore-autore e per il lettore-interprete il tempo è l’estensione stratificata di un esserci molteplice. Proust, in conclusione del Tempo ritrovato, sente, attraverso il tintinnio di una campanella, di aver ignorato di portare con sé un «passato indefinitamente trascorso». E allora il dualismo che egli avverte, tra soggetto che percepisce e soggetto che elabora, vorrebbe superarlo parlando di «cognizione del tempo incorporato»[4]. Quasi in una condizione onirica, in quella regressione, evidenziata da Jung, «verso il materiale grezzo dei ricordi» che riattiva «le percezioni originarie […], il materiale mnemonico infantile»[5].

Mentre Jung sosteneva che l’inconscio (o l’incosciente) rimaneva tale e si sottraeva per sua natura a diventare cosciente e oggetto di piena consapevolezza, Proust nella Recherche azzardava a narrarlo, se non proprio a dirlo, l’inconscio, e si addentrava nella vertiginosa trappola dell’intreccio e del confronto tra sensazioni e memoria, che è poi appunto l’inconscio a dipanare, a modo suo. Nel far questo potremmo dire che Proust parli «con immagini primordiali»; «è come se parlasse con mille voci; egli afferra e domina, e al tempo stesso eleva, ciò che ha designato, dallo stato di precarietà e caducità alla sfera delle cose eterne»[6].

La narrazione au passé simple di Proust sospende il presente nelle condizioni di una riflessione precedente o conseguente, favorisce l’interrompersi e l’accavallarsi di sensazioni e pensieri, impedisce il puro flusso di coscienza come scrittura quasi fuori controllo dell’inconscio e lo eleva, in modo metafisico, a riflessione metalinguistica, a un discorso sulla propria poetica, al mistero cerimonioso di un’inafferrabile raison d’être:

i commensali non li vedevo, perché mentre credevo di guardarli li radiografavo. Ne risultava che, raccogliendo tutte le osservazioni ch’io facevo sui commensali in un pranzo, il disegno fornito dalle linee da me tracciate veniva a raffigurare un insieme di leggi psicologiche […]. Ero incapace di vedere una cosa il cui desiderio non mi fosse stato suscitato prima da qualche lettura, una cosa di cui non avessi prima sentito io stesso l’esigenza di farmi un’idea, che poi volevo confrontare con la realtà[7].

La vita interiore e le tecniche, dall’inconscio al “paese dello schermo”

La disgiunzione tra «importanza degli avvenimenti» e «vita interiore», in altri termini fra Io e Sé, diventa decisiva per circoscrivere una certa categoria o classe di persone, attente ai cambiamenti ma ferree nel proprio gusto. E anche per distinguere l’insorgere di nuove realtà tecnologiche, con i cambiamenti introdotti dai nuovi dispositivi, a fronte di un linguaggio poetico, remoto e persistente:

Così ero emozionato io, perché la macchia scura nel cielo estivo non era né un moscone né un uccello, ma un aeroplano con a bordo uomini vigilanti su Parigi. Il ricordo degli aeroplani da me visti insieme ad Albertine durante la nostra ultima passeggiata, presso Versailles, non entrava per nulla in tale mia emozione, giacché il ricordo di quella passeggiata mi era diventato indifferente[8].

La visione si riferisce certamente a quelle emozionanti Grandes Quinzaines de Paris che si svolgevano a Port-Aviation fin dal 1909, immortalate in suggestive cartoline postali, dove i vari piloti, più o meno celebri (Ferman, Sommer, De Rue, Paulhan, Rougier, Blériot, Wright etc.), emozionavano, col volteggiare dei loro biplani, le piccole folle eleganti della Belle Époque, che avevano raggiunto in auto quei prati. Il richiamo alle manifestazioni aviatorie ‒ questa volta si tratterebbe delle Fêtes normandes, sempre di quegli anni ‒ viene utilizzato significativamente da Ennio Flaiano in apertura della sua proposta di trasposizione dell’opera proustiana. Gianni Olla ricorda, infatti, l’«introduzione simbolica» della sceneggiatura di Flaiano, nella quale «in Normandia, il Narratore osserva un aeroplano che si alza sempre di più nel cielo fino a scomparire alla sua vista»[9].

Fondali comunque impressionistici che Proust descriveva dimostrando, come sosteneva Jung, che «il vero vantaggio, per l’artista, è la sua relativa incapacità di adattamento», ciò che gli permette di seguire, attraverso vie secondarie o traverse, «la propria aspirazione e di scoprire ciò che manca agli altri, senza che essi lo sappiano. Come nel singolo individuo l’unilateralità dell’atteggiamento cosciente è corretta da reazioni incoscienti di autoregolazione, così l’arte rappresenta […] un processo di autoregolazione spirituale»[10].

L’Io e il Sé, rispettivamente la coscienza osservatrice e la sublimazione artistica, si fondono nel concetto stesso di immagine, di similitudine, convocando metafore che dematerializzano la scena, e la scrittura, trasferendole nel regno della somiglianza, del paradigma memoriale: «Per un raffinato dono di grazia e di gentilezza, il prato dove si posavano quelle ombre arboree, leggere come anime, era un prato paradisiaco, non già verde ma d’un bianco così abbagliante, per via del chiaro di luna irradiatosi sulla neve di giada, che quello stesso prato si sarebbe detto unicamente intessuto di pero in fiore»[11].

La scrittura sembra, pertanto, trasformata in pittura, secondo un’aspirazione che Proust aveva più volte invocato, come se il passaggio dall’osservazione alla memoria assomigliasse a quello dallo scrivere al sognare, dal definito all’indistinto, dal descrittivo all’emotivo, dal lineare allo spaziale. Proust anticipa davvero la fenomenologia di Merleau-Ponty, il quale avrebbe puntato a sostituire il mondo degli oggetti con il “mio” mondo di relazioni che preesiste alla riflessione. Così, nella Fenomenologia della percezione: «Revenir aux choses mêmes, c’est revenir à ce monde avant la connaissance dont la connaissance parle toujours, et à l’égard duquel toute détermination scientifique est abstraite, […], comme la géographie à l’égard du paysage où nous avons d’abord appris ce que c’est qu’une forêt, une prairie ou une rivière»[12].

La scrittura, il romanzo, invece, che volesse intercettare le nuove tecniche raffigurative del tempo, così da apparire, ad esempio, come «una sorta di sfilata cinematografica delle cose»[13], rivelerebbe, a parere di Proust, una concezione assurda:

Niente si allontana da ciò che abbiamo percepito in realtà più d’una tale visione cinematografica […]. Ciò che chiamiamo la realtà è un certo rapporto fra le sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente – rapporto escluso da una semplice visione cinematografica, la quale, dunque, tanto più si allontana dal vero quanto più pretende di limitarsi ad esso […]. Se la realtà fosse una sorta di residuo dell’esperienza, più o meno identica per ciascun dato che quando diciamo: un tempo cattivo, una guerra, un posteggio di carrozze, un ristorante illuminato, un giardino in fiore, tutti sanno cosa vogliamo dire; se la realtà fosse questo, una specie di film di tali cose sarebbe certo sufficiente, e lo ‘stile’, la ‘letteratura’ che si discostassero dai loro semplici dati sarebbero un artificioso fuor d’opera[14].

L’idea che il cinema consista semplicemente nel far vedere le cose rivela non soltanto ingenuità ma ignoranza, ovviamente da ritenere volontaria, delle prerogative (se non proprio del funzionamento) del cosiddetto appareil de prise de vue. Jean-A. Keim, meno di vent’anni dopo, sembra voler rispondere a Proust e a tutti coloro che avevano sottovalutato o disistimato le risorse specifiche dell’arte cinematografica:

L’image d’un objet ne représente pas l’objet de l’existence quotidienne; il y a eu transposition. A travers l’œil de la caméra, par le vouloir du metteur en scène, l’objet qui était là sous nos yeux et à la portée de la main est devenu sur la pellicule le reflet d’un autre monde; ce vase sur la cheminée tient un rôle dans le drame cinématographique soit qu’il sert de garniture, soit en tant qu’il permet à un interprète de s’exprimer par un jeu de scène, soit parce qu’il constitue le symbole d’une idée abstraite; il a perdu sa fonction dans notre vie et est devenu un vase du pays de l’écran[15].

Il cinema, non diversamente dalla letteratura, impone un lavoro da parte dello spettatore, come del lettore, evocando proprio quello starting point della cura analitica che è l’esame di realtà. La riflessione dello spettatore, osserva Keim, parte da una percezione progressiva degli elementi per arrivare a un «travail de l’esprit sur les données successives fournies par la vue»[16].

Congruente il parallelo, evocato da Normand N. Holland[17], a proposito del processo di identificazione: prima citando proprio Proust («In realtà, ogni lettore, quando legge, è soltanto il lettore di se stesso […] Il riconoscimento entro di sé, da parte del lettore, di quel che il libro dice è la prova della verità di questo»[18]), poi affermando che «i personaggi sono reali o non reali soltanto in quanto noi li dotiamo dei nostri desideri e delle nostre difese. Noi, in realtà, collaboriamo con l’artista».

Verso la percezione: la polifonia, oltre gli schemi preesistenti

La scrittura romanzesca e cinematografica crea aspettative nel lettore e nello spettatore, prepara alla costruzione di mondi, già in parte noti – attraverso i generi, i modelli e i codici culturali e gli archetipi –, e più o meno conformi alle modalità poste in essere dalla dinamica narrativa, agendo comunque su due versanti, quello esplicito, dei dati realmente emersi nella presentazione delle storie, e quelli più o meno reconditi, impliciti o sepolti, che agiscono nei processi di individuazione.

A questo proposito, al di là delle relazioni, reali, ipotizzate o dibattute, tra Proust e Henri Bergson, sembra utile ricordare ciò che il filosofo annotava a conclusione di Materia e memoria: «Per stabilire così, tra la percezione e la realtà, il rapporto della parte con il tutto, bisognava lasciare alla percezione il suo vero compito, che è di preparare delle azioni». Il pensiero si completa con quanto scritto nella prefazione all’edizione del 1911, dove Bergson dichiara i due principi

che sono serviti a noi stessi da filo conduttore nelle nostre ricerche. Il primo, è che l’analisi psicologica deve incessantemente orientarsi sul carattere utilitaristico delle nostre funzioni mentali, essenzialmente rivolte verso l’azione. Il secondo, è che le abitudini contratte nell’azione, risalendo nella sfera della speculazione, creano in essa dei problemi fittizi, e che la metafisica deve cominciare con lo sciogliere queste oscurità artificiali[19].

Queste ultime sono oggetto, più precisamente, delle procedure psicoanalitiche: ad esempio, nella visione junghiana è necessario distinguere la sensazione e l’intuizione, come funzioni irrazionali, dal pensiero e dal sentimento, quali invece funzioni razionali[20]. Tali presunte “oscurità” nel campo artistico attengono esattamente alle relazioni con l’archetipo, in quanto ogni opera contiene relazioni profonde sia con schemi preesistenti sia con la cosiddetta “ombra”, cioè con il riconoscimento delle parti oscure, e il loro svelamento, che l’arte favorisce.

Una lucida risposta proviene da un contemporaneo di Proust e Bergson: «L’arte deve rivelarci idee, essenze spirituali senza forma. La domanda suprema circa un’opera d’arte è da quali profondità vitali essa scaturisca. La pittura di Gustave Moreau è una pittura di idee. La poesia più profonda di Shelley, le parole di Amleto mettono il nostro spirito in contatto con la saggezza eterna, il mondo delle idee di Platone. Tutto il resto è speculazione di scolaretti per scolaretti»[21].

Come aveva rilevato Umberto Eco – notando che Jung «di questo si era accorto con molta lucidità» –, James Joyce pensava «a un’opera totale: il punto di riferimento non è la soggettività del poeta isolato nella torre d’avorio, ma la comunità umana e insieme la realtà della storia e della cultura […]. Il compito che mi propongo tecnicamente nello scrivere un libro da diciotto punti di vista e in tanti stili, tutti apparentemente sconosciuti […]»[22].

«Colui che parla con immagini primordiali – scriveva Jung – è come se parlasse con mille voci; egli […] eleva […] ciò che ha designato dallo stato di precarietà e di caducità alla sfera delle cose eterne»[23]. E ancora Eco osservava che la schizofrenia della scrittura di Joyce (e di molta arte moderna) «andava vista come una sorta di operazione “cubista”» in cui si «scioglieva l’immagine della realtà in un quadro illimitatamente complesso»[24].

Aspetti tutti che rinviano sia alla polifonia e alla pluridiscorsività del romanzo studiata da Michail Bachtin sia alla molteplicità che, da Proust a Svevo a Pirandello, viene mostrata insita anche nello stesso soggetto: «Anche se non avessi avuto l’agio di preparare, cosa già molto più importante, le cento maschere che conviene applicare a un medesimo volto, non foss’altro secondo gli occhi che lo vedono e i sensi che ne leggono i lineamenti […]»[25].

In Proust, tuttavia, la molteplicità è precisamente caleidoscopica, attiene cioè alla visione dell’inadeguatezza del presente rispetto ai ricordi: «non era impossibile distinguere tra loro […] se non delle fessure, delle crepe vere e proprie, almeno quelle venature, quelle screziature di colorazione che in certe rocce, in certi marmi rivelano delle differenze d’origine, d’età, di “formazione”»[26]. E quindi convoca il Tempo non tanto come principio metafisico di riordinamento quanto piuttosto, proprio in una visione fenomenologica, come segnale, anche occasionale, che proviene dalla realtà attorno e che investe la «cognizione del tempo incorporato»[27]. Il celebre squillare della campanella ridesta «tutto quel passato indefinitamente trascorso che ignoravo di portare con me […], tutto quel Tempo che non potevo muovermi senza spostarlo con me»[28].

Ma “spostarlo” non soltanto da parte di un soggetto percipiente, nel mondo fenomenico – nella Vita –, con le sue durate e le sue successioni, ancorandolo a un corpo reale: “spostarlo” soprattutto come compete a uno scrittore (e a un autore) che – come i battelli che tornano la sera, «nel disordine delle nebbie, […] sulla catena delle ore del giorno»[29] – abbiano l’ambizione, e il bisogno, di trasformare il Tempo in Scrittura, sospendendolo in un divenire da loro stessi deciso.

Quanto al lavoro della scrittura, sembrano perfettamente adeguate le parole di Merleau-Ponty, dalle sue splendide Causeries: «Nous cherchions à faire revivre le monde perçu qui nous est caché par tous les sédiments de la connaissance et de la vie sociale»[30].

  1. R. Bradbury, Fahrenheit 451, trad. it. di G. Monicelli, Milano, Mondadori, 1978, p. 171.
  2. D. Alighieri, La Vita Nuova, a cura di T. Casini [1885], Firenze, Sansoni, 1962, p. 3.
  3. C. G. Jung, La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica [1922], in Id., Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, prefazione di G. Jervis, trad. it. di A. Vita e G. Bollea, Torino, Einaudi, 1977, p. 29.
  4. M. Proust, Il tempo ritrovato (Alla ricerca del tempo perduto, VII), trad. it. di G. Caproni, Torino, Einaudi, 1951, p. 335.
  5. C. G. Jung, Le due forme del pensare [1952], in Id., Simboli della trasformazione: analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia, trad. it. di R. Raho, II ed. riv. da L. Aurigemma, Milano, Boringhieri, 1970, p. 35.
  6. C. G. Jung, La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica [1922], op. cit., p. 50.
  7. M. Proust, Il tempo ritrovato, op. cit., pp. 25-26.
  8. Ivi, pp. 41-42.
  9. G. Olla, Alla ricerca del cinema proustiano, Roma, Bulzoni, 2010, p. 21.
  10. C. G. Jung, La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica [1922], op. cit., p. 51.
  11. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto: Il tempo ritrovato, op. cit., p. 43.
  12. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945, p. III.
  13. G. Olla, Alla ricerca del cinema proustiano, op. cit., p. 136.
  14. Si cita da G. Olla, Alla ricerca del cinema proustiano, op. cit., p. 125 (il passo commentato da Olla è sempre tratto dal Tempo ritrovato).
  15. J.-A. Keim, Un nouvel art. Le cinéma sonore, Paris, Albin Michel, 1947, p. 73.
  16. Ivi, p. 104.
  17. N. N. Holland, La dinamica della risposta letteraria, a cura di V. Gentili, trad. it. di F. Villa, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 312 e 320-21.
  18. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto: Il tempo ritrovato, op. cit., p. 250.
  19. Si cita da A. Massarenti, Bergson. Vita, pensiero, opere scelte, Milano, IlSole24Ore, 2007, p. 523 e p. 348.
  20. Cfr. F. Lenoir, Jung. Un voyage vers soi, Paris, Albin Michel, 2021, p. 83.
  21. J. Joyce, Ulisse, trad. it. G. De Angelis (consulenti: G. Cambon, C. Izzo, G. Melchiori), Milano, Mondadori, 1972, pp. 251-52.
  22. U. Eco, Le poetiche di Joyce, Milano, Bompiani, 1966, pp. 60-61.
  23. C. G. Jung, La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica [1922], op. cit., p. 50.
  24. U. Eco, Le poetiche di Joyce, op. cit., p. 61.
  25. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto: Il tempo ritrovato, op. cit., p. 333.
  26. M. Proust, La strada di Swann (Alla ricerca del tempo perduto, I), trad. it. di N. Ginzburg, Torino, Einaudi, 1949, p. 179.
  27. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto: Il tempo ritrovato, op. cit., p. 335.
  28. Ibidem.
  29. M. Proust, Sodoma e Gomorra (Alla ricerca del tempo perduto, IV), trad. it. di E. Giolitti, Torino, Einaudi, 1950, p. 509.
  30. M. Merleau-Ponty, Causeries 1948, éd. par S. Ménasé, Paris, Seuil, 2002, cap. VI.

(fasc. 46, 30 dicembre 2022)