a Milano […] gli intellettuali […] fanno i funzionari d’industria, chiaramente. Basta vedere come funziona una casa editrice: c’è una redazione di funzionari, che organizza: alla produzione lavorano gli altri, quelli di via Brera, che leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a volta, come braccianti per le faccende’ stagionali.
Luciano Bianciardi, Lettera da Milano, 5 febbraio 1955
Quando nel gennaio 1966 la Rai trasmette per la prima volta il radiodramma Come una grande famiglia[1] Luciano Bianciardi, almeno osservando ex post la sua parabola biologica e creativa, è uno scrittore ormai in (precoce) declino, appesantito dal successo e dall’alcool e destinato a pubblicare appena un ultimo per quanto scoppiettante romanzo (Aprire il fuoco del 1969). Vive tra Milano e Rapallo (dove va «riscoprendo le sensazioni della giovinezza»[2]) ma pure tra il presente e il Risorgimento che invade già, oltre ai suoi libri di estroso storico, quelli di narrativa (La battaglia soda del 1964). Sono gli anni dei racconti brevi e del nomade profluvio giornalistico, della rubrica “Tele-Bianciardi” su «ABC», poi di «Playmen», collaborazioni che seguono quelle con «Le Ore» e «Il Giorno» e in nome delle quali la sua corriva penna esplora, ma solo per brevi flash e affondi, costumi linguistici e sociali del mondo contemporaneo.
In questo senso rappresentano una nuova e privilegiata finestra per osservare una società che si sta visibilmente trasformando i testi, gli sketch, i protagonisti (con la loro prossemica e il loro seguito) del palinsesto televisivo. Da qualche tempo del resto Bianciardi ha conosciuto, nel corso di lunghe e acrobatiche notti milanesi (attraversate in compagnia di Jannacci, Cobelli, Nebbia, Fusco…), il «tacito e desto»[3] Enrico Vaime (1936-2021), che l’ha “scortato” in territori creativi fino ad allora inesplorati (a quanto pare l’amicizia, avviata poco dopo l’uscita della Vita agra, si era consolidata allorché o nonostante Bianciardi l’avesse trasfigurato nella figura del tenente ussaro Weimer, nel romanzo dello pseudo-Banti[4]). Quando i due si incontrano Vaime, come si sa, scrive già per la televisione (perlopiù in collaborazione con Terzoli), che invece Bianciardi frequenta ancora in veste di ospite, di intervistato, coinvolto a più riprese – evidentemente in quanto esemplare di un’immigrazione interna tutto sommato riuscita – in trasmissioni che raccontano la nuova capitale economica del paese, centro da una parte dell’urbanizzazione selvaggia (e di una crescente, onnipervasiva frenesia) ma dall’altra pure di una rinascita artistica che passa per il cabaret e per la nuova figura del cantattore, attento (proprio come l’autore della Vita agra) al lato oscuro del boom e del benessere diffuso[5].
Con Vaime, appunto, Bianciardi diventa anche “autore”, allorché insieme scrivono i testi per una trasmissione dedicata a Jannacci (16 luglio 1965) dal format assolutamente originale. Riprendendo il titolo di una sua celebre canzone, i 40’ diretti da Carla Ragionieri (Ohei! Son qui! Incontro con Enzo Jannacci) raccontano infatti l’arrivo a Milano del giovane cantante con valigia (benché nato nel capoluogo lombardo, come chiarirà la trasmissione), accolto e abbagliato dalle promesse di un manager fanfarone (interpretato da Gigi Pistilli) che millanta conoscenze nell’industria musicale. Ma il racconto finzionale è poi continuamente intervallato dalle esibizioni di Jannacci che presenta e canta le sue canzoni (E l’era tardi, El portava i scarp del tennis, L’Armando…), da finte interviste sulla sua musica tra la gente comune (interpretata dallo stesso Jannacci, travestito da barbiere napoletano o da barista milanese, che per assurdo ne mette in dubbio le qualità) nonché dall’apparizione di Bianciardi nei panni di sé stesso che, mandato a chiamare (a scopi promozionali, per lanciare il cantante) dal manager Mentasti, improvvisa una breve esegesi della particolarissima forma-canzone proposta dal medico con la passione per la musica (centrata sull’attacco assertorio, che illustra l’oggetto del testo, e sull’attenzione ai piedi e alle scarpe, a sentir Bianciardi tipica – come si evince dalle letture improvvisate del Maestro di Vigevano e, guarda un po’, della Battaglia soda – di chi è cresciuto nei centri calzaturieri del paese[6]).
Si dà il caso, però, che a metà dei Sessanta Vaime possa vantare anche un cospicuo trascorso radiofonico, fatto di testi per vivaci trasmissioni (“Radiosalotto”, “Tartarino e la canzone”, “I ba-bau”) e pure di un radiodramma intitolato Un ritmo dignitoso (1963), regia di Giorgio Bandini (la surreale vicenda di due amici che passano le loro domeniche al bar fino a quando la prospettiva di partecipare a una parata cittadina non offre finalmente un diversivo)[7]. E così a lui Bianciardi si affida anche per esplorare, invero secondo modalità un po’ improvvisate[8], questo ulteriore ambito espressivo (altrettanto ignoto), collaborando alla stesura di un radiodramma – eccoci a Come una grande famiglia – che di nuovo dà l’impressione, per la trama e i temi che sviluppa (il passaggio dalla provincia alla metropoli, i bagliori ingannevoli dell’industria artistico-culturale, la necessità di scendere a compromessi), di sbilanciare dalla sua parte il neonato binomio artistico – per quanto, poi, il 1966 sia stato, in ambito radiofonico, anche l’anno del Guerriero scomparso di Bandini che, centrato sull’emigrazione interna italiana e sulla “volatilità”/“dissoluzione” del suo protagonista[9], attesta una generale, condivisa attenzione per certi temi, destinata forse ad agire in dialogo con la fresca lezione romanzesca bianciardiana sull’universo creativo di Vaime (considerando pure la sua produzione radiofonica coeva e successiva: il protagonista di Ma voi capirete, trasmesso nel novembre dello stesso 1966, è per l’appunto un poeta costretto a scrivere slogan pubblicitari – proprio come il Luciano Bianchi di Lizzani[10] – che d’un tratto, seppure a scopi commerciali, non è più rintracciabile[11]; mentre in Cane giallo, taglia media del 1971 Kiko, scrittore su commissione in crisi d’ispirazione, medita di sparire volontariamente come ha appena fatto, improvvisamente, il suo cane[12]).
Il nudo scheletro del radiodramma scritto a quattro mani nel 1966 si configura in ogni caso come tipicamente bianciardiano e “agro”: un uomo della provincia (stavolta del Nord) si trasferisce a Milano portandosi dietro aspirazioni di carriera intellettuale e una lettera di raccomandazione del padre (che lo vorrebbe, come lui anni prima, al giornale «La sera»): ma ben prestò dovrà scontrarsi con una realtà lavorativa assai deludente (in apertura veniamo avvertiti che «i fatti sono veri, i personaggi sono inventati») in cui si sono persi di vista il senso e la dignità dei mestieri, e dove potere e prestigio sono utilizzati essenzialmente per sfruttare il lavoro altrui. Subito coinvolto nella vita della redazione senza però essere regolarmente assunto, quando arriva il momento dei licenziamenti (che rivela le false promesse dell’espansione incontrollata: ecco probabilmente la congiuntura del 1964), Gianrico Francalancia, che ha già sperimentato la boria e l’incontinenza verbale dei “potenti” (tanto che l’intervista all’attore Ghirlanda l’ha costruita ricomponendo i solipsistici discorsi della celebrità: prima deludente lezione di giornalismo), sarà il primo a perdere il posto.
Nel frattempo ha conosciuto, nella pensione (“Sorriso”) in cui alloggia, una ragazza, Franca (di mestiere indossatrice), che prova a consolarlo procurandogli il primo di una serie di colloqui e ingaggi che però si riveleranno tutti infruttuosi e deludenti, talvolta perfino svilenti. Accolto (e poi raccomandato) dalla Vedovelli, direttrice di una rivista femminile colpita soprattutto dal suo aspetto fisico (Franca Valeri), Gianrico vagherà infatti in cerca di un impiego (di un modo per non tornare in provincia a dichiarare la propria sconfitta), raccogliendo, invece che serie proposte professionali, esibite richieste di collaborazione non retribuita o furbescamente ricompensata con la promessa del successo. Così da parte dello straripante impresario teatrale Egidio Maglione (interpretato da Tino Scotti) e così, in seguito, del dirigente di un’agenzia pubblicitaria, finché una fortuita coincidenza e la minaccia di uno scandalo non servono a reintegrare Gianrico nel giornale: «il direttore […], ammiratore della fidanzata del giovane rampante, ha [infatti] un “coccolone”», per usare le parole di Vaime, «proprio mentre si trova, in visita amichevole e priva di malizia, a casa di lei. Non essendo trasportabile, vi rimane. Bisogna quindi coprire il possibile scandalo. Il giovane […] sfrutta astutamente la situazione. Alla fine tutto si ricompatta, come una grande famiglia appunto»[13] (sintagma ricorrente lungo l’intero testo radiofonico[14]).
Il nuovo mezzo offre insomma a Bianciardi (e a Vaime) la possibilità di elaborare una declinazione ulteriore di una storia in parte già raccontata (quella dell’aspirante intellettuale ben presto deluso dalla Milano del boom), dando peraltro forma ed evidenza sonora agli ambienti della città nonché ai tic linguistici dei suoi abitanti. Diviso in due parti di circa 52’ ciascuna, il radiodramma risulta infatti scandito a più riprese dal rumore delle rotative tipografiche e delle macchine da scrivere, ma il suo spazio acustico – sovente sporco, carico di sovrapposizioni (si pensi all’abbaiare dei cani che accompagna le conversazioni tra Francalancia e la Vedovelli) – accoglie poi anche numerosi inserti musicali a beneficio dei personaggi (tralasciando alcune marce enfatiche che accompagnano snodi decisivi del dramma: Le Pere de la Victoire, Dans l’express…): come Sono un fallito di Gino Santercole, che Gianrico ascolta nel bar dove va a dimenticarsi di sé appena perso il lavoro, oppure – a conferma di una passione in quel momento pressoché totalizzante – come Per un basin di Jannacci[15], suonata in un altro locale pubblico… Giacché anche i luoghi di questa radiocommedia in due tempi – che travalica l’abituale misura temporale di genere (nonostante gli ingenti tagli del regista Filippo Crivelli[16]) – rimandano a quelli consueti nella narrativa di Bianciardi: da una parte redazioni e agenzie pubblicitarie (il mondo culturale del Nord) e dall’altra alloggi in pensioni condivise, caffè e ristoranti a buon mercato dove la confusione (degli stornelli che si accavallano alle conversazioni) è accettata e l’intimità nondimeno possibile, lontani dall’artefatto eloquio che guida i colloqui di lavoro e non solo.
Passare in rassegna gli incontri che scandiscono l’arrivo e la prima stagione di Gianrico a Milano può avvicinarci, per l’appunto, a quello che probabilmente rappresenta il centro semantico dell’opera. Dal dottor Sergio Ferrerio, direttore della «Sera» (con la sua retorica della terra e della provincia dalla quale anche lui proviene), al citato Ghirlanda («bravissimo, so di lei, la seguo», «siamo nella stessa barca, in fondo»: e arriva pure a chiedere a Gianrico di scrivergli dei testi), dalla Vedovelli («se decido di fare il successo di qualcuno, io ci riesco») a Maglione e a un commendatore che non ha nemmeno capito di essere intervistato («qui da me lei si troverà come in famiglia»: sempre la stessa immagine), si vedrà in effetti che gli abitanti del mondo rappresentato da Bianciardi e Vaime, oltre che caratterizzati da inflessioni dialettali che restituiscono il crogiuolo geografico milanese (e assicurano immediata riconoscibilità all’“ascoltatore”)[17], sono tutti o quasi accomunati dall’uso di un linguaggio aggressivo e manipolatorio nei confronti del loro interlocutore. Nel senso che lo travolgono con i loro discorsi, lo interrompono continuamente impedendogli di formulare eventuali richieste, ma al tempo stesso lo lusingano, gli assicurano che il futuro premierà le sue capacità (con lo scopo di sfruttarle prima o dopo a proprio vantaggio), ben presto introducendo il “tu” al posto del “lei” epperò continuamente dimenticando il suo nome e conservando di fatto uno stato di superiorità che non ammette intrusioni. Di più: che non ammette contatto, scambio, interazione, per cui Come una grande famiglia sembra voler denunciare in primo luogo l’arroganza del potere che si manifesta attraverso la parola camuffata, infida, falsamente complice, farcita di avances, di promesse che non potranno essere mantenute e di autocelebrazioni che saturano lo spazio dialettico. Terrorizzati comunque sempre, i cittadini della nuova società dell’omologazione e del profitto immortalata anche altrove da Bianciardi (e già usa, qui, a piegare a scopi commerciali i linguaggi dell’informazione e della pubblicità), dal silenzio e dall’improvvisazione, dall’intimità, abituati come sono a tenere il pallino della conversazione affidandosi al guscio vuoto di un linguaggio abitudinario e desemantizzato (e talvolta, di nuovo, aggressivo: si pensi al ragionier Susciani che abita nella stessa pensione di Gianrico e che affianca alle solite frasi fatte plurimi resoconti di disgrazie altrui) – privilegiato bersaglio polemico, questo protettivo involucro verbale, già sul treno che porta Gianrico a Milano, dove la conversazione tra passeggeri procede per luoghi comuni (“gli uomini sono tutti uguali”, “l’America è un paese giovane”, “c’è troppa corruzione in giro”), e poi sugli annunci degli alloggi a pigione (“affitansi camere”). Tanto che l’unica, parziale eccezione entro questa moltitudine di equivoci parlanti, assieme a Franca (e al collega Baldini, personaggio però più marginale), pare essere quel Gaspare Libotti[18], tipografo del giornale, che in passato ha condiviso battaglie e ideali politici con l’editore (prima del suo tradimento) e che nel finale confiderà a Gianrico il sogno a lungo coltivato, ma ormai abbandonato, di manomettere il giornale per farlo uscire col titolo “Viva la libertà” in prima pagina.
Che il paese stia vivendo una stagione di consistenti trasformazioni, sociali economiche e linguistiche, è del resto palese fin dalle prime battute del radiodramma, quando il padre di Gianrico ultima la lista delle raccomandazioni e delle indicazioni da consegnare al figlio, dando per scontato (ingenuamente, come si intuisce subito) che il giornale non abbia cambiato sede, il direttore occupi la stessa stanza e conservi perfino lo stesso aspetto di venticinque anni prima; ma poi anche quando Ferrerio, preso da improvviso entusiasmo, immagina (nel corso del primo incontro con Gianrico) l’epoca ormai imminente in cui i giornali verranno scritti dalle macchine; oppure, ancora, quando al primo appuntamento con Franca, in una trattoria a venti minuti dal centro, Gianrico le confida la propria paura che presto anche quel posto diventi famoso e, preso d’assalto, cada come tutto nel pozzo dell’inautentico.
Il vestito comico e ridicolo che gli autori confezionano per alcuni dei loro personaggi e per il loro modo di parlare (su tutti Maglione, che mescola il napoletano a un inglese maccheronico) non basta in ogni caso a neutralizzare il tono amaro e sfiduciato della radiocommedia. Francalancia sarà reintegrato nel giornale, come detto, solo grazie alla fortunata (per lui) coincidenza in virtù della quale il direttor Ferrerio si sente male proprio sulla soglia della pensione “Sorriso” (dopo aver corso sei piani di scale per apparire baldanzoso agli occhi di Franca, che spera di posare per il suo giornale): e dunque sarà la necessità di restare lì a riposo e non pubblicizzare troppo la scaturigine dell’evento (soprattutto con la famiglia) a risolvere la situazione a favore del giovane Gianrico, riassunto alla «Sera» (stavolta, facendo tesoro dell’esperienza precedente, ha preteso di mettere nero su bianco la sua posizione: perché «una stretta di mano non basta») ma incapace di gioire del tutto per la sua mutata condizione. Il radiodramma si chiude, con movimento circolare, su un’altra lettera del padre che – ignaro dei compromessi e degli scambi di cui è lastricata la strada dell’integrazione – si complimenta col figlio: il quale appunto ha velocemente scalato posizioni all’interno del giornale, si è trasferito in via della Spiga (ma l’evoluzione della sua affettuosa amicizia con Franca rimane ignota) e però, come spiega a un Libotti svuotato ormai di ogni carica contestativa[19], si porta dietro una specie di rimorso.
Le ultime osservazioni, a proposito di questa eccezionale (e poco nota) escursione creativa di Bianciardi, riguardano ancora la regia di Crivelli, che taglia interi dialoghi, soprattutto nel finale (per esempio tra Francalancia e Manuela, figlia del direttore accorsa sul luogo del malore) – evidentemente, come detto, perché la misura del testo radiofonico ha già superato la misura standard; e poi Franca Valeri che – miracolo dell’espressione radiofonica, per cui “basta” camuffare l’eloquio invece dell’aspetto – ricopre addirittura tre ruoli[20], quelli della Vedovelli, della madre di Gianrico e della tenutaria della pensione.
Andrà infine ricordato, in margine all’esperienza appena riportata e senza contare le sue traduzioni portate alla radio[21] (Per un bacio a Croton Falls di Irwin Shaw e un brano da Il sole si spegne di Osamu Dazai[22]), che dopo la morte di Bianciardi Mario Vani adatterà per la radio quel racconto del 1967 intitolato Il prigioniero di Bull Runn[23] in cui si narra di un volontario italiano, andato a combattere in America al fianco dei nordisti, fatto prigioniero e poi riscattato per errore dai suoi sodali (i quali pensano possa fare da tramite con Garibaldi: ancora lui) prima di stabilirsi a fare il fornaio, come già a Piombino, nell’Illinois. Nella versione radiofonica il racconto rivive con pochissimi cambiamenti, nel senso che nella parte iniziale la narrazione posteriore (omodiegetica) viene rimpiazzata, in maniera abbastanza prevedibile, dai dialoghi tra i prigionieri ammassati in una cantina; ma questa, evidentemente, è una storia che ormai non riguarda (quasi) più Bianciardi.
Come una grande famiglia
Radiocommedia in due tempi di Luciano Bianciardi ed Enrico Vaime
Regia: Filippo Crivelli
Con: Ruggero De Daninos (Gianrico Francalancia), Giampaolo Rossi (suo padre Ambrogio), Franca Valeri (sua madre Elvira, la padrona della pensione “Sorriso”, Liliana Vedovelli), Gianni Tonolli (il ragionier Sciusciani), Sandro Massimini (l’usciere, il funzionario, il tipografo, il cameriere), Piero Mazzarella (Sergio Ferrerio direttore di “La sera”), Leda Palma (sua figlia Manuela), Ennio Groggia (Baldini), Franco Friggeri (Vismara), Paolo Neri (Arnaldi), Gianni Bortolotto (De Gregorio, il dott. Zardi), Ottavio Fanfani (Ezio Ghirlanda, attore), Tino Scotti (il commendatore), Enza Soldi (la Franca, indossatrice), Rino Silveri (il dott. Giganti), Egisto Marcucci (Gaspare Libotti), Sandro Tuminelli (Egidio Maglione, impresario teatrale), Ettore Conti (il pubblicitario), e inoltre: Sante Calogero, Enzo Fisichella, Aristide Leporani.
Prima messa in onda: martedì 18 gennaio 1966 ore 20.30, Programma Nazionale.
- L’opera è stata recentemente riproposta (divisa in due puntate: 20 e 27 maggio 2021) nell’ambito della trasmissione “Il teatro di Radio3”, presentata da Antonio Audino e Rodolfo Sacchettini. In appendice a questo contributo figura la scheda dettagliata. ↑
- L. Bianciardi, Perché a Rapallo, in «ABC», 14 luglio 1968, poi in Id., L’antimeridiano, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Coppola, Alberto Piccinini, Milano, Isbn: ExCogita, 2008, vol. II, p. 1460. ↑
- Così Bianciardi lo definirà in Le vacche sacre, in «Playmen», giugno 1971, poi in Id., L’antimeridiano, vol. II, p. 1638. Rievocherà quindi le origini del loro rapporto nella prefazione a un romanzo firmato da Vaime a quattro mani stavolta con Italo Terzoli (Amare significa…: storia d’amore all’italiana, Milano, Bietti, 1971, p. 6), ricordando appunto le serate in sua compagnia prima che il cabaret diventasse «un mestiere anche quello. Il padrone di casa si chiamava (e si chiama tuttora) Franco Nebbia, musicista, e subito nacque il sodalizio: oltre a Enrico Vaime e a sua moglie Enza Soldi, venivano Giancarlo Cobelli, Enzo Jannacci, Sandro Massimini, Gigi Pistilli, Giorgio Gaber, Liliana Zoboli, e ogni sera era uno spettacolo differente e imprevedibile». Nel bel racconto (fortemente autobiografico) La casa al mare (in «L’Europeo», 28 luglio 1966, poi in Id., Il peripatetico e altre storie, Milano, Rizzoli, 1976, e quindi in Id., La solita zuppa e altre storie [1994], a cura di Luciana Bianciardi, Milano, Bompiani, 2003, pp. 122-23) si legge: «in città […] perdevo le nottate da Enrico, dove gli amici artisti cantavano in latino e mettevano in musica la lista delle vivande, l’orario ferroviario, la farmacopea ufficiale». ↑
- In proposito si veda F. Di Lorenzo, La mia amicizia con Bianciardi. Intervista con Enrico Vaime, in «Il gabellino», 11 giugno 2005, pp. 4-5. Altre testimonianze di Vaime sono contenute nella parte finale (Uscita Rapallo) di P. Corrias, Vita agra di un anarchico. Bianciardi a Milano, Milano, Baldini & Castoldi, 1993. ↑
- Un esempio, la trasmissione di Carlo Mazzarella “Amici di Milano”, andata in onda il 27 febbraio 1963. ↑
- Sul tema si veda L. Bianciardi, Della pazzia lombarda, in «Il delatore», marzo 1964, poi in Id., L’antimeridiano cit., II, pp. 1198-99. ↑
- Banfi e il professore: ai quali si aggiungono, in vista della parata che non raggiungeranno mai, altri personaggi che in verità nella compagnia sembrano cercare un’occupazione condivisa e perciò rassicurante con cui mettere a tacere inquietudini eccezionali. Nel 1964, inoltre, Vaime ha ridotto per la radio Gli impiegati (Les employés) di Balzac (l’anno primo Spose scambiate di Thomas Hardy, l’anno dopo sarà invece la volta di Uomini e no di Vittorini) e nello stesso anno ha scritto insieme a Pino Calvi la canzone che canta Giorgio Gaber (La macchina cattiva) nel radiodramma di Fruttero e Lucentini L’incaricato (regia di Giorgio Bandini). Sempre a proposito di canzoni, andrà pure ricordato che Bianciardi difese dagli attacchi della censura un pezzo di Vaime e Nebbia (per cui si veda Censura al tricolore, in «Le Ore», 7 gennaio 1964, poi in Id., L’antimeridiano cit., II, pp. 945-47). ↑
- In proposito afferma ancora Vaime (F. Di Lorenzo, La mia amicizia con Bianciardi. Intervista con Enrico Vaime cit.): «Qualche volta scrivevamo proprio insieme, ma il più delle volte ognuno scriveva la sua parte e poi ci si scambiava i fogli, come a scuola. Era un lavoro privo della ‘biecaggine’ proterva dell’editoria: i ritmi serrati, la precisione, la consegna, le cartelle… era un lavoro più artistico, se vogliamo, non un lavoro impiegatizio come era quello delle traduzioni, che lui faceva benissimo peraltro». ↑
- Qui tale Giovanni, partito come tanti suoi conterranei da un piccolo paese meridionale alla volta di Milano, non dà più notizie di sé. ↑
- Mi riferisco naturalmente al film tratto dalla Vita agra e alle differenze che presenta rispetto al romanzo. ↑
- In proposito si può leggere A. Camilleri, Un poeta «pubblicitario», in «Radiocorriere», 13-19 novembre 1966. ↑
- È da notare, peraltro, che pure le sue inchieste giornalistiche, come quelle (lo vedremo tra poco) del protagonista di Come una grande famiglia, vengono seguite con orgogliosa apprensione dal padre. ↑
- Ancora da F. Di Lorenzo, La mia amicizia con Bianciardi. Intervista con Enrico Vaime cit. ↑
- Introdotto nel momento in cui, in attesa del primo incontro col direttore del giornale e scettico sulle possibilità di essere ricevuto, Gianrico rammenta le parole del padre («Come una grande famiglia, vedrai…»), torna infatti quando sempre Gianrico, di fronte a un imminente ridimensionamento dei quadri, ricorda al collega Arnaldi le parole di Ferrerio («il capo mi diceva sempre […] questa è casa tua, la nostra grande famiglia»), e poi di nuovo direttamente in bocca al direttore («non ci davamo del tu? In fondo, siamo un’unica grande famiglia») – e quando nel finale, rubando una battuta che il copione assegna al marito, la madre scrive a Gianrico («la tua mamma ti raccomanda la cura della salute, pur sapendoti al sicuro al tuo giornale che è come una grande famiglia»). Andrà oltretutto rilevato che il testo di Bianciardi e Vaime prevedeva un passaggio poi espunto in cui Gianrico avrebbe dovuto esprimere lo stesso concetto rimuginando tra sé dopo il colloquio col pubblicitario («Nella grande famiglia: eccolo l’altro concetto pubblicitario. Sì, perché pubblicità non è solo quella scritta sui muri. Pubblicità è tutto, ormai. La cravatta che porti. Il sorriso che mostri […] Come dice Ferrerio? La nostra è una grande famiglia»). ↑
- Il copione indica in verità Ma mi dello stesso cantante. ↑
- Il quale era soprattutto un regista di opere liriche che però nel 1964 aveva diretto la messa in onda radiofonica di un racconto originale di Giovanni Arpino, Violino milanese, adattato proprio da Vaime e in cui recita anche Jannacci nel ruolo del musicante Mandolino (poi nel 1965 sarà il regista di Col semaforo rosso di Elio Pagliarani). Del resto Crivelli aveva arruolato come attore Jannacci già nel 1962, per il recital collettivo Milanin Milanon al Teatro Gerolamo di Milano (con Tino Carraro, Anna Nogara, Sandra Mantovani, Maria Carla Mignone…). ↑
- Il commendatore parla lombardo, il cameriere del ristorante veneziano, Libotti e la Vedovelli toscano… ↑
- Ancora a proposito di inserti musicali e canti da osteria, la prima volta che Gianrico lo incontra sta cantando gli Stornelli d’esilio di Pietro Gori, mentre il loro colloquio finale si svolgerà sopra le note dal vivo di Addio Lugano (dello stesso autore). ↑
- E che, ribaltando frasi che il suo interlocutore ha già ascoltato, potrà dirgli: «siamo sulla stessa barca, no? Ma adesso guidi tu». ↑
- Così come Sandro Tuminelli, che ricopre ruoli minori al pari di Sandro Massimini (addirittura quattro per quest’ultimo). ↑
- Più in generale, senza contare tutto ciò che non rientra, alla radio, nel contenitore della fiction (per esempio il dibattito intitolato La cultura come bene di consumo al quale partecipa il 25 aprile 1963 insieme a Ferrarotti e Bigiaretti, conduttore Pampaloni). ↑
- Nel primo caso si tratta di un racconto contenuto in Scommessa sul fantino morto e altri racconti (Tip on a Dead Jockey and Other Stories, 1957), pubblicato da Bompiani nel 1960 e trasmesso alla radio nel 1964. Nel secondo di un romanzo (Shayo, in inglese The Setting Sun) tradotto per Feltrinelli nel 1959 e (appunto parzialmente) letto alla radio da Cristina Noci nel 1985. ↑
- Pubblicato su «ABC» (novembre 1967) e pure in Aa.Vv., La tavolata, Milano, Bietti, 1967; in L. Bianciardi, Il peripatetico e altre storie cit., e in Id., La solita zuppa e altre storie cit. L’adattamento viene trasmesso all’interno del programma “Radio per le scuole” il 20 aprile 1972 (durata 23’ 30’’). ↑
(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. I)