Sembra essere prassi, parlando di Bianciardi, chiamare in causa Pasolini per verificare la precedenza cronologica del grossetano nella critica della società dei consumi e confermarne le precocità analitiche riguardo alla “mutazione antropologica” degli Italiani. In questa sorta di agone tra profeti ‒ che è in realtà una più o meno consapevole operazione retorica di convalida tramite auctoritas ‒ Pasolini, con il suo peso specifico, funziona per un verso come prova del valore intellettuale di Bianciardi (lo ha detto prima lui di Pasolini); dall’altra parte, subisce una contestuale diminuzione, in linea con la polemica sugli autori ingiustamente trascurati in favore di quelli mainstream. Anche la fotografia più nota di Bianciardi, quella che lo ritrae con una benda sull’occhio destro, trasformata in icona ufficiale dalle copertine delle due più importanti raccolte (il Saggiatore e Antimeridiano), stabilisce l’immagine dello “scrittore pirata”, contribuendo a istituire ‒ inevitabilmente benché senza premeditazione ‒ un confronto permanente con il “Pasolini corsaro”.
Pasolini e Bianciardi hanno meritato postuma la designazione di profeti, in vita il marchio degli arrabbiati, eretici e dissidenti. Ciò che condividono, al fondo, è la postura emotiva di chi è umiliato e offeso: la propria rabbia percepita come unica, inclinazione che diventa stigma e che non può essere spartita con altri, in una scrittura che si configura come grande monstrum autobiografico. Le affinità e le convergenze tra i due appaiono molte e non sempre casuali. Ciò non rende possibile, tuttavia, parlare di una qualche relazione, poiché l’attenzione fu del tutto unilaterale. E cioè Pasolini, almeno apparentemente, non si interessò mai di Bianciardi; viceversa, significativa è la presenza di Pasolini nell’opera del toscano, soprattutto intorno all’anno fatidico del 1968, quando la simmetria degli interventi è quasi perfetta. È in questo frangente, infatti, che trova il suo culmine lo scetticismo che entrambi hanno manifestato, già dalla metà degli anni ’60, nei confronti delle sottoculture e dei movimenti di protesta giovanili, come pure verso le sempre più devitalizzate aspirazioni rivoluzionarie del Partito Comunista.
Per iniziare questa verifica, si può partire da Milano e dalla metà degli anni ’50. Non è necessario dilungarsi sull’importanza che la città riveste per Bianciardi: essa è condizione, ragione, pretesto di un racconto quasi ininterrotto. Sarà interessante notare, piuttosto, che alcuni articoli di Pasolini in quegli anni incrociano i “temi milanesi” di Bianciardi e con non minore inclemenza per la città del miracolo economico.
Calvinista o controriformista? La capitale morale, patria del nemico
Nel 1954, Bianciardi lascia Grosseto per trasferirsi a Milano. Sconvolto per gli eventi di Ribolla, desideroso di dare un senso alla propria militanza di intellettuale, precipita nel tritacarne della città. La qualità della vita a Milano gli appare ed è, per lui a corto di mezzi, terribile. Dopo appena tre mesi, scrive all’amico Mario Terrosi una lettera in cui la città è dipinta con quel tratto aspro che sarà maniera e assunto fondamentale della sua produzione più nota: «Vivere a Milano […] è molto triste», scrive, «non è l’Italia qua, è l’Europa, e l’Europa è stupida». Nonostante l’impatto, Bianciardi è fermamente intenzionato a restare, in ragione di un progetto di vita politico e culturale: «La rivoluzione si farà, dopo tutto, proprio a Milano, non c’è dubbio, perché a Milano sta di casa il nemico nostro, Pirelli e quelli come lui»[1]. Milano patria del nemico, dunque, ma non solo. Anche terreno di coltura della rabbia e laboratorio di rivolte. Su questa idea, sostenuta da una lettura marxista piuttosto ortodossa, agisce anche l’effigie romantica di una Milano tumultuosa e insorgente contro l’oppressore, di memoria risorgimentale; suggestione che diventerà struttura portante in Aprire il fuoco, l’ultimo romanzo di Bianciardi che, come si vedrà, sancisce la fine di ogni speranza con il mancato avveramento di questa previsione.
Negli anni a seguire, Bianciardi va approntando il suo armamentario retorico contro “il miracolo” e la sua capitale. In particolare negli articoli pubblicati su «L’Unità» fra il ’55 e il ’56, dedicati ai vari “tipi” milanesi, Bianciardi allestisce la sua satira della nevrosi nella città del rendimento e dell’efficienza[2]. L’analisi settoriale è lo strumento privilegiato per innescare il meccanismo comico, consistendo il massimo dell’alienazione nella divisione e specializzazione del lavoro, uno dei temi prediletti da Bianciardi[3].
Di Milano, uno può dire tutto il male che vuole, ma non può certo misconoscerne certi aspetti positivi. L’organizzazione per esempio, the right man in the right place, e tutto funziona, come una grossa macchina in cui ogni pezzo, anche il minimo, ha un senso ed un movimento preciso, ben calcolato, inderogabile ed inesorabile. Il primo milanese che conobbi fu un ragioniere bruno, pallido […]. Viaggiava in rasoi elettrici da cinque anni […]. Gli chiesi della vita milanese, quanto ci sarebbe voluto, per campare, che prezzo avesse la carne, ma non mi seppe rispondere: “Non è il mio ramo”[4].
Nella Lettera da Milano del 1955, accanto alla descrizione già agra della vita milanese, compare un confronto con Roma in cui la città lombarda appare sempre come termine negativo[5]. In un crescendo di biasimo, Bianciardi azzarda che persino il traffico, lì, sia assai più intenso che a Roma. La «burocrazia del commercio» meneghina, imprenditoriale, arrogante, «superba del suo mito», è poi assai peggiore della burocrazia romana, ministeriale. Con il consueto gusto mimetico, Bianciardi assume il punto di vista romano anche nella lingua e nota: «Quando a Roma la gente, di tipi simili, dice “fanatico”, inavvertitamente mette in chiaro il fondo mentale monologico, religioso, che sostiene il loro costume». È il fanatismo del lavoro, del tempo che non va perduto, degli affari, della serietà; teologia del capitale, piena di sacrifici ma senza speranza di salvezza. «Le formiche milanesi continuano a scarpinare, mosse da una furia calvinista per il lavoro e per la grana, e io non riesco proprio a capire, mi sento infedele e terrone, anche se lavoro più di tutti»[6].
Anche per Pasolini l’Italia è divisa in due: una “civiltà settentrionale”, ormai avviata al capitalismo, e una meridionale, largamente sottoproletaria. A fare da confine ideale c’è il corso orizzontale dell’Aniene, come spiega a Franco Fortini in una lettera del 1955; ed è interessante notare come la stessa infinita polemica tra i due, appena prima della sua formalizzazione, si connoti anche geograficamente come un confronto tra Roma e l’Italia del Nord, peraltro ben nota a Pasolini, legata al ricordo dolce-amaro dell’infanzia, all’idillio e poi al trauma friulano[7].
Tra novembre e dicembre del 1959, Pasolini trascorre venti giorni a Milano per lavorare alla stesura di un film mai realizzato e di cui ci resta la sceneggiatura La Nebbiosa[8]. Il soggetto prende a pretesto il fenomeno dei cosiddetti teddy boys per raccontare la città, la sua vita notturna, le patologie borghesi che la impestano. Sulla scia dello psicoanalista Cesare Musatti, Pasolini legge la rabbia dei teddy boys come il prodotto di una «società neocapitalista irrigidita moralisticamente nelle sue sovrastrutture»[9] e per quanto nella Nebbiosa vi sia più di uno spunto di fascinazione per la moderna metropoli in fieri, il giudizio che Pasolini esprime su Milano non è meno spietato di quello di Bianciardi[10]:
È un film sulla protesta dei Milanesi, non un film su Milano. Anzi un film anti-Milano, in un certo senso. […] A Milano c’è una borghesia che funziona perfettamente, come voi sapete, tutto va bene, ma ha una specie di vuoto dentro per cui questa gioventù è veramente la gioventù più irrequieta e angosciata che abbia mai visto. Milano è una città di nevrotici, soprattutto i giovani. […] Vi siete mai accorti della gente che a Milano va per le strade parlando da sola?
Altrove, Pasolini riesce a essere ancora più caustico, trascinando Milano, come fa Bianciardi, in uno sfacciato confronto a perdere con Roma[11]:
Tutti i milanesi tendono ad essere biblici, catastrofici, a fare la tragedia dal nulla, a tormentare gli altri. Guardate come i principali trattano i subordinati, come gli anziani trattano i giovani: con una serietà che è un incubo, un senso pedagogico che è una tortura. Sono cristiani, cattolici, controriformisti, i poveri milanesi. E quindi repressi, e quindi scontenti: e ogni scontento vuole scontenti anche gli altri, detesta l’altrui libertà. Si sono buttati a capofitto nei destini del neocapitalismo, mentre a Roma si vive ancora tra i palmizi, come a Bandung.
Sembra di sentire alcuni dei temi cari al Bianciardi della Vita agra, come quello dei “tafanatori” che non lasciano vivere e tartassano e vessano sadicamente, in nome di un’acritica e fanatica adesione al neocapitalismo.
Calvinismo o controriformismo che sia, la serietà, il riserbo e le buone maniere dei milanesi sono messi alla berlina da entrambi, liquidati come altro sintomo di nevrosi. Ad espugnare questo fortino del borghese senso del decoro e della disciplina basterebbero, secondo Bianciardi, «mille uomini spregiudicati […] disposti a scendere da un tram in corsa, a passare col rosso, a cantare nei giorni feriali» oppure «a chiamarsi ad alta voce, da un marciapiede all’altro». Con parodica allusione garibaldina, nell’articolo Rivoluzione a Milano, Bianciardi chiede «questi mille spericolati» e promette che in mezza giornata la città sarà sua[12].
Anche per Pasolini, dunque, la capitale nel Nord compare, pure emergendo in modo carsico, come termine negativo del discorso per almeno un decennio, in quanto patria della grande borghesia e centro da cui si irradiano deprecati modelli comportamentali per il resto del Paese. In proposito si legga nel primo capitolo di Teorema l’asciutta e sfregiante presentazione della famiglia protagonista che l’autore rinuncia a descrivere, dal momento che essa, pur essendo di «persone molto ricche, che abitano a Milano», è una famiglia piccolo borghese «in senso ideologico»; così mediocremente piccolo borghese che il lettore non faticherà ad immaginarla da sé e con estrema precisione[13].
America senza tragedia
Retrospettivamente Pasolini parlerà dei suoi film “borghesi”, Teorema e Porcile, come di opere nate nel clima della Beat generation, nell’inquietudine poetica di quella corrente: «esaltazione della disperazione» e rivolta contro la società del benessere «nella forma di un grido disperato» (il riferimento ad Allen Ginsberg è evidente). Queste parole riferiscono della grande crisi del «marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta […] patita e vista da un marxista» che Pasolini attraversò intorno al 1965 e di cui si trova il correlativo più immediato in Uccellacci e uccellini (1966); crisi che lo allontanava dalle prospettive tradizionali dell’opposizione marxista, mentre contemporaneamente il poeta prendeva le distanze dalla contestazione studentesca, ritrovandosi «nella solitudine più totale»[14].
A partire dal 1966, Pasolini farà uso frequente di questi argomenti come strumenti tipici del suo discorso: da un lato l’inesistenza, in Italia, di autentici beatniks, dal momento che la mediocre ideologia piccolo-borghese italiana «per ragioni di proporzione» non può che produrre, contro sé stessa, una rabbia altrettanto piccola, provinciale e limitata[15]; dall’altro, la Resistenza interpretata come grande paradigma di lotta ma anche complesso che pesa sullo sviluppo originale di lotte future[16]; infine, terzo elemento ricorrente è la scelta di Socrate come proprio modello di conflittualità, di libero e corrosivo parresiasta, esempio di scandalo e martirio: un paradigma di contestazione certamente anacronistico rispetto a quelli circolanti all’epoca[17]. In una serie di interviste rilasciate a Peter Dragadze, poi pubblicate postume come una sorta di testamento, troviamo riassunte in modo particolarmente efficace le questioni appena evocate[18]:
Come ho detto tante volte e da tante parti, io non voglio essere italiano. Vorrei essere americano. Sarei naturalmente un americano dell’altra America. E finalmente la mia forma di protesta sarebbe libera! Assolutamente, completamente, pazzamente libera! In Italia anche la protesta è conformista. La protesta liberale usa un linguaggio liceale che puzza di cadavere, la protesta marxista è tutta precostituita come un formulario. Mentre non c’è niente di più bello che inventare giorno per giorno il linguaggio della protesta!
Per comprendere cosa intenda Pasolini con “formulario marxista” basterebbe leggere le memorabili pagine di Bianciardi del Lavoro culturale (1957), con la caricatura dell’intellettuale comunista e degli stilemi stereotipati e stantii della sua lingua/gergo[19]. D’altro canto, il toscano si muove tra i medesimi luoghi retorici: le atrofie intellettuali del marxismo italiano del dopoguerra, da una parte; dall’altra, i “figli della borghesia” incapaci di produrre una protesta liberale ma radicale, che non sia solo “fase di trapasso” interno del potere. Intervistato da Enrico Vaime, sempre nel 1966, sul fenomeno dei “capelloni”, definendo i beatniks nostrani una «mistificazione culturale», Bianciardi avverte che i modelli e “i profeti” di tale movimento sono sempre americani o inglesi e riferisce il giudizio, poi diventato famoso, di Allen Ginsberg sui Beat italiani; su quanta tenerezza gli facessero questi giovani che già protestavano contro qualcosa che, nella migliore delle ipotesi, avrebbero visto soltanto i loro figli[20].
A fronte di questa comune sfiducia nei confronti dei potenziali soggetti rivoluzionari in Italia e dei rispettivi codici, bisogna registrare, per contrasto, la benevola attenzione che Bianciardi e Pasolini riservano ai modelli americani. Grazie al suo mestiere di traduttore, Bianciardi aveva incontrato precocemente la letteratura Beat anglo-americana e nel 1961 ne aveva tradotto per Guanda un’importante antologia[21]. Aveva poi legato il suo nome alle traduzioni e al personale culto di Henry Miller. Anche Pasolini ebbe, più tardi, grande interesse nei confronti dei “non integrati” americani e soprattutto nutrì una passione per il «poeta fratello Ginsberg»[22].
Nell’ottobre 1966 visita New York e la città travolge il poeta con il suo fascino. Dopo il viaggio, l’entusiasmo di Pasolini per i poeti e i movimenti americani, così come per la New left, non potrebbe essere più completo. Persino la disastrosa apparizione italiana di un malconcio Kerouac, a cui Bianciardi partecipa in qualità di traduttore, viene salutata con simpatia, a dispetto delle reazioni degli intellettuali e giornalisti italiani[23]. Ma ciò che accade negli Stati Uniti, nella forma di una tragedia sociale enorme che gli americani hanno convogliato in linguaggi originali e pratiche di lotta nuove, in Italia o non viene compreso, ed è condannato dai comunisti, o viene riproposto come farsa da poco credibili imitatori. Bianciardi così in L’integrazione (1960)[24]:
La civiltà americana moderna è come una grande macchina a gettone, tragica, che ti inghiotte, ma almeno qualcosa ne esce fuori. Qui invece tu non hai l’America, ma l’americanismo semmai, una copia cioè che riprende del modello solo gli aspetti negativi, senza darti nulla in cambio. Qui non c’è nemmeno tragedia, mi capisci?
Pasolini in un articolo nel 1966[25]:
La protesta, la contestazione pura e semplice, la rivolta contro il consumo: intendo dire il fenomeno dei beatniks che qui da noi è stato impostato in termini di pura curiosità, e, c’è bisogno di sottolinearlo? con ironia. I comunisti stessi, almeno, ch’io sappia, anche in Italia, preferiscono tacere su questo punto, o addirittura pronunciare parole di condanna: in cui il vecchio moralismo stalinistico e il provincialismo italiano trovano un’oscura identificazione. In realtà, nelle grandi città americane, chi si ubriaca, chi si droga, chi rifiuta di integrarsi nel sicuro mondo del lavoro, compie qualcosa di più di una serie di vecchi e codificati atti anarchici: vive una tragedia.
La polemica con i comunisti allude alle vecchie diatribe con «Il contemporaneo» così come alle stroncature dei «Quaderni Piacentini», sul cui numero iniziale Pasolini apparve tra le letture sconsigliate, in ottima compagnia, insieme all’opera omnia di Kerouac. Qualche mese dopo, anche La vita agra del “disintegrato” Bianciardi sarebbe comparsa nella famosa rubrica di Piergiorgio Bellocchio[26].
Padri e nonni dei lupi mannari
Siamo nel maggio del 1968, in occasione delle elezioni politiche. Nell’articolo I giovani alle urne di Bianciardi, si legge una delle più caustiche descrizioni del movimento studentesco[27]:
Sì, diciamolo pure, i nostri giovani protestatari, che pure sanno trovare forme nuove e originali di protesta, quando parlano e scrivono non sono molto felici. Scorriamo i loro testi e, fatta qualche bella eccezione (gli studenti di lettere a Torino, per esempio), ci si presenta un panorama linguistico abbastanza squallido: «struttura» e derivati ricorrono ogni quattro righe; «globale» serve a tappare ogni sorta di buchi lessicali (ma anche ideologici); si incontrano aborti del tipo «attività assembleare», oppure «caratterizzazione accentuatamente localistica e provincialistica»; puri trapianti verbali come sit in e teach in, di cui non si è neanche tentata la traduzione italiana; imprestiti maldigeriti, del tipo «gatti selvatici» oppure «nel lungo periodo» (rispettivamente wild cats e in the long run) o addirittura furti nel repertorio moroteo, come le «scelte prioritarie». […] la facilità di questo scambio, per cui i giovani parlano di «riorganizzazione dell’organismo rappresentativo» e l’onorevole La Malfa di «contestazione globale», può anche far venire il dubbio che qui noi stiamo assistendo, non già alla rivoluzione, ma a un semplice trapasso del potere da una generazione all’altra. Il dubbio che i figli si stiano preparando a conquistare il diritto di mandare la polizia a bastonare, fra vent’anni, i nipoti. È già successo altre volte[28].
Il passo ha un’atmosfera tutta pasoliniana: dall’analisi della lingua, soprattutto degli slogan, al tema della “guerra civile” interna alla borghesia, al trapasso di potere tra padri e figli; fino al “repertorio moroteo”, che immediatamente evoca il famoso saggio sulla lingua comparso su «Rinascita»[29].
Il 16 giugno compare sull’«Espresso» Il PCI ai giovani!! la cui notorietà solleva da discorsi generali e permette di entrare nel vivo del discorso[30]. Al centro del poemetto, Pasolini pone il problema del soggetto rivoluzionario, che, in maniera piuttosto ortodossa, non può essere riconosciuto in una forza (il movimento studentesco) cui manca la componente proletaria nonché la guida del Partito. Nel riferimento al sacro teppismo «di eletta tradizione / risorgimentale», si sente il riutilizzo sarcastico di echi gramsciani, del Risorgimento come “rivoluzione passiva”, in quanto segnata da una matrice borghese e non popolare. A questo proposito si legga un passaggio nell’articolo su Marcuse[31]:
[…] infatti gli studenti francesi e italiani, mettendo in crisi la cultura marxista tradizionale (a ragione), anziché ricostruirla, progredendo, in sostanza la rifiutano, regredendo. Regredendo su quali posizioni? Su posizioni risorgimentali. L’analogia tra i moti costituzionali del 1848 e i moti riformistici del 1968 è impressionante. E questo cosa significa? Significa che la borghesia si schiera nelle barricate contro se stessa, che i «figli di papà» si rivoltano contro i «papà», continuando una tradizione in cui la vera protagonista della storia è la borghesia.
La sovrapposizione 1848/1968 è particolarmente suggestiva, poiché sulla medesima intuizione Bianciardi fonderà la struttura di Aprire il fuoco (1969). Anche Bianciardi, ed è naturale, dedica le sue attenzioni a Marcuse; ma è notevole la vicinanza di tono e di argomenti ‒ fatta eccezione per un bel complimento a Fortini ‒ con le polemiche di Pasolini, al netto dei luoghi comuni circolanti al momento[32].
Ora vien fatto di chiedersi: perché, fra i «contestatori» presenti, oggi e ieri, in ogni parte di mondo, i giovani han preferito Herbert Marcuse? Ne avevano di più pittoreschi, volendo: avevano, per dire solo i primi nomi che vengono alla mente, Norman Mailer, Jack Kerouac, Allen Ginsberg. Vogliamo dire una cosa folle: avevano, qui in Italia, Franco Fortini, che le stesse cose del Marcuse ha detto con maggiore finezza e garbo letterario. […] E allora aggiungiamo che i giovani, stanchi del mondo dominato (secondo loro) dai padri, ribellandosi ai padri hanno chiesto l’appoggio dei nonni, dei settanta-e-passa. I quali nonni, si badi bene, son coloro che comandano davvero (de Gaulle fra gli altri). Ha agito sui giovani, come dire? il complesso di Anchise. O di Crono, se volete.
Nella rissa sorta intorno a Il PCI ai giovani!!, l’atteggiamento di Bianciardi è di sostanziale solidarietà per Pasolini, sebbene l’autore non nasconda un certo fastidio, dovuto principalmente all’apparato pubblicitario e, per così dire, divistico, del personaggio che altrove aveva già punto indicandolo come «abatino» della cultura italiana[33]. Che Bianciardi, d’altra parte, non sia ironico quando dà ragione a Pasolini, lo si deduce sia dalla consonanza delle loro posizioni sia dai molteplici attestati di ammirazione presenti nei suoi articoli, in cui più volte Pasolini viene citato tra i maggiori poeti e registi in Italia[34].
La presa in giro del lato più mondano di Pasolini, che Bianciardi interpreta con una punta di delusione come un aspetto fatuo del poeta, ha il suo apice in quel pregiatissimo delirio dal titolo Marines a Rapallo. Si tratta del resoconto di un “sogno” in cui le elezioni hanno visto la vittoria della Sinistra e l’avvento di uno straordinario, vero, rinnovamento[35]; i giovani hanno preso il potere e ne è venuto fuori un «governo dei vivi». La polizia è abolita, sostituita da una guardia civica in divisa turchese, guanti e scarpini bianchi e frustini; l’Italia ha confermato la sua amicizia con gli USA ma ha aderito anche al Patto di Varsavia. È un idillio in cui tutto procede liscio fino a quando le pubblicità non cominciano a consigliare grappa e vino e dissuadono dal bere Coca Cola. Allora è troppo: gli americani sbarcano a Rapallo per liberare la penisola. A questo punto, Bianciardi si cimenta in una parodia pasoliniana, tanto esilarante nelle formule, nel metro, negli esasperati enjambements, quanto stupefacente per abilità mimetica[36]:
Fra gli uomini di cultura uno dei pochi che prendessero posizione chiara fu il poeta Pasolini, il quale scrisse una poesia sulle tute mimetiche dei reparti sbarcati. “Cari”, cominciava l’ode, “cari ragazzi in tuta mimetica – memoria del rozzo overall – indosso al negro – coglitore di cotone […] Eletta schiera che tre volte – travalicaste l’Atlantico. – Nel diciassette ai tempi – di mio padre tenente – e Pershing v’era guida. Nel – quarantadue ai tempi – di me riformato e vi guidava il grande Ike – whom I like […] Via – dalla porca Italia, che – ai vostri avi terroni – non diede – né pane né – libertà.” I commenti furono i più vari, ci furono riunioni in casa Bellonci, Pasolini precisò che la poesia era brutta, ma che andava letta in un’altra maniera. Non disse quale. Se la prese coi quarantenni e passa, i quali profittavano dello sbarco dei marines per rifarsi una verginità ideologica e morale, si ritirò dal Premio Campiello, partecipò invece al Festival di Castrocaro, come paroliere. Poi mi svegliai.
I cattivi maestri del ’48
Dopo il grande successo della Vita agra, Bianciardi ha l’occasione di verificare sulla sua pelle il modo in cui il capitale tende sempre a reintegrare l’anomalia e a trasformarla in merce. Il genuino antagonismo libertario che aveva dato vita al suo capolavoro è destinato a trasformarsi in un prodotto da impacchettare e vendere: «Mi faranno fare l’incazzato a vita», scrive a un amico[37]. Allora, con sorpresa di tutti, abdica apparentemente al ruolo dell’arrabbiato per dedicarsi alla scrittura di un romanzo storico risorgimentale, La battaglia soda (1964), direttamente ispirato ai Mille del conterraneo garibaldino Giuseppe Bandi: prima esaltante e gloriosa lettura d’infanzia, libro del cuore regalatogli dal padre e che non smise mai di consolarlo. Nel 1969 usciranno, ancora a tema risorgimentale, Daghela avanti un passo! e l’ultimo romanzo, Aprire il fuoco; postumo, il libro illustrato Garibaldi[38].
Il Risorgimento è per Bianciardi poco meno che un’ossessione: passione radicata e totalizzante che nell’ultima parte della sua vita, rapidamente distrutta dall’alcol e segnata dalla solitudine di Rapallo, va in cortocircuito con il presente, producendo esiti dolorosi e affascinanti con Aprire il fuoco. Qui, i fatti della Milano del 1848 sono trasportati nel 1959 (in pieno “miracolo”), mentre le barricate non possono che essere anche quelle del 1968; l’esilio del narratore nella fantomatica cittadina di Nesci coincide naturalmente con quello di Bianciardi a Rapallo e i riferimenti autobiografici sono presenti quasi in ogni pagina. In questa straordinaria Milano aperta sul tempo, Carlo Cattaneo può ascoltare un concerto di Gaber, Ugo Tognazzi può incontrare Josef Radetzky. L’ipotesto del libro ‒ anche questa volta un classico del Risorgimento, I ricordi di gioventù di Giovanni Visconti Venosta ‒ è complicato da un intarsio di riscritture e allusioni; il contesto delle “Cinque giornate” è rievocato attraverso citazioni della Battaglia soda, romanzo che diventa ora, con grande disinvoltura, fonte storica[39].
Aprire il fuoco si presenta in tal modo come un memoriale trasfigurato da una stratificazione testuale estrema, all’interno di quella che è solitamente definita una speciale forma di ucronia[40]: ma sarebbe forse il caso di pensare il tempo di questa storia come un’“eterocronia”, sul modello delle “eterotopie” descritte da Michel Foucault, e cioè un tempo che può diventare continuamente altri tempi, sui quali è costantemente aperto in modo osmotico e di cui rappresenta una forma di contestazione[41]. Ciò permette a Bianciardi di trattare il Risorgimento non come semplice paradigma né come mero repertorio di valori, bensì come “avvenimento” contemporaneo sul quale costruire una critica simultanea della storia[42].
La tesi di Aprire il fuoco è che la rivoluzione, per essere davvero tale, deve essere permanente e «se diventa governo è già fallita». Di questa dottrina, Garibaldi, «rivoluzionario adulto anche lui, che funzionario non divenne mai ma si lasciò irretire da altri funzionari», rappresenta uno dei più nobili e tristemente fallimentari interpreti: «e del resto non poteva fare ogni cosa da solo»[43]. Quando di lui si dice che «nel nostro Risorgimento, rappresenta l’elemento popolare: a lui va tutta la simpatia di chi scrive, una simpatia che potrà sembrare partigiana, e lo è», la polemica vuole colpire le componenti pseudo-rivoluzionarie, che popolari non sono, e che hanno impedito e continuano a impedire le aspirazioni libertarie del Risorgimento, della Resistenza, del ’68[44]. Garibaldi come modello di lotta e anche di sconfitta, quindi, ritrovato in un tempo altro e ormai mitico, fatalmente anacronistico, come Socrate per Pasolini, in mezzo ai nuovi miti della protesta. Garibaldi come destino malinconico, in cui Bianciardi può facilmente riconoscere il suo. Il cerchio aperto nella lettera al Terrosi del 1954 si chiude tragicamente: «la delusione di allora [Risorgimento] è anche una verifica della delusione nostra, una specie di controllo del passato, per ritrovarvi i nostri errori, le nostre speranze»[45]. Il fallimento del protagonista di Aprire il fuoco coincide con il disinganno personale dell’autore e di tutti i suoi “alter ego” letterari; contemporaneamente il Risorgimento tradito si presenta come alias della Resistenza tradita (vero mito ideologico della lotta armata, di lì a poco) e di ogni altra occasione rivoluzionaria persa[46].
Nel capitolo V di Aprire il fuoco, il protagonista si fa precettore di tre giovani rampolli di una nobile famiglia milanese, orfani di padre. Il maggiore, Giovanni (che scopriremo poi essere il patriota Giovanni Visconti Venosta, il cui libro di Ricordi, lo si è detto, è il sottotesto principale del romanzo), sarà il pupillo particolare del maestro e tra i più giovani e generosi militanti della sollevazione cittadina. Si noti che anche in questo frangente compare un elemento autobiografico assai importante: l’insegnamento, infatti, fu il primo mestiere di Bianciardi, ricordato con nostalgia e con un certo rammarico dal narratore. Tra le numerose citazioni letterarie a sostegno della lezione che il maestro impartisce ai suoi discepoli, compaiono, verso la fine del capitolo, i versi di Agro inverno di Fortini (ricordato con il suo vero cognome, Lattes), scelti non soltanto per il rimando all’aggettivo “agro”, su cui il narratore allusivamente indugia, ma perché suonano come una sentenza che riassume la parabola esistenziale dello scrittore.
“Agro inverno crepiti il tuo fuoco, incenerisci inverno i boschi, i tetti recidi e brucia, inverno. Pianga chi piange, chi ha male abbia più male, chi odia odii più forte, chi tradisce trionfi; questo è l’ultimo testo, è il decreto del nostro inverno”. Mi vennero recitati molto bene, anche perché erano versi di un amico, e i tre fratelli mi applaudirono contenti.
Poche righe più avanti, per assecondare la richiesta degli allievi che desiderano sentire un’altra “poesia civile”, il maestro recita, senza citare l’autore, alcuni versi di Pasolini in cui si possono riconoscere ulteriori allusioni alla propria vicenda personale[47]:
«O pupilla del barbaro cerchiata dal verde padano nato con il sole! L’Italia ha una sola mattina di vita, e i secoli cantano con le allodole dell’alba sul fanciullo padano che non conosce la sera… » e continuai avanti così per un bel pezzo, giacché io ho sempre avuto buona memoria per le poesie. «…Nel ventidue, anno immerso nel secolo, Bologna respirava un’aria di valzer. Via Rizzoli tersa di sere profumate echeggiava in un oro leggero e sonante le musiche sospese intorno alle fanciulle che sfioravano il secolo con piume viola…».
Il cortocircuito, con il suo gioco di sovrapposizioni, raggiunge qui il massimo grado, generando una sorta di loop temporale fermo a un “punto zero” di felicità, con Bianciardi giovane professore, maestro dei suoi maestri (gli eroi risorgimentali), lieti nell’ora di letteratura, nel momento in cui le rivoluzioni sono ancora da farsi; e con Fortini e Pasolini, due poli così complementari e opposti, a chiudere la serie delle citazioni di un capitolo speciale, privo dell’amarezza che pervade il resto del libro, e che porta il segno della felicità del maestro, del piacere della letteratura e della passione civile.
- P. Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 87. ↑
- Su questa fase del giornalismo di Bianciardi, cfr. C. Varotti, Luciano Bianciardi. La protesta dello stile, Roma, Carocci, 2017, pp. 128-32. ↑
- Specialisti a Milano, 1956, in L. Bianciardi, L’antimeridiano, vol. II, Scritti giornalistici (1952-1971), Milano, ExCogita – ISBN Edizioni, 2008, pp. 749-50; ivi, vedi pure La specializzazione, 1960, p. 471. ↑
- Per un incipit identico, I frenetici e Rivoluzione a Milano, in L. Bianciardi, L’antimeridiano, vol. II, p. 791 e p. 800. ↑
- Lettera da Milano, comparsa su «Il Contemporaneo», 5 febbraio 1955, in L. Bianciardi, L’antimeridiano, vol. II, p. 700. ↑
- Indirizzata all’amico Galardino Rabiti nel 1962, la lettera si trova citata in M. C. Angelini, Luciano Bianciardi, Firenze, La Nuova Italia, 1980, p. 10. ↑
- Lettera a Franco Fortini del 3/9/1955, in P. P. Pasolini, Le lettere, a cura di A. Giordano e N. Naldini, Milano, Garzanti, 2021, p. 951. ↑
- P. P. Pasolini, La Nebbiosa, Milano, Il Saggiatore, 2013. Sulla permanenza di Pasolini a Milano, G. Agosti, Pasolini a Milano, in «Prospettiva» 161/162, gennaio-aprile 2016, pp. 187-95. Per la colorita testimonianza di Pasolini, vedi Cronaca di una giornata, 1960, in P. P. Pasolini, Romanzi e racconti 1946-1961, vol. II, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1998, pp. 1585-98. ↑
- Le citazioni sono tratte da La colpa non è dei teddy boys, in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 92-98. ↑
- A Milano si parla da soli. Incontro con Pier Paolo Pasolini, in «Schermi», 20, gennaio-febbraio 1960, pp. 11-15. Si confronti con L. Bianciardi, Della pazzia lombarda, 1964, in Id., L’antimeridiano, op. cit., pp. 1197-98: «Fateci caso e vedrete quanti sono i lombardi che si danno al soliloquio. Passa una vecchietta, parla da sola, piange da sola […]». ↑
- Milano e Roma, 1961, poi in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica…, op. cit., pp. 741-43. Tra le molte dichiarazioni d’amore a Roma, si legga ad esempio, ancora in aperto confronto con il Nord, Roma malandrina, da «rotosei narrativa» del 12 aprile 1957, in P. P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 2010, pp. 1444-47; o Bandung capitale di mezza Italia, 1961, poi in P. P. Pasolini, I dialoghi, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 157-59. ↑
- Rivoluzione a Milano, 1956, in L. Bianciardi, L’antimeridiano, op. cit., p. 800. ↑
- P. P. Pasolini, Teorema, Milano, Garzanti, 1968, pp. 9-11. Si consideri ancora il fondo «milanese piccolo-borghese» del tanto biasimato gergo protestatario giovanile nell’articolo del 1973 su Andrea Valcarenghi, in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica…, op. cit., pp. 433-40. ↑
- Le citazioni sono tratte da P. P. Pasolini, Il sogno del centauro [1970-1975], in Id., Saggi sulla politica…, op. cit., pp. 1476-78. Su questa crisi vedi la bella lettera Rinnovarsi dai “fantasmi” del 1965, in P. P. Pasolini, I dialoghi, op. cit., pp. 369-72. ↑
- Pasolini l’enragé, regia di Jean-André Fieschi, Francia 1966. Il documentario appartiene alla serie di documentari Cinéastes de notre temps. ↑
- I medesimi argomenti presenti nell’intervista di Fieschi si trovano in L’arrabbiato sono io, intervista a Giorgio Bocca, 1966, in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica…, op. cit., pp. 1591-96, e ancora negli articoli a tema “USA” che saranno citati in seguito. ↑
- Per altri cruciali riferimenti a Socrate, A. Cortellessa, Misero e impotente Socrate. Sul Pasolini “corsaro” e “luterano”, 2007, sulla rivista letteraria digitale «Zibaldoni», http://www.zibaldoni.it/2007/03/25/pasolini-2/ (ultima consultazione 2/04/2022). ↑
- Quasi un testamento, in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica…, op. cit., pp. 853-61. ↑
- Cfr. C. Varotti, Luciano Bianciardi…, op. cit., pp. 85-89, dove si ricostruisce l’interesse di Bianciardi per la “questione della lingua” sorta all’inizio degli anni ’50 e che sarebbe stata poi ripresa da Pasolini con le Nuove questioni linguistiche del 1964. ↑
- Dell’intervista RAI, fatta da Enrico Vaime per Zoom, si trova notizia in Tre minuti e mezzo, 1966, in L. Bianciardi, L’antimeridiano, op. cit., pp. 1330-32. L’intervista è visibile su YouTube, https://youtu.be/M0F_nRpkDf0 . ↑
- Narratori della generazione alienata. Beat Generation e Angry Young Men, a cura di G. Feldmann, M. Gartenberg, traduzione di L. Bianciardi, Parma, Guanda, 1961. ↑
- L’attenzione di Pasolini per le figure di Kerouac e Ginsberg si era già delineata almeno dal 1963, quando il regista aveva pensato a uno di loro per la parte di Cristo nel Vangelo. Si veda poi la famosa lettera di Pasolini a Ginsberg del 1967 in P. P. Pasolini, Le lettere, op. cit., pp. 1355-57, e ancora gli appassionati riferimenti in Poeta delle Ceneri, in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. II, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 2009, pp. 1261-88. ↑
- Un marxista a New York, articolo di Oriana Fallaci con intervista a Pasolini, 1966, in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica…, op. cit. pp. 1597-1606. Nel 1958, Bianciardi aveva tradotto I sotterranei di Kerouac per Feltrinelli, traduzione poi uscita anonima. Su Kerouac in Italia, Whisky e prosa, 1966, in L. Bianciardi, L’antimeridiano, op. cit., pp. 1350-52. ↑
- L. Bianciardi, L’integrazione, in L. Bianciardi, Il cattivo profeta. Romanzi, racconti, saggi e diari, a cura di L. Bianciardi, Milano, Il Saggiatore, 2018, p. 382. ↑
- Guerra civile, 1966, in P. P. Pasolini, Empirismo eretico, op. cit., pp. 148-54. ↑
- «Quaderni Piacentini», 1, marzo 1962; La vita agra sarà lettura sconsigliata sul numero 6, dicembre 1962. ↑
- «ABC», 26 maggio 1968, in L. Bianciardi, L’antimeridiano, op. cit., pp. 1447-49. ↑
- Nell’articolo Il figlio capellone, tra le altre cose si legge: «[…] gli studenti di Bologna tumultuano e parlano come se avessero appena finito di leggere i quaderni piacentini», da «ABC», 14 gennaio 1968, p. 72. ↑
- Nuove questioni linguistiche, in «Rinascita», 51, 26 dicembre 1964, poi in P. P. Pasolini, Empirismo eretico, op. cit., pp. 9-28. Si confronti, di Bianciardi, Lo stile moresco, 1967, in L. Bianciardi, L’antimeridiano, op. cit., p. 1391. ↑
- Sui fatti di Valle Giulia, L. Bianciardi, I buchi del venerdì, da «ABC» 24 marzo 1968, in Id., L’antimeridiano, op. cit., pp. 1438-40. ↑
- P. P. Pasolini, Anche Marcuse adulatore?, in «Nuovi Argomenti», n. s., 10, aprile-giugno 1968; in Id., Saggi sulla politica…, op. cit., pp. 156-58. ↑
- Il nonnino dei lupi mannari, in «ABC» 16 giugno 1968, poi in L. Bianciardi, L’antimeridiano, op. cit., pp. 1453-55, coevo all’articolo di Pasolini su Marcuse, ma Pasolini afferma di averlo scritto prima della condanna della Pravda, mentre Bianciardi lo scrive successivamente (la Pravda aveva definito i giovani contestatori “lupi mannari”). ↑
- Come si perde un premio, da «ABC» 14 luglio 1968, poi in L. Bianciardi, L’antimeridiano, op. cit., pp. 1462-65. Vedi pure, ivi, p. 1684. La questione sorge intorno al ritiro di Pasolini dal Premio Strega come forma di contestazione dei criteri “commerciali” di selezione e valutazione dei libri. ↑
- Si veda, ad esempio, L. Bianciardi, L’antimeridiano, pp. 1684; 1687; 1721; 1787. ↑
- «ABC», 20 settembre 1968, poi in L. Bianciardi, L’antimeridiano, pp. 1478-81. ↑
- Bianciardi si era già misurato in una prova simile. Immaginando come cinque scrittori contemporanei avrebbero fatto la réclame a certi prodotti, a Pasolini era toccata una fantomatica “brachetta da bagno” Acchittaflex: «Dal pilone del ponte, dall’erba zozza della riva, avevano cominciato i capisotto, i pennelli, i cascatoni, le spanzate. Il Riccetto stava sbragato sulla fanga, coi mutandini a sbragolone. “Che ber culetto!” gli fece il Regalone, che si pavoneggiava con gli slippi d’elastico, marca Acchittaflex, e gli fece un cenno con la manina paragula. “Ma vaffanculo”, rispose, Ricetto, e gli tirò una manciata di fanga. Il Regalone gli disse i morti, tutto incazzato, perché la fanga gli aveva inzozzato gli slippi nuovi. Erano roba di lusso, quegli Acchittaflex, rubati quella mattina vicino alla Ferrobedò, “A Regalò”, urlavano gli altri, “ammazzate sì quanto sei bello!”», Réclame, 1959, in L. Bianciardi, L’antimeridiano, op. cit., pp. 395-97. ↑
- P. Corrias, Vita agra di un anarchico, op. cit., p. 187. ↑
- Anni prima Bianciardi aveva già scritto Da Quarto a Torino, Milano, Feltrinelli, 1960. ↑
- Su Aprire il fuoco si veda il capitolo X in C. Varotti, Luciano Bianciardi, op. cit., e l’importante contributo di A. M. Grignani, Aprire il fuoco: esilio della storia, esilio della scrittura, in Bianciardi: Ottocento come Novecento. Dalla letteratura al dibattito civile, a cura di L. Bianciardi, A. Bruni, M. Marcucci (Convegno 14/15 novembre 2008, Grosseto), Milano, ExCogita, 2010. ↑
- D. Marra, Una ucronia linguistica e morale: Aprire il fuoco di Luciano Bianciardi, 2019, pubblicato su Treccani, Lingua Italiana, https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_224.html (ultima consultazione 15/04/2022). ↑
- M. Foucault, Utopie. Eterotopie, a cura di A. Moscati, Napoli, Cronopio Edizioni, 2018. ↑
- Vedi su questo C. Varotti, Luciano Bianciardi, op. cit., pp. 186-87. ↑
- Aprire il fuoco, cap. XIV, in L. Bianciardi, Il cattivo profeta, op. cit., p. 831. ↑
- Prefazione al lettore adulto in Daghela avanti un passo! in L. Bianciardi, Il cattivo profeta, op. cit., p. 852. ↑
- Così chiaramente si esprimeva già nella presentazione editoriale della Battaglia soda, su Segnalibro Rizzoli. ↑
- P. Maccari, Un intruso nel Sessantotto: il Risorgimento di Bianciardi in Aprire il fuoco, in Bianciardi: Ottocento come Novecento, op. cit., pp. 107-17. ↑
- I versi sono tratti dal poemetto L’Italia, da L’usignolo della chiesa cattolica, in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, op. cit., vol. I, pp. 471-81. Su questo capitolo si veda il bel commento di C. Varotti, Luciano Bianciardi, op. cit., pp. 256-57. ↑
(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. I)