Con il rilancio avvenuto a partire dai primi anni Novanta, dopo un ventennio di oblio, la figura e l’opera di Luciano Bianciardi (di cui ricorre quest’anno il centenario) sono ritornate al centro di un rinnovato interesse (con convegni, dibattiti, studi e ristampe), fino a diventare per diversi motivi un caso letterario.
Nato a Grosseto nel 1922 e morto a Milano nel 1971, ha dato inizio alla sua attività di narratore nel 1957, a pochi mesi dall’uscita del libro d’inchiesta I minatori della Maremma (scritto insieme a Cassola)[1], componendo nel giro di pochi anni tre delle sue opere più significative, in cui insieme a nuovi motivi vengono ripresi e rielaborati temi e problematiche della sua precedente produzione giornalistica e saggistica: nel ’57 esce Il lavoro culturale, nel ’60 L’integrazione e nel ’62 La vita agra, una sorta di trilogia a sfondo autobiografico sulla stagione dell’impegno e su quella del boom economico.
Bianciardi scrisse Il lavoro culturale a circa tre anni di distanza dalla tragedia di Ribolla del 4 maggio 1954, in cui morirono 43 minatori, dalla sua “fuga” da Grosseto e dal suo arrivo a Milano e subito dopo la definitiva rottura con la moglie e la lacerante crisi del 1956, quattro avvenimenti che senza alcun dubbio segnarono profondamente la sua esistenza e il suo iter di scrittore.
Il libro rappresenta un vero e proprio rendiconto (auto) critico e polemico, un ripensamento del suo rapporto con il PCI e la sinistra ufficiale, e un tentativo di mettere una “pietra sopra” sul suo passato di intellettuale engagé; un itinerario soggettivo e generazionale, una rievocazione, ora amara e ora ironica, della vita provinciale e del lavoro culturale svolto, nel decennio post-bellico, dai giovani della sua generazione (“la generazione bruciata”, la versione bianciardiana della “generazione degli anni difficili”) che, insoddisfatti di quell’orizzonte chiuso e asfittico, si erano impegnati con fervore ed entusiasmo per la rigenerazione politica, culturale e sociale di quella provincia emarginata e tormentata dalla miseria e dalla guerra, con l’illusione e la speranza di contribuire al rinnovamento del Paese e al riscatto delle classi subalterne.
Il lavoro culturale risente, quindi, del particolare clima politico del tempo, contrassegnato da un profondo bisogno di ripensare, col senno di poi, un’intera stagione politica e culturale, intensissima ed entusiasmante, vissuta all’insegna di una continua operosità, ma che Bianciardi si era lasciato definitivamente alle spalle e che ora poteva giudicare con distacco e severità. Si tratta, quindi, di un’opera in cui lo scrittore grossetano critica e supera la sua precedente posizione politica e ideale.
In questo libro Bianciardi si fa portavoce della sua generazione, ma a raccontare la “storia” non è l’autore in prima persona, bensì un certo Luciano Bianchi, che si auto-presenta nel terzo capitolo (questo è l’unico momento in cui viene usata la prima persona singolare, mentre nel resto del libro viene usato il “noi”) e che parla di un fratello di nome Marcello, che rappresenta il suo alter-ego, l’anticonformista e il ribelle. Il primo è il centromediano della squadra locale che, a causa della rottura del menisco, è stato costretto a mettere da parte il suo sogno di diventare un grande campione; il secondo è un tipo malaticcio, goffo, maldestro, che a scuola ha sgobbato per diventare il primo della classe e che poi sposerà, contro il volere dei genitori, la figlia di un artigiano. Nei due personaggi Bianciardi proietta le due facce della sua personalità tormentata, ambigua e contraddittoria.
Il racconto inizia con un esame ironico e corrosivo degli schieramenti culturali esistenti a Grosseto negli ultimi anni del fascismo: da una parte vi erano gli “eruditi” e gli “archeologi”, che coltivavano vecchi sogni di gloria e consumavano il loro tempo per comporre saggi molto dotti sulle origini della cittadina o per ideare progetti astratti e faraonici, e dall’altra «i giovani della generazione bruciata decisi a rompere con le tradizioni ed a rifare tutto daccapo»[2], a ricominciare da zero. Costretti a subire l’umiliante dittatura del fascismo e poi l’esperienza dolorosa della guerra, essi avevano vissuto la Resistenza come un momento di rottura e quindi nei primi anni del dopoguerra si ribellavano al provincialismo e al conformismo dei vecchi eruditi e dei benpensanti col proposito di liberarsi dei fardelli del passato, dei tabù e dei valori dominanti per la creazione di un mondo nuovo:
Naturalmente eravamo in polemica con tutti gli altri, coi medievalisti eruditi e con gli archeologi. Cosa volevano, gli uni e gli altri? Cosa significavano le sterili e goffe pidocchierie dei primi, cosa significavano i furori antiquati dei secondi. Era l’ora di finirla con questo dilettantismo, con questa sterile erudizione, con questa mitologia delle origini antichissime. La cultura italiana, dicevamo noi, era abbastanza aduggiata e mortificata da queste forme reazionarie e provinciali, dal campanile, dallo sciocco municipalismo[3].
Durante il fascismo Grosseto era stata una città stagnante, arretrata e depressa: ecco perché dopo la fine della guerra i giovani della “generazione bruciata” sognavano una città rinnovata, senza confini e in continua espansione, «aperta ai venti e ai forestieri, fatta di gente di tutti i paesi»[4], simbolo di una nuova era, come la Kansas City di cui aveva raccontato il tenente Bucher, di passaggio con l’esercito americano. Di sera essi amavano incontrarsi «al caffè, a chiacchierare, a giocare a carte»[5], e spesso a tarda notte continuavano le loro animate discussioni passeggiando in periferia, dove indugiavano per ammirare la loro cittadina che cresceva continuamente, che conquistava sempre maggiore spazio rispetto alla campagna. Il loro posto preferito era la trattoria delle “Quattro Strade”, frequentata da camionisti, dove essi si recavano in compagnia dei loro ospiti.
Noi ordinavamo bicchierini di grappa e si restava lì un paio d’ore, a sorseggiarla, a guardare i camionisti, a parlare di letteratura. Letteratura americana, naturalmente; e veniva sempre il momento in cui il nostro ospite osservava che quell’angolo di provincia, così, con la campagna a ridosso e la grande strada della capitale, e i camionisti, un posticino così, tranquillo, bene illuminato, pareva proprio uscito da una pagina di Hemingway o di Saroyan. La provincia doveva essere un po’ tutta così, fosse America, Russia, o la nostra città[6].
Insomma, i giovani della “generazione bruciata” erano orgogliosi di vivere e di svolgere il loro impegno in provincia in quanto essa rappresentava un osservatorio privilegiato: «culturalmente, era la novità, l’avventura da tentare»[7], al contrario di Roma, che era considerata una città molto bella ma “parassitaria”, che «succhiava la provincia per vivere di splendida rendita»[8], e di Milano, che appariva ancora lontana, completamente integrata nella civiltà industriale. In quel periodo essi avevano scelto di impegnarsi per una cultura profondamente rinnovata, moderna e spregiudicata, una cultura che fosse strumento di liberazione, capace di rapportarsi alla realtà storica e sociale e di stare dalla parte dei contadini, dei badilanti e dei minatori.
Noi abbiamo studiato, diceva Marcello, ma quel che abbiamo imparato non servirà a niente, se non ci aiuta a capire le ragioni dei contadini; se non ci aiuta a evitare di doverceli portare dietro un’altra volta, domani, e morire insieme senza nemmeno esserci guardati in faccia, senza mai esserci capiti[9].
La formazione politica e culturale dei giovani grossetani rispecchiava il nuovo clima politico e ideale che si era affermato nel dopoguerra ma, al tempo stesso, assumeva delle caratteristiche abbastanza singolari: infatti, a suggestioni vittoriniane e pavesiane essi univano i valori di un socialismo anarchico, libertario e pacifista, e al mito di un’America grande e sterminata il sogno di un nuovo umanesimo, basato sugli ideali di solidarietà umana, di libertà e di uguaglianza. Nel quadro di quella visione palingenetica della storia, all’intellettuale veniva assegnato un ruolo di grande responsabilità, quello di essere il “sale della terra”, “l’ingegnere dell’anima”, guida e motore del processo storico e politico. Tuttavia, quei giovani rifiutavano qualsiasi ortodossia di partito e facevano riferimento al PCI togliattiano solamente perché, negli anni della guerra fredda e dell’egemonia comunista e in quella determinata realtà, per un intellettuale di sinistra rappresentava, per molti versi, una scelta obbligata.
Noi, voglio dire noialtri giovani di Kansas City, […] eravamo politicamente parlando, senza partito, da quando si era disciolto il partito d’azione al quale, naturalmente, tutti eravamo stati iscritti. Di quel partito serbavamo lo spirito polemico, l’amore per le lunghe discussioni accalorate, per i problemi astratti e insolubili[10].
Quindi i giovani di Grosseto-Kansas City erano tutt’altro che degli intellettuali “organici”; al contrario, essi rappresentavano una “fronda” all’interno della sinistra. Guidati da Marcello e sostenuti dai vari responsabili culturali del PCI (Bonora, Simonetta, Minuti), nel dopoguerra si erano dedicati con grande entusiasmo a un intenso lavoro culturale: avevano fondato un cineclub, rinnovato la Biblioteca comunale trasformandola, sul modello della “Casa di Cultura” di Milano, in un centro culturale; organizzato rassegne cinematografiche, conferenze e dibattiti, invitando scrittori, professori ed esperti (intellettuali “organici”) che il Partito inviava da Roma e che avevano il compito di diffondere e di spiegare i capisaldi della politica culturale comunista.
Nel fare la rassegna dei vari momenti di quel percorso collettivo, Bianciardi cerca di mettere bene in evidenza la passione, la generosità e il velleitarismo senza risparmiare giudizi severi sulla strategia politica dei comunisti italiani: infatti, la politica delle alleanze tra proletariato, intellettuali e ceti medi, lo zdanovismo e il realismo all’italiana e il mito dell’Unione Sovietica come patria del socialismo vengono messi alla berlina e fatti segno alle volte di un’ironia corrosiva e tagliente. Da questo punto di vista abbastanza singolare è il sesto capitolo del libro in cui Bianciardi “fa il verso” al linguaggio dogmatico, alla mimica, agli atteggiamenti burocratici e agli schematismi ideologici dei funzionari e degli intellettuali organici del PCI:
Per comodità di chi voglia fruttuosamente dedicarsi al lavoro culturale, sarà opportuno raccogliere, a questo punto, tutta una serie di indicazioni circa il problema del linguaggio. C’è infatti un lessico, una grammatica, una sintassi e una mimica che il responsabile del lavoro culturale non può ignorare.
Cominciamo subito, perciò, con il nocciolo della questione, con il termine problema. Nonostante la differenza spaziale (alto-basso) dei due verbi, il problema si pone o si solleva, indifferentemente; ma c’è una sfumatura di significato, perché porsi è oggettivo, cioè sta a dire che il problema è venuto fuori da sé, mentre sollevare è attivo; il problema, in questo caso, non ci sarebbe stato se non fosse intervenuto qualcuno a farlo essere.
Quasi sempre il problema, posto o sollevato che sia, è nuovo; e si dà gran merito a chi, accanto agli antichi e non risolti, solleva problemi nuovi e interessanti o meglio ancora, di estremo interesse, purché siano, ovviamente, concreti. Sul problema si apre un dibattito. Dibattito è ogni discorso, scritto o parlato, intorno a un certo argomento (cioè a un certo problema) in cui intervengono due o più persone, il dibattito, oltre che concreto, è più spesso che concreto, è ampio e profondo, anzi, approfondito, e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione. La giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabilmente, dagli avvenimenti. La situazione è sempre nuova e creatasi (da sé, parrebbe) con o dopo.
Al dibattito gli interventi portano un utile contributo. […] Al problema del linguaggio va connesso quello della gesticolazione, un problema peraltro più complesso e meno facilmente definibile; ci limiteremo a darne qualche cenno.
Ampio: si accompagna con un gesto circolare delle due mani, palme rivolte in alto.
Concreto: si strofinano i due pollici contro le altre dita.
Prospettive (e anche indicazioni): la mano sinistra si sposta in avanti, verticale; le dita debbono essere unite.
Nella misura in cui: la mano – sempre sinistra piegata a spatola – scava in un mucchietto di sabbia immaginaria posta di fronte a chi parla.
Sul terreno del: col dorso della mano si sfiora il tavolo, con un gesto orizzontale.
Va subito detto che il problema del linguaggio non viene qui posto per la prima volta nella storia: illustri storici e critici, da Giorgio Dimitrov a Carlo Salinari, lo hanno già fatto in passato, e molto più profondamente che qui. Ci fu anzi, sul problema del linguaggio, cinque o sei anni or sono, un dibattito largo e approfondito, con numerosi utili interventi, che portarono un contributo sostanziale alla soluzione del problema stesso.
In un certo senso, questa esilarante parodia e sferzante polemica nei confronti della politica culturale comunista (di cui Carlo Salinari è stato per un certo periodo responsabile nazionale) accomuna Bianciardi ai gruppi eretici della sinistra italiana che proprio nel corso della lacerante crisi del 1956 presero maggiore vigore e portarono avanti apertamente una critica del marxismo dogmatico e ortodosso, dello stalinismo e del “socialismo reale”, e in particolar modo lo avvicina al Calvino del racconto satirico La gran bonaccia delle Antille[11]; ma, a differenza della stragrande maggioranza degli intellettuali di sinistra (e i nomi da fare sarebbero davvero tanti), per Bianciardi le drammatiche vicende di quell’anno rappresentarono la fine di un’epoca, la sconfitta della sua generazione e di un grande progetto politico e ideale. Non a caso, nel Lavoro culturale a una stagione di illusioni e di speranze Bianciardi fa seguire una fase di normalizzazione, di disincanto e di stanchezza. Infatti nell’ultimo capitolo del libro egli esprime tutta la sua delusione e la sua amarezza per il crollo del processo di rinnovamento nato e avviato durante la Resistenza e nell’immediato dopoguerra, e per la giovinezza trascorsa e sciupata in tanti progetti e iniziative, poi svaniti nel nulla, che lo spinsero a rinnegare qualsiasi tipo di impegno politico e sociale e a intraprendere la via verso il ripiegamento e l’autoisolamento.
Ora la città è ritornata tranquilla – registra alla fine del libro Bianciardi – e l’espansione si è bloccata. Anche gli intellettuali se “ne stanno tranquilli. […] L’ultima manifestazione alla casa della cultura è stata una serata a soggetto (così l’han chiamata) sugli indiani d’America, un argomento che piace a tutti”[12].
Si è ormai all’alba del miracolo economico e la spinta al rinnovamento si è esaurita, tanto è vero che la sinistra ufficiale si è omologata e integrata nel sistema. E, se agli inizi del dopoguerra la città di Milano era ancora molto lontana, ora è assurta al ruolo di Capitale del Nord, fino a diventare il punto di riferimento privilegiato. Infatti, i due esperti inviati dal Partito per l’ultima iniziativa culturale arrivano da Milano e non da Roma, come invece era accaduto in precedenza, e più che degli umanisti sono dei veri e propri manager, freddi, «decisi e taciturni»[13]. Così, mentre l’impegno del Partito comunista si è andato via via arenando e fossilizzando, i giovani della “generazione bruciata” sono diventati adulti scegliendo la via dell’integrazione: molti di loro, infatti, hanno trovato un lavoro, si sono sposati e hanno cambiato vita (niente più colpi di testa!), come Marcello Bianchi che è addirittura ingrassato e dopo il licenziamento dalla Scuola è stato assunto alla «previdenza, un buon posto, sessantamila lire al mese, più gli assegni familiari»[14], dedicandosi pure lui agli studi eruditi che prima aveva tanto schernito. Alla fine anche il fratello Luciano ha trovato un lavoro come contabile nella «ditta del signor Telemaco, una fabbrica di ghiaccio e di acque gassate»[15] ed è diventato allenatore di una squadra di calcio di ragazzi finanziata dal suo datore di lavoro.
Nel 1964, in occasione della ristampa del libro, Bianciardi aggiunse un “post scriptum”, Ritorno a Kansas City, con l’intento d’informare il lettore delle novità che si erano verificate negli ultimi anni. Allora la Maremma non era più la provincia arretrata e povera della sua giovinezza e Grosseto era diventata una cittadina moderna, inserita nell’Italia del boom e del consumismo, un importante centro turistico che d’estate poteva essere raggiunto persino in aereo. Ma qui la voce narrante non è più rappresentata da Luciano Bianchi, bensì dallo stesso Bianciardi (non a caso dal “noi” si passa di nuovo alla prima persona singolare), che, messa da parte la finzione letteraria, alla fine confessa di avvertire un
po’ di magone e parecchio rimorso: d’esserne fuggito nottetempo senza domandare il permesso, e portando via parecchia roba, quasi tutto quel che ho, come i ladri della collana vetulionese. Con la differenza che la collana vetulionese si potrebbe sempre restituirla, la roba che ho preso io no[16].
Il primo romanzo di Bianciardi si conclude, quindi, con un addio accorato al mito della provincia, di Grosseto-Kansas City che aveva animato l’impegno della sua generazione. E Il lavoro culturale rappresenta, in effetti, un esame di coscienza e un’intensa testimonianza sul senso e il valore dell’impegno svolto dagli intellettuali della “generazione bruciata” dalla fine del fascismo alla metà degli anni Cinquanta. Il libro assume, perciò, un significato del tutto particolare, come importante documento di un determinato periodo storico e politico e di una profonda crisi di identità che gli intellettuali di sinistra vissero nel corso della drammatica crisi del 1956. La narrazione si muove sul doppio piano del racconto autobiografico e del pamphlet politico-culturale, tra la prosa d’invenzione e il saggio, e i diversi piani vengono intrecciati e fusi in una cifra stilistica e narrativa davvero originale ed efficace, con un evidente e consapevole tentativo di superare il modulo narrativo di stampo neorealista e di pervenire a nuove forme espressive, mediante il gusto della deformazione ironica e grottesca, della caricatura e della parodia che ricalca i modi della satira di costume, con cui lo scrittore intende schernire, deridere i vizi e i tic della sua provincia e della società di quel tempo. Questo gusto del divertimento, però, non è mai fine a sé stesso, bensì nasce da motivazioni prettamente etiche e politiche, da un risentito e tormentato moralismo che ispirerà in maniera sempre più consapevole le sue opere successive. E la rara tensione morale e ideale, e la forza polemica del libro derivano proprio dalla singolare capacità che ha avuto l’autore di raccontare le illusioni, gli ideali e i travagli di una generazione di intellettuali di cui ha fatto parte.
- L. Bianciardi-C. Cassola, I minatori della Maremma, Bari, Laterza, 1956, ora in L. Bianciardi, L’antimeridiano, vol. I, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Coppola e Alberto Piccinini, Milano, Isbn-ExCogita, 2005. ↑
- L. Bianciardi, Il lavoro culturale, in Id., L’antimeridiano, op. cit., p. 202. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 204. ↑
- Ivi, p. 203. ↑
- Ivi, p. 207. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 208. ↑
- Ivi, p. 223. «Dovevo scegliere, la presenza di mio figlio me lo imponeva, non potevo neppure pensare di risolvere il problema individualmente, o di rimandarlo a più tardi, cercare, al momento buono, di urtare l’Ufficio leva, o creare per mio figlio una situazione di privilegio, far di lui “il primo della classe”, come aveva voluto mia madre. Non ci sarà soluzione sicura per mio figlio se non sarà sicura anche per tutti i bambini del mondo, anche questo mi pareva abbastanza chiaro. E così ho scelto, ho scelto di star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra, quelli che lavorano nell’acqua con le gambe succhiate dalle sanguisughe, quelli che cento, duecento metri sotto terra, consumano giorno a giorno i polmoni respirando polvere di silicio. Anche loro hanno bambini come il mio, hanno un avvenire da costruire»: L. Bianciardi, Nascita di uomini democratici, in Id., L’antimeridiano, vol. II, p. 295. Per questo aspetto si rinvia alla relazione di Arnaldo Bruni, Il lavoro culturale, pubblicata nel volume di atti Luciano Bianciardi tra neocapitalismo e contestazione, a cura di Velio Abati, Nedo Bianchi, Arnaldo Bruni e Adolfo Turbanti, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 45-67, e al capitolo La stagione dell’impegno del libro di Carlo Varotti, Luciano Bianciardi, la protesta dello stile, Roma, Carocci, 2017, pp. 39-56. ↑
- Ibidem. ↑
- I. Calvino, La gran bonaccia delle Antille, in «Città aperta», n. 4-5, 25 luglio 1957. Per quanto riguarda il rapporto tra intellettuali e PCI nel primo decennio postbellico, si rinvia al libro di Nello Ajello, Intellettuali e Pci, 1944-1958, Bari-Roma, Laterza, 1979. ↑
- L. Bianciardi, Il lavoro culturale, op. cit., p. 271. ↑
- Ivi, p. 272. ↑
- Ivi, p. 268. ↑
- Ivi, p. 271. ↑
- Ivi, pp. 276-77. ↑
(fasc. 45, 25 agosto 2022, vol. I)