Introduzione
In questo studio proverò a rivisitare in maniera inedita la filosofia di Benedetto Croce, tenendo conto della sentenza nichilistica della morte di Dio e, più in generale, delle filosofie della crisi. Lo «stato d’animo» angoscioso, emerso fra le due guerre mondiali e puntualmente «tipizzato» o sistematizzato con rigore speculativo soprattutto da Martin Heidegger e Karl Jaspers grazie al contributo recato in precedenza dalla fenomenologia husserliana1, presenta a mio avviso qualche affinità con la direzione ermeneutica tracciata da Croce, quantomeno in riferimento alla natura dell’individuo.
Va precisato che il filosofo della libertà interpreta l’esistenzialismo come «il segno di una degenerazione», un errore fondamentale allo scopo di riconquistare un «adeguato concetto della storia»2. Kierkegaard, nel suo Aut-aut, adopererebbe «ad uso troppo basso» il sentimento estetico3; Heidegger, preferito ad altri fanatici del decadente4, rimarrebbe «prigioniero dell’errato principio iniziale, il Niente»5, e comunque non andrebbe considerato un «robusto filosofo»6; Jaspers cercherebbe impropriamente di coniugare l’esistenzialismo con lo storicismo, e altri ancora rimuoverebbero con superficialità il pensiero critico7.
Il post-umanesimo delle opere
Il grande contributo della filosofia crociana è il tentativo di risolvere una volta per tutte il problema che ha caratterizzato per secoli la tradizione filosofica occidentale: il dualismo. Croce, infatti, rielabora con originalità la sintesi a priori di Kant, ed è debitore dell’universale concreto di Hegel, la cui scoperta intende, da un lato, potenziare il messaggio del filosofo di Kӧnigsberg e dall’altro ripulirlo da una certa dose agnostica (ad es., il noumeno) che tendeva ancora a inchiodarlo in un orizzonte analitico8. E così Croce, nel solco dell’hegelismo, avvia un processo insolito e affascinante di storicizzazione. Lascia cadere ogni germe empirico, iper-razionalista o matematizzante e al contempo si appresta, dalla fine dell’Ottocento e per tutta la prima decade del secolo successivo, a delineare un sistema imperniato sull’unità-distinzione. Un sistema che ospita le categorie dello spirito (Estetica, Logica, Utile ed Etica) e le «opere». Egli sposa, pertanto, la storicità degli eventi senza rinunciare agli universali. In altri termini, l’articolazione categoriale non potrebbe abitare nel cielo dell’iperuranio platonico perché si impadronisce a pieno titolo dell’immanenza. Gli universali, sfuggendo al tempo e allo spazio, sfiorano il sovrasensibile, ma le opere li costringono a non perdere il contatto con la vita.
La sua Estetica, influenzata in particolar modo dallo studio di Francesco De Sanctis9, è la «prima» sfera trascendentale dello spirito: ciò significa che la realtà è invariabilmente creativa, ricca di immaginazione, esposta al confine delicato tra il sogno e la realtà, tra il giorno e la notte, tra il razionale e l’irrazionale, fra l’intuizione pura e il perturbamento interiore. Come ben sapeva «il grande sognatore» Aldo Mautino: l’acuto interprete di Croce, strappato troppo presto alla vita, si abbandonava con facilità all’incanto, capiva che oltre il reale vi è l’infinito della poesia, la dolce musica di un sapere diverso che merita rispetto, attenzione, versi10; la sua religione del dovere, d’ispirazione gobettiana, non disprezzava l’altra verità, quello spazio celeste che il grigio del reale non può inquinare.
Il tratto inventivo non potrebbe essere espulso dalla storia. Ma la storia, guidata dall’imperativo religioso della libertà, non si esaurisce nell’estetismo o nell’intuizionismo. Essa è circolare, insegue il concetto puro al fine di comprendere una situazione storicamente determinata, e inoltre rivendica l’azione nella sua veste utilitaria oppure morale. La Logica, l’Economica e l’Etica si aggiungono pertanto all’universo dell’arte. Ecco la verità ultima del crocianesimo: quattro distinti che illuminano il percorso tutt’altro che scontato dello spirito.
Lo storicismo metodologico di Croce sembra che non voglia rinunciare all’essenza, ai pilastri della vita. Vi sono, da una parte, la storia, le dinamiche, l’immanente, e, dall’altra, l’eterno, una speciale trascendenza che, per definizione, non può piegarsi alle regole del tempo. E tuttavia, come si accennava prima, il filosofo abruzzese ha cercato di sconfiggere il dualismo; perciò, l’eterno e il particolare, il sovrasensibile e la realtà, il soffio dell’imperituro e la storia nel suo problematico darsi si stringono in un unico rapporto: le categorie interloquiscono con le opere, e queste ultime cadono nella famiglia precostituita; l’universale (i quattro distinti) diventa storia senza scivolare in un meccanismo indisciplinato di storicizzazione, e simultaneamente l’atto produttivo dello spirito (l’opera) tocca le corde dell’infinito, preservando l’abito della particolarità.
La spinta storicista del suo ragionamento è evidente nei suoi lavori. Croce, infatti, focalizza l’attenzione sulle opere, cioè sul progressivo «accadimento» della storia. La singola opera – un quadro, una poesia, una colonna sonora di Rachel Portman, un pensiero vivo esibito dall’uomo realista, una riforma parlamentare, un qualunque gesto etico − riattiva i propositi della storia. La storia non vive, non si muove se l’opera si rivela assente.
Non Leopardi, con la sua solitudine, ma il suo Infinito ci regala un senso storico, ed eterno. Più in generale, il nostro dolore, le nostre imperfezioni, debolezze, pianti, singhiozzi, gioie a metà, confusioni esistenziali, fallimenti, i vorrei del quotidiano non si iscrivono nel teatro della vita. Tutto ciò, per converso, alberga nel fiume analitico della «finzione»: un’arbitraria disgiunzione tra universale e particolare che non comunica nulla di spiritualmente rilevante. Quel che conta, per Croce, è il dialettico superamento delle nostre tensioni e quindi il maturo conseguimento della pace, della sintesi, dell’atto. Come se vi fossero due direzioni della storia nella sua lettura: la storia spirituale ed eterna, che ospita l’arricchimento progressivo delle opere, e la storia analitica o naturalistica dell’individuo.
L’individuo di Croce, come viene descritto nella sua Filosofia della pratica del 1909, è una particella al servizio dello spirito, lavora «pel Tutto»11 e, aggiunge negli importanti Frammenti di etica del 1915, non può essere «responsabile della sua azione»12. Si tratta di un individuo precario, che gioca tra il nulla assoluto e la verità compiuta, tra il «non ancora» e la storia, tra il vuoto e l’opera. Non è una sostanza, una monade leibniziana, né tantomeno un fine in sé. L’individuo non è neppure la «persona» del cristianesimo o dell’umanesimo laico, è un mezzo che serve a…, una finzione empirica che guarda altrove, uno strumento in ogni caso imprescindibile per la costante riproposizione dell’opera. Senza le azioni e le singole scelte dell’individuo, precisa Croce, non potremmo avere il volto sintetico della storia. Se ne deduce che la storia crociana, la sua religione della libertà, il suo immanentismo spirituale nascono e rinascono grazie al compimento delle opere. Anzi, sono l’opera. Eppure, se la storia è l’opera, l’individuo crociano anticipa involontariamente il senso intrinseco dello spirito. Quest’ultimo trascende l’individuo e collima con il post-umanesimo delle opere.
In breve, l’uomo deve essere superato. Occorre, per Croce, travalicare la natura imperfetta dell’individualità sempre a beneficio delle opere. Non significa ovviamente che il teorico della libertà si prefigga l’arduo compito di eliminare il genere dell’umanità in nome di una categoria oscura; l’individuo deve continuare a svolgere il proprio compito, deve farsi «operaio» per il bene spirituale e morale, per quel «tutto» che lo trascende. Solo che non nasce mai. La storia nasce. Lui, che non è il «lui» raffigurato con sentimento etico da Guido Calogero13, si stacca dall’opera formata e torna a sedere nei luoghi finti dello pseudoconcetto, in compagnia del «gatto», della «rosa» e del «triangolo»14. Da un lato abbiamo la specificità di un singolo svalutato e dall’altro il bisogno di ottenere la sintesi, il gesto della storia che avanza, la pace con l’universale.
Tutto ciò sembra ricordare l’aspra polemica che Kierkegaard ha innescato con il filosofo di Stoccarda: il pensatore danese protestava, in nome dell’irriducibile singolarità, contro l’ossessiva conciliazione con il mondo propugnata dall’autore della Fenomenologia dello spirito. Il ruolo di Hegel l’ha ereditato con riserve lo stesso Croce, mentre l’obiettivo prefissato da Kierkegaard, com’è noto, viene riproposto con nuove formulazioni dai teorici del nulla.
La sottile convergenza, che qui propongo, tra lo storicismo crociano dell’accadimento e le filosofie di Nietzsche15 o di Heidegger andrebbe avanzata con molta cautela, date le notevoli differenze tra la prospettiva del neoidealismo italiano e le variegate declinazioni del Gott ist tot16.
L’oltreuomo di Nietzsche
Nietzsche è il punto di riferimento indiscusso di autori uniti dalla certezza che la sconnessione originaria fra il razionale e il reale non potrebbe essere corretta da alcuna auto-sintesi: l’evento indifferenziato di Heidegger, il naufragio jaspersiano e la lezione decostruzionista di Jacques Derrida hanno in comune, fra mille differenze, un’offerta «negativa» che intende denunciare la dialettica storicista e il modello razionalistico, e variamente contrattualista, preannunciato dalla filosofia moderna17.
Nemico del ressentiment socialista sbandierato da «miserabili» e «malriusciti»18, Nietzsche reagisce con fermezza contro la fede normativa dell’uomo. La sua filosofia, coerentemente non sistematica, che a volte ricorda i «pensieri spezzati» istituiti dal mago del nord Johann Georg Hamann, andrebbe definita in termini «negativi» e «positivi». Di negativo, come sottolinea Jaspers, vi è il serio tentativo di decostruire la lunga tradizione del pensiero: Platone, Socrate, il cristianesimo, il kantismo, l’hegelismo, la democrazia, il socialismo, l’ipocrisia borghese ottocentesca vengono condannati, respinti, archiviati. La sua critica, però, è «positiva» in quanto non si chiude nel pessimismo fazioso, nel nichilismo «passivo» già avanzato da altri filosofi; essa cerca di illustrare il ritmo «fisiologico» della décadence19 e parimenti indica una soluzione di lungo periodo: l’Übermensch, un’imprevedibile riappacificazione con il senso della terra.
La proposizione drammatica per eccellenza della formula «Dio è morto»20, per adottare un’espressione cara a Gilles Deleuze, non esprime solo il compimento di una storia, ma ne annuncia un’altra, quella del tragico post-umanesimo. L’oltreuomo è la replica nichilistica al presunto nulla simboleggiato dal soggetto di Socrate, di Gesù o del «moralista» kant21. L’uomo, per Nietzsche, è «un cavo teso tra la bestia e il superuomo»22: la scimmia di Zarathustra, l’ultimo uomo, gli attori nichilisti del mercato, l’individuo che subisce con ansia ingiustificata il caos della necessità, colui che si piega alle ragioni del Dio malizioso sono enti vuoti e perniciosi. Vince chi accetta con autodeterminazione il caos della vita. Chi uccide Dio e ne coltiva gli effetti elogiando la vita.
La morte di Dio è la resurrezione della vita, di una vita manovrata dalla «volontà di potenza» la quale, eliminando il sovrasensibile, spezza ogni confine, ogni narrazione, la questione millenaria sul senso, ogni solida intepretazione, e restituisce al reale l’«innocenza» (irresponsabile) dell’eterno bambino, il prospettivismo, l’istinto. Il superuomo non è un ente speciale che controlla o insulta i deboli, i falliti, i poveri. Non è il gerarca di Auschwitz, con la sua inquietante «banalità» e la sua incondizionata obbedienza a un dio, ma è il chi della verità. Di una verità diversa da quella sospinta in modo emblematico dalla tradizione cristiana. Si tratta della verità di un «sensibile» liberato dai volti della trascendenza, la verità di un istante che torna «eternamente uguale» nella follia del quotidiano.
L’oltreuomo è un uomo che annienta il senso menzognero dell’umanità e abbraccia quella vita custodita in una «ruota ruotante da sola», idonea a ricevere il suo Sì. La conciliazione con il mondo, fuori da ogni indicazione idealista, avviene tramite l’esibizione solitaria di un «fanciullo innocente» che ride degli interrogativi esistenziali, del male, del dolore, della sofferenza sociale, delle sconfitte e di gioie legate all’effimero. Questo fanciullo, collocato al di là di ogni responsabilità, non vuole realizzare l’opera spirituale, si rifugia e «naufraga» con sguardo eccezionale nella sua singolare situazione23. Si accontenta di signoreggiare sui destini dell’uomo decadente. E così vengono bruciati il noumeno, la cosa in sé, l’eternità, il velo d’ignoranza, lo spirito. Conta l’attimo a-morale che condensa il punto di vista dell’Übermensch. Conta quell’essere riconciliato fin da subito con la vita il quale, al pari di Zaratustra, ha distrutto la morale24. Un essere gettato nell’unico senso possibile, che svilisce il ragionevole, la pazienza hegeliana del concetto, il positivo, la finalità spirituale dell’uomo.
Quel che a me preme sottolineare, ai fini della tesi qui esposta, investe il tema nietzscheano del superamento. Il Nietzsche che vuole travalicare l’individuo in nome di qualcos’altro può trovare una piccola sponda in quel Croce che intende premiare qualcos’altro a scapito dell’individuo nel suo tratto intrinseco. Certo, Croce è molto distante dal lessico dell’altro, dalla volontà di potenza nella sua accentuazione nichilistica e, nonostante il suo storicismo radicale, non andrebbe accostato al cinismo e al disincanto che caratterizzano il pensiero «negativo» della Kierkegaard-Renaissance; inoltre, l’auto-sintesi originaria di Croce è ambientata, come si è visto, nel quadro kantiano ed hegeliano.
In ogni modo, sia Croce sia il profeta del nichilismo anelano alla pace con il mondo. Sì, anche il nichilista anti-hegeliano Nietzsche non si soddisfa di una perenne e mai sazia contraddizione. O meglio, la contraddizione che promuove illumina il senso della terra, l’approdo dell’uomo vero, la coraggiosa verità di un uomo superiore pronto a divenire l’Übermensch. Croce, dal canto suo, posiziona l’uomo nell’universo variopinto dello pseudoconcetto e prepara il terreno al post-umanesimo delle opere. Solo esse costituiscono il volto autentico dell’umanità, la perfezione spirituale di un ente condannato al funzionalismo empirico. L’opera è il risultato di una sofferta conciliazione con l’immanente, esattamente come l’oltreuomo di Nietzsche è l’esito compiuto della pace terrena. Due diversissimi «post-umanesimi» inconsapevolmente uniti dalla svalutazione dell’immagine socratica, cristiana25 e kantiana dell’uomo.
Croce, Heidegger e l’accadimento del nulla
Croce, nella sua Filosofia della pratica, distingue la volizione dall’accadimento. La prima è la singola azione adempiuta dall’individuo, l’altro è l’opera di Dio. L’azione è un’opera non ancora formata. Per inserirsi nella storia, necessita di essere completata dall’«opera del Tutto»26; solo l’accadimento simboleggia l’atto dello spirito. Esso, che fornisce «la risposta a tutte le proposte», è l’«evento», l’esito in fieri di tutte le volontà manifestate dagli individui.
L’evento-necessità sembra collocarsi tra l’utile economico e la scelta d’insieme; o, ancora, tra la singola espressione, il singolo giudizio storico, la singola manifestazione morale (le quasi-opere) e il continuo insediarsi della storia. L’accadimento non è altro che la registrazione fattuale dell’opera finita, quella introdotta dal suo primo ispiratore e poi realizzata con afflato metafisico dal dio dell’immanenza. L’evento-parziale non assume alcun titolo spirituale. Serve a… Somiglia, in modo involontario, a un impulso analitico che agogna l’eternità categoriale e la produttività delle opere. La mia azione, che trionfa sui molteplici e impotenti desideri, è falsamente sintetica poiché non si bagna in profondità nel mare dell’immanenza, dato che la storia ruba la scena al suo provvisorio protagonista, e pertanto la vera sintesi non può che essere la decisione di dio, non dell’uomo. Vince il concetto puro della divinità storica e perde il rumore pseudoconcettuale dell’individuo.
Croce, però, non è Hegel. A differenza dell’altro, la coscienza più alta dell’antifascismo italiano ha cercato il particolare, la contingenza, ha sempre lottato contro l’errore metafisico, contro il falso idealismo, contro i pigri progetti scientifici e unilaterali della storia27. Il suo stesso liberalismo religioso non vuole essere l’ennesima esaltazione deterministica di un filosofo puro, e tuttavia il suo nucleo sistematico presenta un evidente residuo trascendentale. Hegel non è stato vinto del tutto. Dio continua a vivere in un percorso circolare che ferisce la dignità dell’uomo. Le sue quattro categorie e le opere post-umanistiche mettono in risalto il «senso della terra». Andrebbe precisato che l’opera crociana è la calda invenzione di un uomo legato alla vita, di un ente che agisce sullo spirito, che spera di ottenere un rendez-vous con le quattro sfere assolute. Il problema è che l’evento della storia (opera mia, opera tua, molteplici circostanze e infine l’azione impeccabile dell’immanenza che racchiude il tutto) divorzia dal protagonista principale dell’opera, oltre che dagli altri partecipanti, e viaggia con ritmo asettico nel quadro circolare dei distinti in compagnia di tutto ciò che realmente accade. Se l’individuo non è il fine ultimo, l’opera accade nel nulla fluido della vita28, e a farne le spese sono in primo luogo i valori fondamentali, i principi dell’89, la giustizia nel suo richiamo trascendentale, la domanda senza tempo di Socrate e di Jan Patočka, la voce intoccabile dell’intrinseco. Da segnalare che anche in Nietzsche, come scrive Jaspers, la giustizia, pur definita un impulso indiscutibile, «non è più l’essenza della ricerca della verità, ma è l’essenza delle cose nel loro accadere»29.
Quel che si è visto con Nietzsche, vale anche nel caso di Heidegger. Non si può equiparare il pensiero di Croce a quello dell’autore di Essere e tempo. Questa premessa, d’altra parte, non dovrebbe precludere la possibilità di scavare con spregiudicatezza ermeneutica nelle rispettive filosofie e scoprire se l’accadimento crociano possa interloquire con l’«Ereignis» di Heidegger. In questa sede posso solo accennare alla tesi secondo cui l’esplicita «ripetizione» della domanda heideggeriana circa l’essere, la quale si colloca in un’atmosfera che annulla politicamente il divario tra i diritti universali e la notte degli Olocausti, ove peraltro l’essere di volta in volta cade nel Nessuno della quotidianità30, provoca un evento che accade nei luoghi asettici dell’ente31.
L’uomo di Heidegger è definito come il «luogotenente del Niente»32, un esserci che rappresenta quella situazione originaria grazie alla quale l’uomo, precisa Luigi Pareyson, diviene l’ente «il cui essere è l’esistenza»33, un uomo che «non è mai anzitutto uomo», ma un Dasein «e-sistente nell’apertura dell’Essere»34, un Essere mai illuminato dalla ricerca di senso che investe al contrario l’essere di Socrate, ovvero quel soggetto affamato di giustizia e di incrollabile obbedienza alle sfumature laiche del vero.
Più l’uomo, nell’itinerario heideggeriano, si spinge verso la peculiare comprensione dell’ente, e di conseguenza si celano l’angoscia, la sceneggiatura nichilistica dell’«essere-per-la-morte», l’interrogativo metafisico sul Niente, più si scivola nella «superficie pubblica dell’esserci»35, nel «si fa» glorificato da una cifra di mercato o dalla volgarità anonima di una folla. Ora, Heidegger non esprime, com’è noto, un atto di ripulsa nei confronti del «si dice» o, appunto, della «superficie pubblica» del Dasein. Ne prende atto. Il suo comportamento analitico denota una spiegazione descrittiva dell’Esserci e delle sue possibilità. L’Esserci accade e si temporalizza in un progetto senza scopo, in un infinito disincantato che intende svelare l’originario.
L’«evento-necessità», proposto dallo storicismo crociano, nella mia idea non sembra discostarsi di molto dall’«evento-appropriazione»36 enunciato con linguaggio oscuro da Heidegger37. In entrambi i casi, vive un’opera indifferenziata gettata nel fiume impazzito di una vita che accade38. Nella logica crociana dell’accadimento si può, inoltre, inserire la delusione permanente nella prospettiva indicata da Jaspers39, il cui Scheitern, nel sistema di Croce, potrebbe significare abbandono relativistico in un circolo dei distinti che, come si è finora detto, rivendica la vittoria delle opere muscolari a scapito della semplice essenza dell’uomo.
L’umanesimo neo-moderno. Conclusione provvisoria
Gli esistenzialisti, «persuasi di aver detto l’ultimo verbo in filosofia»40, hanno proseguito l’opera di de-spiritualizzazione dell’individuo41, avviata dal tanto osteggiato idealismo hegeliano. Lo storicismo idealistico di Croce, e non la sua alta personalità morale, non può impedire – anzi, in qualche modo incoraggia – l’irruzione del cinismo contemporaneo, frutto di un’alleanza involontaria fra storicisti puri e nichilisti estremi.
La morte di Dio è vicina all’immanentismo assoluto. Se tutto è storia, come è peraltro constatabile in questo secolo di «innocenza liquida», muoiono gli ideali dell’89, si spegne il dono prioritario della giustizia, e la speranza illuministica non batte più nel cuore dei singoli. L’opera spirituale, trionfando sul timido compositore, diviene una chiacchiera che «crea una comprensibilità indifferente cui nulla più si sottrae»42. Con l’annuncio profetico del Gott ist tot, perde di senso ogni trascendenza, e persino il nesso categoriale rischia di sgretolarsi. L’accentuazione post-umanistica delle opere, parzialmente in sintonia con la radicalità del superuomo, indebolisce l’eterno categoriale rivendicato con fede idealista da Croce e spezza la sintesi a priori a vantaggio di un fondamentalismo senza scopo.
L’uomo crociano (pseudoconcetto), al momento del concepimento dell’opera (storia autentica), esprime un Sì alla vita, al pari del «fanciullo» di Nietzsche, che urla un Sì innocente «sconfinando oltre la morale»43. Tuttavia, il Sì dello storicismo idealistico e quello del nichilismo attivo costituiscono rispettivamente la completa affermazione delle opere e dell’Übermensch, e finiscono per scadere nel sì assordante e incomprensibile di una contingenza che divora i suoi coinquilini.
La morte di Dio, incoraggiata dai maestri e dai discepoli della volontà di potenza, oggi si concretizza nel linguaggio finanziario, nella digitalizzazione online, nel turbo-capitalismo consumistico, nel bieco conformismo, nel cinismo postmoderno. Solo un nuovo umanesimo laico può salvarci. L’uomo, oramai «prigioniero del suo mondo tecno-scientifico»44, deve sfidare culturalmente il vento nichilista di questa fase. Il nichilismo − ribatte Pàvel Petròvič al materialista Bazàrov nel celebre romanzo Padri e figli di Ivan Turgenev − distrugge «senza sapere nemmeno il perché»45.
La fine di Dio suggerisce la cancellazione dell’arte, il deperimento del pensiero puro, la reazione scettica al discorso etico, e il trionfo dell’utile. Con il «“nuovo” del postmoderno» si spegne l’interrogativo sul senso, viene derisa la possibilità trascendentale dello spirito e muore il diritto come capacità inter-soggettiva di rinominare il volto dell’autentico46. Il diritto, interpretato come un agire economico del singolo (Croce), oppure come la puntuale giustificazione del presente (Nietzsche), non ha più bisogno di Lui, ovvero della «presenza nascosta di Dio»47, e viene travolto dalle sceneggiature neo-capitalistiche del Nessuno. Un dramma condiviso da tutte le altre categorie, insultate dal gioco nichilista della forza-più e da una globalizzazione anti-giuridica che ha archiviato il tra, la tensione, l’«ansia di un’altra città»48.
Un pensiero neo-moderno deve provare a sconfiggere il non-senso di una postmodernità ricattata dalla violenza dell’ospite inquietante49. Urge ripristinare la bellezza e la solidità di un soggetto da ricollocare di continuo fra il reale e il razionale, fra la storia e l’infinito, fra la natura e lo spirito, tra il qui e il trascendente, tra l’immanente e la norma divina, tra il se stesso e l’ineludibile respiro del tu. Una laica opportunità al fine di recuperare, magari con «ironia socratica»50 per dirla con Vladimir Jankélévitch, quella ricerca di senso offesa diversamente dai monologhi del nulla e dal linguaggio assolutista della storia.
- Cfr. G. De Ruggiero, L’Esistenzialismo, Bari, Laterza, 1947, pp. 8-9. ↵
- A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, il Mulino, 1959, p. 21. ↵
- B. Croce, Esistenzialismo, in Id., Terze pagine sparse, vol. I, Bari, Laterza, 1955, pp. 180-81. ↵
- In uno scambio epistolare con Karl Vossler, Croce sostiene tuttavia che la Germania «incretinisce» con il misticismo di Heidegger, in Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, a cura di E. Cutinelli Rendina, Napoli, Bibliopolis, 1991, p. 360. ↵
- B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari, Laterza, 1952, p. 76. ↵
- B. Croce, Un’avversione filosofica, in Id., Nuove pagine sparse, vol. I, Bari, Laterza, 1966, pp. 324-25. ↵
- B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, op. cit., pp. 76-77. ↵
- In una bella pagina della Logica del 1909, Croce scrive che Kant affermava colpevolmente l’eternità e quindi la validità assoluta della Logica aristotelica; mentre Hegel era dell’avviso che essa «richiedesse una totale rielaborazione». Il Concetto di Hegel, continua l’inteprete, è «l’idea», e quest’ultima non è altro che «l’assoluta unità del concetto e della sua oggettività». «Definizione, che è sembrata stravagante o certamente scurissima; eppure non offre altro che l’elaborazione, in forma più rigorosa, della sintesi a priori kantiana, per modo che si potrebbero senz’altro considerare equivalenti i due termini, e dire che la sintesi a priori logica è l’Idea, e l’Idea la sintesi a priori logica. Se lo Hegel non è stato inteso, ciò segue dal non essere stato inteso davvero nemmeno il Kant; e coloro che asseriscono d’intendere quel che Kant volesse dire, ma non già quel che volesse l’altro, sono in inganno, perché il Kant e lo Hegel dicono il medesimo, quantunque il secondo con maggiore consapevolezza e chiarezza, cioè assai meglio»: B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1964, pp. 348-49. ↵
- Croce dichiara che l’arte rivendica in Italia la sua «autonomia» grazie soprattutto all’opera di De Sanctis e alla sua teoria della «forma». Ma tiene a precisare che quest’ultima «non era né la forma “nel senso pedantesco in cui fu intesa sino alla fine del secolo decimottavo”, cioè quello che prima colpisce l’osservatore superficiale, le parole, il periodo, il verso, la singola immagine; né la forma nel senso herbartiano, ipostasi metafisica di quella». Insomma, «“La forma non è a priori”», ovvero «“non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto quasi ornamento o veste o apparenza o aggiunto di esso; anzi è essa generata dal contenuto, tal forma”»: B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1965, p. 409. Croce, però, sostiene che al De Sanctis manca la «passione sistematica», e inoltre che «egli conosceva profondamente una sola delle arti: l’arte della parola, cioè la letteratura in genere e la poesia. Ma non pare che avesse eguale conoscenza delle altre arti e delle altre manifestazioni del bello»: B. Croce, Primi saggi, Bari, Laterza, 1951, pp. 122-23. ↵
- Rimando al toccante ricordo del suo maestro Gioele Solari in A. Mautino, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce. Con uno scritto sull’autore e la tradizione culturale torinese da Gobetti alla resistenza di Gioele Solari, a cura di N. Bobbio, Bari, Laterza, 1953, pp. 6-17. ↵
- B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 304. ↵
- Nel senso, precisa il Croce che ha già elaborato la dottrina hegelianizzante dell’accadimento nella già citata Filosofia della pratica, che «l’azione non è scelta da lui ad arbitrio, e perciò non gliene spetta né biasimo né lode, né castigo né premio»: B. Croce, Frammenti di etica, in Id., Etica e Politica, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1994, pp. 146-47. ↵
- Mi permetto di rinviare a F. Postorino, Guido Calogero e la “terza persona”, in «Il Rasoio di Occam» (Micromega), 28 dicembre 2016. ↵
- Cfr. la crociana Logica del 1909, sez. I, cap. II. ↵
- Va ribadita la sua convinta ed esplicita opposizione all’esistenzialismo e, in particolare, al nichilismo estremo di Nietzsche. Croce, a tal proposito, sostiene che niente è più stolto «dell’antimoralismo in voga ai giorni nostri, triste risonanza di malsane condizioni sociali e di dottrine unilaterali e malintese (marxismo, nietzschianismo). L’antimoralismo può essere giustificato come polemica contro l’ipocrisia morale e in favore della moralità effettiva contro quella parolaia; ma perde ogni significato e giustificazione quando, gonfiando frasi vuote o combinando proposizioni contraddittorie, si argomenta di predicare contro la moralità stessa. Crede esso di celebrare in tal guisa la forza, la salute, la libertà; e vanta invece la servitù alle passioni sbrigliate, l’apparente floridezza del malato e la forza apparente del maniaco»: B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., p. 305. ↵
- Nietzsche stesso, ad esempio, compie una critica sottile e penetrante allo storicismo in Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 1974. ↵
- Cfr. C. Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia, Milano, Mondadori, 2013, pp. 25-36. ↵
- D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico, vol. 1, Torino, Bollati Boringhieri, 2014, p. 554. ↵
- F. Nietzsche, La volontà di potenza, Milano, Bompiani, 2016, pp. 25-40. ↵
- G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Torino, Einaudi, 2002, p. 228. ↵
- F. Nietzsche, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, Milano, Adelphi, 1977, p. 12. ↵
- F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 2005, p. 8. ↵
- Cfr. K. Jaspers, Filosofia, vol. 1, Orientazione filosofica nel mondo, trad. di U. Galimberti, Milano, Mursia, 1977; cfr. K. Jaspers, Filosofia, vol. 2, Chiarificazione dell’esistenza, trad. di U. Galimberti, Milano, Mursia, 1978. ↵
- F. Nietzsche, Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, Milano, Adelphi, 1991, p. 57. ↵
- Nel celeberrimo saggio del ’42, dal titolo Perché non possiamo non dirci cristiani – che forse intende replicare al Why I am not a Christian di Bertrand Russell del ’27 −, la sua libertà della storia favorisce la spinta cristiana nelle sue ragioni intrinseche. Croce, tuttavia, promuove anche in questo piccolo volume la verità immanente delle opere, le quali non possono identificarsi con la struttura trascendentale della «persona» nel senso indicato dal cristianesimo. Per un suggestivo approfondimento rinvio a G. Sasso, Perché Croce scrisse il ‘Perché non possiamo non dirci cristiani’, in Id., Filosofia e idealismo, vol. V, Secondi Paralipomeni, Napoli, Bibliopolis, 2007, pp. 460-69. Paolo Bonetti chiarisce che il filosofo «fu certamente cristiano, per delicata sensibilità morale dovuta probabilmente all’educazione materna, se con questa parola s’intende la vicinanza a un certo ethos, ma fu sempre radicalmente non cristiano, se si guarda invece, come pur si deve, alla sostanza profonda e all’impianto categoriale della sua filosofia»: P. Bonetti, Croce e il cristianesimo, in «Bollettino filosofico», XXVIII, 2013, p. 6. ↵
- B. Croce, Filosofia della pratica, op. cit., p. 68. ↵
- A proposito di alcuni passaggi anti-individualistici contenuti principalmente in Filosofia della Pratica, Giuseppe Galasso scrive che si tratta di posizioni anomale, considerato che il pensiero di Croce celebra «il particolare, il concreto, l’individualità, la specificità, il determinato rispetto agli opposti valori o criteri filosofici; l’esistenza come accidente fenomenico dell’essere, come vizio logico della concettualità, non degno, o almeno, non suscettibile di essere pensato come vera realtà»: G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 231-32. ↵
- Mi permetto di rinviare al mio volume, Carlo Antoni. Un filosofo liberista, pref. di S. Audier, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016. ↵
- Corsivo mio. K. Jaspers, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, a cura di L. Rustichelli, Milano, Mursia, 1996, p. 197. ↵
- M. Heidegger, Il concetto di tempo, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2015, p. 33. ↵
- In questa direzione anti-heideggeriana e umanistica si muove con argomenti originali il filosofo del diritto Bruno Romano. Si legga di questo studioso in particolare Scienza giuridica senza giurista: il nichilismo ‘perfetto’. Trenta tesi per una filosofia del diritto 2005-2006, Torino, G. Giappichelli, 2006. ↵
- M. Heidegger, Che cos’è la metafisica, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2015, p. 60. ↵
- L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, Milano, Mursia, 2001, p. 142. ↵
- M. Heidegger, Lettera sull’«Umanismo», Milano, Adelphi, 1995, p. 84. ↵
- M. Heidegger, Che cos’è la metafisica, op. cit., p. 57. ↵
- M. Heidegger, Identità e differenza, Milano, Adelphi, 2009, p. 45. ↵
- Lucio Villari scorge un grande divario fra Croce e Heidegger sul «“cosa significa pensare”, soprattutto riflettendo intorno ai problemi dell’essere e dell’esistere sullo sfondo della storia politica e sociale della prima metà del Novecento». Croce scrive «alcune pagine sul “Primato del fare”, in evidente contrapposizione all’Ereignis, l’“evento” heideggeriano, in nome del lungo “travaglio sostenuto dal pensiero moderno per elaborare speculativamente una filosofia non più del “contemplare”, ma del “fare”»: L. Villari, Benedetto Croce. Le passioni marxiste di un grande liberale, in «La Repubblica», 24 aprile 2002, p. 37. Renata Viti Cavaliere ha scritto di recente che Heidegger «poneva in primo luogo la co-originarietà di Dasein e verità, non collocando semplicemente l’essere nel tempo (in una sorta di assoluto relativismo), né identificando l’essere con il pensiero in temporale che è eterno presente (Hegel, Gentile), neppure sospettando, peraltro, che l’essere potesse avere legami con la coscienza storica che in quanto memoria infutura il passato nell’esercizio critico del giudicare nel mondo (Croce, Arendt). Heidegger volle piuttosto infrangere l’antica unità dell’essere in una miriade di tracce, incastonate nelle pieghe trascendentali dell’effettività della vita»: R. Viti Cavaliere, Saggi sul futuro. La storia come possibilità, Firenze, Le Lettere, 2015, p. 6. ↵
- Per quanto riguarda il presunto esistenzialismo di Heidegger, occorre precisare che il filosofo tedesco ha sempre respinto, com’è noto, questa etichetta. Il suo «esistenzialismo», dopotutto, non può indicare «il prevalere esclusivo dell’interesse per l’esistenza dell’uomo sulla problematica propriamente metafisica», dato che «il problema centrale di Heidegger è il problema dell’essere»: G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 16. ↵
- Rinvio alla dura analisi di Norberto Bobbio, in La filosofia del decadentismo, Torino, Chiantore, 1944. Pietro Prini è del parere che Heidegger si sia collocato fin da subito «dalla parte dell’essere o della trascendenza, nell’indagine che doveva condurlo ad escludere ogni validità metafisica del concetto della verità come norma o legge interiore ed obiettiva del soggetto conoscente»; Jaspers, invece, «perviene alla medesima conclusione negativa, collocandosi inizialmente dalla parte dello stesso soggetto o di quella “originaria volontà di sapere” che siamo noi stessi, pur nel fondo oscuro ed irrazionale della nostra individuale esistenza»: P. Prini, Esistenzialismo, Roma, Studium, 1952, p. 65. ↵
- C. Fabro, Problemi dell’esistenzialismo, Roma, Edivi, 2009, p. 30. ↵
- Cfr. C. Antoni, L’esistenzialismo di M. Heidegger, Napoli, Guida Ed., 1972. ↵
- M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Mondadori, 2015, p. 243. ↵
- F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Santarcangelo di Romagna, Rusconi, 2004, p. 37. ↵
- M. Heidegger, L’origine dell’arte e la determinazione del pensiero, in Id., Etica e destino, Genova, Il Melangolo, 1997, p. 48. ↵
- I. Turgenev, Padri e figli, con un saggio di V. Nabokov, Milano, Mondadori, 2015, p. 62. ↵
- Cfr. B. Romano, Relazione e diritto tra moderno e postmoderno, con pref. e a cura di D. M. Cananzi, Torino, Giappichelli Ed., 2013, p. 54. ↵
- S. Cotta, Itinerari esistenziali del diritto, presentazione di B. Romano, Torino, Giappichelli Ed., 2014, p. 33. ↵
- Un’espressione che si legge in E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari, Laterza, 1955, p. 289. ↵
- U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano, Feltrinelli, 2010. ↵
- V. Jankélévitch, L’ironia, Genova, Il Melangolo, 1997, p. 72. ↵
(fasc. 13, 25 febbraio 2017)