Ahimè, dove prendere,
quando viene l’inverno, i fiori?(Friedrich Hölderlin)
Breve prologo
Adolescente, Croce aveva sperimentato una natura “matrigna”, fredda e ostile, benché priva di intenzioni malevole, sino a dover convenire che essa è movimento puro chiuso in sé, per nulla affine al moto dei volenti o a quel bisogno di sapere che anima gli umani. La sua famiglia ne portò il segno funesto dopo il terremoto del 1883, sicché il giovane Croce conservò sempre tragicamente l’impressione di una natura passiva, meccanica, inespressiva di scopi o valori.
E tuttavia la Natura non gli apparirà mai, nel corso dei successivi anni di operosità filosofica, come una realtà esterna all’uomo, mentre gli sembrò talvolta “estranea” alle potenzialità della condizione umana.
In alcune noterelle polemiche, tra il serio e il giocoso, sul finire degli anni Trenta, Croce ironizzava su quei filosofi che hanno di mira il riscatto del mondo esterno contro la presunta negazione di esso propugnata dagli idealisti. Mostrava proprio in quegli anni una gran diffidenza per il termine “idealismo” e tuttavia mai si sarebbe schierato con i difensori di un tale “realismo”. Nessuno può negare, diceva, la realtà di qualcosa di assolutamente altro dallo spirito o della natura fuori di noi, e tuttavia nessuno può ritenere che sia pensabile qualcosa di esterno allo spirito, che sia cioè inteso come non pertinente o estraneo alla vita spirituale. Si comprende allora che egli rifiutava l’“esternità” della natura, non già la sua realtà, che difatti è tale proprio perché sta in relazione con il pensare e l’agire nel mondo. L’impressione di straniamento che la natura produce nell’animo umano appartiene semmai al sentire piuttosto che al pensare, e consiste in una profonda emozione che va dalla spaesatezza al senso del sublime, dalla percezione d’essere in balia di una potenza sovrumana al pathos estetico di una grandezza incommensurabile. Croce, in definitiva, si guardò bene dall’incappare nel dualismo di natura e spirito, dal cadere nell’incongruenza di quei falsi filosofi, “nuovi manichei”, che si pavoneggiano nelle contraddizioni insolubili, dimenticando che sul piano teoretico «la civiltà europea è terribilmente unitaria e dialettica»[1. B. Croce, Dal libro dei pensieri, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 2002, pp. 128-32.].
Il rapporto tra natura e spirito, tra natura e storia scorre come un filo di Arianna nei numerosi scritti filosofici di Croce, costituendo un prezioso punto di orientamento nell’intricata trama di sensibilità e intelligenza che noi stessi siamo, individui che sono nati e che sanno far nascere, esseri “spirituali” per costituzione e per destinazione, come aveva suggerito Kant nell’Antropologia prammatica. Sta di fatto che solo in virtù del Geist l’uomo è sempre ciò che possiamo aspettarci da lui, dalla sua capacità di andare oltre la finita natura che lo contraddistingue.
La natura nell’arte
La riflessione sull’arte e sul bello ha rappresentato per Croce una grande riserva di spunti e di suggestioni, com’ebbe egli stesso a scrivere negli anni della sua maturità intellettuale. Sicché anche la natura, inanimata e animata, trova posto sin dalle prime trattazioni filosofiche nella Memoria pontaniana del 1893 e nelle Tesi fondamentali del 1900, giungendo a un culmine teoreticamente rilevante nella Poesia del 1936, attraverso un cammino non proprio lineare di considerazioni sul sentimento nell’arte e sul carattere cosmico e totalizzante dell’espressione artistica. Tra l’inizio e la conclusione di questo percorso la Natura ha un ruolo tutt’altro che secondario.
Nella Memoria del 1893 (La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte) Croce si chiedeva se la storia fosse arte o scienza[2. B. Croce, Primi Saggi (1918), Bari, Laterza, 1951. ]. Problematizzava una questione per lui nuova sulla base, però, di un’acquisita teoria del bello, che tracciava, in un breve paragrafo del suo testo di esordio, già con piglio deciso e pochi dubbi. Riprendeva da Hegel la definizione del Bello come manifestazione sensibile dell’idea, avendo egli fatto tesoro della lezione di De Sanctis sull’estetica hegeliana. Esclusi il sensualismo, il razionalismo e lo sterile formalismo di matrice herbartiana, si concentrava allora sul concetto centrale di espressione, tutt’uno col contenuto che adegua e trasforma profondamente. Neppure è più il caso di distinguere il bello naturale da quello artistico, perché anche la natura bella è “animata” da chi la contempla, togliendola all’artificio di una mera apprensione sensoriale. La natura non sta di fronte “inanimata” sia nel caso dell’arte sia nella storia, la quale è anch’essa rappresentazione dell’individuale e dunque “espressività” di contenuti d’ogni tipo, così come può essere bello anche il brutto e il moralmente disdicevole di cui sono esempio luminoso certi personaggi della tragedia antica e moderna.
Nelle Tesi d’inizio Novecento Croce trattava i temi dell’arte sempre prediligendo il versante naturale dell’essere umano, senza nulla concedere al significato idealistico-metafisico dell’estetica filosofica ottocentesca[3. B. Croce, Tesi fondamentali di un’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1900), ristampa anastatica a cura di F. Audisio, Napoli, Bibliopolis, 2002.]. L’espressione artistica presuppone l’impressione sensibile tanto da non poterne fare a meno e si distingue dall’espressione naturalistica (presente nei testi di scienza della natura e in Darwin, per esempio) per il fatto che le impressioni sempre la seguono piuttosto che precederla. Possiamo, infatti, descrivere le impressioni al cospetto delle modificazioni fisiche della terra mentre dobbiamo presupporle alla base dell’espressione artistica, la quale non potrebbe nascere dal vuoto della sensibilità umana. Sentimenti ed emozioni sono il sale dell’arte, benché questa non possa consistere “naturalisticamente” nell’effusione di moti dell’animo. L’espressione, che diciamo artistica, consiste nell’attività di contro alla passività delle impressioni sensibili. E l’attività non è mera naturalità, essendo la natura anche in noi pathos per definizione, ossia patica recezione nei diversi momenti della vita vissuta.
Si delineava, così, la teoria crociana dell’arte come attività spirituale che eleva a forma, trasformandolo, un contenuto basato sulle impressioni del vivere naturale. Si annunciava la fondazione di un’Estetica che non muove dal Bello in sé, origine e mèta di un cammino progressivo di avvicinamento all’assoluto. Se c’è progresso nell’arte, ed è innegabile che ci sia, si tratterà del progresso sempre presente nel lavoro spirituale anche non artistico: «L’uomo è in progresso quando lavora spiritualmente: quando in luogo di adagiarsi nella passività naturale, si afferma come attività»[4. Ivi, p. 14.].
Non c’è attività umana che non abbia bisogno di avere per base l’essere naturale dell’uomo, cioè le sue impressioni. E tuttavia ogni elaborazione di esse non è un mero fatto psichico. Chi può negare che non le si accompagnino fenomeni analizzabili come il calore, una circolazione più intensa, il battito cardiaco più frequente, con connesso affaticamento fisico o ristoro di forze? Ingenuo è, però, il tentativo di spiegare il valore spirituale col dato fisiologico fino a includere il fatto patologico. Assurda è, per il primo Croce, la relazione del genio artistico con la malattia o con la follia. La distinzione di normale e anormale, di sano e malato è proprio il frutto di quelle scienze umane che si vorrebbero negare in nome dell’esclusiva naturalità dell’uomo. Ai sostenitori della teoria patologica del genio non bisogna dar credito, così come poco o nulla vale la dottrina dell’arte come imitazione della natura, la quale, specie per alcune arti come la musica e la poesia, non ha proprio alcuna ragion d’essere.
Croce nella grande Estetica si confrontava ancora con le concezioni dell’arte in ambito positivistico[5. B. Croce, Estetica (1902), edizione a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990.]. Nelle successive tappe di riflessioni sul bello e sulla poesia egli, pur senza cambiare nel fondo l’impianto di una teoria dell’arte né fisiologica né metafisica, lasciò entrare prepotentemente nella sfera teoretica il tema del sentimento (l’intuizione pura è sempre intuizione lirica) insieme con il carattere universale della poesia, il suo afflato cosmico e l’impronta di totalità che la segna profondamente. «Non l’idea – così un celebre passo del Breviario – ma il sentimento è quel che conferisce all’arte l’aerea leggerezza del simbolo: un’aspirazione chiusa nel giro di una rappresentazione…»[6. B. Croce, Breviario di estetica (1913), edizione a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, p. 45.]. Ora, unità di intuizione ed espressione è proprio la Natura, stigma evidente di un passaggio dal non essere all’essere (poiesis), che è sempre frutto di creazione (Platone). Croce non identificò pertanto la poesia con il sentimento immediato, come accade in detestabili, diceva, sofismi accademici e professorali. Conferiva piuttosto al sentimento il compito “naturale”, benché non naturalistico, di far nascere l’espressione dall’oscura provenienza di un fondo abissale, dal caos o dal “niente” della corporeità sconosciuta alla comprensione vigile dell’intelligenza umana. La poesia, dirà nel ’36, compie il “miracolo” della metamorfosi del sentimento in una sorta di chiave di volta dell’umano, sicché nelle varie forme dell’arte accade la conoscenza dell’individuale nella dimensione allargata dell’intera umanità. Croce era ben lontano dal leggere nella natura il nemico (la nature: voilà l’ennemi), fuori e contro lo spirito, meccanica e materiale, pietrificata in virtù delle operazioni di un intelletto kantianamente fenomenico.
La natura, quella vera, è espressione esemplare di un’epica e di una drammatica del sentimento. «Un velo di mestizia par che avvolga la Bellezza» ed è «il volto stesso della Bellezza»[7. B. Croce, La Poesia (1936), Bari, Laterza, 1966, p. 14.]. Il sentimento della poesia è naturaliter la malinconia, tolta all’umor nero di aristotelica memoria, e tuttavia catarsi nella conciliazione degli opposti che in essa si agitano. Non è di necessità poeta il malinconico depresso, così come non saranno la malattia e la follia a spiegare il produrre artistico. Ma Baudelaire, che giurava sull’arte pura, confessò di aver messo nella sua opera e in quel libro atroce, Les fleurs du mal, tutto il suo odio, le sue passioni, il cuore, la tenerezza, la religione[8. Ivi, p. 183.]. Goethe, dopo il Werther, diceva di sentirsi come liberato, pronto a nuova vita, guarito, risanato. Heine ironicamente soggiungeva, per dar forza a quel che riteneva essere solo un paradosso: «La malattia è certamente la ragione ultima di tutto l’impulso alla creazione: creando, potevo guarire; creando mi guarii»[9. Ivi, p. 184.]. Quel buio da cui emerge la poiesis, secondo Croce, non solo non è inesistente ma rappresenta un fuoco eterno che alimenta il movimento e dunque anche ogni creazione. Fuor di metafora, non vale alludere al brulichio confuso di una perenne insoddisfazione, né all’inconscio del desiderio inappagato. La poesia è un sentimento essa stessa, è la divina esperienza dell’intero nel particolare, la dialettica nella forma prelogica dei conflitti interiori: in altri termini, potrebbe dirsi il “senso del terrestre”[10. Rinvio a R. Franchini, Il senso del terrestre, in Id., Il diritto alla filosofia, Napoli, SEN, 1982, pp. 57-76.] nella dimensione laica della trascendenza.
Dalla natura alla storia
Difficile stabilire se sia stata l’arte a suggerire al Croce il concetto della storia come storicità, oppure se sia accaduto proprio il contrario, che cioè l’esordiente filosofo, avendo chiarito a se stesso il tema della storia nel corso della stesura della Memoria accademica, provò a delineare un abbozzo di teoria del bello ispirata a essa almeno nel suo nocciolo teoretico.
Non è, tuttavia, neppure il caso di stabilire primati o primogeniture. Quel che invece è possibile indicare senza indugio è il nome dell’Autore che in quegli anni fu tra i suoi maestri ideali, il conterraneo Giambattista Vico, che certo assai per tempo fu il pensatore più prossimo ai giovanili interessi di studio di Croce. Questi lo definì “primo scopritore della scienza estetica” e al Vico interprete della storia umana dovette rifarsi quanto al significato etimologico della natura (dal latino nascor), che è ‘nascimento’ di qualcosa in certi tempi e con certe guise[11. G. B. Vico, Scienza nuova, 1744, libro I, sezione II, degnità XIV.]. Che dire, poi, della quasi letterale assonanza tra la sentenza vichiana secondo cui il mondo delle nazioni è stato fatto dagli uomini, pur con l’aiuto naturalissimo della provvidenza, e la fulgida affermazione del giovane Croce nella discussione Intorno alla filosofia della storia: «La storia la facciamo noi stessi, tenendo conto, certo, delle condizioni obiettive nelle quali ci troviamo, ma coi nostri ideali, coi nostri sforzi, con le nostre sofferenze, senza che ci sia consentito scaricare questo fardello sulle spalle dei Dio o dell’Idea»[12. B. Croce, Primi Saggi, op. cit., pp. 67-68.].
Il fulcro teoretico riguardò quel venir fuori dal niente di cause determinanti, che tuttavia non è il vuoto del sensibile negato. Il passaggio dal non essere all’essere (opposti e al tempo stesso diversi) è sempre frutto di creazione (Platone: Simposio e Sofista). La tradizione latina lasciò anch’essa un segno indelebile nel cuore del pensiero occidentale con l’inventio del termine “natura”, che tra-duceva la physis con tutto il peso semantico della parola greca, che alludeva alla possibilità dell’essere stesso di inaugurare e di iniziare, originando quel che diciamo inedito, nuovo, imprevedibile. Nelle radici arcaiche del concetto di “natura”, attraverso le mutazioni del linguaggio nella fedeltà alla terra della tradizione greco-latina, sta il senso profondo della storicità come potenza d’essere, sinonimo dell’esistenza individuale e, se si vuole, della vita stessa come capacità di cominciamento e di trasformazioni anche epocali.
Storia, vita, esistenza, e la verità stessa, portano incisa l’impronta del cambiamento, della possibilità di altre nascite[13. Una meritoria rilettura dell’opera di Croce, attraverso singoli lemmi e per mano di vari autori, è proposta nel recente Lessico crociano, a cura di R. Peluso, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2016.]. La storia è pensabile in uno con il cammino dell’esistenza individuale tra attese e speranze nel compito di trasportare il passato nel futuro. Altro è, però, la storia del mondo nella tesi cristiano-moderna di un processo che ha ritmi soltanto ex post descrivibili, e per di più nell’ipotesi meta-umana di un disegno suffragato dalla fede nella perfezione dell’eterno. È la Storia che schiaccia gli individui, che macina eventi in un cammino trionfale o catastrofico a seconda degli umori dei tempi, che incute il sentimento innegabile dell’impotenza al cospetto del Tutto. Croce invece provò sin dall’inizio a pensare la storicità della storia come mobilità dell’eterno (il tempo secondo Agostino), come il divenire in cui ogni istante può nascere qualcosa di nuovo che mai potrà dirsi derivato meccanicamente o semplicemente determinato da quel che lo ha preceduto. La storia, scriveva Carlo Antoni intendendo a fondo l’intenzione di Croce, rivela in ogni suo punto forze creatrici di verità, di bellezza, eticità, utilità, «forze che sono spontanee, libere, in cui permane un positivo valore»[14. C. Antoni, L’idea di esistenza in Hegel (1947), in Id., L’esistenzialismo di M. Heidegger, a cura di M. Biscione, Napoli, Guida, 1972.].
La storia così intesa è, dunque, più vicina alla Natura che non alla perfezione di uno Spirito che le si contrapponga. E difatti in Croce proprio la vita spirituale assume connotati nuovi, “moderni”, congedando la visione teologica di una realtà sovrumana, in favore della forma umanissima di un principio di creazione sulla base della spontanea attività delle categorie conoscitive e pratiche. Queste sono, infatti, matrici di vita e di comprensione del significato, e al tempo stesso “potenze del fare” nell’operosità etica in cui consiste la coscienza morale di ognuno. Val la pena considerare qui, nella concezione crociana dello spirito e della natura (dello spirito che è natura, come si vedrà più oltre), l’opzione per il Moderno, al quale il filosofo legò strettamente la sua filosofia dei distinti.
Lo scritto più significativo in proposito è Le due scienze mondane. L’Estetica e l’Economica, inserito nella prima edizione degli Ultimi saggi del 1935, non per caso una raccolta di scritti prevalentemente dedicati alla teoria dell’arte e al valore della poesia. La frattura culturale tra medioevo e modernità fu dovuta al maggiore accento posto da quest’ultima sul terrestre, sul mondano, sul profano: fenomeno efficacemente definito da Croce vera e propria «redenzione della carne»[15. B. Croce, Le due scienze mondane. L’estetica e l’economica, in Id., Ultimi Saggi (1935). Rinvio al volumetto Breviario di estetica, a cura di G. Galasso, op. cit., pp. 171-77.]. La Politica e l’Estetica hanno espresso lo spirito della modernità allorquando hanno preso congedo dalla trascendenza, maturando nella consapevolezza del loro carattere “laico”, diabolico e satanico, ironizzava Croce, agli occhi di gente devota e di candidi fraticelli. Di fatto, le due scienze mondane hanno ridato dignità al “senso”, esorcizzato in epoca medievale, rivendicando il sensibile e l’intuitivo nella logica del conoscere e nella prassi della vita vissuta. Il Rinascimento non fu forse il ritrovamento della natura nell’antichità greco-romana? E la Riforma, analogamente, cercò il cristianesimo evangelico e trovò il libero pensiero. Redenta fu la vita come vita, l’amore terreno in tutte le sue forme. Sicché il senso si spiritualizzò, mentre lo spirito si sensualizzava, incidendo nel processo di mondanizzazione della morale, della logica, della politica. Il punto più felice di questo luminoso schizzo dell’età moderna è quello in cui Croce scrive: «Tutti i maggiori concetti della filosofia moderna si legano così strettamente a quelle due nuove scienze, senza le quali non si sarebbe formata, in contrasto con la logica intellettualistica o dell’universale astratto, la logica speculativa e dialettica o dell’universale concreto…»[16. Ivi, pp. 177-78. Sul concetto di Moderno si veda il mio saggio Lo spirito della modernità in Croce, in R. Viti Cavaliere, Storia e umanità. Note e discussioni crociane, Napoli, Loffredo, 2006, pp. 109-24.]. Il favore crociano per il Moderno prevedeva, dunque, una rilettura del tempo nuovo in chiave logico-teoretica, nell’ottica della messa in crisi dell’intellettualismo che per lo più ne ha rappresentato tradizionalmente l’elemento centrale. Croce scevera nella modernità il positivo di una duplice attività dello spirito umano: l’una governata dalla finalità interna, l’altra sottomessa alla causalità; l’una vivente, l’altra meccanica: fu merito dei moderni se il rifiuto di un doppio ordine di realtà consentì di concepire la distinzione logica per eccellenza, quella tra l’atto classificatorio e la conoscenza storica, tra la generalizzazione astratta e la percezione dell’ineffabile individualità. La Logica del 1909, ora è ancora più chiaro, non riprese la conflittualità tipicamente tedesca tra le scienze della natura e le scienze dello spirito, separate per oggetto e per metodo, ma intese porre una questione di verità, teoretica e gnoseologica, nel gesto innovatore della distinzione tra il pensiero storico e l’uso pratico-economico delle operazioni schematizzanti[17. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro (1909), Edizione Nazionale a cura di C. Farnetti, con una nota di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996. L’uso degli pseudoconcetti non svilisce la natura e neppure la scienza, rispecchiando in pieno la riflessione sulle scienze matematiche e fisiche di quegli anni di inizio secolo ventesimo.]. L’osservazione vivente della realtà può riguardare, allora, anche le “scienze della natura”, se in esse si vuol dare rilevo all’individuale e al concreto. Nasceva, così, la tesi principe del futuro storicismo crociano: «la realtà, e la vita, è storia e nient’altro che storia»[18. B. Croce, La storia come pensiero e come azione (1938), Edizione Nazionale a cura di M. Conforti, con una nota di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2002, in particolare Lo storicismo e la sua storia, cap. I: Il suo carattere proprio e l’inizio dell’età che fu sua.].
La natura come storia
Emblematico il saggio di Croce dal titolo La natura come storia senza storia da noi scritta, uscito sulla «Critica» e poi inserito tra le pagine finali della Storia come pensiero e come azione nel 1938. A coloro che, nel pensiero comune e in dottrina, volentieri rifiutano la storicità alla natura, intendendola come il complesso degli esseri inferiori all’uomo in spregio assai poco francescano per gli esseri naturali, Croce opponeva la tesi della Natura che è spiritualità anch’essa e dunque storia. Ciò perché non è concepibile una parte della realtà che non sia storia, né è concepibile una storia che si svolga meccanicamente e non spiritualmente. Non esiste, infatti, criterio plausibile per distinguere la storia dell’umanità dalla storia della natura.
La cosiddetta natura non può non avere coscienza, scriveva Croce, per paradossale che suoni questa affermazione. La storicità non si nega agli esseri naturali e certo non si nega ai popoli primitivi, altrimenti si correrebbe il rischio (tante volte corso) di escludere a catena dalla storia genti straniere, classi ritenute inferiori, donne e uomini senza patria. Alla storicità della natura corrisponde, tuttavia, una storia non scritta per il semplice motivo che non sarebbe sorretta da un bisogno di azione nel presente, se per storiografia deve intendersi, come Croce riteneva dovesse farsi, la storia pensata. Egli formulava, allora, l’auspicio che il pensiero storico si emancipasse dal naturalismo, dalle false storie e dalla metastoria di un’antiquata metafisica[19. Ivi, Prospettive storiografiche, cap. VI: La natura come storia senza storia da noi scritta.].
Trovò una sponda di grande interesse nei lavori del giovane antropologo Ernesto de Martino il quale, nei primi anni Quaranta, progettò la fondazione di un’etnologia storicistica, muovendo dalla critica radicale all’impostazione naturalistica di un Lévi-Bruhl, allo scopo di realizzare un’etnologia “interpretativa” sin sulla soglia di una vera e propria «filosofia dell’esistenza»[20. Il libro di Ernesto de Martino era uscito nel 1941 con il titolo Naturalismo e storicismo nell’etnologia, per Laterza.]. D’altronde, lo stesso Croce negli anni Trenta aveva in più occasioni teorizzato la storiografia etico-politica proprio in contrasto con quelle narrazioni etnicistiche che pretendono di sostituire ai valori morali e ideali il rozzo naturalismo di una lotta tra animali da preda[21. Ai primi del 1933 in una lettera a Charles A. Beard, presidente dell’“American Historical Association”, Croce scriveva che la storiografia etico-politica da lui sostenuta mirava a vanificare due false storiografie: la concezione materialistica della storia e la concezione etnica o razzistica. L’una considera i valori morali semplici maschere degli interessi economici, l’altra li sostituisce con pretesi valori naturalistici quasi la storia fosse lotta di cani e gatti o di varie specie di animali da preda. Si veda il mio saggio Una lettera “americana” di Benedetto Croce, in R. Viti Cavaliere, Saggi su Croce. Riconsiderazioni e confronti, Napoli, Luciano, 2002, pp. 157-65.]. Andava escluso e rigettato un modello antropologico esclusivamente orizzontale, che si sarebbe rivelato del tutto consono a un’umanità bloccata nell’ordine politico fondato sulle basi naturalistiche della terra e del sangue di appartenenza[22. Mi riferisco al modello antropologico su basi ontologico-esistenziali descritto da Heidegger nella sua opera maggiore, Essere e Tempo (1927).]. Oggi ci appare davvero liberatorio il concetto crociano di Natura in uno con lo studio demartiniano dei popoli primitivi, che lasciava emergere con straordinaria efficacia il processo di strutturazione dell’umano nel rapporto intimo col mondo fino all’affermazione del Sé come soggetto autonomo e spontaneità creatrice.
De Martino dovette al magistero di Croce, con il quale ebbe anche incomprensioni radicali e un dissenso profondo sul piano strettamente politico, se fu filosofo nel profondo, concependo l’esistenza come inauguralità e potenza d’essere, elementi basilari di una teoria della storia che è novità e rinnovamento perpetuo. Colpisce ancor oggi, nel vasto lavoro scientifico di De Martino, la rinuncia al metodo naturalistico della scienza etnologica fatta in nome del carattere peculiare della storiografia che nei riguardi del mondo primitivo dovrà essere capace anche di riflettere, mentre descrive, e di leggere nell’intimo di tempi lontani e misteriosi alla maniera che fu quella geniale di Giambattista Vico[23. Rinvio al mio De Martino e Vico, in R. Viti Cavaliere, Saggi sul futuro. La storia come possibilità, Firenze, Le Lettere, 2015, pp. 167-93.]. De Martino rifuggì, infatti, da ogni idoleggiamento dell’arcaico che sarebbe stato antistorico, né trovò rifugio nel primitivo al riparo dalla crisi dell’Occidente coeva al Novecento. Non fu spinto, peraltro, da interesse teologico in cerca del primo logo, della prima parola, del primo vagito della realtà umana. Fu attratto, all’interno del processo storico, da quelle istanze che hanno consentito l’opzione umana, avviando un processo di individuazione e costruendo l’esserci nel mondo come presenza il più possibile garantita[24. Cfr. E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948).]. «Credere nella storia mi ha fatto sentire più vicino a Dio»: così scriveva in una lettera al suocero Vittorio Macchioro nel marzo del 1936[25. Cfr. Le intrecciate vie. Carteggi di Ernesto De Martino con Vittorio Macchioro e Raffaele Pettazzoni, Pisa, Edizioni ETS, 2015.], prendendo congedo definitivamente da false credenze fino ad allora nutrite nel fascismo o in stravaganti esoterismi.
Nel saggio crociano del ’38 si poneva, infine, la questione dell’inizio della storia umana, tema naturalistico per definizione, perché in senso “storiografico” la storia comincia ogni volta che la si conosce parzialmente in vista dell’azione individuale. L’analogon della storiografia naturalistica è la scienza dell’uomo trattato come fenomeno d’analisi da laboratorio, in psicologia, in linguistica, in certi aspetti della giurisprudenza. Ciò non toglie che l’intero cammino dell’umanità possa essere narrato valendosi di “formule tautologiche” come “evoluzione”, “passaggio dall’indistinto al distinto”, “lotta per la vita”, “vittoria del più forte”. Una pseudo-storia, immaginosa e fantasiosa, che congiunge in un’unica serie la nebulosa originaria alle forme politiche e sociali dell’Europa moderna[26. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., cap. citato.].
Maestro indiscusso della Natura come storia senza storia da noi scritta fu per Croce quel Giambattista Vico che si provò a scendere «dalle nostre nature ingentilite a quelle affatto fiere ed immani», primitive e preistoriche, «le quali ci è affatto negato immaginare e solo a gran pena è permesso di intendere»[27. G. B. Vico, Scienza nuova, 1744, § 378.]. Vico fu tra i primi a convertire la preistoria in storia, cosa che non è da tutti, che richiede un metodo comparativo e soprattutto esige la convinzione che in un’età così remota siano nascoste disposizioni che sono ancor oggi presenti nel profondo dell’animo di esseri acculturati e ragionanti. Nei “bestioni” vichiani si intravede una favilla divina, che al suo risveglio dette luogo al linguaggio, alle famiglie, alla religione. In tal modo la preistoria si è potuta mantenere dentro l’umanità, rifiutando non già origini animalesche ma la bestialità di atteggiamenti radicalmente disumani.
Natura che è vita
Il verso di Hörlderlin, posto qui in epigrafe, allude alle fasi regressive o di decadenza nelle cose umane quando una sorta di ibernazione radicale pare che corroda alla base la possibilità di altre fioriture. E, tuttavia, la Natura suggerisce il volgersi delle stagioni (una sorta di necessità strutturale) che è affine al “progresso” in senso spirituale, secondo il quale ogni cosa non può non nascere da un fondo negativo o dal cosiddetto irrazionale nella storia. Lo spirito è più vicino alla natura di quanto non si voglia ammettere. Gli inverni nella storia si succedono con maggiore frequenza di quanto non ci si aspetterebbe o non si vorrebbe che accadesse. È la “legge” della dialettica, che, se non è la regola estrinseca del susseguirsi di epoche progressive e regressive, pure è il ritmo inevitabile del cammino umano. Tra Spirito e Natura c’è un’intima cospirazione di significati. L’uno penetra nell’altra, scoprendone il nocciolo, svelandone la corteccia e forse l’intera sostanza. In Croce ancora traspaiono i pensieri di spiriti magni come Spinoza e Goethe, e il fascino pagano dell’unità di uomo e dio, dell’animalità e del divino nel cerchio dell’immanenza abitato da forme di vita superiori per capacità e destinazione. Alla natura si deve la nascita che è originalità assoluta, emblema dell’arte e della storia, vale a dire l’opposto del meccanismo di processi ripetitivi.
Nel libro del ’38, La storia come pensiero e come azione, Croce si interrogava con rinnovata inquietudine, dati i tempi che volgevano al peggio, sull’immane potenza del negativo, sul cosiddetto irrazionale nella storia e sulla “materia” vitale che scorre sotto la civiltà, la quale è sempre al tempo stesso incremento di vita morale. Scriveva: «La vitalità non è la civiltà e la moralità, ma, senza di essa, alla civiltà e alla moralità mancherebbe la premessa necessaria, la materia vitale da plasmare e indirizzare moralmente e civilmente; sicché alla storia etico-politica verrebbe meno il suo proprio oggetto. E la vitalità ha, coi suoi bisogni, le sue ragioni, che la ragion morale non conosce»[28. B. Croce, La storia come pensiero e come azione, op. cit., Storiografia e politica, cap. I: Il cosiddetto irrazionale nella storia.]. Si evocava un abisso turbolento, recondito e misterioso nei suoi processi, insondabile e sconvolgente per definizione, come una forza che agisce nel sottosuolo pronta a scatenarsi per tutto travolgere inaspettatamente al di là del bene e del male. Nel corso del medesimo capitoletto, in pagine precedenti, Croce aveva presentato ben altro spettacolo della storia, che allo sguardo dello storiografo intelligente non può non presentarsi come un misto di negativo e positivo, sino al punto di escludere che la narrazione del passato debba indugiare sulla decadenza e sulla morte, se è vero che proprio da esse si vedrà germogliare nuovi frutti. Roma decade e l’Impero va in frantumi, ma non è forse vero che nella società malata della fine del potere imperiale cresceva la civiltà cristiana, fugando il fantasma storiografico della decadenza senza scampo? Non è forse vero che, dopo flagelli naturali come un terremoto, inondazioni o pestilenze, si narrano nell’immediato seguito, accanto al dolore e all’orrore, strategie di difesa e tutte quelle pratiche di ricostruzione da attivare con generosità e spirito di solidarietà? La storia è sempre storia della vita o della vitalità, di questa forza “irrompente e prepotente”, da educare e non da fiaccare. Chi ne parla non ha certo intenzione di schierarsi a favore della rozzezza e della violenza. Altra cosa è, dunque, l’atteggiamento di coloro che idoleggiano la forza che è violenza ed esaltano il cattivo ideale di uomini o di popoli che esprimono la forza brutale, la bestialità di fiere o di animali da preda, deprivati del fine umanistico della cultura e della civiltà[29. Ibidem.].
Il fondo oscuro, abissale, in cui Croce collocava faustianamente il regno delle Madri è l’habitat naturale delle categorie dello spirito teoretico e pratico, principio di nascita e principio di distruzione, qualcosa di irrazionale che può sfuggire del tutto al controllo della ragione e al tempo stesso forza formatrice che della ragione ha bisogno per plasmare altra vita e nuove esperienze. E tuttavia il Vitale, che non è un fattore naturalistico, ha in sé i caratteri del daimon, del demoniaco, del quale è possibile fare l’apologia senza incorrere nella perdizione assoluta.
Nel 1943 presso Laterza Croce pubblicava in traduzione italiana il piccolo saggio di filosofia morale Apologie des Teufels di G. B. Erhard, con una sua nota critica assai significativa. Il testo, opera originale di un autore tedesco della scuola di Kant, era uscito a Jena nel 1795[30. Rimando al volumetto G. B. Erhard, Apologia del diavolo, traduzione dal tedesco e con una nota critica di B. Croce, edizione recente a cura di V. Gessa Kurotschka e R. Viti Cavaliere, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001.]. Croce ne trasse spunto per riflettere ancora sulla dialettica della vita morale e sulla funzione del negativo, ora rappresentato da quel “cattivo soggetto” che non è poi così brutto come lo si dipinge. Se per assurdo il diavolo si redimesse, potrebbe salvarsi come persona, teologicamente, non come concetto filosofico, pena l’annullarsi della vita stessa dello spirito che è natura, dolente e sofferta, malata e bisognosa di risanamento. Nella concezione del demoniaco si annida sempre l’equivoco di un Male contrapposto al Bene, laddove, invece, dove c’è vita c’è contrapposizione e conflitto, tensione e scissione. Il diavolo, di cui si può tessere l’elogio, è profondamente innestato nella natura umana, come l’anticristo che è in noi, come l’ombra del mistero che accompagna ogni luce, come la necessità che si sposa con la libertà. Il mito del diavolo ha fatto più danni che non il diabolico ostacolo che si incontra in più occasioni della vita. E, tuttavia, mai Croce ebbe in mente di esaltare romanticamente gli istinti belluini o la bestialità della guerra fratricida. Scriveva nel Carattere della filosofia moderna: «Altro travaglio soffre ora il mondo, tirato come si sente giù verso l’animalità, verso la bruta vitalità che vuol sopraffare e sostituire lo spirito»[31. B. Croce, Il carattere della filosofia moderna (1941), a cura di M. Mastrogregori, Napoli, Bibliopolis, 1991, in particolare L’ombra del mistero, p. 40.]. Al mito della ferocia personalizzata in mitologiche figure storiche ed extrastoriche Croce opponeva la coscienza morale che non muore, se continua ad aver fede nella civiltà e nell’umanità. In un celebre passo raffigurava la civiltà umana, nella sua estrema fragilità e potenza, con l’immagine del fiore che nasce talvolta sulla dura roccia, che un nembo può strappar via a ogni istante; un fiore che nasce entro condizioni “invernali” di ibernazione radicale e nella contingenza assoluta per la quale si paventano tempeste sempre incombenti. Ciò perché alla civiltà non appartiene l’eterno ma la forza, altrettanto poderosa, dello spirito che produce cose nuove, vere, belle come nuovi frutti per altrettanto nuove stagioni[32. B. Croce, Filosofia e storiografia (1948), Edizione Nazionale a cura di S. Maschietti, Napoli, Bibliopolis, 2005: La fine della civiltà, p. 290.].
Lo spirito è, dunque, per tanti aspetti natura, anche nel senso che promuove lo sradicamento dalla natura, sino a strappare ogni volta le radici, pur importanti, dal buio di fantomatiche mitologie irrazionalistiche per farle germogliare nel terreno comune dell’umana ragione.
(fasc. 13, 25 febbraio 2017)