Ripellino, Zabolockij e la poesia burlesca russa

Author di Claudia Scandura

Il mio primo incontro con Angelo Maria Ripellino è avvenuto nel lontano, mitico, autunno del 1968 nell’aula lunga e stretta dell’Istituto di Filologia slava, che allora si trovava alla città universitaria della Sapienza, al primo piano della Facoltà di Lettere e filosofia. Noi studenti, sette-otto al massimo, seduti intorno al lungo tavolo rettangolare, facevamo a gara per arrivare in anticipo e occupare i posti più vicini al professore che, incedendo regale lungo lo squallido corridoio, prendeva posto a capotavola, come una sorta di pater familias, e con la sua voce rotonda e ben impostata ci trasportava nel magico mondo delle sonorità russe, per lo più sconosciute alla maggior parte di noi.

Come un prestigiatore dal cappello a cilindro, Ripellino tirava fuori dai suoi quaderni, rigonfi di fogli e foglietti incollati sulle pagine principali, vergati da una calligrafia tondeggiante con pennarelli di tutti i colori dell’arcobaleno, citazioni, riferimenti, nomi di autori e di opere, che gli ascoltatori udivano per la prima volta. Seguivamo in silenzio, con grande attenzione, questo affascinante flusso verbale, questo scenario fatto di sipari e siparietti che si aprivano e si chiudevano, cercando di afferrare ogni parola, e di mettere al posto giusto gli accenti delle parole russe, che per noi, studenti del primo anno, suonavano come una sorta di misterioso abracadabra.

Il Professore leggeva, traduceva e commentava i testi che facevano parte del corso monografico, riusciva con il suo magico tocco a far risuonare versi fino allora sconosciuti e a riversare su di noi stimoli culturali di ogni tipo, spaziando nell’intera cultura europea. Forse Ripellino non si rendeva pienamente conto della complessità e densità delle sue lezioni perché il poeta che era in lui le rendeva, forse inconsapevolmente, una sorta di spettacolo, “un esercizio di giocoleria”, immettendo «nel tessuto dei versi le consuetudini della pittura» e trattando «le parole come tubetti di colori schiacciati da attrarre in viluppi fonetici»[1].

I corsi monografici di Ripellino erano molto ricchi e stimolanti e sembrano, nell’università di oggi, quasi il reperto di un altro mondo. Eppure, hanno formato generazioni di studenti che, a prescindere dal lavoro successivamente intrapreso, ne hanno conservato, a distanza di tanti anni, il ricordo, il segno indelebile, come se avessero partecipato a una cerimonia di iniziazione che ha dato loro il viatico per l’età matura. I corsi che ho seguito durante gli anni di studio, in cui comprendo sia i quattro del corso di laurea sia quelli successivi, quando, in qualità di borsista e poi di assegnista, ho avuto il privilegio di continuare a frequentare le lezioni di Ripellino, costituiscono il terreno su cui è nato e si è sviluppato il mio modo di fare ricerca, di leggere la letteratura e l’arte, di apprezzare la poesia, e che mi ha spinto negli ultimi anni a cimentarmi con la traduzione poetica, a ingaggiare una sfida con le parole che mi permettesse di riprodurre al meglio immagini, sonorità, assonanze.

In generale, il Professore dedicava i suoi corsi alla poesia, tranne qualche eccezione, come avvenne, per esempio, nel 1968-69 con il racconto di Nikolaj Gogol’ Memorie di un pazzo (Zapiski sumasšedščego) e nel 1973-74 con gli aforismi di Vasilij Rozanov, autore da lui prediletto, su cui scrisse un saggio pubblicato come postfazione alla traduzione italiana di Foglie cadute[2].

Vale la pena di ricordare che non c’erano sue dispense e che solo a partire dal 1971, quando il numero degli studenti frequentanti era cresciuto in maniera esponenziale e le lezioni non si svolgevano più nell’aula ma nel lungo corridoio antistante che era stato occupato all’uopo, si passò alla registrazione delle lezioni che venivano successivamente trascritte al ciclostile. Di questa operazione si occupava la signora Marcella, la fedele bidella, che tutto vedeva e sapeva. Personaggio indimenticabile, non conosceva il russo né nessun’altra lingua, oltre all’italiano: ciò nonostante, riusciva nell’impossibile compito di riprodurre per iscritto un testo pieno di termini stranieri, rendendolo “parlato”, discorsivo, intessuto com’era di citazioni e digressioni che frequentemente interrompevano il corso della trattazione principale.

In questa sede, parlerò del corso che ho seguito nel mio secondo anno universitario (1969-70), quello dedicato alla “Poesia burlesca russa” in cui Ripellino presentava tre poeti semisconosciuti, attivi in secoli diversi, Vladimir Benediktov, Igor’ Severjanin e Nikolaj Zabolockij. L’impostazione del corso, che mostrava l’importanza di una poesia ritenuta minore, spaziando dall’Ottocento al Novecento, evidenziava la modernità, il gusto del nonsense di questi autori e, con grande originalità, mostrava legami e sviluppi futuri di questo tipo di poesia.

Su sollecitazione dello stesso Ripellino[3], nel corso della mia attività di ricerca mi sono a lungo occupata di Nikolaj Zabolockij, allargando poi progressivamente la mia indagine allo sperimentalismo in poesia. Il particolare punto di vista che mi ha guidato nell’interpretazione dei testi, consapevolmente o inconsapevolmente, proveniva dall’insegnamento di Ripellino, dai suoi scritti che continuano tuttora a essere per me una miniera di suggestioni preziose.

Vladimir Benediktov (1807-1873) è un poeta quasi dimenticato del primo Ottocento, che cantava l’amore e la natura con una ricercatezza e un virtuosismo che anticipano il modernismo e le avanguardie del Novecento. Scrivendo sul nulla con leggerezza e arguzia, il poeta presenta quadretti con amazzoni, riccioli, occhi neri, coppie che turbinano nel valzer («E il sistema di Copernico / trionfa nei loro occhi»), in un tripudio di volgarità e di banalità, la pošlost’ russa, che, come ci spiegava il professore, ha una connotazione sia materiale sia morale e non è la stessa cosa del kitsch.

I versi di Igor’ Severjanin (1887-1941), fondatore dell’ego-futurismo (uno dei tre gruppi che afferivano al futurismo russo) Ripellino li colloca a metà «tra la rubrica mondana e le canzonette banali»[4] e, in quello che è, secondo me, il suo libro più ricco, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, definisce l’autore «cantore delle alcove e dei “boudoirs” delle dame, […] manipolatore delle parole come ingredienti di una cucina raffinata»[5]. Sia come sia, i suoi «Ananas nello champagne! Ananas nello champagne!», come recita il primo verso della poesia Ouverture del 1915, così ridicoli e bizzarri da colpire l’immaginazione, sono rimasti impressi per sempre nella mia memoria.

Evidentemente, le lezioni di Ripellino e, in particolare, questi due poeti, minori ma importanti, a modo loro, come documento di un’epoca, non sono solo un mio ricordo, come mostrano le recenti pubblicazioni curate da Serena Vitale (anche lei allieva di Ripellino) dedicate a Vjazemskij[6] e Dostoevskij[7], che rivalutano l’arguzia e l’assurdità delle piccole cose. Il coccodrillo (1865), in particolare, è «una birichinata letteraria», come la definisce Dostoevskij stesso[8], seppure a posteriori, una cosetta insulsa, cui non è certo estraneo il gusto dello scrittore per il gioco in tutte le sue accezioni, che discende dai poeti minori dell’Ottocento, da Vladimir Benediktov, Ivan Mjatlev e altri.

Poco si è scritto sul fatto che Dostoevskij non disdegnasse la parola poetica e se ne servisse in piena libertà, con un fine polemico o scherzoso, nelle improvvisazioni poetiche a carattere giocoso, una parte caratteristica, vivace e del tutto indipendente, della vita quotidiana dello scrittore negli anni Sessanta-Settanta. Non destinate dall’autore alla stampa, queste miniature poetiche presentano non poco interesse sia come forma specifica di polemica dell’autore nei confronti dei suoi oppositori sia come schizzo della vita letteraria del tempo e testimonianza di prima mano per indagare le circostanze della vita dello scrittore in quegli anni.

Un ruolo più complesso e polifunzionale hanno gli intermezzi poetici in quello che si può definire il romanzo più cupo e ideologico di Dostoevskij, I Demoni. Scritta fra il 1870 e il 1872, l’opera ha un dichiarato carattere tendenzioso e polemico nei confronti degli ambienti progressisti e ritrae personaggi e fatti reali, travisandoli e trasformandoli, cosa che suscitò grande indignazione. Lo scrittore non disdegnava la parodia letteraria e nel romanzo, oltre alla feroce caricatura di Turgenev, il «grande scrittore» acclamato dalla buona società, spicca quella di un pennivendolo da strapazzo, il capitano Ignat Lebjadkin.

A riflettere su questo personaggio, «che sapeva solo bere, e sciorinare sciocchezze»[9], il fratello ubriacone e parassita della moglie zoppa e semidemente del “demone” Nikolaj Stavrogin, mi ha portato Nikolaj Zabolockij, il terzo poeta del corso monografico dedicato da Ripellino alla poesia burlesca russa. La lettura di un saggio di Venjamin Kaverin, (altro scrittore di cui mi sono occupata dopo la laurea su sollecitazione di Ripellino[10]), in cui si ricordava come, dopo aver assistito alla lettura di alcune delle poesie di Stolbcy (Colonne di stampa, 1929), il poeta Pavel Antokol’skij e sua moglie Zoja avessero esclamato che le poesie di Zabolockij sembravano quelle del capitano ubriacone creato da Dostoevskij, e il poeta, lungi dall’offendersi, aveva commentato: «Sì, l’ho pensato anch’io. Ma quello che scrivo non è una parodia, è come la vedo io. È la mia Pietroburgo, la Leningrado della mia generazione: la Piccola Neva, il Canale laterale, le birrerie sul Nevskij. Ecco tutto»[11].

Il capitano Lebjadkin, personaggio caricaturale, scrive madrigali come, per esempio, quello dedicato All’amazzone-stella, i cui versi che alternano poesia e volgarità, delicatezza e mancanza di gusto, richiamano una famosa poesia di Vladimir Benediktov, La cavallerizza che volteggia con i riccioli al vento. Il componimento più famoso del sedicente poeta Lebjadkin, quello dedicato allo scarafaggio, la cui immagine viene metaforicamente sovrapposta a quella dell’uomo, altro non è che la parodia di una parodia, l’elegia di un poeta del primo Ottocento, Ivan Mjatlev (1796-1844), incentrata sulla triste sorte di un innamorato.

Come scrive lo stesso Dostoevskij nella nota redazionale dei Demoni, l’imbecillità di Lebjadkin sfocia nella genialità. «I versi sono assurdi. Il pensiero in parte è giusto, ma è espresso scioccamente. Non c’è nessuna verità… ma nello stesso tempo c’è qualcosa di vero». I versi del capitano Lebjadkin non sono solo assurdità in rima, il frutto della frenesia di un grafomane, bensì il prodotto della distruzione nichilista dell’estetica, la negazione della bellezza dell’arte, sostituita dalla forza del “demonismo”. Si verifica così non solo una trasformazione parodica dell’originale, ma anche un cambio radicale dei poli artistico-ideologici, un rivolgimento di tutto il sistema estetico tradizionale.

Iosif Brodskij si spinge ancora più avanti e, nella prefazione all’edizione americana del romanzo di Andrej Platonov, Kotlovan (Lo sterro), definisce Dostoevskij, per i versi di Lebjadkin, il primo scrittore russo nonsense[12]. Un’affermazione che trae spunto, con tutta probabilità, dall’opinione di Anna Achmatova e dalle osservazioni contenute nel saggio pubblicato a Parigi nel 1931 dal poeta Vladislav Chodasevič (1886-1939)[13]. La poetica dei versi del capitano, inconcepibile e scandalosa per il XIX secolo, è, secondo lui, la stilistica dei poeti di avanguardia di Oberju (Associazione dell’arte reale), il cui metodo artistico si basava su un nuovo approccio alla realtà. Di questo gruppo, che esordì a Leningrado nel 1928, facevano parte, fra gli altri, i giovani Daniil Charms (1905-1942), Aleksandr Vvedenskij (1904-1941), Nikolaj Zabolockij (1903-1958) e, in modo meno strutturato, il più anziano e già affermato Nikolaj Olejnikov (1898-1937). Esaltando la razionalità dell’illogico e dell’irrazionale, questi poeti creano quello che può essere definito il “teatro dell’assurdo”. Anche se, a posteriori, l’assurdo coltivato da Oberju risulterà essere uno specchio profeticamente realistico della vita quotidiana di un paese che scivolava verso l’arbitrio staliniano.

Anna Achmatova, che probabilmente riprendeva un’analoga affermazione di Nadežda Mandel’štam, vedeva in Nikolaj Olejnikov (1898-1937), uomo dalla vita complicata, cosacco che si era unito all’Armata rossa nel 1918, il vero continuatore dell’opera del capitano Lebjadkin[14]:

Amavo una mosca follemente!

Amici, è stato tanto tempo fa,

quando ancora ero giovane,

quando ancora giovane ero[15].

Poeta satirico, con i suoi versi grotteschi che assomigliano straordinariamente a quelli di Vladimir Benediktov per le metafore ardite e l’uso spregiudicato dei registri linguistici, caratteristiche che Ripellino aveva sottolineato nelle sue lezioni, Olejnikov costringe il lettore a ridere di sé stesso, perché a soffrire e a morire non è lui ma l’animale di turno: la carpa, la mosca o lo scarafaggio. Nel sistema di valori del poeta, l’individuo sembra non avere un’anima, è solo un insieme di ossa, grasso e fegato, cosa che lo apparenta a qualsiasi altro essere vivente, anche a un insetto.

Anche Nikolaj Zabolockij, che esordì nel 1929 con la raccolta poetica Stolbcy (Colonne di stampa), disegna con toni grotteschi e parodici l’assurdità del reale, satira impietosa di una società alienata e volgare. Sullo sfondo di una Leningrado sguaiata, sbilenca, si muove un universo popolato da piccoli borghesi, da provinciali inurbati, da personaggi triviali, che compiono gesti banali con la solennità delle divinità dell’Olimpo. Ripellino tradusse alcune delle prime liriche di Zabolockij nel suo Poesia russa del Novecento (Guanda 1954), dove definì il suo mondo «bislacco e stralunato»[16]. Il poeta «deforma la realtà in apparenze che rassomigliano ai riflessi di specchi mostruosi». Le prostitute hanno «braccia smaltate» e «gomitoli di capelli arancione», i boccali «si radunano a conclave», il samovar è «il sacerdote delle stanze», tutte immagini grottesche che affondano le loro radici nella poesia del XIX secolo, nei versi del capitano Lebjadkin.

Fin dal suo apparire, la raccolta Colonne di stampa suscitò grande interesse e altrettante polemiche. Zabolockij fu accusato di evadere dalla realtà sociale e di dipingere un mondo di «morbose visioni fantasmagoriche», un giudizio che si fece ancora più negativo all’apparire del suo controverso poema sulla collettivizzazione, Il trionfo dell’agricoltura[17], in cui animali sapienti e contadini irsuti si interrogano sull’esistenza dell’anima. Il poema costituì, assieme alla prima raccolta, uno dei principali capi di accusa contro il poeta, che fu arrestato nel 1938. Condannato a cinque anni di lager, scontò la pena nei pressi di Magadan, la capitale dei GULAG.

In un campo nei pressi di Magadan,

in mezzo a pericoli e disgrazie,

fra le esalazioni della nebbia gelata,

andavano in fila dietro alla slitta[18].

Dopo la liberazione, gli fu concesso, nel 1948, di stabilirsi a Mosca. Il poeta si dedicò, però, quasi esclusivamente alla traduzione: poeti georgiani, ma anche Rabelais e, solo dopo la morte di Stalin (1953) e l’avvento del “disgelo” chruščeviano, riprese a scrivere.

Il 1957 fu per lui un anno cruciale: pubblicò la sua quarta raccolta, Stichotvorenija (Poesie), che inaugura un nuovo periodo della sua poetica, in cui privilegia una scrittura limpida e rasserenante, e gli fu permesso, dopo molte esitazioni, di far parte della prima delegazione ufficiale dell’Unione degli scrittori invitata nel nostro paese dall’Associazione Italia-URSS. La richiesta di includere Nikolaj Zabolockij nella delegazione, di cui fecero parte, fra gli altri, i poeti Boris Sluckij, Aleksandr Tvardovskij, Vera Inber, Leonid Martynov e che era guidata dal potente segretario dell’Unione degli scrittori, Aleksej Surkov, era stata avanzata da Angelo Maria Ripellino che apprezzava molto Zabolockij, come si evince anche dalla lettera a Giulio Bollati del novembre di quello stesso anno: «Va presa in esame la pubblicazione di Zabolockij, un poeta che ha un’importanza quasi uguale a quella di Pasternak. Io posseggo le sue poesie in varianti definitive, non ancora apparse in Russia. Vi prego di non dimenticare questo nome: Nikolaj Zabolockij»[19].

Cosa colpiva particolarmente Ripellino nella poesia di Zabolockij? Sicuramente la sua capacità di dipingere con colori densi e accesi, scenette grottesche, da teatro infantile; il sistema poetico molto vicino a quello di Velimir Chlebnikov, che Ripellino tradusse magistralmente[20]; il particolare metodo creativo, basato sul fondamento dell’arte analitica, sull’«occhio che vede e conosce»[21]. All’inquieto poeta-profeta dei cubo-futuristi, spesso paragonato a una gru per il suo aspetto grifagno e le lunghe gambe, Zabolockij è in effetti legato da molti elementi: dall’idea della coincidenza fra futuro e passato, per cui l’avvenire non è quel che avverrà ma quello che è già avvenuto, che è già storia; dalla passione per lo stile poetico del Settecento, dal gusto per l’utopia, dall’interesse per il mondo animale. Le metafore, il gusto delle iperboli e delle perifrasi, il pathos ironicamente didattico apparentano la scrittura di Zabolockij a quella delle odi di Deržavin e Cheraskov[22], mescolando cadenze e sfarzo pittorico. L’immaginazione visiva consente al poeta di vedere il mondo con gli occhi del pittore e di pensare per immagini. L’idea della precisa disposizione degli oggetti, la deformazione dello spazio, la scelta delle metafore secondo il principio della corrispondenza fra forme e colori, la raffigurazione delle nature morte, la commistione fra letteratura e arti visive sono tutti elementi che intrigano sia il poeta sia lo slavista Ripellino.

L’autorizzazione alla partenza venne concessa, ma Zabolockij, che soffriva di cuore e aveva già avuto un infarto nel 1955, non potendo viaggiare in aereo, partì in treno assieme a Boris Sluckij e arrivò a Roma quando ormai gli incontri in quella città si erano conclusi. Con gli altri membri della delegazione, il poeta intervenne alla tavola rotonda organizzata a Firenze, dove incontrò Angelo Maria Ripellino, Vittorio Strada, Carlo Levi, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, mantenendo sempre un atteggiamento di estrema prudenza. Con Ripellino legò più che con gli altri poeti italiani e fu a lui che regalò una copia dell’edizione originale di Stolbcy (Colonne di stampa) del 1929, che aveva portato con sé in vista di una possibile pubblicazione italiana.

Nel 1957 mi diede una copia di questa raccolta, con le sue correzioni inserite tra i versi stampati e con grandi tagli a matita rossa, dei tagli che escludono spietatamente alcuni dei versi più significativi, Non si può tener conto di queste modificazioni (anche Pasternak, negli ultimi anni, avrebbe voluto riscrivere le sue vecchie liriche, rifondere i gioielli verbali di Sestra moja žizn’!)[23].

Ripellino considerava Stolbcy uno «fra i libri più vividi e più bislacchi della poesia russa di questo secolo»[24] e riteneva che, con il continuo rifarli, Zabolockij avesse decisamente peggiorato quei versi straordinari[25]. I due si incontrarono in Italia e in seguito anche a Mosca; legati dal comune interesse per la poesia, intrattennero rapporti cordiali, anche se Ripellino definì Zabolockij «solenne, coi capelli lisciati e gli occhiali rotondi, con un’aria di meticoloso farmacista all’antica»[26] un commento che non piacque troppo al poeta russo che, con l’amico Boris Sluckij, commentò a propria volta che Ripellino sembrava un parrucchiere[27].

Nel 1958, come racconta anche Evgenij Solonovič in un’intervista recentemente pubblicata[28], Ripellino, giunto a Mosca su invito dell’Unione degli scrittori, andò a trovare Zabolockij, e parlò con lui di Chlebnikov, di poesia ma anche di future traduzioni. Zabolockij era tornato dal GULAG piuttosto malandato e morì in quello stesso anno (1958), ma fece in tempo a tradurre tre poesie di Ripellino, Non ho mai detto d’esser solo, Febbraio e Domenica, per la smilza antologia Iz ital’janskich poetov[29] (Dai poeti italiani), la prima dedicata in Russia a poeti contemporanei italiani e in cui Ripellino compare con ben otto poesie (Montale solo con tre). Oltre alle tre citate: Il cigno Iscanus, tradotta da Leonid Martynov; Amleto, Tubi di pantaloni, Profezia e Mattino, tradotte da Boris Sluckij. Un omaggio che Ripellino ricambiò qualche anno dopo, traducendo una quindicina di poesie di Zabolockij per la sua nuova antologia, Nuovi poeti sovietici, dove scrive che l’opera del poeta «accosta e raccorda i lontani anni ’20 all’età che viviamo»[30].

A Zabolockij ricorrerà nuovamente Ripellino nel suo famoso articolo I topi del regime[31] in cui, per descrivere i membri del Presidium al IV Congresso degli scrittori sovietici (1967), userà l’espressione siedono «ritti come spari di fucile», tratta proprio da quella raccolta del 1929 che era costata l’arresto al suo autore nel 1938. L’articolo fece diventare Ripellino “persona non grata” e gli inibì per sempre la possibilità di tornare in Russia. Nel 1968, dopo la fine della “Primavera di Praga”, il divieto di ingresso venne esteso anche al paese che allora si chiamava Cecoslovacchia.

Concludendo questo mio ricordo di Angelo Maria Ripellino, genio poliedrico che ho avuto la grande fortuna di incontrare negli anni della mia formazione, vorrei citare le sue poesie tradotte in russo da Nikolaj Zabolockij. La prima, Domenica, pubblicata nella raccolta Non un giorno ma adesso (1960), nel 1958 era ancora inedita. Zabolockij apprezzò la concretezza delle metafore, i giochi verbali, l’uso del colore, e trovò la malinconia che la sottende, assai vicina alla poetica della sua maturità. La seconda, Non ho mai detto d’esser solo, pubblicata con questo titolo nel 1955[32], verrà inclusa nella raccolta del 1960, la prima pubblicata da Ripellino[33], con il nuovo titolo Come un pupazzo di Schlemmer, ed esprime l’attaccamento per la vita in tutte le sue espressioni attraverso trovate allegoriche, immagini-citazioni di poeti romantici, in un estremo tentativo di esorcizzare la morte. Un tema molto vicino a Zabolockij. La terza, Febbraio, pubblicata con il titolo Quest’anno a febbraio nella prima antologia di Ripellino Non un giorno ma adesso, era ancora inedita nel 1958. Tematicamente e nella scelta del lessico ricorda la poesia dallo stesso titolo che apre l’antologia di Pasternak che Ripellino aveva appena dato alle stampe[34] e, forse per questa ragione, non fu da lui inclusa nelle sue successive raccolte.

Domenica

Ridono i figli delle Alpi in casette fiorite

quando, sospesa a una garza di nebbia,

schiocca l’aspra musica dei corvi.

La conchiglia dei monti ripete lo scroscio del fiume:

con pennacchi e criniere di spume

cavalli d’acqua saltano la diga.

Nell’aria fredda, arruffata

dal tremolio dei passeri sui fili,

ridono i figli delle Alpi, le case fiorite,

ridono foglie giallastre di zucca,

grandi occhi lucenti di girasoli,

lucernette di papaveri su steli pelosi.

Ride e ammicca il villaggio, vestito

di fiocchi, di nastri di calze nere,

ride una fila di ombrelli rigonfi,

tenuti al polso da mani allegre.

Ma il cinguettio della festa è turbato

dal misero pianto di quattro maiali

pronti per il martirio[35].

***

Воскресенье

В зеленых хижинах смеются дети Альп,

Когда, цепляясь за бинты тумана,

Вороний крик несется по долине.

В ущелье отдается гром реки –

То влажный конь через плотину скачет

И потрясает пенистою гривой.

Внимая перекличке воробьев

На проводах и в воздухе холодном,

В зеленых хижинах смеются дети Альп,

Смеются листья тыквы и большие

Глаза подсолнечников, налитые блеском,

И маки на мохнатых стебельках,

Подобные фонарикам пунцовым.

Надев чулки, всё в кисточках и лентах,

Подмигивает горное селенье,

И рой зонтов, надутых свежим ветром,

Смеется в отдыхающих руках.

И лишь четыре борова, которых

Сегодня здесь заколют на обед,

Ревут и стонут, и веселый праздник

Нарушен этим судорожным воем…[36]

***

***

Come un pupazzo di Schlemmer

Non ho mai detto d’essere solo

come un pupazzo di Schlemmer.

Le case come vecchine

coi fazzoletti delle persiane sugli occhi

mi ripetono sempre parole cordiali.

Non ho mai detto di soffrire

come un pezzo di legno sotto una pialla.

Ma le stelle sempre si nascondono,

quando cerco un briciolo di luce.

Non ho mai detto d’essere triste

come una bottiglia vuota,

perché so già da tempo

che l’acqua svanisce dalle fontane,

quando ho bisogno di bere.

Non ho mai detto d’essere felice

come una spalliera di peonie,

perché non so catturare la gioia,

che mi sfiora talvolta con piume di cigno.

Non ho mai detto nulla, ma ciascuno

comprende che adoro la vita[37].

***

Нет, я не говорил, что одинок я в мире

Нет, я не говорил, что одинок я в мире,

Как кукла Шлеммера.

Подобно покрывалам,

Надвинув жалюзи на старческие лица,

Меня по-дружески приветствуют дома.

Нет, я не говорил, что я изнемогаю,

Как дерево под острою пилою,

Но звезды от меня скрываются внезапно,

Когда ищу я искорку огня.

Нет, я не утверждал, что я всегда печален,

Что я опустошенная бутылка,

Но с давних пор я знаю, что источник

Внезапно высыхает и мелеет,

Когда напиться вздумается мне.

И я не говорил, что счастлив я, подобно

Пионам, установленным в шпалеры, –

Почуяв плеск лебяжьих крыльев счастья,

Я не умею счастья удержать.

Да, я молчал, но каждый понимает,

Что я всем сердцем обожаю жизнь[38].

***

***

Quest’anno a febbraio

Quest’anno febbraio, gigantesco e baffuto,

dinanzi a ogni foglia, a ogni uccello, a ogni storia

si commuove e piange come Gor’kij.

Aprendo i giornali come ali di carta

Sulle braccia distese per tutta la stanza,

vedo attraverso le righe di pioggia

oceani dalla bocca spalancata,

terremoti lontani, tastiere di neve,

ordigni che ruttano piastre di fuoco,

pagliacci che trascinano cannoni

per annebbiare di fumo la pista.

Queste ali di carta non mi sollevano,

perché la pioggia intride le parole.

Fra gli scoppi beffardi della cronaca

La vita si corruga in gialle smorfie,

e un’argilla vischiosa imprigiona

i sogni d’un mondo migliore[39].

***

Февраль

Пришел февраль огромный, бородатый.

Над каждым листиком, над каждой малой птицей

он плачет и томится, словно Горький.

Я весь опутан крыльями газет,

распластанных по комнате. Я вижу

сквозь строки надоевшего дождя

оскаленную пропасть океана,

землетрясенья дальние и снег,

подобный белым клавишам рояля.

Я вижу пушки, вижу их огонь,

я замечаю строй марионеток,

передвигающих орудья, чтобы дым

клубами опускался на дорогу.

И нет мне радости от тех газетных крыл:

убит дождем словесной схватки пыл.

Под завыванья желтых хроникеров

жизнь скорчилась в гримасе, и томится

засосанная липкою трясиной

о лучшем мире пленная мечта[40].

Il mio ricordo di Angelo Maria Ripellino, lo studioso appassionato che non amava “i trappisti del metodo critico”[41], il poeta spesso sottovalutato perché forse troppo «in confidenza con la poesia dei russi, dei boemi, degli espressionisti tedeschi»[42] non può prescindere dal traduttore che ci ha fatto conoscere e amare i poeti russi del Novecento, Majakovskij, Pasternak, Blok, Belyj, Chlebnikov, con versioni esemplari che ancora oggi, a distanza di tanti anni, rappresentano un esempio per tutti coloro si cimentino nella difficile arte della traduzione. È, quindi, con una poesia di Nikolaj Zabolockij, scritta nel 1952 e dedicata ai poeti del gruppo Oberju, che desidero chiudere queste brevi note. Meno fortunati di lui, i suoi amici non riemersero dal GULAG ma due poeti, uno russo e uno italiano, continuano a ricordarli e a segnalare la forza invincibile della poesia.

Прощание с друзьями

В широких шляпах, длинных пиджаках,

с тетрадями своих стихотворений,

давним-давно рассыпались вы в прах,

как ветки облетевшие сирени.

Вы в той стране, где нет готовых форм,

где все разъято, смешано, разбито,

где вместо неба – лишь могильный холм

и неподвижная лунная орбита.

Там на ином, невнятном языке

поет синклит беззвучных насекомых,

там с маленьким фонариком в руке

жук-человек приветствует знакомых.

Спокойно ли вам, товарищи мои?

Легко ли вам? И все ли вы забыли?

Теперь вам братья – корни, муравьи,

травники, вздохи, столбики из пыли.

Теперь вам сестры – цветики гвоздик,

соски сирени, щепочки, цыплята…

И уж не в силах вспомнить ваш язык

там наверху оставленного брата.

Ему еще не место в тех краях,

где вы исчезли, легкие, как тени,

в широких шляпах, длинных пиджаках,

с тетрадями своих стихотворений[43].

***

Addio agli amici

Con larghi cappelli, lunghissime giacche,

con quaderni di vostre poesie,

da molto tempo siete andati in polvere,

come rametti caduti di lillà.

Siete in un paese senza forme pronte,

dove tutto è scomposto, mischiato, distrutto,

dove, invece del cielo, è solo un tumulo

ed immobile è l’orbita lunare.

Là con diversa lingua incomprensibile

Canta un sinedrio di sommessi insetti,

là con un lanternino nella mano

un uomo-scarabeo saluta i conoscenti.

Avete pace ormai, compagni miei?

Va meglio? Vi siete scordati di tutto?

Vi sono ora fratelli radici, formiche,

fuscelli, sospiri, granelli di polvere.

Vi sono ora sorelle garofani in fiore,

papille di lillà, scheggette, pulcini…

e non avete più forza di ricordare la lingua

del fratello lasciato di sopra.

Non c’è ancora posto per lui in quelle plaghe,

in cui siete svaniti, leggeri come ombre,

con larghi cappelli, lunghissime giacche,

con quaderni di vostre poesie[44].

  1. A. M. Ripellino, Congedo, in Id., La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, Milano, Rizzoli, 1967, p. 134.
  2. A. M. Ripellino, Rozanov: ricognizione del suo sottosuolo, postfazione a V. Rozanov, Foglie cadute, trad. di A. Pescetto, Milano, Adelphi, 1976, pp. 411-89.
  3. 3 «D’altra parte, va presa in esame la pubblicazione di Zabolockij, un poeta che ha un’importanza quasi uguale a quella di Pasternak», scrive Ripellino a G. Bollati nel 1957: A. M. Ripellino. Lettere e schede editoriali (1954-1977), a cura di A. Pane, introduzione di A. Fo, Torino, G. Einaudi editore, 2018, p. 36.
  4. Poesia russa del Novecento, a cura di A. M. Ripellino, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 41-43 e pp. 229-31.
  5. A. M. Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Torino, Einaudi, 1959, pp. 15-16.
  6. P. A. Vjazemskij, Briciole dalla vita, a cura di S. Vitale, Milano, Adelphi, 2022.
  7. F. Dostoevskij, Il coccodrillo, a cura di S. Vitale, Milano, Adelphi, 2022.
  8. Ivi, p. 93.
  9. F. Dostoevskij, I demoni, traduzione di A. Polledro, Torino, Einaudi, 1974, p. 89.
  10. «Comincerei con Venjamin Kaverin, che è scrittore ancor oggi in auge e assai interessante. Le sue ultime cose sono fra quelle indicate a Carlo Levi dagli studenti di Mosca»: così scrive Ripellino alla casa editrice Einaudi il 21 gennaio 1956. Cfr. A. M. Ripellino. Lettere e schede editoriali (1954-1977), a cura di A. Pane, introduzione di A. Fo, op. cit., p. 13.
  11. V. Kaverin, Sčast’e talanta, in Vospominanija o Zabolockom, Moskva, Sovetskij pisatel’, 1984, p. 181.
  12. A. Platonov, The Foundation Pit, English translation by Thomas Whitney, Preface by Joseph Brodsky, Ann Arbor, Ardis, 1973.
  13. V. Chodasevič, Poezija Ignata Lebjadkina, in «Vozroždenie», 10/1931.
  14. N. Mandel’štam, Vtoraja kniga, Moskva 1999, p. 313.
  15. F. Dostoevskij, I versi del capitano Lebjadkin, a cura di C. Scandura, Roma, Elliot, 2023, p. 81.
  16. Poesia russa del Novecento, a cura di A. M. Ripellino, op. cit., pp. 86-88, pp. 370-77.
  17. N. Zabolockij, Il trionfo dell’agricoltura, a cura di C. Scandura, Bracciano, Del Vecchio, 2021.
  18. F. Dostoevskij, I versi del capitano Lebjadkin, a cura di C. Scandura, op. cit., p. 103.
  19. Lettera del 22 novembre 1957, in A. M. Ripellino, Lettere e schede editoriali (1954-1977), a cura di A. Pane, introduzione di Alessandro Fo, op. cit., p. 36.
  20. A. M. Ripellino, Tentativo di esplorazione del continente Chlebnikov, in Id. Poesie di Chlebnikov, Torino, Einaudi, 1968, pp. V-XCII; Id., Saggi in forma di ballate, Torino, Einaudi, 1978, pp. 77-150.
  21. Ivi, p. LXXII.
  22. A. M. Ripellino, Diario con Zabolockij, in «L’Europa letteraria», 5-6, 1960; Id., Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi, 1968, pp. 251-66.
  23. A. M. Ripellino, Diario con Zabolockij, op. cit., p. 264. Questa copia originale con gli autografi di Zabolockij, acquisita dalla sezione di Slavistica (allora Biblioteca di Slavistica) assieme a tutto il patrimonio librario di Ripellino, è conservata presso la Biblioteca di Lingue e letterature straniere della Sapienza.
  24. A. M. Ripellino, Diario con Zabolockij, op. cit., p. 255.
  25. C. Scandura, Materiali per un’edizione critica delle liriche di Zabolockij: le varianti di Stolbcy, in «Ricerche slavistiche», voll. XXIX-XXXI, 1982-1984, pp. 247-67.
  26. A. M. Ripellino, Diario con Zabolockij, op. cit., p. 264.
  27. Cfr. N. Zabolockij, Žizn’ N. A. Zabolockogo, Moskva, Soglasie, 1998, p. 513.
  28. Intervista a Evgenij Solonovič, prefazione di C. Scandura, Frosinone, Queen Kristianka edizioni, 2023, pp. 52-54.
  29. 26 Iz ital’janskich poetov, a cura di G. Brejtburd, con prefazione di A. Surkov, Moskva, Izd. Inostrannoj literatury, 1958, pp. 70-76.
  30. Nuovi poeti sovietici, a cura di A. M. Ripellino, Torino, Einaudi, 1962, p. X.
  31. A. M. Ripellino, I topi del regime, in «L’Espresso», 13 giugno 1967, p. 11.
  32. A. M. Ripellino, Poesie (Tubi di pantaloni, Transvaal Transvaal, Non ho mai detto d’esser solo, Si leveranno due bianche colombe), in «La fiera letteraria», 6/02/1955.
  33. «Fu il pittore Achille Perilli a stamparmi nel 1960 la prima raccolta, Non un giorno ma adesso, accompagnandola con i suoi disegni. Domenico Javarone ha pubblicato alcune stazioni del poema nel primo numero delle sue “Carte segrete”. Ma questo libro non avrebbe visto la luce senza il fervore e le premure fraterne di Giacinto Spagnoletti, al quale va tutta la mia gratitudine»: A. M. Ripellino, La fortezza d’Alvernia e altre poesie, op. cit., p. 134.
  34. B. Pasternak, Poesie, introduzione, traduzione e cura di A. M. Ripellino, Torino, Einaudi, 1957.
  35. A. M. Ripellino, Domenica, in Id., Non un giorno ma adesso, in Id., La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, op. cit., p. 124.
  36. N. A. Zabolockij, Polnoe sobranie stichotvorenij i poem, Sankt Peterburg, Akademičeskij proekt, 2002, p. 530.
  37. A. M. Ripellino, Come un pupazzo di Schlemmer, in Id., Non un giorno ma adesso, in Id., La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, op. cit., p. 91.
  38. N. A. Zabolockij, Polnoe sobranie stichotvorenij i poem, op. cit., p. 529.
  39. A. M. Ripellino, Quest’anno a febbraio, in Id., Non un giorno ma adesso, Roma, Grafica, 1960, p. 9.
  40. N. Zabolockij, Polnoe sobranie stichotvorenij i poem, op. cit., p. 530.
  41. Così Ripellino definiva gli studiosi estranei al suo modo di vedere l’arte e la letteratura.
  42. A. M. Ripellino, Congedo, in Id., La Fortezza d’Alvernia e altre poesie, op. cit., p. 134.
  43. N. A. Zabolockij, Polnoe sobranie stichotvorenij i poem, op. cit., pp. 245-46.
  44. Nuovi poeti sovietici, a cura di A. M. Ripellino, op. cit., p. 18.

(fasc. 50, 31 dicembre 2023)