Mille sfumature di “triestinità”: itinerari autobiografici di Mauro Covacich

Author di Maria Panetta

Mauro Covacich: classe 1965, triestino.

È autore, com’è noto, di romanzi, racconti e scritti vari1: nel maggio 2006, è uscito un suo volumetto per i tipi dell’editore Laterza, dal titolo evocativo Trieste sottosopra. Quindici passeggiate nella città del vento, che rimanda ovviamente all’incontro/scontro, nello snodo nevralgico di Trieste, di vari venti, rappresentati su una bitta, alla fine del centrale e imponente Molo Audace, in una rosa dei venti che ricorda il maestrale, lo scirocco, il libeccio e il grecale, sui quali campeggia, incontrastata, la bora; ma che allude anche alla volontà dell’autore di – per così dire – “spettinare” Trieste e le sue immagini tradizionali di città severa e composta, nella propria austroungarica eleganza, e di città “letteraria” per eccellenza.

Il volumetto si articola, infatti, in quindici passeggiate (con un implicito omaggio a Umberto Eco), partendo da un punto di osservazione un po’ defilato rispetto al centro cittadino, ovvero dal favoloso Castello di Miramare, che precede di circa 6 chilometri l’approdo a Trieste per chi provenga da Ovest.

Ognuno di questi capitoletti è articolato come una sorta di racconto entro il quale vengono forniti al lettore anche dati storici, informazioni logistiche per organizzare la gita a Trieste e dintorni, nonché – ma forse soprattutto – riferimenti all’autobiografia dell’autore. Così, il lettore/turista viene preso per mano e accompagnato, con amorevole attenzione, alla scoperta di quindici itinerari per la città e il suo Hinterland, che corrispondono anche a quindici tappe della memoria di Covacich.

Si parte, si diceva, dal Castello di Miramare e da colui che lo fece edificare – Ferdinando Massimiliano d’Asburgo ˗, di cui si narrano la parabola ascensionale e la tragica fine. A un tratto, nel prosieguo della narrazione, Covacich fa intervenire, come deus (deae) ex machina, due triestine «in tutina da corsa»2, che attraggono gli sguardi di una scolaresca annoiata, condotta in visita all’elegante maniero, e gli permettono d’interrompere la rievocazione storica e la descrizione dei luoghi, evitando di stancare il lettore; questo escamotage gli consente anche d’introdurre la propria convinzione che il cliché della triestina «aristocratica, salottiera, (…) tutta Sissi e operetta»3 (come la città) non dia conto della «complessità della città vera»4 e dei suoi abitanti, perché «l’identità autentica di Trieste passa attraverso la sua natura contraddittoria»5. Pertanto, tutto il volumetto si presenta come un tentativo di documentare tale contraddittorietà e di dipingere un’altra immagine del capoluogo del Friuli Venezia Giulia: «Sissi, come Trieste, è una giovanissima quarantenne dei nostri giorni, tatuata, tonica, igienista, che non ho nessuna difficoltà a immaginare anche depilata con l’elettrocoagulatore, abbronzata e, perché no, col piercing all’ombellico, come le due runner di prima»6. Si passa così, se vogliamo, da un cliché a un altro.

Proseguendo in questo primo capitolo, che è anche un’introduzione, si legge:

Trieste è a tutti gli effetti la metonimia perfetta della Mitteleuropa – eredità asburgica, crogiuolo di razze, pluriglottismo e soprattutto una tradizione letteraria di grande respiro e fortemente connotata in senso europeo – dici Trieste e pensi a tutto questo. Però, abitando qui oggi, nei primi anni del Ventunesimo secolo, la sensazione è che la cultura mitteleuropea e quindi la «triestinità» abbiano trovato nell’autorappresentazione letteraria non solo il proprio tratto distintivo, ma anche la propria prigione7.

Covacich desidera, perciò, dimostrare che la vita dei triestini è molto «più varia, più ambigua e forse anche più interessante»8 dello «stereotipo pur lusinghiero nel quale è ingabbiata», e che la città è «ancora viva»9, puntualizzando, inoltre, che spera che sia «la letteratura a nutrirsi della vita e non viceversa»10.

A dire il vero, tale sottolineatura suona piuttosto curiosa, specie perché a proporla è un filosofo e scrittore e letterato: viene spontaneo, infatti, chiedersi se questa affermazione comporti l’idea che le antiche glorie letterarie triestine infondano alla città un’aura ormai ammuffita da vecchia signora elegante ma avvizzita, e sottintenda, dunque, la conseguente convinzione che solo la letteratura contemporanea possa rispecchiare la vitalità di un luogo, nutrendosi della realtà che la circonda e traendone linfa vitale. Se così fosse, però, ne verrebbe assai ridimensionato il valore della tradizione letteraria tutta che, essendosi nutrita della vita a essa coeva o tutt’al più precedente, non potrebbe più render ragione dei cambiamenti intervenuti in seguito e perderebbe la propria rilevanza. Ma, allora – proseguendo nel ragionamento -, che senso avrebbero i cosiddetti “classici”? Quale significato studiare i grandi del passato e continuare a leggerli? Se il valore di una letteratura si misurasse solo in base a quanto rispecchia la vita attuale, in relazione a chi legge, allora molte opere del passato dovrebbero cadere nel dimenticatoio e, progressivamente, tutte le opere letterarie finirebbero per essere considerate “superate”11.

Chiaramente, quella di Covacich è una provocazione, e una provocazione è stata anche la nostra, di portare alle estreme conseguenze un ragionamento che mira soltanto a introdurre lo spirito del volumetto, ovvero quello di dimostrare che la città di Trieste, sebbene per certi aspetti oggi non sia, forse, più del tutto all’altezza della passata, gloriosa grandezza (nonostante la sua attuale sfolgorante bellezza), presenta tuttora numerosissimi scorci ancora da valorizzare e cela, per il turista curioso e realmente desideroso di conoscere, tanti angoli da scoprire (o riscoprire).

Covacich suggerisce che, accanto alla Trieste austroungarica, a quella dei caffè letterari, c’è sempre stata un’altra Trieste, «morbida, disinvolta, picaresca, dai connotati quasi carioca»12; e rivela che c’è «un edonismo antico, morale, nei triestini. E anche un vitalismo moderno un po’ easy-going, alla californiana. Un amore per la vita che veneti e udinesi considerano erroneamente come godereccio, solo perché non si confà agli standard della produzione e del profitto nordestini. Non a caso molti di loro indicano Trieste come la Napoli del Nord»13.

Dunque, per definire la “triestinità” in questo passaggio Covacich si serve perlopiù di altri riferimenti geografici (Rio, California, Napoli) che «non hanno mai fatto letteratura»14. Sarebbe, forse, bastato connotare Trieste, come fa efficacemente in seguito, come una città meridionale, la «più meridionale dell’Europa del Nord»15. Ed è talmente piacevole la descrizione che segue di Grignano e della costa, fino all’incantevole spiaggia in corrispondenza della caserma dei carabinieri, di rimpetto alla quale si staglia una roccia a forma di ananas (sulla quale si apre inaspettatamente una «sella naturale»16, dove Covacich suggerisce di arrampicarsi in coppia per “godersi la serata”), che probabilmente non sarebbe stato necessario tagliare il discorso con la conclusione a effetto che «C’è più Trieste su quell’ananas che nelle stanze (del Castello di Miramare) che avete appena visitato»17.

Eppure, Covacich è un guida perfetta, perché coinvolge il lettore con una sapiente alternanza di detti e non detti, di scenari descritti e suggeriti, di dipinti realisti ottocenteschi misti a squarci evocativi di pointillisme. Lo richiama, ammiccando, all’interno della pagina («Immaginate di avere fortuna»)18per, poi, disorientarlo subito dopo: «Immaginate il classico colpo di coda dell’inverno»19. Si diverte ad attrarlo all’interno della propria trama autobiografica, spiazzandolo all’improvviso: gioca a “spettinarlo”, come fa con Trieste. Lo conduce su fino al quartiere di San Luigi per illustrargli la sua metafora della bora, che «scaturisce dal punto d’incontro di due climi, quello nordico e quello mediterraneo, ed è quindi, anche per quanto detto nel precedente capitolo, la perfetta sintesi della città»20. E il lettore che era stato incuriosito dal titolo del secondo capitoletto, Bora a San Luigi, e che, pensando di confrontarsi con un libricino di innocenti repertori di viaggio, aveva saltato il primo percorso catapultandosi nel secondo, si ritrova preso nella nassa insidiosa del congegno narrativo ideato dall’autore e costretto a tornare indietro a recuperare il non letto.

La bora, però, non è solo uno dei tanti simboli di Trieste: dal piano meteorologico si passa a quello mitologico, ed eccola diventare «una ninfa del Carso, in qualche modo protettiva»21. Ma l’autore pensa subito a sdrammatizzare l’aura appena creata intorno al vento e alla retorica sulla sua salubrità, e introduce un punto di vista inedito: «Senza contare, poi, che con la bora ci si può proprio divertire»22. La trovata narrativa è l’introduzione di un personaggio femminile del suo passato, la nonna, che amava, di sera, affacciarsi dalla finestra e, in caso di bora, godersi «lo spettacolo». In pochi tratti Covacich rievoca una comicità antica, che rimanda alla cornice del Pentamerone di Basile e all’espediente della fontana d’olio per strappare un sorriso alla triste principessa Zoza:

Quando la gente scendeva dall’autobus lei si sbellicava dalle risate. C’era quello che abbracciava il lampione, quello che si piegava a quattro zampe, quelli che facevano catena come nelle figurazioni dei paracadutisti, quello che immancabilmente finiva a gambe levate23.

Così facendo, connette la propria dimensione autobiografica a quella della tradizione delle fiabe (per bambini e non), accostate e fuse in un inedito connubio in un libricino apparentemente a metà fra letteratura di viaggio e guida turistica romanzata.

I rimandi cinematografici (ad esempio, a Kusturica24 o a Qualcuno volò sul nido del cuculo25) o televisivi (come quello a Oggi le comiche)26 si alternano a quelli letterari: discorrendo di via Biasoletto, afferma, ad esempio: «Questa è stata la mia via Pal»27, cucendo all’interno della propria rievocazione autobiografica un tassello letterario ormai di non scontata piena decodificazione ed elevando repentinamente il tono di una prosa apparentemente facile e ammiccante, ma che nasconde, a ogni angolo, insidie per il lettore privo di attrezzi del mestiere. Così, anche il tessuto linguistico si fa complesso nella rievocazione dei giochi più gettonati: «alla casa, a Barbie e Ken, a Tarzan (sui pali a T dei fili del bucato), a una serie infinita di sese (la sesa color, la sesa cuceti, la sesa in alto, eccetera), a papagal che ora xe?, a palla avvelenata, a nascondino, a calcio, al tiro al lampione»28, laddove nomi noti di bambole simbolo della società dei consumi sono seguiti da termini particolari in dialetto e, poi, da nomi di giochi più evocativi e riconoscibili per un maggior numero di lettori “italiani”.

La rievocazione storica della funzione dei ricreatòri di epoca teresiana, nel terzo capitolo, permette, ancora una volta, di mettere meglio a fuoco «lo spirito dei triestini»:

Un’educazione trasmessa per generazioni e generazioni al di fuori di qualsiasi influenza ecclesiastica, un doposcuola (e una scuola) dove non si prega se non per scelta personale, ha favorito l’emergere di una mentalità libera da pregiudizi, tendenzialmente aperta, sempre pronta ad amare la vita senza inibizioni e falsi pudori29.

Nello stesso percorso troviamo anche un paio di belle pagine dedicate all’osteria, «una via di mezzo tra un dopolavoro e un circolo per signori. (…) un locale frequentato sempre e solo dalle stesse persone, che si conoscono tutte»30, che introducono una riflessione sul rapporto fra triestini e alcol: «A Trieste non si beve per star male, non ci si chiude in casa e ci si ammazza di alcol, il vino è sempre il medium di una situazione conviviale»31. E questa della convivialità è una dimensione che effettivamente si percepisce immediatamente e chiaramente, approdando a Trieste: nonostante il territorio circostante sia generoso di vini di notevole qualità, ormai giustamente famosi in tutto il mondo, si comprende chiaramente che la Ribolla gialla che si vede luccicare, nella sua meravigliosa tonalità di giallo paglierino brillante, nei calici tenuti in mano da giovani e adulti con naturalezza in strada, non è che un medium, un gioviale pretesto per ritrovarsi in cerchio nella piazzetta preferita a discorrere con brio anche di problemi seri. L’«euforia (…) governata e razionale»32 di cui parla Covacich caratterizza veramente i bevitori della città. E ovviamente l’osteria è un ottimo pretesto anche per iniziare a far cenno alla cucina triestina, ad esempio evocando il sublime prosciutto in crosta, “infornato” da Covacich in modo tale da aggiungere un ulteriore quadro alla rievocazione della vita famigliare: quello della «complicità»33 maschile fra padre e figlio, sottolineata e consacrata – oggi come allora – da viaggi in vespa «nelle sere piovose d’inverno e nei violetti tenui dell’estate, a respirare insieme la città che attraversavamo per intero, da parte a parte»34 .

Alla fine del capitolo, viene evidenziata quale elemento caratterizzante la “triestinità” anche la rivendicazione della paternità dello spritz, «una bevanda nata al tempo degli austriaci per dissetare senza ubriacare, che mantiene in sé e ripropone ancora una volta l’identità autenticamente spuria – l’umore vinoso e il cervello frizzante – di Trieste»35.

Intelligente è l’idea di associare all’elencazione e alla descrizione dei più importanti caffè storici della città – immancabile la citazione di Microcosmi di Magris in relazione al “suo” Caffè San Marco – il riconoscimento della qualità dell’espresso triestino che grazie al porto, a giudizio di Covacich, con buona pace dei partenopei, «per qualità e rito, può competere senza timore con quello napoletano»36; ma assai divertente è la sua spiegazione della varietà dei modi in cui si può ordinare un caffè in città, che caratterizza solo Trieste nell’intera penisola. Ed ecco sciorinate tutte le declinazioni di “nero”, “cappuccino”, “caffè macchiato”, “caffelatte”, “latte macchiato”, “cappuccino in bicchiere”, “gocciato”, a loro volta ristretti, lunghi, doppi, decaffeinati e corretti. Anche tale variegata gamma di possibilità è utile a descrivere, secondo Covacich, «l’anomalia»37 di Trieste, i cui baristi sono armati di infinita pazienza perché sanno che il caffè «merita di essere personalizzato»38 e che «abbiamo tutti il diritto di un piacere effimero in cui credere fermamente»39, ed elaborano una creatività linguistica che permette loro di non perdere il ritmo con le ordinazioni. La chiusa di I caffè e il caffè è sotto forma di interrogativo: «Trieste è una città di scrittori perché qui si è portati a giocare sui nomi delle cose – caffè compreso – oppure qui si gioca sui nomi delle cose perché siamo in una città di scrittori?»40. Tale gioco di frasi (apparentemente) ingenuo implica, però, altri due corollari: in primo luogo, che la creatività linguistica sia determinante per uno scrittore di razza; in seconda analisi, che essa rappresenti un ulteriore carattere della “triestinità”.

Il sospetto che il libricino di Covacich possa essere un banale itinerario turistico fra le mete più note e gettonate e “facili” di Trieste potrebbe essere allontanato anche solo dalla lettura del capitolo dedicato alla Risiera di San Sabba, definita icasticamente la «cicatrice»41. Il ricordo drammatico del suo forno crematorio consente a Covacich di rievocare la storia della propria città natale, italiana a partire dal 1918, e di proporre alla riflessione un tema di centrale rilevanza, anche per la sua attualità: quello della paura che ha sempre generato mostri, come quello, ad esempio, della «slavofobia»42 alimentata dal regime, con la seguente italianizzazione che condusse a morte migliaia di sloveni, drammatico contraltare della «tragedia mostruosa»43 delle foibe titine. Là dove c’era un forno crematorio voluto dalla lucida follia nazista, ora sorge un sito ristrutturato, «di una purezza da far male agli occhi»44, inaugurato nel 1975. Covacich lo descrive riutilizzando l’espediente della visita di una scolaresca, stavolta proveniente da Gemona, il che gli permette di rievocare, nella tragedia, anche una seconda tragedia che ha ferito la sua terra: il devastante terremoto del Friuli del maggio 1976.

Le foibe fungono da trait-d’union con il capitolo successivo, dedicato a Basovizza. Un boschetto nel Carso, e permettono a Covacich di fare luce su un altro tratto del carattere dei triestini:

Quando parliamo della gaiezza dei triestini, della loro esuberante gioia di vivere, dobbiamo sempre ricordare la Risiera e Basovizza, dobbiamo ricordare che è gente cresciuta in un posto zeppo di rabbia, dolore e morte. Insomma, non è solo con lo spirito aperto del mare che si spiega la volontà di godersi le cose della vita, ma anche con una sottile, inconsapevole angoscia, l’insopprimibile desiderio di superare e rimuovere45.

Trieste – commenta Covacich – è ancora oggi «terra di passaggio, corridoio, dove i flussi continuano a transitare»46; nel 1999, durante la guerra del Kosovo, molti profughi passarono da una parte all’altra proprio attraversando quelle terre e, in seguito, il trattato di Schengen attribuì loro il delicato ruolo di spartiacque fra il mondo dei ricchi e quello dei disperati: il «grande giardino dell’Europa – la sua erbetta inglese (commenta ironicamente Covacich) – dipendeva tutta dalla sicurezza di questo cancello»47. Ciclicamente, torna qui il motivo della corsa, nell’amara riflessione che, prima dell’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea, gli stessi luoghi vedevano transitare, per i medesimi sentieri nel bosco, di giorno i triestini che serenamente si allenavano correndo e di notte i profughi che fuggivano concitatamente da guerre e miseria.

Egualmente denso e non scontato il capitolo su San Giovanni. C’era una volta un manicomio, dedicato al rione nel quale aveva sede l’ex ospedale psichiatrico noto come Opp, prima che vi approdasse Franco Basaglia, nel 1971, rivoluzionando tutta la struttura. Covacich ricorda che, grazie a lui, nel corso degli anni Settanta Trieste «dovette accorgersi dei diritti dei malati di mente»48, schierandosi in seguito «contro la concezione asilare della psichiatria ottocentesca»49. Lo scrittore riconduce, però, anche la fine della «fumosa celebrazione della follia da parte di certo irrazionalismo kitsch e di tutti i luoghi comuni legati alla dissociazione come fonte di creazione artistica»50 al «pragmatismo»51 di Basaglia e dei suoi seguaci: il che lo allontana, immediatamente, da un certo tipo di temperie letteraria e dalla relativa poetica.

Ma è al cuore del volumetto, ed esattamente all’ottavo capitolo, che Covacich affida alcune delle riflessioni cui sembra tenere maggiormente: sulla traccia di Svevo e di sue note pagine, percorre e descrive, infatti, alcune vie del centro, ma il suo principale scopo sembra quello di esprimere la propria opinione sul fatto che ultimamente l’«amministrazione sta puntando sulla cultura. Turisticamente parlando, la cultura è un prodotto che tira»52; e lo sa bene anche lui, proprio dal momento che ha deciso di creare un volumetto agile, maneggevole, che si tiene facilmente in tasca proprio come una guida del Touring club. E dal momento che un editore come Laterza gli ha dato ragione e fiducia, inserendo questo libricino in una collana come «Contromano», che racchiude itinerari insoliti, curiosi e stimolanti di Corlazzoli, Marsullo e Piccirillo, Lipperini, Pierantozzi, Culicchia, Guzzi, Volpi, Malvaldi, Leotti, Calaciura e Marchesi.

Ce l’ha con i bronzi di Svevo, Joyce e Saba comparsi nell’area pedonale del centro e con l’amministrazione, che «si è accorta che i turisti vengono a Trieste in cerca di fin de siècle, in cerca di lampioni liberty, di mostri sacri della letteratura. E glieli vuole dare»53. Ma soprattutto si percepisce la sua velata disapprovazione in relazione al «delizioso parco tematico»54 che dovrebbe resuscitare i «maestri di penna»55. E la sua risposta al riguardo consiste nell’elaborare una propria documentata «passeggiata sveviana»56, dalla quale, però, in omaggio al principio della varietas e al proposito iniziale di “spettinare” Trieste e la sua immagine tradizionale, a tratti si allontana per approdare, ad esempio, al Molo Audace, dal quale nota – ed è sorprendentemente vero – che si ha una vista eccezionale e unica della città e della sua magnifica Piazza dell’Unità.

Ed ecco precisarsi la ragione della contrarietà in precedenza solo accennata al progetto portato avanti negli ultimi anni dall’amministrazione:

l’eterogeneità di Trieste segue oggi una declinazione più prossima all’eclettismo kitsch della provincia occidentale che non alla nobile multietnicità della tradizione mitteleuropea – e certo, l’idea di farne una specie di parco tematico, imbellettato e gonfio di stereotipi, non giova ai tratti genuini di questa moderna Sissi col piercing57.

Con ciò dimostrando di non accorgersi – al limite – di quanto possa essere anche volutamente kitsch la presenza, nelle vie del centro cittadino, di statue di bronzo di famosi scrittori tutt’altro che alteri, impostati o impomatati, ma anzi resi parte del tessuto urbano e della quotidianità dei triestini, nonché dell’esperienza conoscitiva dei turisti. A Trieste gli scrittori sono scesi in strada, sono in mezzo alla gente, circondati da giovani che si scattano selfie accanto a loro. Casomai, potrebbe essere vero il contrario: ovvero che si è persa, in tal modo, l’aura severa e “mistica” dell’intellettuale rinchiuso nella propria turris eburnea e scostante nei riguardi del mondo esterno. E, se ciò forse non è tanto rilevante nel caso di Joyce, del quale sono ampiamente noti vizi e debolezze (ad esempio, quella del vino)58, di certo potrebbe risultare utile a rendere più famigliare e vicino uno Svevo e soprattutto un Saba all’immaginario dei lettori di oggi e di domani. Quelle statue, di fatto, sdrammatizzano l’aura dell’autorialità e, forse, sortiscono il benefico effetto di accorciare la distanza fra il passante/potenziale-lettore e la Poesia, specie in una città in cui la dimensione collettiva (per ammissione dello stesso Covacich) è così importante e le piazzette sono come salottini nei quali poter condividere spensieratamente un bicchiere di vino o una tazza di caffè.

Dopo il capitoletto breve ma intenso dedicato a Piazza Oberdan, due innamorati, nel quale il riferimento al bronzo di Marcello Mascherini intitolato Cantico dei cantici permette all’autore di rievocare poeticamente la tragica storia di Pino Robusti, ucciso dai tedeschi proprio nel lager di San Sabba, il focus si sposta su un altro rione, quello di San Giacomo, in cui nessuno parla italiano, il che consente a Covacich di definire ancora una volta la “triestinità” come «una differenza distintiva, essenziale»59 che fa sì che i triestini definiscano spontaneamente gli altri abitanti della penisola «taliàni». Lo scrittore è convinto che i propri concittadini siano consapevoli che la loro storia «è molto più complessa di quello che dice la loro carta d’identità»60, essendo stata Trieste teresiana, napoleonica, austroungarica, fascista, titina e pure americana. E tale complessità si riverbera, inevitabilmente, anche nella lingua.

A tal proposito, assai illuminante è la confessione rilasciata dallo stesso Covacich al riguardo:

Io ho imparato l’italiano a scuola, né più né meno di una lingua straniera, come quasi tutti i miei compagni di classe. Ma se considerate che anche Italo Svevo, uno dei più grandi romanzieri europei, bancario che comunicava correntemente in tedesco, inglese e francese, ha studiato la nostra lingua sui libri, capite che si tratta di un fenomeno larghissimo, che travalica questioni di tipo sociale (sempre ancora in triestino, il suo amico Joyce si divertiva a raccontargli le barzellette)61.

La riflessione, specie in relazione a Svevo, è davvero preziosa e rimanda ad alcune argomentazioni adoperate, in passato, da certa critica per stroncare Ettore Schmitz: se studiato in tale contesto, il pregiudizio sul fatto che Svevo “non sapesse scrivere”62 non solo non ha più bisogno di essere smentito, ma anzi conferisce alla sua lingua un plusvalore unico nel panorama letterario nazionale63.

Nel capitoletto su Barcola l’autore ricorda, poi, che a Trieste il mare «è un lato della stanza»64 (come lo è di Piazza dell’Unità) e che i triestini amano fare il bagno tutto l’anno, senza troppe inibizioni, anche al centro della città: l’affondo di questo percorso narrativo è dedicato alla clanfa, un particolare tuffo scomposto e goffo, qui tramandato di generazione in generazione, che mira a provocare «il canonico tonfo, tipo bomba di profondità»65, e a sollevare lo schizzo d’acqua più alto possibile. Al riguardo, un suo articolo appena uscito66 riprende certe argomentazioni adoperate anche nel volumetto per mettere a confronto la nostra generazione degli ultraquarantenni con quella dei ragazzi di oggi: «Facevamo un sacco di casino, però, non so come dire, sapevamo stare al nostro posto. Erano gli adulti i protagonisti della vita – non come adesso -; noi, il nostro casino lo facevamo sempre ai margini della scena. (…) Erano gli adulti ad avere l’orologio, erano loro a stabilire i tempi»67.

L’evocazione della splendida Villa Revoltella si affianca, in seguito, a quella memoriale della prima lettura integrale, nell’estate del 1987, della Recherche di Proust, seduto accanto alla madre appena operata, su una panchina del grande parco della Villa: «tremilacinquecento pagine di massaggi alla mente, una specie di parentesi oppiacea, un periodo di aspettativa zen richiesto alla vita»68.

Segue, sempre procedendo geograficamente verso Est, un capitoletto dedicato all’Istria e al vin de casa, che introduce un altro spazio consacrato alle «osmizze», punti di mescita temporanea del vino (soprattutto Terrano e Vitovska) cui si accompagnano pietanze tipiche quali formaggi stagionati, prosciutto crudo, uova sode, sottaceti: osservata dall’alto delle vigne dell’altopiano alle sue spalle, Trieste assomiglia, secondo l’immagine di Covacich, a «una fettuccia di palazzi antichi e vie massacrate dal traffico, stretta tra il vin de casa istriano e il vin de casa sloveno»69.

La chiusa, a conclusione di un itinerario e, forse, anche di un ciclo vitale, è affidata ai morti dei cimitero di Sant’Anna. Ma, al solito, la prospettiva è originale, perché ne scaturisce una riflessione sulla multietnicità e sulla multiculturalità della città e dei triestini; percorrendo quella che egli definisce la “galleria dei loculi”, Covacich, infatti, ammette: «Cammini dentro e ne sei avvolto, ex uomini ed ex donne coi nomi tra loro dissonanti, istoriati di lontane provenienze, esodi, imbastardimenti»70.

L’ultimo rimando letterario del volumetto è a Karen Blixen e a La mia Africa: in particolare, alla «collina accarezzata dal vento dove vanno ad accoppiarsi i leoni»71 (scelta dalla protagonista come sito per la sepoltura dell’amato Dennis Finch-Hutton), che idealmente ricorda all’autore il luogo ove riposa la nonna (che ritorna), «che i ragazzi di là del muro, con tutto quel gran correre e sbraitare, non lasciano mai sola»72. Morte e vita – sembra suggerire lo scrittore – a Trieste convivono serenamente.

Forse non è un caso che l’ultimo rimando letterario di questo vivace libricino richiami immediatamente alla memoria quello cinematografico, ben più noto presso il grande pubblico, del suggestivo film diretto da Sydney Pollack nel 1985 e della sua struggente colonna sonora: ciò mette in luce un altro tratto caratteristico della prosa di Covacich, che, oltre a non disdegnare la creatività linguistica, con naturalezza e scioltezza si traduce continuamente in immagini.

  1. Per Neri Pozza è uscito Colpo di lama nel 1995; due anni dopo Mal d’autobus (Marco Tropea editore); nel 1998 Anomalie (Mondadori, come L’amore contro, edito nel 2001); per Einaudi ha pubblicato A perdifiato (2005; già Mondadori 2003), Fiona (2005), la storia autobiografica Prima di sparire (2008), A nome tuo (2011), L’esperimento (2013); per Laterza Storia di pazzi e di normali. La follia in una città di provincia (2007) e L’arte contemporanea spiegata a tuo marito (2011); per Bompiani la raccolta di diciassette racconti La sposa (2014); infine, per La nave di Teseo La città interiore (2017).
  2. M. Covacich, Trieste sottosopra, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 5.
  3. Ibidem.
  4. Ibidem.
  5. Ibidem.
  6. Ivi, p. 6.
  7. Ivi, pp. 7-8.
  8. Ivi, p. 8.
  9. Ibidem.
  10. Ibidem.
  11. Da leggere una pagina molto interessante che Benedetto Croce ha dedicato a tale concetto di “superamento”: B. Croce, Considerazioni sul “superamento”, in «La Critica», vol. 26, 1928, pp. 391-93. Si potrebbe citare qualche riga a p. 392: «Il segno a cui si riconosce un pensatore “superato” è che egli non è più vilipeso e vituperato, e neppure onorato con parole di lodi, che si stimano superflue, ma è serenamente ricordato come presupposto o elemento della nuova e viva storia, andata, mercè (sic) di lui, oltre di lui».
  12. M. Covacich, Trieste sottosopra, op. cit., p. 8.
  13. Ivi, pp. 8-9.
  14. Ivi, p. 9.
  15. Ibidem.
  16. Ivi, p. 12.
  17. Ivi, p. 13.
  18. Ivi, p. 15.
  19. Ibidem.
  20. Ivi, p. 16.
  21. Ivi, p. 17.
  22. Ibidem.
  23. Ivi, pp. 18-19.
  24. Cfr. la p. 27 del volumetto Laterza.
  25. Cfr. la p. 56 di Trieste sottosopra cit.
  26. Ivi, p. 19.
  27. Ibidem.
  28. Ibidem.
  29. Ivi, p. 23.
  30. Ivi, p. 26.
  31. Ibidem.
  32. Ibidem.
  33. Ivi, p. 27.
  34. Ibidem.
  35. Ivi, p. 28.
  36. Ivi, p. 31.
  37. Ivi, p. 32.
  38. Ibidem.
  39. Ivi, p. 33.
  40. Ibidem.
  41. Ivi, p. 35.
  42. Ivi, p. 36.
  43. Ivi, p. 37.
  44. Ibidem.
  45. Ivi, p. 41.
  46. Ibidem.
  47. Ivi, p. 42.
  48. Ivi, p. 52.
  49. Ibidem.
  50. Ivi, p. 55.
  51. Ibidem.
  52. Ivi, p. 59.
  53. Ivi, p. 59.
  54. Ibidem.
  55. Ibidem.
  56. Ivi, p. 60.
  57. Ivi, p. 64.
  58. Al riguardo, si può leggere, ad esempio, un vivace contributo di Riccardo Cepach dal titolo “sciasciano” Oinopolos, il mare color del vino, in «Il Ponte rosso», n. 18, ottobre 2016, pp. 44-47 (cfr. la URL: http://www.ilponterosso.eu/wp-content/uploads/2016/12/Ponterosso-18-2016-web.pdf).
  59. Ivi, p. 75.
  60. Ibidem.
  61. Ivi, p. 77.
  62. Cfr. al riguardo P. Trifone, La sindrome di Svevo: non sapere l’italiano, in Id., Malalingua. L’italiano scorretto da Dante a oggi, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 111-24.
  63. Cfr. il volumetto Laterza di Covacich cit. a p. 82.
  64. Cfr. F. Catenazzi, L’italiano di Svevo. Tra scrittura pubblica e scrittura privata, Firenze, Olschki, 1994.
  65. Ivi, p. 87.
  66. M. Covacich, Tutti coetanei, che incubo, in «Corriere della sera», 6 novembre 2018.
  67. Cfr. il libro Laterza cit. a p. 90. Aggiungerei, tra le righe, che spesso ancora oggi la nostra generazione staziona ai margini della scena, perché le priorità, ora, sono quelle degli anziani o dei giovani, e il nostro ruolo resta sempre e comunque subalterno e defilato (forse, anche a causa della nostra buona educazione).
  68. Ivi, p. 101.
  69. Ivi, p. 112.
  70. Ivi, p. 119.
  71. Ivi, p. 120.
  72. Ivi, p. 121.

(fasc. 23, 25 ottobre 2018)