Pincio e il mondo di carta

Author di Franco Zangrilli

La fantasia gli si empì di tutto quello che leggeva nei libri (…); e gli si ficcò in testa a tal punto che tutta quella macchina d’immaginarie invenzioni che leggeva, fossero verità, che per lui non c’era al mondo altra storia più certa. (M. De Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, Torino, Einaudi, 1957, p. 31).

Non si può essere abbastanza soli, quando si legge, e non si può avere abbastanza silenzio attorno e la notte non è mai abbastanza notte. Si legge soli, e, anche quando non si legge, se si è consacrati alla letteratura, la testa seguita a dimorare nei libri, distaccata da tutto[1. T. Pincio, Panorama. Un prologo, Milano, Enne Enne Editore, 2015, p. 90. D’ora in poi il numero della pagina nel testo rimanderà a questa edizione.].

Negli ultimi tempi una serie di scrittori postmoderni hanno dato vita a romanzi incentrati sugli argomenti dell’arte dello scrivere, con personaggi singolari. Un esempio potrebbe essere il romanzo di Aldo Putignano, Social zoo, che rappresenta uno scrittore di fronte al testo che pirandellianamente non si lascia stendere e ai suoi personaggi incontrollabili, anche quando si ricercano in diversi ambienti di Napoli. O il romanzo di Herick Mutarelli, Il cuore contromano, che configura un giornalista torturato dal sogno di non poter scrivere opere prima di poesia e poi di narrativa, e ricerca la sua ispirazione in una ex-fidanzata fantasma. Sono due romanzi che affrontano le problematiche della scrittura, sperimentando al livello narratologico, strutturale, e stilistico, e dispiegano un autobiografismo camuffato in varie maniere, tanto che si incorpora in scene di realismo magico[2. Per ulteriori informazioni su questi due romanzi si rimanda ai miei saggi Putignano e il puzzle della scrittura, in «Italian Quarterly», XLVIII, pp. 187-90, Winter to Fall 2011, pp. 97-114; Mutarelli e i racconti d’esordio, in «Letteratura e società», XVII, 1, gennaio-aprile 2015, pp. 27-42.].

Aveva ragione Octavio Paz quando diceva che gli scrittori non hanno bisogno di biografie: le loro opere sono la loro biografia. Questo vale anche per i romanzi e per i racconti di Tommaso Pincio. Ma in sostanza ne restituiscono un’autobiografia alterata, multicolore, fantastica. E si tratta di un’autobiografia che si arricchisce con Panorama, tutto imperniato a mostrare un nuovo aspetto dell’intricata personalità del Pincio uomo-scrittore.

Ambientato a Roma, il romanzo è steso con una prosa nitida, incisiva, scorrevole; imperniata su una sintassi semplice e su un linguaggio schietto che ha la magia di tessere e tenere insieme allusioni, filosofie, complessità di vario genere; oltre al tono lirico, dispiega anche quelli discorsivo e riflessivo, analitico e saggistico. È composto di nove capitoli numerati; eccetto il nono, ogni capitolo contiene un’epigrafe estrapolata dai quaderni degli “appunti” del protagonista. Pur dando l’impressione di evolversi linearmente, Panorama si avvale delle tecniche cinematografiche che cominciano ad esporre dalla fine e portano al presente, chiudendo la struttura circolare; che, oltre a costruire a frammenti, vanno avanti e indietro, lasciano e riprendono idee, azioni, figure, ma soprattutto spaziano sulla vita del protagonista; che conducono a differenti tipi di digressioni, di divagazioni, e di elucubrazioni. Fa uso della variazione dei tempi verbali, dello spostamento dei piani narrativi, del racconto nel racconto; dell’incastro, dell’epistola, del pezzo giornalistico, della comunicazione dei social media; della citazione nascosta e diretta delle opere di scrittori adorati (Borges, Buzzati, Pavese, Manganelli ecc.); e di altri mezzi narratologici efficaci anche a sverlarne l’impronta ora “amletica” ora dostoevskiana ora kafkiana, per non dire della riscrittura di Poe.

Narrato in prima e in terza persona, il romanzo mette in luce un Pincio che ama intervenire per fornire suggerimenti, commenti, esegesi, finanche su questioni estetiche. Pincio appare uno scrittore intradiegetico ed eterodiegetico; uno scrittore che crea una pluralità di alter ego, si rispecchia e si identifica con personaggi principali e secondari dell’azione e perciò risulta aperto ad accogliere i risvolti ontologici della narrazione; uno scrittore tutto narcisisticamente piegato a mettere a fuoco la sua autobiografia di lettore, la quale vuole essere una metafora della letteratura e della scrittura, e in generale del discorso meta-artistico.

Sebbene la figura del lettore abbia trovato ampia rappresentazione nella letteratura contemporanea, da Mondo di carta e Una voce di Pirandello all’Avventura di un lettore e Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, dai racconti fantastici di Landolfi (La lettura, Grazia di Dio, Sogni proibiti ecc.) a quelli di Tabucchi (Viaggi e altri viaggi, Racconto dell’uomo di carta , Gli archivi di Macao ecc.)[3. Per ulteriori informazioni su questi due ultimi scrittori si vedano i miei testi L’oscura foresta. Simboli del fantastico in Landolfi, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2013; Dietro la maschera della scrittura. Antonio Tabucchi, Firenze, Edizioni Polistampa, 2015.], in Panorama si ha un lettore tutto particolare. Ottavio Tondi, protagonista che corrisponde a un’altra maschera di Pincio, ci accompagna a visitare la sua biblioteca, che è quella del suo creatore e che per certi versi si mostra una “biblioteca di Babele”; ci guida verso i suoi libri più amati, letti e riletti, pur mentre è a tavola a rifocillarsi; ci fa vedere com’egli pratica la religione della letteratura, si sente consacrato al mondo dei libri. Infatti la scrittura pinciana si nutre abbondantemente dei moduli descrittivi, iperbolici, caricaturali, ripetitivi, nel presentare il profilo dell’Ottavio che non sa «far nulla, salvo leggere»[4. T. Pincio, Panorama, ed. cit., p. 115.]: metafora diretta del Pincio che vive per scrivere e scrive per vivere.

Oltre ad essere sempre stato un lettore onnivoro, Ottavio(-Pincio) è un cinquantenne infatuato di una giovane ventenne, un topos della letteratura contemporanea, di cui potrebbe essere testimone il romanzo La tregua di Mario Benedetti. Ma Ligeia (una chiara reminiscenza della protagonista del racconto omonimo di Poe) e Ottavio non si incontrano mai, comunicano solo con i canali di internet, soprattutto del social di “Panorama” e anche con lampanti messaggini. Ottavio è assorto a fantasticare di lei, sulla base delle foto ricevute, stregato dalla luce del suo sguardo, «irruente e folle». Le foto formano il contenitore della memoria di Ottavio che alimenta l’ossessione, l’inquietudine, la fantasia. Più in Ottavio si infiamma l’immaginazione di questa donna sibillina, più in lui si radicano la malinconia e la depressione: problemi che ne intaccano la personalità di persona straordinaria, tutta dedita alla lettura in una società in cui nessuno più legge e, se la gente compra i libri, è per adornarci la casa, per farsi ritenere lettrice e apparire colta. E, mentre Pincio insiste sul loro strano rapporto virtuale, calca la descrizione di un Ottavio squilibrato bibliofilo e residente in una casa disordinata che si rivela una sorta di sterminata biblioteca alla Borges: «strati di polvere che velavano i libri e ovviamente anche nei libri stessi (…) tappezzavano le pareti i più preziosi, le rarità da collezionista»[5. Ivi, p. 15.].

Se Ottavio è il paradigma dell’outcast che ricerca se stesso e il senso della vita attraverso i romanzi di Dostoevskij, di Kafka, di tanti scrittori prediletti dal suo creatore, attraverso la letteratura che è lo specchio di noi, di ciò che siamo e di ciò che desideriamo, Ligeia è l’icona della meta irraggiungibile, del sogno di ottenere l’impossibile, della lontana “luna” che incanta ed ispira. In molti aspetti Ligeia è un rinnovato archetipo della chimera della poesia, della letteratura, e un simbolo della parvenza di Ottavio, dato che anch’essa è una vorace lettrice. Entrambi sono soggetti al gioco della penna bizzarra di Pincio, spesso impegnata a rafforzare l’andamento che si fa ellittico e spezzettato, che afferma una cosa e ne dice l’opposto, che anticipa e posticipa. E tutto appare paradossale, con Ottavio che da una parte sembra coinvolto a prendere “appunti” anche prima di addormentarsi e dall’altra parte si mostra un “puro lettore” estraneo a coltivare l’ambizione di scrivere: «rivendicava con orgoglio di non aver mai scritto nulla (…), quando la lettura, da passione pervasiva, divenne per lui un mestiere, si disfece di ogni strumento di scrittura»[6. Ivi, p. 24.]. Ma il rifiuto apparente dello scrivere di Ottavio interessa a Pincio non solo per narrare con le cifre dell’incongruenza e dell’ambiguità, della stramberia e dell’anormalità, ma anche per schizzare l’autoritratto di individuo con una memoria ferrea («le cose da ricordare semplicemente le ricordava»), consapevole di appartenere a un’altra sfera, al mondo alieno dei libri e di chi si sfoga anche con la scrittura diaristica: «li acquistava soltanto, disseminandoli poi per casa (…) Col tempo prese a comprare anche matite e penne (…), Memorie delle cose lette scarno diario retrospettivo nel quale appuntava i suoi ricordi di lettore»[7. Ivi, pp. 25-26.]. Durante i quattro anni del rapporto virtuale tra Ottavio e Ligeia, egli ne registra i modi finanche come una musa erotica che metaforicamente si riferisce all’indole di Pincio, ammaliato dalla sensualità della parola; ne registra ogni cosa nei suoi diari, dando così vita a un «unico azzardo scrittorio»[8. Ivi, p. 26.].

Ottavio rappresenta l’intellettuale-scrittore che, mentre rinforza la sua fede nella parola scritta, ne vede la crisi, specie perché vive in un momento storico in preda ai vertiginosi mutamenti, in cui domina la cultura dell’immagine visiva e della comunicazione flash, promossa dal potere delle nuove tecnologie, da sempre più nuovi e sofisticati programmi per computer e per cellulari con minute tastiere, canali informativi e sistemi digitali che permettono di vedere in tempo reale ogni film o filmato desiderato e ogni televisione del pianeta anche dall’orologio a polso.

Ottavio rappresenta l’io del suo creatore sdoppiato tra il passato e il presente, in cerca di sicurezza e di ordine in una società caotica, il dramma di chi cerca di rinnovarsi o di chi viene spinto a seguire i passi dei tempi attuali: «un uomo astratto del suo tempo, rimasto avvinghiato alla parola stampata fin quando ha potuto, e trasmigrato al mondo degli schermi soltanto quando le circostanze glielo hanno imposto (…) I libri nei quali aveva vissuto gli anni migliori e lo schermo attraverso il quale comunicava con la sua Ligeia erano separati da un abisso»[9. Ivi, p. 27.]. Ergendosi a figura in crisi in una società postmoderna, oasi del pensiero debole, della cultura leggera e decadente, Ottavio sente lo straniamento, l’estraneità verso le nuove forme della scrittura digitale e dei social media, e, se le usa, è perché viene invaso dal terribile timore che la scrittura come lui l’aveva sempre intesa «era morta e sepolta» e perché sente l’impellente necessità di comunicare, di poter scrivere e quindi di essere a contatto con la sua dea Ligeia, un’immagine simbolica che incorpora gli aspetti infiniti e misteriosi della letteratura. E anche i messaggini che Ottavio le invia gli alimentano l’illusione di rimanere tra i “posteri”: «scrivere soprattutto per le risposte di lei, perché Ligeia gli scrivesse a sua volta e lui potesse seguitare a leggerne le parole, immaginando il suono della sua voce»[10. Ivi, p. 28.].

Il gioco degli sdoppiamenti e dei rispecchiamenti di Pincio si intensifica con Ligeia lettrice che, mentre ammonisce Ottavio, diventa l’anima letteraria di lui e l’anima di Pincio in balìa di vissuti pensieri e sentimenti non immuni dal carattere antinomico: «Quando Ligeia ribatté che non si può ridurre la letteratura a un volgare pettegolezzo, Tondi le diede ragione. Non si deve ridurre, le disse. Non si deve perché non c’è bisogno, perché la letteratura questo è, pettegolezzo. A te stabilire se e quanto volgare (…) Nulla più delle parole somiglia alle cose che esse nominano, eppure cos’è in concreto una parola?»[11. Ivi, pp. 31 e 73.], e con Ottavio che, mentre le parla di un romanzo da lui letto, diventa la voce del Pincio critico ora sagace ora umoristico ora fantastico, che semina dichiarazioni autoreferenziali, intertestuali, e di metascrittura: «un romanzo non è forse come frugare in un cassetto che non ci appartiene? E il cosiddetto narratore onnisciente, questa entità che si intrufola dappertutto e, non visto da nessuno, vede ed ascolta qualunque cosa ci sia da vedere e ascoltare, non è forse il più grande degli indiscreti? Riflettici Ligeia (…), la letteratura esiste principalmente per una ragione, per soddisfare l’insopprimibile voglia di sbirciare e origliare nelle vite altrui»[12. Ivi, pp. 31-32.], una reminiscenza forse anche della poetica di Landolfi.

Come Landolfi e tanti altri scrittori dal Romanticismo in poi, anche Pincio sembra che non riesca a conciliare le eterne problematiche del mestiere di letterato, tra cui spicca il dubbio se la vita va vissuta o scritta[13. Diversamente dagli scrittori che si sono divisi tra la vita mondana e la vita letteraria come d’Annunzio, Pirandello in Saggi, poesie, scritti varii (Milano, Mondadori, 1973, p. 1.057) professa che «la vita o si vive o si scrive» e che, quando la si scrive, la si vive e, quando la si vive, non la si vede, una filosofia tanto condivisa da Tabucchi (cfr. Racconti con figure, Palermo, Sellerio, 2011, pp. 163-80), che ci costruisce il racconto Vivere o registrare.], se si deve leggere o scrivere, e qui l’immagine di Ottavio funge da specchio che riverbera un altro spettro del suo creatore enigmatico: «Io stesso, sul momento, nel leggere per la prima volta quei messaggini, rimasi sgomento (…) La vera conoscenza non era fatta di carta ma di vita vissuta, un genere di vita dalla quale Tondi si era certamente allontanato. E tuttavia chi ero io per biasimarlo?»[14. Ivi, p. 33.].

Giocando con la riscrittura anche dei paradossi di Borges, Pincio presenta un Ottavio lettore che è un pesce fuor d’acqua in una società materialistica. Enfatizza che è uno straordinario lettore già da ragazzo. Ma il comico ilare si affaccia nel dipingerlo un adolescente che frequenta assiduamente le librerie romane al punto che sembra viverci come se fossero la sua abitazione e ne ha una conoscenza minuta degli spazi, tanto che i clienti, invece di chiedere aiuto ai commessi per trovare un libro, si rivolgono a Ottavio, molto più esperto ed efficiente di loro. E poi, facendo il lettore di manoscritti presso un’importante casa editrice italiana, scopre romanzieri importanti e di grande successo. Lo si vede operare con assoluto potere riguardo alle opere da pubblicare, a dare vita o no ai sogni di giovani scrittori, con il fiuto di un critico serio e sottile, e con lo spirito garbato del Pincio stroncatore:

molti dei manoscritti che gli passava il direttore editoriale erano osceni, roba da togliergli la voglia di leggere, ma nemmeno di questo si lamentava. Un lavoro è un lavoro, non un divertimento, si diceva. Inoltre perfino nei manoscritti peggiori gli riusciva di trovare qualcosa da salvare, qualcosa che lo induceva a pensare. Val sempre la pena di leggere, si diceva.

Era piacevole individuare i punti deboli di un testo, chiedersi se fosse possibile cavarne qualcosa di decente e in che modo (…) Gli piaceva pensare che un giorno uno di quei manoscritti avrebbero visto le stampe perché lui lo aveva letto e scelto tra mille altri. Sapere che in ognuno di quei romanzi perlopiù pedestri e indegni di pubblicazione erano riposati i sogni di un aspirante scrittore lo facevano sentire un dio o qualcosa molto simile a un dio. C’è infatti qualcosa di più divino del poter decidere dei sogni altrui?[15. Ivi, pp. 62-63.]

Pincio si diverte a sfruttare quest’occasione. Non solo perché tira in ballo l’immagine di qualche critico che stronca la scoperta fatta da Ottavio di certi scrittori come Gloria Stupenda, ma anche perché parecchi credono che Pincio stesso si nasconda dietro la firma dello pseudonimo di Gloria Stupenda. E da qui la scrittura pinciana serpeggia sempre più vicino ai toni dell’ironia sarcastica e dissacratoria, dà adito alla critica dura al mondo degli scrittori (come avevano già fatto contemporanei quali Pirandello nel suo metaromanzo Suo marito), che scrivono per il successo, che sono indifferenti verso il pubblico dei lettori, che recitano la parte del divo e ostentano saggezza, sempre al centro dei mezzi mediatici a dar vita a una favola di vanità e di egoismi:

I riflettori sono sempre puntati agli scrittori. È di loro che si parla nelle pagine culturali, sono loro a essere intervistati, è a loro che si chiedono pareri su qualunque cosa, malgrado che non sappiano nemmeno perché scrivano le cose che scrivono (…) Il pubblico non va a teatro per vedere un palco vuoto (…) Il pubblico sono ombre nel buio. Illuminalo e quelle ombre diventano persone[16. Ivi, pp. 44-45.].

Questa critica si rinvigorisce quando è rivolta al mondo dell’editoria, poco professionale e scorretto, di cui è emblematica la figura di un “editore editoriale” che pubblica libri senza averli letti, che riduce tutto al business, che rende famosi scrittori di poco o nessun valore, e la sua amoralità sembra mitigata quando si parla delle montagne di manoscritti che arrivano in redazione: «nessuno avrebbe avuto il tempo o la voglia di aprire»[17. Ivi, p. 46.].

In quest’ambiente marcio, pieno di bugie, di ipocrisie, di corruzioni, Ottavio è contagiato dal desiderio di essere qualcuno. Il ridicolo accompagna la sua metamorfosi in figura di celebre lettore scoperto e lanciato dai media. Specie dal momento che egli concede un’intervista a un rinomato giornalista, Antonio Gnoli, del quotidiano «Presente». L’intervista è una sorta di escamotage che offre a Pincio l’opportunità sempre più di addentrarsi nei “libelli” della memoria, di viaggiare nei labirinti di una casa biblioteca, di affrontare una serie di argomenti metaletterari. Per cui leggere, sebbene sia un’attività solitaria, è sempre un avvenimento di grande piacere, euforia, quasi un’estasi; un’avventura di arricchimento dell’anima, di esplorazione e di conoscenza, come di compiacimento e di sublimazione; un continuo ascoltare e dialogare con anime gemelle, dato che gli scrittori che noi leggiamo in un modo o nell’altro sono i nostri specchi.

Per Pincio leggere è un rito sacro, come lo era per Machiavelli, che addirittura indossava particolari indumenti per realizzarlo; è tenere vivi i grandi della storia, e porta a imitarli e a riscriverli con nuovi temperamenti, visioni e linguaggi. Raccontando se stesso tramiti i libri letti fin da ragazzo, Pincio guida il suo personaggio-lettore, anche quando non è intervistato, a menzionare o disquisire di Omero, di Dante, di Cervantes, Shakespeare, Hoffmann, Poe, Dostoevskij, Proust, Joyce, Simenon, Borges, Gadda, Landolfi, insomma imbastisce l’omaggio agli scrittori preferiti della sua sterminata ed assortitissima casa-biblioteca, come aveva già fatto in sede saggistica in Hotel a zero stelle. Anche nell’ambito dell’intervista Ottavio si rivela uno strumento con cui Pincio si autoanalizza, psicanalizza il suo io scisso e quello degli altri.

Essendo il tema dell’odio della prole verso il padre molto diffuso nella letteratura contemporanea (Pirandello, Joyce, Kafka, Tozzi, Landolfi ecc.), Pincio porta Ottavio intervistato a raccontare che la sua passione per la lettura nasce nella tenera età e come contestazione alla figura del padre padrone, incolto, gretto ed irrispettoso anche verso la moglie che è un’amante della lettura; appena questa muore, il marito getta i libri di lei nell’immondizia, provocando il trauma del piccolo figlio. Il racconto di Ottavio, oltre ad adombrare il complesso edipico, mette a fuoco un rapporto drammatico tra padre e figlio:

Il padre di Tondi si chiamava anche lui Ottavio ed era uomo di tutt’altra pasta, era cioè uomo pratico e cinico, per nulla incline alla lettura, anzi irremovibilmente contrario alle fantasticherie, alle evasioni della realtà e, più in generale, a qualsiasi forma di idealismo che la lettura incoraggia (…) Poco tollerava che la moglie fosse vorace lettrice, quando vide che il figlio aveva preso più da lei che da lui, l’insofferenza degenerò in una malattia, in odio feroce per l’inutile universo della letteratura (…) Ottavio figlio poté coltivare il suo amore soltanto nella clandestinità, ogni volta che veniva sorpreso a sprofondare nelle pagine di un romanzo, la furia punitiva di Ottavio padre si abbatteva su di lui (…)[18. Ivi, pp. 57-59.].

Soprattutto Pincio batte sull’ingigantirsi del risentimento e dello spirito di vendetta del figlio verso il padre, sulla personalità onesta del figlio e quella disonesta del padre. Più Ottavio senior esercita la sua egemonia, più Ottavio junior irrobustisce la sua (resistenza-)ribellione al punto da vivere dentro le mura della biblioteca comunale per condurre una vita dignitosa dentro l’universo dei libri: questo è proprio quello che Pincio fa, e si guadagna da vivere facendo il traduttore. Persino questi indizi suggeriscono che Panorama è una favola narcisistica (a volte lo sottolineano reiterate azioni e battute del protagonista: «Parliamo soltanto di me, le disse, o di letteratura»[19. Ivi, p. 80.]), una parabola costruita sulla materia autobiografica che la tempra ludica della scrittura trasfigura a vari livelli, grazie anche alla fantasmagoria delle immagini e delle metafore.

L’umorismo pinciano comincia a prendere pieghe diverse appena si apprende che, per magica virtù dell’intervista giornalistica, Ottavio diventa una star adorata e riverita da un vasto pubblico, facendo letture nei teatri più rinomati della nazione, e sempre sostenuto da una scenografia particolare:

Chi mai avrebbe immaginato che si potesse diventare famosi per una ragione tanto insignificante: perché si ama leggere (…) Il successo non si spiega, c’è soltanto da prenderne atto (…) Aveva fatto breccia nel cuore del pubblico non tanto perché la lettura era la sua ragione di vita, ma per quel suo votarsi alla marginalità della poltrona, al vivere la vita attraverso le parole degli altri[20. Ivi, pp. 64-65.].

È un’avventura sulla quale Pincio si sofferma anche per renderla una parodia dell’uomo d’oggi, che cova consciamente e inconsciamente il sogno del successo, che si vuole contraddistinguere vivendo in una società dell’apparenza, che si rivela molto ridicolo nel costruirsi in questa e in quella forma d’essere, o in un dato stile di vita. In alcuni momenti la parodia pinciana sembra cedere all’ironia morale, con Ottavio che è l’anima creatrice della “moda” di leggere («leggere divenne improvvisamente una moda»[21. Ivi, pp. 66.]), in una società che invece di acculturarsi coltiva tanti vizi e depravazioni, tanti mali che rovinano il corpo e l’anima. E l’autoironia serpeggia nella rappresentazione che si affida al grottesco, all’assurdo, e quasi a un marcato surrealismo: quando si apprende che i testi «recanti la fascetta Letto da Ottavio Tondi» assumono un posto molto alto nella classifica e fruttano fior di quattrini ai rispettivi editori; quando si scopre che subito si esauriscono i biglietti dello spettacolo di Ottavio lettore; quando lo si vede entrare sul palcoscenico con un’incredibile statura obesa e senza dire una parola, immergendosi in una lettura di «completo mutismo. I soli rumori che ogni tanto si udivano furono quelli delle pagine sfogliate, qualche colpetto di tosse, sospiri. Tondi non disse nulla neppure al termine dell’esibizione»[22. Ivi, p. 67.]. Ancora, quando si fa espressione emblematica della sacralità e della magia della lettura, della sua potenza stregonesca e miracolosa: «pensava che guardare Tondi leggere avesse un effetto taumaturgico»[23. Ivi, p. 83.]. Rivelandosi un abile giocoliere che si scapriccia con le carte diegetiche, Pincio dipinge se stesso come spettatore di queste sue letture: «devo ammettere di non essere rimasto insensibile all’atmosfera che Tondi riusciva a creare. Neppure io saprei definire con esattezza cosa provare»[24. Ivi, p. 69.]. Una sorta di pastiche pirandelliano in cui il creatore e la sua creatura si trovano faccia a faccia (ad. es. in La tragedia d’un personaggio o in Colloqui coi personaggi).

Se il personaggio pirandelliano (ad es. in Personaggi) appare strano anche perché si presenta chiosciottamente con un libro sotto il braccio all’autore, Ottavio si manifesta eccentrico sia perché ha sempre con sé un libro quando esce di casa, come se fosse un compagno fido e inseparabile, e si mette a leggere ovunque vada («Non erano poche le volte in cui il libro restava in tasca (…), in caso di un tempo morto, di una fila alla posta, in banca, al supermercato (…), aveva qualcosa da leggere»[25. Ivi, pp. 81-85. Nel suo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore (Torino, Einaudi, 1979, pp. 3-9), Italo Calvino, parlando delle posizioni ideali scelte dal suo personaggio lettore, rivela che egli legge quasi dovunque e persino a cavallo.]) sia perché adotta la filosofia di Borges secondo cui i libri che valgono non sono quelli che si leggono ma quelli che si rileggono («Lo estrasse dalla tasca e iniziò a leggere. Conosceva bene quel libro, tanto che avrebbe potuto recitare l’incipit e molte altre pagine a memoria»[26. T. Pincio, Panorama, ed. cit., p. 82.]) sia perché coltiva l’abitudine di leggere tutto assorto, camminando la notte per le strade di Roma. Ma in Panorama il processo di lettura, come già suggerito, è sempre una salda metafora del processo di scrittura, sostenuta anche dalla linfa della mimesi. E, come tutte le nostre anormalità, fisime, e distorsioni professionali, anche per Pincio la lettura-scrittura è una forma di malattia, che può immettere in situazioni devastanti (tanto che non pochi scrittori sono stati ricoverati in case di cura, in manicomi o si sono suicidati), nel seno della follia divina e saggia o della follia clinica e distruttiva.

Mescolando le tesi della lettura che incorporano elementi cervantini e freudiani, Pincio implica che la lettura(-scrittura) non è altro che un orgasmo intellettual-spirituale. Ne sono rivelatrici le stramberie di Ottavio che ha rapporti con prostitute e, mentre fanno l’amore, nei suoi atti più osceni e più sadici si fa leggere un libro o si immerge egli stesso nel viaggio della lettura; e, nel punto culminante dell’amore, una colta escort gli si rivela una creatura poiana a lui non estranea:

Lo spogliò e lo fece distendere sul lettino (…) se lo infilò nella fica, apri il libro e iniziò a leggere. Lui la guardò scoparlo e leggere al contempo, la vide sforzarsi di restare concentrata sulla pagina mentre il piacere aumentava e quando gli sembrò che lei stesse per mollare il libro, le afferrò entrambe le cosce e affondò le dita nella sua carne, le affondò con forza, artigliandola, facendole sentire le unghie affinché capisse che non doveva mollare. Lei strinse i denti e mollò. La prima volta che le venne dentro a quel modo, lei gli lesse Ligeia di Poe nella traduzione di Giorgio Manganelli[27. Ivi, p. 84.].

In un clima di realismo grottescamente aberrante, si ripetono le scene in cui il piacere dell’amore e il piacere della lettura si intrecciano, si rispecchiano a vicenda, e finiscono per essere l’identica cosa. E Pincio vi innesta con spigliatezza altri aspetti della mitologia personale. Tanto che Ottavio diventa altri sé, incluso quello che ama il mondo americano e fa il traduttore di scrittori in lingua inglese. Ciò è voluto dall’autore soprattutto per venire a disquisire, pur con approccio teorico, delle sue idee sull’arte della traduzione, dei problemi linguistici ed estetici che essa presenta, dei metodi che possono aiutare a risolvere intoppi e a fare delle scelte idonee, e per affermare che la traduzione è sempre il risultato del livello di lettura che si è in grado di fare di un testo, lettura che dipende dalla sensibilità, dalla perspicacia, dal bagaglio di cultura di chi si accinge a portare in un’altra lingua una data opera, e non si liquida la possibilità che in questo processo non si possano realizzare miracoli di varia natura: «Tondi dominava l’inglese (…) Teneva in gran conto l’arte negletta dei traduttori, e irrideva chi si vantasse di leggere in lingua originale, nella stupida convinzione che soltanto così si apprezzi la vera anima di un libro»[28. Ivi, p. 107.].

Qui ed altrove Pincio svela di avere poca simpatia per i letterati di mestiere: «critici e studiosi degni (…) non ce ne sono più (…), il loro valore letterario è scarso, irrilevante, forse persino nullo»[29. Ivi, p. 24.]. In questo si allontana dall’idea di un suo amato scrittore, Tommaso Landolfi, che in vari suoi scritti saggistici e diaristici sostiene che la critica può essere “creativa” e può essere utilissima a chiarire e a far capire anche a un autore tante cose di una sua opera, confessandoci che un saggio di Giacomo Debenedetti gli ha fatto comprendere i “difetti” del suo dramma Landolfo IV di Benevento, per non dire di Pirandello, che si sentiva indebitato col saggio di Adriano Tilgher che lo aveva illuminato sul concetto filosofico di “Vita e Forma”.

Oltre a scrivere per importanti quotidiani italiani («La Repubblica», «Il Corriere della Sera», «il manifesto» ecc.), Pincio è sempre stato un attento osservatore dell’operare dei media e lettore della stampa. In certi suoi romanzi, ma soprattutto in Cinacittà, il giornalismo svolge un ruolo topico e, riscrivendo a modo suo, fa poesia della cronaca, e traccia un’immagine negativa della realtà mediatica.

Nel romanzo Panorama si ripresentano con altri accenti le stroncature dell’universo dei mezzi di comunicazione, del giornalismo. Specialmente perché Pincio lo vede come una potenza nelle mani di individui non paladini della “verità” ma maghi nel tessere insidie, scorrettezze, assurdità, o nel far cadere l’intervistato nella loro “trappola”; nelle mani di “personaggi sinistri” e sadici, come la giornalista Loretta Buia, che amano seminare opinioni vacue e sgradevoli, dissacrare la verità delle cose, diffamare e distruggere la vita degli altri, informare seguendo la retorica o la disinformazione o l’infotainment o la ripetizione: «per giorni quotidiani e televisioni non parlavano d’altro»[30. Ivi, p. 108.]. Per Pincio i media in sostanza formano una potenza divulgatrice di falsità, di informazioni altamente colorite e perciò lontane dai fatti: «Il giornalismo è una forma di racconto come tante altre, si ispira alla vita ma vive di invenzione. Ciò che voglio ipotizzare è che al giornale intravidero possibilità alle quali neppure il direttore editoriale credeva, il gusto perverso quanto irresistibile di cercare un caso dal nulla, una notizia da un’assoluta mancanza di eventi»[31. Ivi, p. 48.]. I media raramente forniscono notizie utili e sostenute da testimonianze, da prove calzanti, da dati precisi e documentali («quando la ragazza milanese venne aggredita e stuprata perché colpevole di leggere un libro su una panchina di parco Lambro, l’indifferenza proseguì. La stampa condannò la violenza, com’era ovvio che fosse, ma sorvolò sulla versione che la ragazza diede dei fatti»[32. Ivi, p. 113.]), frequentemente le riportano a metà o ne ignorano gli elementi di rilievo:

un uomo venne ucciso nella metropolitana. Fu travolto da un treno in arrivo nella stazione Numidio Quadrato. Lo spinse sui binari un altro uomo, che si rifiutò di spiegare il gesto. Le persone presenti testimoniarono (…) che la vittima stava leggendo un libro. Anche in questo caso il particolare della lettura non ebbe minimo risalto sulla stampa[33. Ibidem.].

Se la stampa è uno strumento importante nel rendere Ottavio un personaggio famoso, essa però dà minima attenzione alla sua tragica vicenda: «non lesse le parole di odio che ogni giorno gli venivano riversate addosso, ma gli furono riferite (…) Il linciaggio andò avanti per settimane, nella completa indifferenza della stampa»[34. Ivi, pp. 112-13.].

La carriera di Ottavio, stella della lettura, è rovinata quando su un ponte del Tevere a tarda sera cammina con gli occhi incollati al libro ed è duramente insultato e picchiato da un branco di giovani. L’incontro-scontro è configurato con un procedimento che in dati momenti rasenta e in altri accentua il giallo, il surreale, l’orrore, anche perché Ottavio per proteggersi mette in atto cose che ha assimilato dai libri: «adottava una tattica kafkiana, la tattica dell’insetto che se ne sta immobile, pietrificato al cospetto della minaccia, nella speranza insensata che questa prosegua per la sua strada come niente fosse»[35. Ivi, p. 101.]. Dopo questa brutta vicenda si rinchiude ancor di più nel guscio della sua casa («dove non c’era parete che non fosse tappezzata di libri»[36. Ivi, p. 155.]), seduto sul solito sofà per intere giornate, a leggere libri di discipline e campi diversi.

Venendo inaspettatamente a esperire una “nausea” della lettura da far «vomitare l’anima», si compra una piccola utilitaria e, a guisa di un vagabondo alla Jack Kerouac, si mette on the road girando per la città e i luoghi limitrofi. Ma frequenti sono le visite nei luoghi frequentati dalle prostitute: si mette a spiare a guisa di detective le ragazze che lo incantano, e misteriosamente scompare quella verso cui cova sentimenti sinceri. Quando un giorno vede una coppia di rivali camminare sul marciapiede, si mette a fantasticare di assassinarli. E, se ciò da una parte è segno dell’uomo che perde la ragione e registra il distacco di Pincio dalle irrazionalità di Ottavio, dall’altra parte è segno della volontà dell’autore di renderlo un prototipo della popolazione bislacca di Roma: «come ogni romano, sapeva da sempre della sua esistenza e delle sue assurdità, ma soltanto ora, passando dallo stato di pedone a quello di automobilista, giungeva a penetrarne i misteri»[37. Ivi, p. 121.]. Scarrozzando se stesso in l’utilitaria, è invaso dai flashbacks della vita passata che gli fanno apparire le cose allucinate e irreali, dalla Ligeia spettrale alle pagine lette, che diventano «entità fluttuanti, fantasmi di parole»[38. Ivi, p. 125.]. La cifra espressionistica, preponderante nella scrittura di Pincio, enuncia, nel preciso momento in cui Ottavio fa grande fatica a ricordare le cose da scrivere, che la lettura(-scrittura) è ricordo, memoria che recupera il tempo perduto nell’accezione di Proust e coscienza della storia nell’accezione di Borges e di Sciascia.

È proprio quando Ottavio si trova a viaggiare nei labirinti della memoria che incontra il poeta Mario Esquilino, già protagonista del racconto pinciano La piega suprema. L’incontro è basato sulla finzione reciproca, dell’uno che non sa chi sia l’altro. Quasi subito si crea l’atmosfera di due persone in sintonia: bevono, si drogano, e discutono di vari argomenti. In un certo senso Esquilino è una riscrittura dell’archetipo del Virgilio dantesco che illumina e fa da guida all’Ottavio viaggiatore nell’inferno di internet, e cioè dell’informazione[39. A proposito di questo argomento si rimanda al mio studio L’inferno dell’informazione. Il giornalismo nel romanzo postmoderno, Napoli, Homo Scrivens, 2014.]. Per cui si enfatizza che internet sta rimpiazzando l’editoria tradizionale, che gli editori d’oggi non stampano “più niente”, neppure nella forma del libro cartaceo, e che non c’è più un pubblico di lettori. E paradossalmente si assiste alla metamorfosi di Ottavio, non più folle amante dei libri(-lettura) ma ossessionato patologicamente dalla rete, a cui è particolarmente dolce naufragare nel mare del sito “Panorama” dove mette i suoi “appunti”(-scritti) ma non le sue foto. Gli piace navigare con una webcam spiando le intimità di persone lontane, e non mancano quelle persone che, appena incontrate ed instaurato il dialogo, non esitano a criticarlo e a ripudiarlo. Restando incollato giorno e notte davanti allo schermo del computer, forse vuole allegorizzare un’altra malattia dei nostri tempi. Ma con questo Ottavio metamorfizzato, che dà l’impressione d’essere un Don Chisciotte postmoderno calato nel palcoscenico tragicomico, Pincio si sbizzarrisce a sottolineare che ci si trova in un momento storico di transizione, di grandi cambiamenti in tutti i campi della nostra vita. E, se chiudono le librerie come le conosciamo, non vuol dire che muore la letteratura; se non ci sono più i libri come li conosciamo, non significa che non si possono trovare nei nuovi sistemi digitali, sul cellulare e sull’I pad, e che gli scrittori scompaiono e non si scrive più:

La letteratura esisteva ancora, ma in una forma nuova, non più cartacea, non più scritta per essere letta. In un certo senso era tornata all’oralità, un’oralità diversa, non più fatta di voce e per essere ascoltata, e tuttavia in grado di parlare un linguaggio dei sensi, il verbo dell’organo dominante, l’organo della vista. Le parole e le cose che vedeva scorrere su Panorama non erano forse un racconto in continuo rifacimento? In quel piacere spasmodico di osservarle le vite degli altri non si realizzava forse la sua idea di letteratura, origliare e sbirciare? E quelle lotte di insulti, quello spietato denigrare, quella sete di annientare l’altro, quelle crudeltà dal sapore quasi primitivo, non erano forse una forma di epica, una nuova guerra di Troia?[40. Ivi, pp. 153-54.]

Grazie alla sua abilità di navigare nel web, questo don Chisciotte postmoderno si mette alla ricerca della sua Dulcinea-Ligeia. Appena rintracciato, il fantasma di Ligeia corrisponde a metà. Non inviandogli una sua foto, ella non si vede sullo schermo. Gli comunica con voce melliflua e “circea”. E danno vita a giochi immaginosi che, oltre a caricarsi di erotismi, di ridicolaggini, di stranezze, si infittiscono di nozioni letterarie rivelatrici di profonda conoscenza, come dell’intento del Pincio autore di abbellire il profilo di certi scrittori prediletti, e di rendere Ottavio e Ligeia anime gemellari al punto che leggono alla stessa maniera, due facce in una che è la sua: «Non c’era nulla che quella ragazza non aveva letto, nessuna frase di cui non riconoscesse al volo l’estensore, e più lei dava prova della sterminatezza delle sue letture, più cadeva in un eccitato languore»[41. Ivi, p. 163.]. Sono giochi che rivestono sempre più di cupo mistero la Ligeia archetipo della letteratura, pur mentre tra lei e Ottavio danno adito a un dialogo quasi da confessionale, tinto talvolta di sarcasmo e piegato allo schema autobiografico e metaletterario. Si apprende che lei gli invia una sua foto eccezionale: «Hai ragione, sei una bella ragazza»[42. Ivi, p. 170.]; che entrambi amano la madre e odiano il padre: «si vede che quando non si è amati dal proprio padre ci si rifugia nel libro»[43. Ivi, p. 167.]; che l’uno ricerca nell’altro ciò che è mancato e manca: Ottavio in lei ricerca l’amore della donna dei sogni e Ligeia ricerca in lui il padre ideale («potresti essere mio padre»[44. Ivi, p. 170.]). Si trovano in perfetta intesa quando si raccontano tante cose, inclusi gli intimi segreti e passioni; quando si scambiano messaggi, pareri, ed impressioni riguardo ai tanti libri letti; quando si comunicano «idee sul mondo, sulla vita, sull’amore»[45. Ivi, p. 173.].

Anche l’intervento di un Pincio sempre più teso a trascrivere e ad interpretare le chiacchiere, le battute, e le e-mail(-messaggini) delle sue creature, Ottavio e Ligeia, lo colloca in linea con la poetica postmoderna della riscrittura, sfruttata da una serie di scrittori quali Sciascia, Bonaviri, Tabucchi. E, quando Ottavio chattando confessa a Ligeia il suo amore, Pincio porta al culmine la sua riscrittura fantastica della novella Ligeia di Poe. Anche la Ligeia poeiana simboleggia sia la letteratura, poiché scrive poesia e il marito personaggio narratore e scrittore riporta nel testo l’ultima poesia scritta da lei poco prima di morire, e si rivela simile a Ottavio anche nel senso che al lettore impegnato rimane oscuro se viaggia con la fervida immaginazione o con l’allucinazione della droga assunta; sia la realtà illusoria ed astratta, ineffabile e divina, come lo sono le forme di qualsiasi tipo d’amore, incluso quello per l’arte: «una sera Tondi le scrisse un lungo messaggio in cui, pur non usando mai la parola amore, di fatto le diceva di averla amata da sempre (…) Lei gli rispose che l’amore è (…) come un fuoco greco (…), cose astratte»[46. Ivi, p. 174.].

L’aspetto ludico della riscrittura pinciana produce di continuo effetti enigmatici, grotteschi, epifanici. Come quando Ottavio scopre, puntando la webcam nella biblioteca della casa californiana della sua Ligeia, che ha tutti i libri di Poe e ne possiede «parecchi, in varie edizioni e traduzioni», e scopre che «l’oggetto dei suoi tormenti si chiamasse Ligeia, come un racconto di Poe? E che racconto, poi. Tondi non avrebbe potuto giurarci, ma gli pareva di ricordare anche di avere confidato a Esquilino cosa significasse per lui la Ligeia»[47. Ivi, p. 176.]. O quando infine suggerisce che non si può né amare follemente né odiare a morte (una cosa o) una persona inverosimile, irreale, che non esiste quale Ligeia, e che è un’invenzione della sua fantasia, «concepita perché lui si rendesse ridicolo»[48. Ivi, p. 182.].

Ottavio è un individuo con una personalità anormale, complessa, capace di manifestare appassionate simpatie ed antipatie. Ciò è sottolineato dall’epilogo di Panorama che, con un procedimento retrospettivo, ricostruisce l’evolversi del rapporto d’amicizia tra Ottavio e il poeta Mario Esquilino, che è un’altra sfaccettatura dell’io di Pincio. Il rapporto si rompe quando l’Ottavio lettore consiglia alla sua casa editrice di non pubblicare un’opera di Esquilino. E tutto è esposto con una vena vaga ed allusiva. Forse perché allo scrittore interessa evidenziare come i legami d’affetto, inclusi quelli felici dell’ambiente lavorativo e professionale, si possono eclissare da un momento all’altro, possono essere soffocati dai fraintendimenti e dai malumori, dalle invidie e dalle diffamazioni, dai capricci e dalle insidie, dai risentimenti e dalle ostilità, da tanti sentimenti sinistri che vengono a distruggere una vita. Come quella di Esquilino, che vive per la poesia e la cui vita è distrutta da Ottavio che in maniera brutale gli dice: «Sei solo un poeta di merda (…) Resti solo un poeta di merda. Da quel giorno, nessuno vide più Esquilino. Si venne a sapere che partì per il Messico (…), dove scomparve in circostanze mai chiare»[49. Ivi, p. 181.]. Una scomparsa allegoria dell’individuo con un carattere poco comune, insoddisfatto, travagliato, autolesionista.

In questo dénouement, sviluppandosi ulteriormente la scacchiera degli specchi e dei riflessi frantumati, Pincio si osserva e si esplora attraverso gli spettri fantomatici di Ottavio e di Esquilino. Lascia l’uno per riprendere l’altro e viceversa. Quando un misterioso amico, dopo un bel po’ di tempo passato, ricorda a Pincio di Ottavio, egli si mette a ricercare, in una rinnovata atmosfera pirandelliana del metaracconto, la sua creatura nei suoi ricordi: «ripensai al nostro mondo di un tempo e alla vita di Ottavio Tondi, alle cose che ho qui raccontato. Non ci eravamo mai frequentati, ma le nostre esistenze erano profondamente legate»[50. Ivi, p. 188.]. La ricerca online, ma la pagina del profilo di Ottavio fa balenare ombre e sembianze evanescenti, che sfumano e si perdono nel nulla; la ricerca nei libri letti e posseduti da Ottavio, che si vendono a buon mercato sulle bancarelle o finiti nei cassonetti della spazzatura di Roma. E, quando si elencano le cose agognate dall’animo del poeta Esquilino, esse si traducono in figure dei sogni artistici di Pincio, anche se non lo ha mai conosciuto («malgrado io viva da anni nel quartiere da cui Esquilino prese il suo nome, non mi capitò d’incontrarlo né ho conosciuto qualcuno che lo ha avesse conosciuto»[51. Ivi, p. 189.]) e dei compiacimenti agrodolci di Pincio, che vive nella prigione dei suoi demoni e delle sue immaginazioni demoniache: «me lo figuro invasato, desideroso di lasciarsi imprigionare dall’esistenza che dava recitando a memoria e, in queste mie fantasie, mi è facile comprendere chi lo vide davvero, chi lo paragonava a un animale da gabbia»[52. Ivi, p. 190.]. Ritraendo questo misterioso poeta, si ha l’impressione che Pincio stia riscrivendo anche la biografia del suo amato Landolfi, che è prigioniero dei suoi fantasmi interiori e che si muove di giorno e di notte come un folletto e non è né conosciuto né visto dai suoi paesani di Pico[53. Pincio s’è occupato varie volte della vita e dell’opera di Landolfi. Si vedano per esempio T. Pincio, Hotel a zero stelle, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 137-46; e Id., Considerazioni brevi e personali sul tipo di Landolfi, in Tre corone postmoderne. Landolfi Manganelli Tabucchi, a cura di E. Di Iorio e F. Zangrilli, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2015, pp. 9-22.].

In Panorama Pincio si rivela uno scrittore molto sensibile. Anche perché alla rappresentazione del mondo di carta intercala, sovrappone, e cuce parecchi problemi d’attualità, di una realtà sociale alla deriva, decadente e inferma, e con spigliatezza riscrive fatti di cronaca che toccano la coscienza collettiva, eventi della vita quotidiana che sono ignorati o poco trattati dai media, vicende che continuano a riaccadere dato che non c’è l’intervento delle forze dell’ordine, e neanche quello dei politici all’altezza di far funzionare la macchina dello stato, di cambiare le cose e di rinnovare se stessi, anche se sono giovani: «l’economia ristagnava, la società invecchiava, la povertà aumentava. Alla guida del Paese erano subentrate facce nuove, figure energiche e brillanti, è vero, ma nella loro prodezza morale, nella loro mancanza di autentici ideali, Tondi intravedeva comunque lo stigma di un precoce appassimento»[54. Ivi, p. 15.].

Il padre di Ottavio, commercialista padrone di un grande studio di consulenza fiscale, froda lo stato, simboleggiando la corruzione che piaga il paese e, per non cadere nelle maglie della giustizia, quando è arrestato si suicida in cella: «non si capì mai, o non si volle capire, se la testa infilata in un sacchetto di plastica fosse stata una sua scelta o un consiglio che dovette seguire»[55. Ivi, p. 75.].

Elevando Roma, pur quando è raffigurata con spiccato realismo, a simbolo della società italiana e del villaggio globale, Pincio di certo non vede di buon occhio le nuove generazioni di giovani sfaccendati, amanti della bella vita, che bazzicano i locali mondani e s’intrattengono con l’uso degli aggeggi delle ultime tecnologie fornitrici dell’informazione-comunicazione leggera, amanti del fare una vita come se fosse una favola, una grande vacanza, e per questo incantati dallo stile di vita degli stranieri che da tutto il mondo invadono l’Eterna Città, mutandone la fisionomia e distruggendone anche la cultura culinaria:

Per il resto la città si era ormai arresa ai nuovi flagelli. Ovunque soltanto locali per i più giovani, quelli che lui chiamava “nuovi stronzi”, bar che non erano più bar per via di una modernità pretenziosa e oscena, patetica imitazione di locali (…) pensati per i turisti (…) in massa, posti che avrebbero potuto essere ristoranti o tavole calde (…) Un nuovo tipo di umanità, sempre armata di un dispositivo portatile, in contatto con la cosa fluida. Persone la cui principale preoccupazione sembrava quella di avere qualcosa da guardare o digitare (…) Alle sue orecchie, le suonerie di quegli apparecchi[56. Ivi, pp. 91-92.].

Più o meno come nel romanzo pinciano di Cinacittà, Roma diviene lo spazio connotativo di ogni sorta di bullismo, di violenza, di irrazionalità, di cui è emblema l’episodio di Ottavio massacrato da un gruppo di giovani squilibrati sul Ponte Sisto; e di ogni sorta di miseria, di tragica esistenza. I poveri disgraziati fanno qualsiasi cosa per sopravvivere, arrangiandosi in tanti modi e vivendo in strada:

Una famiglia napoletana, padre e due figli, si era impossessata di un tratto del marciapiede e di una cabina telefonica senza più telefono. Erano poco più che barboni, vendendo libri recuperati qua e là. Prezzo fisso, diceva un cartello, tutto un euro. Nella gran parte dei casi si trattava di robaccia, scarti di quart’ordine, ma capitavano anche volumi di pregio (…) E i vigili, la gente? domandai una volta. Nessuno dice niente del vostro commercio abusivo? Libri, poi[57. Ivi, p. 187.].

Roma si plasma come luogo del degrado in tutti i sensi, babilonico. Non solo perché soffocata dal caos del traffico; abitata da “frotte” anche di cinesi e cingalesi; invasa di notte e di giorno dalle prostitute di parecchie nazionalità che si vendono nude sulle strade: «Roma è un drenaggio infetto, perché oggi, più che mai, è il quartiere delle prostitute»[58. Ivi, p. 126.].

Benché in Panorama galleggi un marcato scetticismo verso la nostra realtà postmoderna, si chiude con una nota di speranza che “un giorno” le cose cambieranno in meglio, che la cultura e in particolare quella del giardino dei libri potrà redimere l’uomo smarrito nel vuoto delle cose, nell’abisso dell’apparenza, della leggerezza, del materialismo, cioè della decadenza, e rimetterlo sulla dritta via.

Vuole essere, Panorama, un romanzo in cui Pincio opera con una ri-scrittura che è creazione e riproposta di vecchi canoni in nuova veste, in cui, sulla falsariga di Cervantes, incide il messaggio che nella vita si vive per qualcuno o per qualcosa. Un qualcosa di alto e di utopico, che è soprattutto referente simbolico della letteratura e dell’arte in generale.

(fasc. 10, 25 agosto 2016)