Recensione di Benedetto Croce, “La poesia di Dante”, a cura di Giorgio Inglese

Author di Renata Viti Cavaliere

E’ ora disponibile in libreria per i tipi di Bibliopolis l’Edizione Nazionale del volume La poesia di Dante che Croce mandò in stampa agli inizi del 1921, anno del sesto centenario della morte dell’Alighieri. Il testo, tra i più discussi nell’ambito della critica letteraria e filosofica, vede ora la luce, a cura di Giorgio Inglese con l’aggiunta di una Nota di Gennaro Sasso, in perfetta coincidenza con il settimo centenario dantesco che cade, come ai più è oramai noto, nell’anno in corso.

Ai centenari, diceva Gianfranco Contini, si connettono per lo più azioni numerose e frastagliate assai simili a un tipo di “culto collettivo” quasi maniacale in memoria del venerando di turno. Non si può certo dire che sin dagli inizi del 2021 la devozione al grande italiano non si stia esprimendo nei modi più svariati, alcuni seriamente impegnativi come tra l’altro una nuova edizione critica della Commedia, altri un po’ bizzarri come la resa in fumetti, videogiochi o musica popolare, delle cantiche più celebri della nostra letteratura. Né poteva mancare la lettura psicoanalitica del viaggio nell’oltretomba, viatico alla cura del disagio interiore inerente alle turbolenze della vita contemporanea. In cotanto prevedibile fiorire di iniziative anche molto preziose, viene da osservare che il libro di Croce sulla poesia di Dante, letto a cent’anni di distanza, calato in un’epoca così difforme da quella in cui nacque, può rappresentare ancor oggi allo sguardo di nuovi lettori una ventata d’aria fresca da respirare all’aria aperta.

In Appendice al testo dell’Edizione Nazionale il curatore ha opportunamente pubblicato il discorso tenuto da Croce a Ravenna nel settembre del 1920, nel quale sono accennati – come annotava lo stesso Croce – alcuni dei concetti che avrebbe svolto in un libro di prossima pubblicazione sulla Poesia di Dante. In veste di Ministro della Pubblica Istruzione il filosofo inaugurava il sesto centenario invitando a entrare nello spirito dantesco, che vibra nella poesia della Commedia, pur sempre nel rispetto della critica filologica e anche della tendenza a fare dell’Alighieri il simbolo dell’italianità d’ogni tempo. A quel sentimento del mondo, espresso in versi immortali, Croce chiedeva infine di accostarsi nel modo più semplice. Esortava ad avvicinarsi al poema per «leggerlo e rileggerlo, cantarlo e ricantarlo, tra noi e noi, per la nostra letizia, per il nostro spirituale elevamento», da esponenti dell’umanità quali dovremmo essere, e non da bruti, in onore del privilegio di perseguire virtù e conoscenza.

La poesia tutta è stata per Croce il necessario alimento della vita umana che “rinfresca” la mente nella “visione immediata e ingenua del mondo”, tale da affratellare gli animi al di sopra delle temperie politiche e delle strettoie della logica. E tuttavia non sarà mai agevole né auspicabile che si affronti la lettura di Dante senza una soddisfacente idea del tempo in cui egli visse, della filosofia e della teologia in auge all’epoca del tardo Medioevo o della situazione politica nella Firenze che afflisse e umiliò il poeta con l’esilio. La questione posta da Croce riguardò sul piano dell’interpretazione critica la lettura da lui definita “allotria”, che in prevalenza appesantisce e rischia di ottundere il godimento estetico della Commedia per l’eccesso di commenti a piè di pagina. La poesia di Dante è stata la lingua di Dante, l’ethos e il pathos di uno spirito universale nella sua straordinaria forza espressiva: vale a dire, in altri termini, la verità eterna della liricità tradotta in un’opera ineguagliabile. Nelle terzine dantesche pare evidente che muoia il passato di un medioevo crudo e guerresco, austeramente ascetico, mistico e “germanico”, mentre si annuncia una modernità ancora in embrione, innegabile nell’uso scelto di una lingua popolare e nella potenza di sentimenti gioiosi e tristi, drammatici e passionali.

L’edizione critica della Poesia di Dante è basata sul testo del 1952, curata con apprezzabile scrupolo filologico da Giorgio Inglese, corredata dagli Indici di riferimenti, di rinvii e delle citazioni, e dalla Nota di Gennaro Sasso che ne illumina tratti rilevanti seguendo l’evolversi della composizione del testo con l’ausilio dei Taccuini di lavoro di Croce. Senza voler entrare nel merito della discussione intorno alle tesi contenute nel libro, Sasso tiene a sottolineare che la decisione di studiare Dante non derivò al Croce dalla ricorrenza del centenario ma, assai probabilmente, dal desiderio di ampliare il quadro dei grandi poeti europei che aveva intrapreso a delineare leggendo Goethe, Ariosto, Shakespeare e Corneille. Consultando il diario crociano è possibile indicare la data (l’11 novembre del 1919) in cui ebbero inizio le letture dantesche del filosofo. Ricerche che si svolsero con continuità ancora ai primi dell’anno successivo, fino a quando, all’incirca nella primavera del ’20, divenne concreto il progetto di un libro su Dante dedicato all’Inferno, al Purgatorio e al Paradiso nei suoi tre capitoli centrali. Solo in un secondo momento Croce redasse l’Introduzione, e di seguito il capitolo La struttura della ‘Commedia’ e la poesia, «vero e proprio capo delle tempeste», scrive Sasso, per coloro che si sono avventurati a esaminarne le tesi. Da ultimo Croce scrisse per l’Appendice il saggio sulla Storia della critica dantesca, mentre, nel frattempo, alcune parti del lavoro uscivano in riviste e atti d’accademia: il saggio sul Dante giovanile nelle pagine annuali della Pontaniana e quello sulla storia della critica nella «Nuova Antologia» del 1920. Dai preziosi Taccuini si apprende che Croce lavorò con infaticabile premura al progetto così bene avviato, con l’eccezione di un’inattesa frenata negli studi che lo travolse come in un “vortice mentale” in occasione della nomina a Ministro della P.I. nel Governo Giolitti. Quasi sul finire dell’estate ebbe modo di rivedere il testo che presso l’editore Laterza vide la luce nei primi mesi del 1921.

La Nota di Sasso contiene, tra le altre cose qui solo brevemente ricordate, un significativo spunto teoretico laddove, accennando al “radicalismo” del pensiero estetico di Croce, foriero di molti problemi da esaminare (che Sasso ha affrontato in saggi di grande interesse per gli studiosi), si chiude all’ipotesi, pur avanzata talvolta, che «la drastica reductio della poesia a sé stessa potesse derivare da inclinazioni decadentistiche e tendenzialmente irrazionalistiche» comunque presenti in lui. Tesi, però, negabile già in virtù dell’assunto crociano circa il carattere “scolastico” delle poesie giovanili di Dante, che in epoca romantica invece avevano attratto con qualche esagerazione i cultori di mistici rapimenti amorosi. Croce fu e restò sempre nemico acerrimo di ogni estetismo e dell’irrazionalismo decadentistico, pur mirando – vorrei aggiungere – a esplorare in profondità il “sentire” umano nelle sue forme recalcitranti al puro razionale e attinenti semmai all’inesplicabile che è mistero a tratti diradabile per lumi sparsi. In modo analogo Dante si era immerso nella profondità dell’umano, dando vita a prodromi dell’Umanesimo che non è mai stato tutto luce, serbando al suo interno anche ombre che si sono svelate recondite oscurità.

Il libro su Dante, a ben vedere, viene a collocarsi quasi a pari distanza tra l’Estetica del 1902 e la Poesia del 1936, rappresentando così un passaggio, ma non il solo, dalla teoria dell’intuizione pura alla verifica del carattere “poietico” dell’arte che è un produrre intriso di interna dialettica, unità di potenza creativa e capacità di non indulgere a ciechi impulsi immediati. La poesia è come un fuoco che non si consuma ed è perciò che può sembrare, in una prospettiva filosofica, qualcosa che si acquieti in sé stessa. Nel libro su Dante le dottrine estetiche di Croce si evolvono per approfondimenti che sono sviluppi di un pensiero mai pago di sé, fieramente incardinato sul principio dell’universalità della poesia che è il pendant di una sorta di “impersonalità” dell’arte, se è vero che Dante è stato per Croce la geniale incarnazione della “Poesia senza aggettivo”.

Nell’Appendice Intorno alla storia della critica dantesca, che chiude il volume, Croce indicava all’incirca nel 1725 la data in cui accadde qualcosa di rivoluzionario per opera di Giambattista Vico. Si trattò in primo luogo dell’avvento non codificato della nuova scienza estetica, ossia della scoperta che la poesia “nasce tutta da vigore di fantasia”. Nella Scienza nuova seconda Vico formulò un celebre giudizio su Dante che Croce tenne in grande considerazione tanto da riportarlo quasi integralmente nella monografia vichiana del 1911. Definito da Vico l’Omero della ritornante barbarie nell’Italia del suo tempo, Dante non aveva forse rappresentato nella Commedia fatti reali dei trapassati come nell’antica tradizione greca, raccogliendo per di più nell’uso di una lingua volgare i dialetti del tempo? Vico si spingeva così in avanti nel confronto da avvertire nell’Inferno l’eco delle ire implacabili descritte nell’Iliade e assegnando, altresì, al Purgatorio il tono dell’eroica pazienza di Ulisse nell’Odissea. In sostanza, Dante e Omero gli apparvero del tutto simili nella sublimità della poesia. Giudizio, quest’ultimo, che richiama alla mente la domanda che Croce nell’Estetica del 1902 aveva così formulato: la poesia è cosa razionale o irrazionale, spirituale o brutale? Se è “spirituale”, allora, qual è la sua propria finalità che la distingua dalla scienza e dalla storia? Vico aveva di fatto sottratto la poesia alla parte vile dell’anima, traducendola in una forma della coscienza che viene prima dell’intelletto ma dopo il senso, estesa finanche a un intero periodo della storia umana. Anticipò solo di alcuni anni quel Baumgarten che nella Germania di metà Settecento (1750) pubblicava due volumetti aventi sul frontespizio la scritta Aesthetica, articolati in paragrafi lapidari atti a scandire i termini di un sapere inedito nei suoi importanti principi. Nasceva, così, una moderna disciplina ch’ebbe d’allora in poi il compito – ha scritto una volta Carlo Antoni – di fornire una giustificazione ragionata dell’irrazionale che è l’arte. Le definizioni di Baumgarten non consentivano inciampi nell’interpretazione. L’estetica è scientia cognitionis sensitiva e la poesia è oratio sensitiva perfecta. Assegnata alla sfera teoretica, la poesia appartiene a una sorta di cognitio perché non è mera sensualità (anche nel significato della tradizionale catarsi), ma non è “razionale” dal momento che non ha altra “ragione” che in sé stessa. Sul piano del carattere originario, aurorale e fondante della Poesia, Omero e Dante parvero al Vico coevi esclusivamente nella forma più alta dell’operosità umana. Le due grandi figure, in alcun modo identiche, ebbero caratteri e personalità assai differenti e un ruolo diverso svolto nell’epoca storica in cui vissero.

Sarebbe riduttivo, benché non proprio scorretto, ricorrere anche in tal caso all’idea crociana dell’opera che “supera” l’individuo e lo affida alla memoria postuma. Con ogni evidenza, nell’Introduzione al testo su Dante, Croce sminuiva il profilo dell’Alighieri filosofo, teologo, teorico della politica al cospetto della grande poesia della Commedia. Paragone, s’intende, neppure sostenibile per la diversa sostanza dei relativi contesti d’opera. Legittimo, però, che si considerasse non del tutto originale l’idea di una monarchia mondiale e il pio desidero di pace universale. Discutibile forse la lettura del De vulgari eloquentia rimasta a parere di Croce sulla soglia non varcata della moderna filologia o di una strutturata filosofia del linguaggio. E tuttavia non è per questi motivi che si proponeva una lettura estetica distinta da quella eminentemente “allotria” della poesia di Dante nella Commedia. Diversamente dai giovanili componimenti, ispirati al “cuor gentile” della donna innalzata a creatura celeste, sonetti e canzoni che rapiscono l’animo per la musicalità del verso e che svelano un afflato poetico in formazione, il divino Poema era stato costruito intorno al nuovo scenario del doppio viaggio, reale e sognato, e alla metamorfosi del protagonista in personaggio tra gli altri via via evocati. Un cammino nella profondità dell’umano che Dante intraprende da solo inoltrandosi, con la guida di Virgilio e Beatrice assunti a simboli di potenze costruttrici di civiltà, per una via che non è percorribile da ognuno, benché a tutti sia dato avviarsi in maniera più o meno tormentata lungo l’impervia strada dell’immaginario. La Commedia è grande per la poesia espressa in virtù dell’allegoria dell’oltretomba, figura al rovescio della vita vissuta nel dolore del peccato e nell’impegno per una possibile salvezza. Scrive Croce: «Dante sapeva ciò che i critici non sanno o hanno dimenticato: che Inferno Purgatorio e Paradiso, tutta la vita oltremondana, è irrappresentabile e perciò non veramente pensabile dall’uomo». La costruzione dantesca di mondi eterni ed esterni a quello terrestre non poteva essere descritta che in forma naturalistica e per tanti riguardi intellettualistica. L’arte soltanto è capace di esprimere il sentimento delle cose, dalle più semplici a quelle trascendenti: neppure una rosa, come il Paradiso, può essere cantata poeticamente se manca la forza della fantasia. Croce poneva in tal caso al centro dei suoi pensieri la liricità, che è la poesia stessa presente in ogni forma d’arte, da quella pittorica a quella musicale. Applicava alla critica dantesca i principi di un’estetica generale nel tentativo di mettere in crisi le sbavature della critica idealistica che celebrava in Dante soltanto l’altezza del concetto, e di quella romantica incline a godere della pura passionalità di cui certo la poesia non può fare a meno. Sennonché, la passione necessaria alla poesia non è la “materia” dell’arte ma tutt’uno con la sua imprescindibile forma. Agli studiosi di Dante che per eccesso di filologismo svolgevano prevalentemente indagini minuziose sul significato di ogni verso, fornendo peraltro sicuro aiuto alla comprensione dell’opera, Croce con pari carica critica opponeva coloro che in cerca di poesia “passionale” prediligevano la rappresentazione dei tormenti nell’Inferno alle beatitudini celesti più degne di silenzio claustrale.

Nel capitolo secondo, sulla Struttura della “Commedia” e la poesia, Croce sosteneva che non è il viaggio in sé nell’oltretomba il soggetto generatore della poesia dell’opera e metteva, inoltre, da parte definitivamente l’ipotesi fantasiosa che si sia trattato di un’allucinazione, se non addirittura dell’esperienza “mistica” vissuta dal poeta. Riconduceva la struttura della Commedia, i tre regni descritti come voragine fino al centro della terra (Inferno), come montagna altissima (Purgatorio) e i nove cieli fino all’empireo dov’è Dio motore immoto (Paradiso), alla “topologia fisica e morale” tipica dei romanzi teologici, scientifici o socialistici che nascono per lo più da un progetto di rinnovamento morale e politico dell’umanità. Ne sottolineava, infine, il carattere didascalico da assegnare all’attività pratica frutto di volontà consapevole dell’autore. La distinzione di poesia e schema rifletteva evidentemente la distinzione di teoria e prassi che regge in primo luogo l’impianto “sistematico” della filosofia dello spirito.

La questione intorno all’unità del poema, che a molti parve seriamente compromessa dalla tesi di Croce, è stata al centro di un dibattito lungo e complesso che qui neppure è possibile accennare. Si può, pertanto, solo affermare che la riduzione della Commedia in frammenti o spezzoni non è stata tra i propositi del Croce. L’unità veniva da lui attribuita allo “spirito dantesco”, al suo sentimento del mondo, alla fede ferma e all’ardore civile del poetare, al sicuro giudizio e alla robusta volontà dell’Autore. Scindere in due il poema sarebbe stata un’operazione chirurgica non degna di un critico di vaglia, il quale in modo analogo si era misurato con la struttura che regge il Faust di Goethe. L’aspetto didascalico e quello lirico non venivano a collidere come nel contrasto che prevede un vincitore: distinti e non opposti, sono stati entrambi raffigurati da Croce nell’immagine di una massiccia muraglia intorno alla quale ramifica una fiorente vegetazione. Neppure è sostenibile che la poesia nasca dall’interno di una struttura pregressa o per taluni sovrapposta. Il rapporto di distinzione non consente primogeniture o dipendenze servili, in virtù della forma circolare a cui allude. La poesia ha già in sé la sua tecnica, mentre l’impianto strutturale le si colloca a lato senza comportare danno o vantaggi. Nella raccolta di saggi su Poesia e non poesia (libro di Croce uscito nel 1922) si potrebbe meglio intendere il significato dell’espressione “negativa”. La non poesia, come la non filosofia, cospirano intimamente con il termine dal quale si differenziano, in un rapporto che è un legame, tecnicamente non dialettico ma di unità-distinzione. Il mondo dottrinale e intellettuale di Dante non veniva, così, denigrato né separato dal contesto, semmai elevato a componente della verità della poesia che non ha mai origine da presupposti esterni. La poesia è essa stessa origine, è pura perché fonte inesauribile, anche per il fatto che, come il linguaggio, si genera da un vorticoso movimento di vitale importanza.

Sul problema dei cosiddetti due Danti si era molto travagliato Francesco de Sanctis. A colui che gli fu maestro di critica letteraria sin dagli anni della giovinezza Croce dedica poche pagine nel capitolo sulla storia della critica dantesca. Pur ammirando le lezioni e gli scritti desanctisiani, vera pietra miliare negli studi letterari, Croce non manca di segnalare un certo squilibrio nella lettura di Dante, dovuto forse al fatto di aver considerato deleterio il dissidio di “cielo e terra”, di allegorismo e poesia. Nel De Sanctis egli vedeva incidere fortemente l’influsso dell’estetica filosofica di Hegel e, al tempo stesso, il peso della critica romantica la quale, con l’intento di salvare la poesia da elementi religiosi e mistici, esaltava piuttosto nel poema il quadro storico e i riferimenti politici. Efficace stimolo mentale per più di una generazione, la critica desanctisiana di Dante ebbe in sé, secondo Croce, qualcosa di incompiuto dal punto di vista dottrinale, pur avendo consegnato al lettore postumo pagine pregevolissime su singoli episodi e memorabili personaggi. Vengono, così, alla mente le “figure” concrete e reali, descritte nel loro tempo e scosse da veementi passioni, nella lettura di Erich Auerbach in un libro che uscirà di lì a qualche anno (1929), che Croce volle tempestivamente recensire sulla «Critica». Era tra l’altro da poco uscita in Germania l’edizione tedesca della monografia crociana su Vico, per la cura di Auerbach, che al filosofo napoletano ha dedicato notevoli osservazioni critiche.

Mi sia consentito, allora, assumere uno sguardo temporalmente più largo rispetto al volume del ’21, solo allo scopo di tornare sul tema del presunto scarso valore attribuito da Croce alla rappresentazione dello scenario storico-politico che è nello sfondo della Commedia. La visione provvidenzialistica del cammino umano e la convinzione che l’Impero rientrasse nel piano divino della salvezza, strutturalmente interne alla composizione del poema, avevano attratto in particolar modo la critica di pensatori ancora molto legati al paradigma hegeliano della filosofia della storia. Ciò vale per lo studioso tedesco e parimenti per l’amico Giovanni Gentile. Al Croce, che dall’hegelismo di scuola aveva preso le distanze anche prima del celebre saggio del 1907, non meraviglia che sia apparso elemento “estraneo” al godimento della poesia di Dante ogni aspetto dottrinale che indicasse una stretta dipendenza tra i caratteri individuali e la finalità di un compimento eterno. Si potrebbe dire, infine, che Croce, fedele all’unità vichiana di filologia e filosofia, ebbe in uggia non la prima ma il mero filologismo, non di certo il pensiero ma la teoria interpretativa che tende a fare della Commedia il poema “religioso” basato sul significato universalistico della storia umana.

Sia stato o meno Dante nell’al di là, con il corpo o con la mente, quel che ancora divide la critica è il punto dolente della visione dell’eterno, se sia tale da inverare il mondo terrestre o, viceversa, sia proprio l’eterno a farsi paradossalmente visibile ogni volta nel “demone” che caratterizza l’ineffabile individualità della poesia.

Da ultimo è il caso di ricordare che l’edizione Laterza della Poesia di Dante del 1921, uscita nella serie degli “Scritti di storia letteraria e politica”, vol. XVII, portava nel frontespizio la dedica: «A Giovanni Gentile / in testimonianza / di antica e costante fraternità / negli studi e nella vita».

(fasc. 38, 28 maggio 2021)