«Sono io l’ignoto calabrese offeso nel piede dritto, citato nell’elenco segreto dei cospiratori partecipanti alla storica agape di Posillipo della notte del 7 agosto 1793»: questo, l’inizio di uno splendido e affascinante romanzo storico che si snoda in modo fluido in ventotto capitoli. L’autore è Vincenzo Villella, uno dei maggiori e più attendibili storici calabresi, che ci ha dato validi e illuminanti contributi storici mettendo a fuoco aspetti e momenti vari della storia della Calabria e non solo. Al riguardo, tra le sue moltissime pubblicazioni mi limito solo a richiamare le seguenti: La Calabria della rassegnazione in ben tre volumi (1984-1986), L’albero della libertà (1987), I briganti del Reventino (2006), Joachim Murat. La vera storia della morte violenta del re di Napoli (2019). Solo uno studioso, scrittore e storico ferratissimo, ci poteva dare un’opera che, vista nel suo complesso, mostra non solo la vasta e ben organizzata conoscenza storica di Villella, ma pure la sua perizia di scrittore che con lingua sempre chiara e scorrevole rende piacevole la narrazione dei fatti storici e umani di cui si racconta.
Siamo trasportati in vari ambienti, tempi e vicende; veniamo a conoscere vari personaggi ben delineati da un punto di vista storico e umano, per cui il lettore si appassiona a ciò che legge. È un’opera corale, ben congegnata, e chi legge è continuamente invogliato a proseguire nella lettura. Si ammira anche la perizia con cui lo studioso presenta i fatti e le varie vicende, gli ambienti e i luoghi, mostrando non solo le azioni storiche dei personaggi, ma anche i loro caratteri umani. Ovunque si respira storia e cultura: così viene messo a fuoco un avvenimento fondamentale e cruento del Regno borbonico di Napoli, impegnato nella lotta contro le nuove idee repubblicane provenienti dalla Francia con la sua rivoluzione del 1789.
Insomma, un libro che si legge con partecipazione e coinvolgimento nelle vicende storiche che, a mano a mano, vengono presentate in modo agile, ma profondo. Nella fattispecie, le parole citate all’inizio sono di Francesco Butera di Conflenti, in provincia di Catanzaro (Villella è anch’egli di questo paese): illuminista, massone, giacobino e monaco agostiniano (prima di farsi tale era il “notaio zoppo”). Difatti, è proprio Francesco che in prima persona narra i fatti che formano la Memoria di Francesco Butera, già notaio e ora monaco, sui trascorsi fatti di mia vita nell’epoca della Santa Fede del cardinale Fabrizio Ruffo. Conflenti, monastero di Sant’Agostino, agosto 1804. Gli avvenimenti narrati sono quelli del triennio giacobino (1796-1799), «caratterizzato dalle insorgenze antifrancesi in Europa e in Italia, movimenti insurrezionali contro le idee liberali e rivoluzionarie» (Presentazione, p. 7): ecco, quindi, il «Sanfedismo nel Regno di Napoli». Quest’ultimo fu certamente il più cruento e molti alberi della libertà, dapprima piantati, vennero poi spazzati via dai sanfedisti e dalle bande capitanate dal Cardinale calabrese di San Lucido, Fabrizio Ruffo.
Villella con la sua opera ci immette nell’atmosfera culturale, politica e umana, cruenta e drammatica, che ha caratterizzato il Regno di Napoli: il 1799 è ricordato giustamente dagli storici come l’anno finale del cosiddetto triennio giacobino. Il testo è unitario e organico anche se gli argomenti, le vicende, i fatti sono tantissimi: tutto è ben fuso fino all’esito finale della lotta tra giacobini e sanfedisti. Chi legge viene trasportato da un ambiente a un altro, ora si imbatte in un personaggio, ora in una vicenda ora in un’altra: per esempio l’iniziazione massonica di Francesco nella Loggia della Cappella del Cristo Velato e poi la sua monacazione forzata.
Da sapere a tal riguardo che Francesco, quando diventò massone, venne spedito dal gran Maestro Jerocades di Parghelia in Calabria per diffondere le idee giacobine. Una volta arrivato in Calabria, si ammalò gravemente tanto da finire in agonia e la mamma, fervente cattolica, fece un voto alla Madonna della Quercia: se Francesco si fosse ripreso dalla malattia, l’avrebbe fatto diventare monaco; e così fu.
Nel romanzo il monaco forzato Francesco nel Convento di Sant’Andrea condivide la stessa cella con il monaco tedesco Ilarione, anch’egli giacobino e grande studioso di Gioacchino da Fiore. Poi si vedono piantare molti alberi della libertà, ma ecco, subito dopo, il contrasto per cui da questi alberi si passa ai patiboli, alle moltissime esecuzioni spietate, affollatissime di gente, per le quali muoiono anche eroi e grandi intelligenze. Il tutto si svolge a Piazza Mercato, in Napoli (tutti i capitoli in cui si svolgono le varie scene e agiscono i personaggi forniscono pure il contesto entro cui avvengono i fatti storici afferenti ovviamente alla lotta tra giacobini e sanfedisti).
Poi ecco ancora il 1799, anno in cui è proclamata la Repubblica partenopea e si muove dalla Calabria la marcia della Santa Fede del Ruffo. Le sue truppe, formate da un’accozzaglia di uomini di malaffare, si intrattengono nel Convento di sant’Andrea e assoldano in modo autoritario tutti i frati, scegliendo ovviamente quelli più giovani. Quindi, il monaco Francesco (pure notaio come già detto) vede di persona ciò che succede durante la crociata sanfedista e lo descrive minutamente nel suo diario grondante di eccidi, incendi, stupri, ogni tipo di violenza e ruberie commesse dai sanfedisti in vari luoghi: Maratea incendiata dal brigante Fra’ Diavolo che «festeggia con una messa nera e la copulazione sacra», e poi ancora l’uccisione e il vilipendio del cadavere del vescovo di Potenza Andrea Serrao; gli stupri fatti nel Convento femminile di Altamura; l’esecuzione – come già detto ‒ di tanti giacobini napoletani, il fior fiore dell’intellettualità locale, tutti ex fratelli di loggia di Francesco Butera. Ma sono registrati anche altri fatti, come l’ignobile tradimento dell’ammiraglio inglese Nelson, i suoi contrasti con il cardinale Ruffo, l’impiccagione dell’ammiraglio Francesco Caracciolo, il cannibalismo dei lazzari, il feroce martirio di Luisa Sanfelice.
Napoli diventa così la città-bestia dell’Apocalisse e Francesco, lasciata la città insanguinata, va alla ricerca del suo caro maestro Jerocades, che ritrova sempre attivo nella stamperia clandestina del Convento di san Giovanni a Cesarano, proprio quando, incatenato, viene portato in prigione, e così dà l’addio all’avvento imminente della nuova era apocalittica dell’abate Gioacchino ricordato da Dante con quei celebri versi: «di spirito profetico dotato». Francesco non si arrende per niente e, inginocchiato davanti al crocifisso dell’altare del convento, «giura di continuare l’opera del suo Maestro per la divulgazione della fede nella ragione umana, per aiutare i vinti a realizzare una immortalità terrena prima ancora di quella ultraterrena». Nella sua memoria scrive: «A tutti quelli che si recheranno in futuro a visitare Napoli raccomando di non mancare di andare in Piazza Mercato in faccia alla chiesa del Carmine e, inginocchiati su quel sacro terreno bagnato dal sangue di tanti martiri, rivolgano un pensiero ad Eleonora e a tutti i patrioti che sono morti da coraggiosi per la salute dell’infelicissima patria» (p. 395).
Come si vede, quest’opera di Villella ha tutti gli ingredienti per essere definita un “romanzo storico” in cui il lettore si imbatte in varie situazioni e sfilano davanti ai suoi occhi tante scene avvenute in quel tempo orribile delle lotte tra repubblicani e sanfedisti. Sono queste vicende fortemente intrecciate che ci mostrano anche come si viveva, quali erano gli usi, le condizioni della gente in quel periodo nel Regno di Napoli e così si legge: «Gli ‘spirdati’ arrivano qui (gli spirdati sono gli invasati dal demonio che venivano condotti a Conflenti, al santuario della Madonna della Quercia, sede diocesana degli esorcismi) sfiniti e stremati, a volte moribondi, non tanto per la pesantezza del viaggio a piedi, quanto a causa delle estenuanti pratiche alternative o preparatorie all’esorcismo cui venivano sottoposti per giorni e giorni» (capitolo quarto, p. 53); «Michele Calabria, don Michelino, come lo chiamava la gente, era mio cugino carnale» (capitolo ottavo, p. 127), un fannullone, ignorante, rozzo e prepotente, che stuprava (la sua unica occupazione) le donne, e per questo venne ucciso. «È tutto nudo – dice un gendarme – mostrandoci i pantaloni buttati poco distanti sul fieno e la camicia insanguinata» (pp. 131-32). Chi ha ucciso Michelino è Nicola Gualtieri, il chierico cursore, figlio primogenito del sarto Gennaro Gualtieri, detto Panedigrano. Nicola ha scannato don Michelino perché aveva violentato la sorella e l’ha ammazzato nella stalla dove aveva appunto abusato di lei.
Dunque, I demoni della Santa Fede di Villella è un’opera che mette in evidenza le grandi competenze storiche dello studioso e poi la grande capacità di analisi e di sintesi con cui sono raccontate le varie e incastrate vicende, per cui ci è dato assistere ed essere coinvolti in una narrazione armoniosa e chiara che tocca da vicino e sprona continuamente a meditare sulla storia, sull’uomo e sulle azioni successe in passato ma che poi, pur cambiando i tempi e i modi, vengono a galla sempre o a riproporsi. Il volume, pregevole sotto ogni punto di vista, si raccomanda a tutti per essere letto e meditato, soprattutto da parte delle nuove generazioni.
(fasc. 51, 25 febbraio 2024, vol. I)