«Sia lode alle stelle che implodono. Una nuova libertà s’apre in loro: elise dallo spazio, esonerate dal tempo, esistono per sé, finalmente, non più in funzione di tutto il resto»
[I. Calvino, L’implosione]
«Nel vero nostro elemento che si estende senza rive né confini»
[I. Calvino, La spirale]
«Quello che vedi, scrivilo in un libro»
[Apocalisse 1:11]
Calvino – Interviste impossibili ‒ apocalittica
L’intera opera di Italo Calvino s’iscrive in una rete coesa costruita per opposte tensioni: è lui stesso, che spesso veste i panni di commentatore dei propri lavori, a dichiarare che ab origine in lui la scrittura si sviluppa come forma di conoscenza dall’io al mondo («il mio scopo non è tanto quello di fare un libro, quanto quello di cambiare me stesso»[1]) e viceversa («L’universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi»)[2]. In questa tensione convivono l’interesse per il microscopico, il minimo, come per il cosmico[3], l’universale; l’impegno nella storia e per la letteratura, la responsabilità sociale, politica, ecologica[4]. Dato che «La percezione di questo mondo, però, per l’uomo è solo linguistica e Calvino l’ha inseguita per tutta la vita»[5], sarà attraverso la scrittura che Calvino cercherà la propria formula sintetica di conoscenza e azione: «tutte le realtà e le fantasie possono prendere forma solo attraverso la scrittura, nella quale esteriorità e interiorità, mondo e io, esperienza e fantasia appaiono composte della stessa materia verbale»[6].
In tale prospettiva la sua ricerca non può che apparire più coerente e unitaria di quanto la critica del Novecento non avesse voluto indicare, laddove «le ragioni del realismo e quelle del fiabesco (sono) per lui convergenti»[7]: «dalla sua opera non si esce mai, a dispetto delle sue continue pretese di fuga, perché è un’opera totale, un monolite strutturale, l’unica vera opera-mondo dell’intero Novecento italiano, presa tutta insieme»[8].
In questo sistema euristico e metalinguistico Calvino ha offerto una risposta originale nel panorama del Novecento italiano, nonché, per quanto produttiva e variegata, sempre coerente con sé stessa: «un autore che cambia molto da libro a libro. E proprio in questi cambiamenti si riconosce che è lui»[9].
Un’importante costante di lungo periodo della sua ricerca letteraria è costituita dalla grande attenzione per le soglie testuali, passaggio dal mondo al testo «in grado di collegare il ‘mondo scritto’ e il ‘mondo non scritto’», e spesso è stata sottolineata la sua predilezione per gli inizi rispetto alle fini: si pensi ad esempio a Se una notte di inverno un viaggiatore, un romanzo costruito di molteplici inizi, che si chiude metanarrativamente su una quasi fine: «Ancora un momento. Sto per finire Se una notte di inverno un viaggiatore di Italo Calvino»[10], o quanto esplicitamente scrive in merito affermando che «L’inizio è il luogo letterario per eccellenza perché il mondo di fuori per definizione è continuo, non ha limiti visibili»[11]. Eppure i finali calviniani, venendo a chiudere un’interrogazione che spesso genera dubbi più che offrire risposte definitive, risultano, fin dai suoi esordi, interessanti proprio perché tendono a presentarsi come nuovi inizi, aperture di nuovi orizzonti, rendendo visibili i limiti di un mondo: «E continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano» (Il sentiero dei nidi di ragno). Nella Prefazione del giugno del 1964 al suo primo romanzo aveva inoltre scritto: «Non era facile ottimismo […] era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero».
La stessa costruzione delle sue numerose utopie fantastiche spesso indica che l’invenzione può trarre alimento da sé stessa, nel senso che è dal gioco dello straniamento proprio del fatto letterario[12] che nasce la possibilità di un mondo altro, che per il lettore si configura come opportunità di un nuovo sguardo sul mondo: un nuovo inizio da zero, per l’appunto. Uno scrittore utopistico[13], dunque, come è stato sottolineato, considerando anche il suo interesse per l’opera di Charles Fourier[14].
In questo particolare senso, si potrebbe anche azzardare una definizione della sua scrittura come apocalittica[15]: nel senso del disvelamento, attraverso la scrittura, di un senso critico profondo del mondo, di un’alternativa eticamente differente al sopravvivere amorale. Calvino tende, scrivendo, a riconoscere e riattivare la potenzialità di reinventare il mondo, oltre coatte convenzioni o interpretazioni consumate, a: «raccogliersi nella fine: anelito di uscire dalla prigione delle convenzioni […] ‒ come il Re in ascolto ‒ lasciando che il reticolo dei poteri esploda; che la nostra vita e quella dell’universo e dei cieli […] si ripieghi, rotolo d’Apocalisse»[16]. Nella e con la scrittura è possibile ripensare il mondo fuori dalla storia stessa, ontologicamente rifondare da fuori la realtà, rivelarne significati profondi.
A partire dal suo significato etimologico di ‘rivelazione di cose nascoste’, la letteratura apocalittica si differenzia dal genere profetico per il suo volersi porre al termine della storia, indicando un giudizio finale; com’è noto, essa si basa su alcuni scritti in ebraico e aramaico, ma soprattutto sull’Apocalisse di Giovanni, scritta invece in greco, che costituisce il testo conclusivo del canone biblico del Nuovo Testamento, venendosi a configurare all’interno della cultura occidentale, nel corso del XX secolo, in una «costante antropologica che trova fondamento in una costruzione mitica di palingenesi del mondo e riscatta dalle insoddisfacenti condizioni di vita attuali. Il tema apocalittico si trasforma così in un modo della scrittura, facendo ricadere le sue caratteristiche nel campo più vasto delle strutture letterarie»[17].
Il Novecento italiano prende le mosse proprio dalla palingenetica scrittura apocalittica della Prima guerra mondiale: le avanguardie rompono con la tradizione, la poesia si trova a dover dire l’impossibile nell’essenziale, a esprimere l’orrore e la modernità che deflagra, la fine di un’epoca che apre a un mondo nuovo a causa della guerra, grazie a o nonostante essa. Quella guerra che è stata identificata anche dagli storici come fine di un’epoca e inizio del nuovo Secolo breve.
Calvino, che riparte da una narrazione straniata della Resistenza, della fine di un’altra guerra che chiudeva un’altra epoca, riscopre all’apocalittica il significato di rinnovamento: quello di trovare il coraggio di immaginare, costruire, dare forma a qualcosa di nuovo, di salvare qualcosa, lasciandosi indietro altro, di scegliere. In un certo qual modo tutta la narrativa di invenzione esce dalla storia per reinventare un proprio cronotopo, e infatti Cominciare e finire[18] avrebbe dovuto costituire l’argomento della prima delle calviniane Lezioni americane.
Per cogliere continuità e profondità di senso del mondo, il fantastico permette alla sua scrittura di «inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo»[19]. E dunque, fuori dalla continuità dello spazio e dal tempo vengono le proposte di significato più intenso e permanente, vengono scoperti insomma i noumeni sottostanti ai fenomeni, rivelate verità eterne della storia umana:
un’intenzione di separare il mio presente dalla soluzione corrosiva di tutti i presenti, tenerlo fuori, metterlo da parte. […] la mia paura era quella di perdermici […] Bisognava che cominciassi col fissare dei segni nella continuità immisurabile […] la spirale senza fine non si riusciva a costruirla: […] il tempo si rifiutava di durare, era una sostanza friabile […] Così s’impastava della nostra sconfitta la sostanza del mondo. […] A partire dalle nostre spirali interrotte avete messo insieme una spirale continua che chiamate storia[20].
Calvino, che è forse più vicino alla concezione tipicamente greca della teoria dell’apokatastasis, chiaramente legata più a una concezione circolare, dell’eterno ritorno, che non a quella cristiana della fine dei tempi e della storia, propone però di guardare, attraverso l’invenzione letteraria, al mondo dal suo confine col testo, e viceversa, per comprenderlo meglio e meglio ricrearlo: un esercizio di discontinuità che acuisce la capacità critica e la consapevolezza morale. C’è, quindi, una dimensione di senso diffusa nelle sue proposte letterarie: in particolare nei suoi racconti le più illuminanti rivelazioni avvengono in un cronotopo paradossale, fuori dal tempo e dallo spazio. E con Bachtin[21] sappiamo bene quale fondamentale valore contenga la scelta del cronotopo nell’invenzione letteraria: «ogni ingresso nella sfera dei significati avviene soltanto attraverso la porta dei cronotopi» [22].
Questo avviene per esempio nel fiabesco e nel fantastico di molte sue opere, o grazie alla prospettiva che viene prescelta, di volta in volta infantile (Il sentiero dei nidi di ragno, Le Cosmicomiche) o ingenua (Marcovaldo). D’altro canto, l’applicazione antropologica novecentesca del modello apocalittico come fine di un determinato mondo, così come con successo concepita da Ernesto De Martino[23], sembra bene sposarsi con la proposta narrativa calviniana. Quando nel 1984 scrive e pubblica il racconto L’implosione, Calvino riprende alcuni elementi di un suo articolo[24] del decennio precedente:
Nella nostra idea di mondo l’immagine dell’esplosione è stata fondamentale: come immagine di catastrofe ma anche di nascita, di genesi. Bisognerebbe riuscire a tracciarne la storia: […] Non è escluso che cominci a imporsi ora al nostro inconscio l’immagine dell’implosione, come crollo all’interno, collasso centripeto […] un’immagine che può essere anch’essa di catastrofe ma pure di nuova nascita o di permanenza.
Un esempio periferico rispetto alla sua produzione come le sue due Interviste impossibili[25] è in tale direzione particolarmente significativo: Calvino cerca, nella forma del dialogo di leopardiana memoria, un senso sovrastorico della storia a partire dal confronto con l’origine, nella persona dell’uomo di Neanderthal, e con la fine, nel dialogo con l’imperatore azteco Montezuma, simbolo della fine di una civiltà e con questa di un’intera epoca, quella pre-colombiana e pre-moderna. Ancora una volta due punti estremi, opposti e liminari della storia, di ogni storia o mondo. La stessa idea dell’intervista impossibile contiene in sé qualcosa di apocalittico: la storia vista da fuori, un’epoca giudicata dal futuro e, in un gioco di specchi, il presente criticato in modo inaspettatamente rivelatore, appunto, dal passato. La scelta di Montezuma è in tal senso pregna di significato: le sue parole vengono da una catastrofe, non solo come morte individuale ma come passaggio epocale, storia passata, e acquisiscono perciò una valenza di giudizio ancor più definitivo. Il meccanismo dello straniamento è amplificato dal fatto che entrambi gli interlocutori, Calvino e Montezuma, sono rappresentanti dell’intera civiltà ed epoca a cui appartengono: il dialogo ha quindi una valenza esemplare. Si discute di fatto dell’apocalisse di un mondo, il mondo azteco e pre-colombiano, appunto, per meglio comprendere non solo la storia passata, ma anche la storia presente di un Occidente arrogante e narcisista che rischia di non vedere i propri difetti, i propri errori, i propri limiti.
Lemmi della fine affiorano tanto nelle parole dell’intervistatore, ossia l’uomo occidentale contemporaneo Calvino, quanto in quelle dell’intervistato Montezuma[26]. Accanto al dibattito sulla fine, si svolge il tema del linguaggio; tra parole e immagini la ricerca di segni che sappiano suggerire il senso degli eventi ed essere correttamente intesi, come anche nell’Apocalisse biblica; molte sono le immagini da interpretare per comprendere la rivelazione:
Montezuma: Le corrispondenze tra i segni non sono mai certe, tutto va interpretato. La scrittura tramandata dai nostri sacerdoti non è semplice come la vostra, ma di figure.
Io: Volete dire quanto la vostra scrittura pittografica, quanto la realtà, si leggevano allo stesso modo. Entrambe dovevano essere decifrate[27].
Un altro elemento, questo del visivo, che accomuna nel profondo la scrittura calviniana a quella apocalittica[28].
Si arriva, nel dialogo tra questi due mondi che portano con sé appunto anche modi diversi di significare, l’uno con parole fatte di suoni e l’altro con immagini, pittogrammi, a un paradossale capovolgimento tra vincitori e sconfitti, e finanche tra fine e inizio:
Montezuma: Quando li condussi a visitare le meraviglie della nostra capitale il loro stupore fu così grande […] Il vero trionfo fu nostro quel giorno, sui rozzi conquistatori d’oltremare.
[…]
Io: Quand’è che avete cominciato a capire che era la fine di un mondo quella che stavate vivendo?
Montezuma: La fine, il giorno rotola verso il tramonto, l’estate marcisce in un autunno fangoso. Così ogni giorno, ogni estate, non è detto che torneranno ogni volta, per questo l’uomo deve ingraziarsi gli dei, perché il sole e le stelle continuino a girare sui campi di granturco[29].
Di nuovo un’idea ciclica del tempo, dell’eterno ripetersi di fini e inizi, si contrappone a quella lineare di sviluppo e fine. Eppure, la fine di quell’epoca e di quella civiltà sono state davvero: quale il senso della storia, dunque? Perché si trovi un senso è necessario un punto di incontro tra i due interlocutori, tra i due mondi, tra i loro valori e i loro segni: altrimenti tutto rischia di ribaltarsi nel suo contrario all’infinito, in una vertigine euristica e valoriale. Sono necessari un cronotopo e un linguaggio condivisi:
Montezuma: Per battersi con un nemico bisogna muoversi nel suo stesso spazio, esistere nel suo stesso tempo. In noi ci scrutavamo da dimensioni diverse senza sfiorarci.
Quando lo ricevetti per la prima volta, Cortez, violando le sacre regole mi abbracciò. I sacerdoti e i dignitari della mia corte si coprirono il viso per lo scandalo. Ma a me sembra che i nostri corpi non si siano toccati. Non perché la mia carica mi poneva al di là di ogni contatto estraneo, ma perché appartenevamo a due mondi che non si erano mai incontrati, né potevano incontrarsi[30].
E poi:
Montezuma: Vedi come ti contraddici uomo bianco? Ucciderli … io volevo fare qualcosa di più importante ancora: pensarli. Se riuscivo a pensare gli spagnoli, a farli entrare nell’ordine dei miei pensieri, a essere sicuro della loro vera essenza, dei o demoni maligni non importa, o esseri come noi soggetti a poteri divini o demoniaci. Insomma, a farne da inconcepibili come erano, qualcosa su cui il pensiero potesse fermarsi e far presa. Allora, solo allora avrei potuto farmene degli alleati o dei nemici, riconoscerli come persecutori o come vittime[31].
E dunque ecco che lo sguardo altro relativizza l’intera prospettiva sugli eventi:
Montezuma: La vostra civiltà del moto perpetuo non sapeva ancora dove stava andando come oggi non sa più dove andare e noi, le civiltà della permanenza e dell’equilibrio, potevamo ancora inglobarla nella nostra armonia[32].
Proprio grazie al paradosso dell’impossibilità del dialogo di questa intervista, però, si viene a creare, fuori dallo spazio e dal tempo, quel punto di contatto tra le due voci, le due civiltà, le due epoche: in un gioco di scambio giudiziale delle parti tra vincitori e vinti, passato e presente, storia e attualità, dal sapore alquanto apocalittico. La profezia azteca prevedeva che
Montezuma: Un giorno il dio assente avrebbe fatto ritorno al Messico e si sarebbe vendicato degli altri dei e dei popoli a loro fedeli. Io temevo la minaccia che gravava sul mio impero, lo sconvolgimento da cui avrebbe preso inizio l’era del serpente piumato. Ma nello stesso tempo la attendevo, sentivo in me l’impazienza per il compiersi di quel destino pur sapendo che avrebbe portato con sé la rovina dei templi, la strage degli Aztechi, la mia morte[33].
La morte, la fine, è limite puramente umano; il destino porta sempre e solo nuovi inizi[34]:
Io: Ah volete dire che la fine del mondo è sempre lì sospesa? Che tra tutti gli avvenimenti straordinari di cui la vostra vita è stata testimone, il più straordinario era che tutto continuasse, non che tutto stesse crollando.
Montezuma: Voi vi appropriate delle cose, l’ordine che regge il vostro mondo è quello dell’appropriazione […] Per noi invece l’ordine del mondo consisteva nel donare. Donare perché i doni degli dei continuino a colmarci, perché il sole continui a levarsi ogni mattino abbeverandosi del sangue che sgorga[35].
Anche nell’Apocalisse giovannea compaiono riferimenti agli elementi naturali, al sole, alla luna insanguinata, per sottolineare la straordinarietà dei tempi della fine rispetto alla regolarità della norma, lo sconvolgimento radicale di ogni ordine e certezza, in cui convivono esplosione e implosione:
il sole diventò nero come un sacco di crine e la luna diventò tutta come sangue; le stelle del cielo caddero sulla terra come quando un fico scosso da un forte vento lascia cadere i suoi fichi immaturi. Il cielo si ritirò come una pergamena che si arrotola, e ogni montagna e ogni isola furono rimosse dal loro luogo[36].
Come scritto da Calvino:
Lei crede che ogni storia debba avere un principio e una fine? Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l’eroe e l’eroina si sposavano oppure morivano. Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce. La continuità della vita, l’inevitabilità della morte[37].
E, invece, con il personaggio di Montezuma Calvino crea una temporalità paradossale che apre al senso anti-binario del dubbio:
Calvino: La storia ha un senso che non si può cambiare!
Montezuma: Un senso che gli vuoi imporre tu, uomo bianco! Altrimenti il mondo si sfascia sotto i tuoi piedi. Anch’io avevo un mondo che mi reggeva, un mondo che non era il tuo. Anch’io volevo che il senso di tutto non si perdesse.
Calvino: So perché ci tenevi. Perché se il senso del tuo mondo si perdeva, allora anche le montagne di teschi accatastate negli ossari dei templi non avrebbero avuto più senso e la pietra degli altari sarebbe diventata un banco da macellaio imbrattato di sangue umano innocente!
Montezuma: Così oggi guardi le tue carneficine, uomo bianco?[38]
L’interrogazione chiude invitando a un ripensamento del significato complessivo della storia dell’umanità nonché della relatività delle interpretazioni che se ne possono dare, come anche dell’immoralità che spesso l’ha caratterizzata. E così la scrittura svela pienamente il suo valore apocalittico di denuncia e giudizio, continuando a resistere cercando «caso per caso [di] chieder[si] e decidere cos’è bene e cos’è male»[39], a «riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»[40].
- I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 2002, p. 113. ↑
- I. Calvino L’universo come specchio, in Id., Palomar, in Id., Romanzi e racconti, II, Milano, Mondadori, 1992, p. 974. ↑
- «Entro questa forbice di possibilità tra infinito e infinitesimo, si colloca il campo di forza della sua ricerca letteraria»: D. Calcaterra, Lezioni americane, in Calvino A/Z, a cura di M. Belpoliti, Milano, Electa, 2023, p. 93, ma anche lo studio di M. Bucciantini, Pensare l’universo. Italo Calvino e la scienza, Roma, Donzelli, 2023. ↑
- N. Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Roma, Carocci, 2021. Si veda in merito anche la voce Natura in Calvino A/Z, op. cit., pp. 297-322. ↑
- S. Jossa, recensione di Calvino A/Z: cfr. l’URL: https://www.doppiozero.com/tutto-calvino-in-146-voci. ↑
- I. Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio [1988], in Id., Saggi 1945-1985, I, Milano, Mondadori, 1995, p. 714. ↑
- N. Scaffai, Italo Calvino, testi, luoghi e persone oltre i tenaci stereotipi, in «Alias», «il Manifesto», 4.06.2023; cfr. l’URL: https://ilmanifesto.it/italo-calvino-testi-luoghi-e-persone-oltre-i-tenaci-stereotipi. ↑
- S. Jossa, recensione cit. ↑
- I. Calvino, Se una notte di inverno un viaggiatore [1979], in Id., Romanzi e racconti, vol. II, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, p. 619. Con le parole di Scaffai (N. Scaffai, Italo Calvino, testi, luoghi e persone oltre i tenaci stereotipi, cit.) è importante, rileggendo Calvino, restituire «rilievo alla continuità e stabilità di temi, immagini, questioni conoscitive che fanno di Calvino un autore molto fedele ai propri motivi. Non il succedersi delle mode, infatti, ma le variazioni sui medesimi temi scandiscono i quattro decenni della sua attività». ↑
- I. Calvino, Se una notte di inverno un viaggiatore [1979], in Id., Romanzi e racconti, II vol. cit., p. 870. In merito resta interessante la lettera a Lucio Lombardo Radice, in cui Calvino scrive: «La tua osservazione che gli “inizi” sono, invece, delle narrazioni compiute mi pare giusta. […] io sono stato sempre più uno scrittore di racconti che un romanziere, e mi viene naturale chiudere – formalmente e concettualmente ‒ anche una storia che resti aperta»: I. Calvino a L. Lombardo Radice, Parigi, 13 novembre 1979, in Id., Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2023, pp. 922-23. ↑
- I. Calvino, Appendice a Id., Lezioni americane, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, vol. I, Milano, Mondadori, 1995, p. 735. ↑
- Il riferimento è chiaramente alla teoria di V. B. Šklovskij, L’arte come procedimento, in Id., Teoria della prosa, Torino, Einaudi, 1976, in cui si definisce lo straniamento come «sottrazione dell’oggetto all’automatismo della percezione», ivi, p. 83, già anticipata nell’antologia a cura di T. Todorov, I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Torino, Einaudi, 1968. ↑
- C. Milanini, L’utopia discontinua, saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990; una sintesi aggiornata sul tema si può ritrovare in M. Maiolani, Utopia, in Calvino A/Z, op. cit., pp. 192-94. ↑
- I. Calvino, Introduzione, in C. Fourier, Teoria dei Quattro movimenti. Il nuovo mondo amoroso [1971], poi in Id., Una pietra sopra, ora in Id., Saggi 1945-1985, vol. I cit., pp. 279-306. ↑
- Non certo nel senso di catastrofismo cosmico in cui Calvino stesso intende l’aggettivo “apocalittico” quando lo utilizza al riguardo dell’opera Paura della libertà di Carlo Levi, in I. Calvino, La compresenza dei tempi, ora in Id., Saggi 1945-1985, vol. I cit., pp. 1122: «Levi lo scrisse in un’epoca tragica della storia d’Europa, nel 1939 e ’40 […] Mai come allora, su questo nero scenario di apocalissi, l’ottimismo proverbiale di Carlo Levi ha tanto mordente e tanto significato». In questo senso si potrebbe piuttosto inventare per Calvino la definizione di anti-apocalittico. Il discorso sviluppato da Calvino sull’opera di Carlo Levi risulta molto interessante rispetto al tema qui trattato, suggerendo alcune delle categorie interpretative qui applicate alla scrittura di Calvino stesso. ↑
- C. Ossola, I cento anni di Italo Calvino, autore cosmico perché apocalittico; cfr. l’URL: https://www.avvenire.it/agora/pagine/i-cento-anni-di-italo-calvino-autore-cosmico-carlo-ossola. ↑
- C. D’Agata, Quando il mondo brucia. Le apocalissi senza fine di Morselli, Volponi, Calvino, Eco, in Letteratura e Potere/Poteri. Atti del XXIV Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti), a cura di A. Manganaro, G. Traina, C. Tramontana, Roma, Adi editore, 2023, pp. 2-11: 2. D’Agata a sua volta in parte cita R. Nisticò, Apocalisse, in Dizionario dei temi letterari, a cura di R. Ceserani, M. Domenichelli, P. Fasano, Torino, Utet, 2007, p. 125. ↑
- I. Calvino, Appendice a Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio [1988], op. cit., p. 735. ↑
- I. Calvino, Lezioni americane, op. cit., p. 670. ↑
- I. Calvino, La conchiglia e il tempo, in Id., Romanzi e racconti, vol. II cit., pp. 1243-46. ↑
- M. Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di poetica storica, in Id., Estetica e romanzo. Un contributo fondamentale alla scienza della letteratura, Torino, Einaudi, 1979, pp. 231-405. ↑
- Ivi, p. 405. ↑
- Il riferimento è chiaramente a E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 1977. Sugli apporti dell’antropologia demartiniana alla teoria letteraria cfr. R. Nisticò, Apocalisse e presenza. L’apporto di Ernesto De Martino alla teoria antropologica della letteratura, in «Filologia antica e moderna», 2001, XI, N. 20, a cura di C. Reale, pp. 155-88, in cui si ragiona sull’apocalisse culturale e la “reintegrazione letteraria” della crisi della presenza. Dell’attenzione a questo tema si occupa la voce Antropologia nel citato Calvino A/Z, pp. 289-96. ↑
- I. Calvino, Osservatorio del signor Palomar. I buchi neri, in «Corriere della sera», 7 settembre 1975. ↑
- I. Calvino, Montezuma, in Id., Prima che tu dica «Pronto», Milano, Mondadori, 1993, pp. 213-26, poi in Id., Romanzi e racconti, vol. III, Milano, Mondadori, 1994, pp. 186-97 (da qui le citazioni testuali). Calvino intendeva pubblicare un volume, mai realizzato, di Dialoghi storici, in cui, accanto al testo sull’Uomo di Neanderthal e su Montezuma, sarebbe comparso il pezzo su Henry Ford; vedi C. Milanini, Note e notizie sui testi. Capitoli per «Dialoghi storici», in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. III cit., pp. 1220-22. ↑
- Lemmi della fine sono ad esempio: svanito, ultimo, crollare, morte, la fine di un mondo, tramonto, marcisce, ritorno, sconvolgimento, compiersi, rovina, strage, massacrava, limitazioni, distrutta. Accanto a questi lemmi nel dialogo compaiono parole di memoria apocalittica, profetiche della fine: «M.: lo sconvolgimento da cui avrebbe preso inizio l’era del serpente piumato. Ma nello stesso tempo la attendevo, sentivo in me l’impazienza per il compiersi di quel destino […] Nelle figure, nei libri sacri, nei bassorilievi, nei templi, nei mosaici di piume, ogni linea, ogni fregio, ogni striscia colorata può avere un senso. […] Io: bene universale porta il marchio di una limitazione. Rispondi a chi si sente, come te vittima, e come te responsabile. M.: Anche tu parli come stessi leggendo un libro già scritto. Per noi allora di scritto non c’era che il libro dei nostri dei, le profezie che si potevano leggere in cento modi, tutto era da decifrare»: I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. III cit., pp. 186-93 (corsivi miei). ↑
- I. Calvino, Montezuma, op. cit., pp. 187-88. ↑
- «Quello che vedi, scrivilo in un libro», Apocalisse 1:11, in La Sacra Bibbia, Versione nuova riveduta, Roma, Società Biblica Britannica e forestiera, 1995, p. 1176. Calvino in più occasioni ribadisce quanto sia fondante in lui questo aspetto per la creazione narrativa: «In primo luogo c’è l’immagine; il significato viene dopo […] parto da un’immagine e la sviluppo fino alle estreme conseguenze»: I. Calvino, La distanza e la tensione [1960] e Mai soddisfatto delle definizioni [1966], in Id., Sono nato in America… Interviste 1951-1985, Milano, Mondadori, 2012, pp. 50 e 122. Uno dei concetti delle Lezioni americane, cit., è proprio la Visibilità. Per la critica in merito M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996. ↑
- I. Calvino, Montezuma cit., pp. 189 e 186. ↑
- Ivi, p. 191. ↑
- Ivi, p. 195. ↑
- Ivi, p. 196. ↑
- Ivi, p. 187. ↑
- Di «crepuscoli degli dèi registrati o previsti in varie mitologie […] saghe e poemi celebrano la fine dei tempi e l’inizio d’ere nuove, quando “i figli degli dèi uccisi troveranno nell’erba i pezzi tutti d’oro del gioco di scacchi che fu interrotto dalla catastrofe», Calvino parla il suo ultimo intervento su «La Repubblica» del 10 luglio 1985, Il cielo sono io, recensione del libro di G. De Santillana, Fato antico e fato moderno, Milano, Adelphi, 1985, poi in I. Calvino, Saggi. 1945-1985 cit., pp. 2085-91, ora in Id., Mondo scritto e mondo non scritto, op. cit., pp. 332-39. ↑
- Ivi, p. 193. ↑
- Apocalisse di Giovanni, capitolo 6: 12-14, in La Sacra Bibbia cit., p. 1180. ↑
- I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore [1979], in Id., Romanzi e racconti, vol. II cit., p. 869. ↑
- I. Calvino, Montezuma cit., p. 197. ↑
- I. Calvino a L. Lombardo Radice, Parigi, 13 novembre 1979, in Id., Lettere 1940-1985, op. cit., pp. 922-23. ↑
- I. Calvino, Le città invisibili, in Id., Romanzi e racconti, vol. II cit., p. 498. ↑
(fasc. 53, 25 agosto 2024)