Calvino e l’industria della letteratura: per una lettura di alcune pagine del «Menabò»

Author di Anna Sara Bucci

Non mi pare che ci siamo ancora resi conto della svolta che si è operata, negli ultimi sette o otto anni, nella letteratura, nell’arte, nelle attività conoscitive più varie e nel nostro stesso atteggiamento verso il mondo […] Diciamo subito che un mutamento di questo genere non entrava nei nostri piani, nelle nostre profezie, nelle nostre aspirazioni; ma ormai non si tratta più di accettarlo o rifiutarlo, già ci siamo dentro; la geografia del nostro continente culturale è profondamente cambiata sotto quest’alluvione imprevista e che pure ha preso forma lentamente e ben visibilmente sotto i nostri occhi[1].

Con una riflessione sui mutamenti dell’attività artistica e conoscitiva contenuta nel saggio Il mare dell’oggettività (1960), Italo Calvino inaugura il secondo numero del «Menabò di letteratura», periodico figlio dell’esperienza dei «Gettoni»[2] che tenta la strada della ricerca letteraria nel pieno della temperie economica e culturale di metà secolo.

Sono questi gli anni del miracolo economico che vede anche per l’Italia una crescita esponenziale della produzione industriale, accompagnata da un notevole rinnovamento tecnologico e da nuove modalità di organizzazione del lavoro: l’Italia della nuova produzione cresce grazie all’industria automobilistica e alle aziende chimiche, ai nuovi macchinari, ai processi di meccanizzazione avanzata, alle lavorazioni in serie e al grande esodo operaio dalle campagne del meridione verso il triangolo industriale. Eppure, le parole utilizzate da Calvino non lasciano dubbi sulla percezione di una situazione di crisi: se è vero che, da una parte, l’Italia va rapidamente sviluppandosi, la crescita economico-industriale fatica a tradursi nei termini di uno sviluppo civile, sociale e culturale. L’alluvione imprevista alla quale Calvino fa riferimento costituisce l’oggetto di indagine dell’intellettuale che si occupa di tradurre in scrittura questo momento della storia, oggetto stesso della ricerca delle pagine del «Menabò». Ma la questione fondamentale che Vittorini e Calvino intendono porre al centro del dibattito letterario è piuttosto un’altra: quella della postura verso i mutamenti che riguardano le cose contemporanee, ovvero del “come” e con quale sguardo lo scrittore stia imprimendo su carta i mutamenti che riguardano il suo tempo[3]. Scrive Elio Vittorini in sede di riflessione su “Letteratura e industria” nel quarto numero del «Menabò» (1961):

i narrativi, lungi dal trattare un qualche vantaggio di novità di sguardo (e di giudizio) dalla nuova materia che trattano, sembrano invece trovarsene talmente impacciati che si comportano dinanzi ad essa come se fosse un semplice settore nuovo d’una più vasta realtà già risaputa e non un nuovo grado, un nuovo livello dell’insieme della realtà umana: riducendosi con ciò a darne degli squarci pateticamente (o pittorescamente) descrittivi che risultano di sostanza naturalistica […] e non coglie che la «fetta di vita» offerta dal funzionamento in sé arido e neutro della macchina stessa[4].

Il dato che accomuna la prestazione letteraria degli scrittori impegnati a decifrare l’apparato segnico del mondo industriale (secondo la visione condivisa da Vittorini e Calvino) pare sussistere in un’arretratezza di visione che deriva dal mezzo interpretativo dell’intellettuale che osserva: una realtà nuova, che necessiterebbe di nuove lenti per essere osservata e penetrata, è, invece, viziata da un vecchio modo di scrivere di fabbriche e operai in un tempo in cui fabbriche e operai non avevano ancora determinato variazioni di ritmi e di visuali in senso lato. Questo tipo di rappresentazione letteraria, scrive ancora Vittorini, «dietro a Zola in Europa e Frank Norris in America, riduceva lo specifico delle cose ad elementi di soggetto, d’intreccio […] insomma di iconografia»[5]: quello che potrebbe definirsi una maniera “naturalistica” e “iconografica” della rappresentazione della realtà in un mondo non ancora pienamente posseduto, se pensiamo ai romanzi e ai racconti di ambientazione operaia pubblicati alla fine degli anni Cinquanta come Tempi stretti o Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri.

Nelle pagine seguenti a quelle di Vittorini, anche Gianni Scalia afferma la necessità di uno sforzo di superamento di quelle che egli stesso definisce «fase iconografica» e «fase ideologica» in ambito descrittivo della nuova antropologia industriale, da lui concepita come «il nuovo paesaggio umano […] l’ETHOS sociale»[6].

Le preoccupazioni sociologiche che riguardano l’approccio epistemico alla materia letteraria divengono particolarmente motivate se si pensa che nel corso degli anni Sessanta, a rivista già avviata, entrano definitivamente in crisi i moduli di rappresentazione neorealistici per far spazio a preoccupazioni stilistiche, relative alla forma e al linguaggio della struttura narrativa; per questo motivo, alle ragioni di quelle che all’interno del discorso critico della rivista diventeranno questioni linguistiche oltre che sociologiche, rispondono a pieno due scelte editoriali condotte dai direttori Vittorini e Calvino: la pubblicazione, nel primo numero, di Il calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi (1959) e, nel quarto numero, di Taccuino Industriale dello stesso Ottiero Ottieri (1961).

Con la trilogia vigentina (Il calzolaio di Vigevano, Il maestro di Vigevano, Il meridionale di Vigevano), Mastronardi tratteggia il piccolo mondo delle industrie ticinesi che tra gli anni Cinquanta e Sessanta fioriscono grazie al commercio e all’artigianato delle calzature. Il protagonista, Mario Sala, è asservito alla logica del guadagno dei «danè fanno danè»[7], logica che agisce anche a discapito dei legami familiari, sentimentali e sociali: egli manda, infatti, il padre in ospizio («il vecchio gli sbusia le saccocce, l’anima mi mangia»[8]) e sposa Luisa, la donna che lo accompagnerà nei suoi sogni di ricchezza e che, difatti, contribuirà a causare la sua rovina. Particolarmente interessanti per la prospettiva di ricerca del «Menabò» i tappeti linguistici di stampo dialettale attraverso cui Mastronardi lascia che i personaggi si esprimano: la sintassi, gli stessi inserti dialettali e le modalità del parlato non corrispondono più a un’esigenza di presa diretta sulla realtà in senso denotativo, ma divengono mezzi di sperimentazione linguistica in funzione connotativa di realtà, che in Mastronardi prende forma attraverso l’interpretazione ironico-grottesca alla quale essa è sottoposta:

‒ Papà, c’è Micca che vuole i conquibus!

‒ Digli di tornare ’sta bassora che ci dò cinque ore di straordinari. Ecco le belle novità, ci calava il sabato festa, tanto per pagargli giornata doppia. Non farmelo venire fra i piedi che adesso devo andare nella fabbrica nuova!

Prima di avviarsi, si raccomandava all’Alfonso di cudire gli operai e la roba, al Luigi di guardare le orlore e trovare un minuto da mettere a posto la contabilità e le lettere commerciali.

Tornò prima del corno del botto.

‒ Ehi voi Invernizzi, Micca, Netto, fermatevi che oggi ho bisogno di voi tre!

‒ Straordinari? Me li vo’ fare in ca’ mia, il sabato è l’unica bassora che ho per guardare la giunteria della mia donna. Podi propi no! – disse Invernizzi.

‒ Manco pagarvi le ore doppie, c’è da pregarvi adesso, ratatoia di gente![9]

Come Calvino stesso specificherà, questo «fitto repertorio di voci»[10] a costruzione del piccolo mondo mastronardiano non è «registrato dal di fuori, ma (ed è questo che conta) trasfigurato da un umore caricaturale implacabile […] del tessuto di voci e battute “dal vivo”, un collage di modi di dire […] con la rapidità scoppiettante e agra d’un battibecco clownesco»[11]. È importante notare come l’eccezionalità dello scritto di Mastronardi, testo fortemente voluto per la pubblicazione in rivista, goda non solo (secondo la visione di Calvino) della mancanza di un Balzac o di un Dostoevskij italici, ovvero di scrittori che avrebbero saputo dipingere a tinte nitide la morfologia della nostra società «in un’etologia distinguibile da ogni altra»[12] in quel preciso momento storico, ma anche del fatto di essere arrivato sulla scena letteraria in un momento favorevole all’accoglienza della prosa dialettale per merito dell’«operazione critico-filologica di Contini e dell’operazione critico-creativa di Pasolini»[13], trovando come mentore uno scrittore-lettore del calibro di Vittorini.

Nello stesso tempo, sul fronte della riflessione sociologica, sul «Menabò» viene pubblicato un testo di Ottiero Ottieri, narratore esperto della vita di fabbrica per esperienza di militanza diretta all’interno degli ingranaggi della Olivetti: dettaglio non irrilevante, se si pensa alla riflessione di Calvino in un contributo su Pane duro di Silvio Micheli, a proposito di certe mancanze “sociali”, per così dire, da parte degli scrittori che si occupano di descrivere la fabbrica dall’interno. Secondo Calvino, infatti, in Italia viene a mancare:

quell’osmosi di uomini tra vita e letteratura, per cui nelle biografie dei narratori americani c’è tutta una poliedricità delle loro esperienze e dei loro incontri: scaricatori di porto, giornalai, commessi viaggiatori diventati scrittori, non solo uomini da tavolino, chiusi a ogni via di esperienza nel tran-tran di una redazione, non esperienza cartacea soltanto, quindi di seconda mano, non letteratura monopolio d’una media borghesia, col peso di tutte le sue impotenze e di tutti i suoi isterismi[14].

La condizione “disoccupata” degli scrittori italiani borghesi, intenti alla riflessione e alla scrittura al buio dei loro studioli o al chiuso degli uffici di redazione (e, per questo motivo, produttori di una «letteratura senza impiegati […] senza operai […] senza mestieri tranne i pescatori e gli impresari del Verga»[15]) dà come risultato un prodotto letterario dal sapore stucchevolmente intellettuale per una tematica che, di per sé, dovrebbe edulcorare impostazioni eccessivamente intellettualistiche.

In Taccuino industriale Ottieri annoterà con precisa freddezza alcune considerazioni intorno alle esperienze di lavoro nelle fabbriche della Lombardia[16]; per il discorso avviato dalla rivista risultano particolarmente interessanti alcune scelte operate dallo scrittore in merito alla riflessione sulla figura dell’interprete della fabbrica, nonché un potenziale scrittore di industria:

Il mondo della fabbrica […] Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno che non nascano degli operai o impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori come possono penetrare in una industria? L’operaio, l’impiegato, il dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno; o, per caso, entrano, e allora non dicono più […].

Sarò forse costretto a concludere che l’unica via d’approccio alla classe lavoratrice è quella del partito. Il partito consiste appunto nella «fusione» degli operai, dei contadini, degli intellettuali e dei dirigenti politici nel loro punto d’incontro. Non ce n’è un altro più completo[17].

Ottieri fa riferimento al partito non propriamente (o comunque non solo) come organo politicamente orientato quanto piuttosto come luogo di aggregazione e di contatto tra le figure dei tecnici operai e le figure degli intellettuali: qui avvengono le intersezioni che creano la riflessione sui fenomeni attraverso la partecipazione e la presa di coscienza della realtà oggettiva, condizione fondamentale dell’ispezione letteraria. Difatti, gli elementi della trama del Taccuino rispondono al postulato dello scrittore in quanto le disquisizioni dei fatti della vita quotidiana degli operai milanesi rispondono allo stesso bisogno di disquisizione dei giovani dirigenti che, nella seconda parte della trama, trovano una loro giusta sede rappresentativa nelle riunioni di cellula socialista dell’industria Zanini.

Al di là dell’aspetto sociale della vita del lavoratore, Ottieri suggerisce che la vocazione alla scrittura industriale non può provenire dal semplice operaio, poiché egli non possiede i mezzi intellettuali e culturali per avviare una ricerca in tal senso, ma essa deve essere avviata da chi si trova «nella tensione fra l’osservare e il vivere e tirare la rete logica o artistica»[18]: la verità letteraria industriale risiede nelle catene di effetti che il mondo della fabbrica mette in moto in tutti i suoi livelli su un piano durevole, non solo contingente.

Alla luce di questo principio, nel saggio Dalla natura all’industria Gianni Scalìa fa rifermento a una letteratura «in tutta la sua dimensione antropologica: economica, sociale, politica, psicologica, etica e filosofica»[19], posto che lo scrittore stia comunque sempre dalla parte dell’uomo che osserva e che vive, cioè nel riconoscimento del fattore umano visto “dal di dentro” del meccanismo industriale.

Proseguendo sulla scia di queste riflessioni, nel quinto numero del «Menabò» Calvino riflette sulla lingua da utilizzare per la rappresentazione della condizione industriale:

Si ha l’impressione che lo scrittore entra meglio nel merito quanto più inclina verso il discorso saggistico, in prima persona dell’intellettuale che commenta, e si stacca da una rappresentazione mimetico-oggettiva […]. Appena la voce «saggistica» dello scrittore-commentatore si interrompe, comincia il problema della scelta degli strumenti linguistici. Gli esempi di tre libri italiani di argomento industriale che ho letto da poco ci servono a esemplificare la questione: Una nuvola d’ira di Giovanni Arpino, Memoriale di Paolo Volponi e La vita agra di Luciano Bianciardi[20].

Il tema si pone nello spettro delle riflessioni che riguardano le scelte di maniera narrativa, non soltanto come scelta artistica (relativa a questioni estetiche del narrare, dunque), ma più esattamente come questione ideologica. Una volta esaurito l’approccio saggistico tipico dello scrittore italiano che si occupa di industria, l’autore è chiamato a compiere una scelta relativa alla lingua-linguaggio attraverso cui lasciare che i personaggi si esprimano da operai di industria quali sono. A questo punto, Calvino prende a modello tre autori le cui scelte linguistiche rispecchiano tre tipi di approcci differenti: Giovanni Arpino, Paolo Volponi e Luciano Bianciardi.

Giovanni Arpino fa parlare e pensare i propri operai alla maniera dei narratori del dopoguerra come Vittorini o Pavese, ovvero in termini popolar-colloquiali e poetico-allusivi. Ciò li rende portatori di una coscienza etica, politica e culturale, ma con il difetto, scrive Calvino, «di saltare a piè pari il fosso che separa linguaggio ideologico, linguaggio quotidiano, linguaggio letterario»[21], come se i personaggi fossero contenitori di una particolare ideologia il cui linguaggio non arriva mai a una sintesi omogenea con il registro quotidiano e quello letterario:

Questa sintesi non è avvenuta; e ora Arpino inciampa nello stesso fosso. Il supporre già raggiunta un’armonia culturale e morale che è ancora ben lontana è appunto il vero tema della storia che Arpino racconta nella Nuvola d’ira, uno dei temi più seri che un romanzo possa affrontare oggi; solo che oggi vediamo chiaramente che non si può più affrontarlo con l’impostazione di linguaggio che corrisponde ancora a quella semplificazione del problema. Viviamo in un ambito culturale dove molti linguaggi e piani di coscienza si intersecano[22].

Bianciardi, invece, parte dall’esibizione scherzosa di una molteplicità di elementi lessicali e, soprattutto attraverso «l’accumulazione d’una terminologia tecnica – chimica e mineraria»[23], soddisfa la condizione di complessità di ambito culturale contemporaneo, riuscendo a rappresentare un quadro più composito della realtà industriale. D’altronde, quando Calvino stesso dice che viviamo in un ambito culturale dove molti linguaggi e piani di coscienza si intersecano, rende particolarmente evidente l’inevitabilità di certi “pasticciacci” di registri e modalità compositive che avrebbero rappresentato lo specifico di una maniera di fare romanzo e di fare poesia tipici dei tempi a venire.

L’impostazione linguistica di Volponi, invece, ottiene il risultato poetico più alto: la sua è una scrittura “rozza”, derivante dalla mimesi del memoriale di un contadino-operaio trasfigurata in prosa d’invenzione tessuta di immagini. Essa tende all’assimilazione del mondo meccanico all’interno del mondo naturale, una prospettiva sempre viziata dalla dicotomia uomo/natura (ovvero quella lente ormai obsoleta, motivo di miopia nello sguardo al nuovo fenomeno), ma che comunque rimane «la più adatta a esprimere la contraddittoria e provvisoria realtà attuale: tra tecniche produttive avanzate e situazione social-antropologica arretrata»[24].

Se è vero che i tre modelli di narrazione fungono da esempi di stato dell’arte della maniera di rappresentare l’industria, tuttavia non bastano a delineare una visione più ampia del metodo di rappresentazione del mondo, poiché il problema letterario in questione si pone sul piano dell’esperienza storica globale e non solamente in quella contingente.

L’intero discorso sul linguaggio permette a Calvino di introdurre sul «Menabò» delle questioni che riguardano anche il fronte eversivo dell’impegno letterario, ovvero l’esperienza della Neoavanguardia[25]. All’inizio degli anni Sessanta Sperimentalismo e Neoavanguardia tentano una contestazione linguistica del sistema che intende opporsi alla mercificazione della cultura e dell’arte operata dall’industria. Scrive, infatti, Alfredo Giuliani nell’introduzione a I novissimi, raccolta che inaugura l’azione dei nuovi sperimentatori:

Poiché tutta la lingua tende oggi a divenire una merce, non si può prendere per dati né una parola né una forma grammaticale né un solo sintagma. La passione di «parlare in versi» urta, da un lato, contro l’odierno avvolgente consumo e sfruttamento commerciale cui la lingua è sottoposta; dall’altro, contro il suo codice letterario, che conserva l’inerzia delle cose e istituisce l’abuso di consuetudine […] Pertanto, prima di guardare all’astratta ideologia […] noi guardiamo alla semantica concreta della poesia[26].

Anche se l’esperienza della Neoavanguardia si concluderà nel giro di pochi anni sotto il peso degli eventi che metteranno a nudo la fragilità ideologica di certi assunti incarnati dal Gruppo 63, è certo che essa abbia contribuito alla rappresentazione linguistica e alla codificazione segnica della cultura in tempi di mercificazione del prodotto letterario. Non solo, anche Vittorini nel saggio Parlato e metafora aveva scritto che siamo «piuttosto i posseduti che i possessori di un linguaggio»[27], se si pensa alla forte influenza dei linguaggi mass-mediali non soltanto nell’ambito dell’opera letteraria ma anche nel linguaggio comune, e che tale invasione avrebbe avuto luogo a tutti i livelli delle classi sociali.

La volontà di seguire questa linea di ricerca si concretizza nella scelta editoriale di pubblicare un testo come La Ragazza Carla di Elio Pagliarani, poiché il lavoro del poeta in questione si manifesta anzitutto sul piano della sperimentazione formale (in linea con le considerazioni di Calvino e Vittorini fin qui osservate), ma anche come ripensamento del genere letterario: il poemetto, che assume l’andamento di un racconto in versi e che vira quindi verso la prosa più che verso la lirica, tenta di «trasferire nel discorso poetico le contraddizioni presenti nel linguaggio di classe»[28], servendosi di soluzioni neoavanguardistiche come l’utilizzo di inserti cronachistici, brani di manuali tecnici, articoli di giornale attraverso la tecnica del collage.

Nella narrazione pagliaraniana intervengono diverse voci: la voce del narratore che si esprime in un registro semplice e dimesso, quella dei vari personaggi e quella dell’autore, la quale svolge una specie di contrappunto ironico alla vicenda o esplicita la morale del racconto, avvalendosi di un registro alto, in quanto domina la vicenda da una prospettiva più elevata rispetto al narratore[29].

Dalla prospettiva di Calvino, affrontare questo grande calderone di materiali e di differenti piani di narrazione sortisce l’effetto di un’immersione in una massa magmatica e poliforme che altro non è che questo “mare di oggettività” da cui siamo sommersi, con l’inevitabile conseguenza di un annegamento dell’io; «il vulcano da cui dilaga la colata di lava [scrive Calvino] non è più l’animo del poeta o dello scrittore, è il ribollente cratere dell’alterità»[30] nel quale egli si getta e da cui viene sommerso.

Sul quinto numero del «Menabò», riflettendo su alcuni assunti calviniani, Umberto Eco scriverà che «Per un aspetto la sua denuncia colpiva nel giusto e indicava il termine negativo di una situazione […] Ora, questo mondo che noi abbiamo creato contiene in sé, oltre il rischio di ridurre noi a strumento di se stesso, gli elementi in base ai quali stabilire i parametri di una nuova misura umana»[31].

Facendo poi riferimento al famoso esaurimento nervoso[32] messo su carta da Sanguineti all’atto della stesura di Laborintus, e facendo notare che la crisi evidentissima nelle forme di quella scrittura era sicuramente specchio di una relativa crisi storica e culturale (quindi anche letteraria), Eco risponde alle pretese calviniane di dominio della materia:

Per dominare questa materia è stato necessario che l’artista la capisse: se l’ha capita non può esserne rimasto prigioniero. In ogni caso, comunque, l’operazione dell’arte che tenta di conferire una forma a ciò che può apparire disordine, informe, dissociazione, mancanza di ogni rapporto, è ancora l’esercizio di una ragione che tenta di condurre a chiarezza discorsiva le cose; e quando il suo discorso pare oscuro, è perché le cose stesse, e il nostro rapporto con esse, è ancora molto oscuro. Così che sarebbe molto azzardato pretendere di definirle dal podio contaminato dell’oratoria[33].

Il saggio di Eco racchiude non troppo sottilmente le ragioni per le quali risulta contraddittorio il desiderio di dominare una materia informe per racchiuderla in categorie di logica estrinseca alla temperie in cui essa nasce; il caos è il modo più pertinente per raffigurare, sul piano delle forme, l’universo caotico che è venuto a crearsi in tempi odierni. L’ottavo numero del «Menabò» (1965) ospiterà, infatti, le forme della nuova letteratura sperimentale con le firme di Sanguineti, Volponi, Manganelli, Porta, Amelia Rosselli e, tra gli altri, una seconda pubblicazione di Pagliarani con Il dittico della merce.

Perché Pagliarani sceglie questo titolo per il componimento? Ci si trova dinanzi a dei versi inseriti in un’immagine della società radicata nei processi di reificazione propri dello sviluppo capitalistico; la coscienza di questa situazione all’interno del gruppo sperimentale al quale Pagliarani prende parte è una coscienza che si manifesta come rappresentazione del disordine, del caos e come iterazione meccanica di termini, forme e sintagmi, ma anche come mercificazione di una materia in passato non mercificata: un vero e proprio capitale letterario, volendo definirlo in termini marxisti. Questo stesso assunto stimolerà la riflessione di Fortini che, proprio a tal proposito nel suo saggio Astuti come colombe sul quinto numero del «Menabò», scriverà: «L’industria non è un tema, è la manifestazione del tema che si chiama capitalismo»[34].

Dunque, la “merce” letteraria scelta da Pagliarani per comporre il dittico è un collage di tre tipologie di materiali: una pagina di Ferruccio Rossi-Landi[35] sul linguaggio alienato, il compito di uno scolaro francese e la disavventura di un plurilaureato raccontata in forma di aneddoto. Se si analizza il modo in cui i versi sono disposti all’interno della pagina, a parte la classica impaginazione orizzontale che diventerà uno specifico delle pubblicazioni dei suoi lavori, si troveranno interi periodi che, a dispetto del fatto di essere intersecati tra di loro come linee di un quadro cubista[36], rispondono alla regola del suono, come spesso accade nella poetica dell’autore; una seconda istanza che motiva il collage proteiforme di temi e inserti staccati dal loro contesto originario è l’effetto volutamente straniante che esso provoca nel lettore, specchio di quel labirinto culturale e materiale in cui autore, personaggi e lettori sono immersi.

Con il decimo numero uscito nel 1967, i lavori della rivista terminano con la pubblicazione di testimonianze commemorative e testi inediti interamente dedicati alla figura di Vittorini, scomparso l’anno precedente, senza il quale il progetto di ricerca della rivista volgerà al termine. Al crocevia tra modernità e tecnologia, tra vecchie e nuove lenti attraverso cui interpretare i fenomeni del nuovo reale, il «Menabò» ha tenuta aperta la strada della riflessione. Rinnovando l’incontro tra vecchie, nuove generazioni e gruppi concorrenti per l’interpretazione di spazi letterari via via più labirintici in una società in cui a stabilire le regole del dibattito è stata l’industria culturale prima e i mezzi di comunicazione di massa poi, alla letteratura è stato chiesto di fornirne le chiavi per interpretare quegli stessi labirinti. Tuttavia, come infine scrive Calvino, «quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro»[37].

  1. I. Calvino, Il mare dell’oggettività, in «Il Menabò di letteratura», 2, 1960, p. 9.
  2. Si veda S. Cavalli, Periferie geografiche e culturali: Elio Vittorini tra “I Gettoni” e «Il Menabò», in Geografie della modernità letteraria. Atti del XVII Convegno internazionale della MOD, 10-13 giugno 2015, a cura di S. Sgavicchia e M. Tortora, Pisa, ETS, 2017, pp. 21-28.
  3. Si vedano S. Cavalli, Progetto «menabò» (1959-1967), Venezia, Marsilio, 2017; E. Zinato, «Il Menabò di letteratura»: la ricerca letteraria come riflessione razionale, in «Studi Novecenteschi», 17, 39, giugno 1990, pp. 131-54; N. Lorenzini, Il dibattito critico sulle riviste di pieno Novecento (da “Officina” al “Menabò” al “Verri”), in «Esperienze letterarie», 4, 2012, pp. 105-14.
  4. E. Vittorini, Letteratura e industria, in «Il Menabò di letteratura», 4, 1961, p. 14.
  5. Ibidem.
  6. G. Scalia, Dalla natura all’industria, in «Il Menabò di letteratura», 4, 1961, p. 100.
  7. I. Calvino, Per Mastronardi. Atti del Convegno di studi su Luciano Mastronardi (Vigevano, 6-7 giugno 1981), a cura di M. A. Grignani, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 13-14.
  8. L. Mastronardi, Gente di Vigevano, Milano, Rizzoli, 1977, p. 15.
  9. L. Mastronardi, Il calzolaio di Vigevano, in «Il Menabò di letteratura», 1, 1959, cap. 2.
  10. I. Calvino, Per Mastronardi. Atti del Convegno di studi su Luciano Mastronardi, op. cit., p. 13.
  11. Ibidem.
  12. Ibidem.
  13. Ivi, p. 14.
  14. I. Calvino, Adesso viene Micheli l’uomo di massa, in «l’Unità», 12 maggio 1946, ora in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, to. I, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1170-75.
  15. Ibidem.
  16. Si veda C. Bonsi, Dal “Taccuino industriale” a “La linea gotica di Ottiero Ottieri”: un viaggio testuale, in «Autografo», 49, 2013, pp. 37-57.
  17. O. Ottieri, Taccuino industriale, in «Il Menabò di letteratura», 4, 1961, pp. 21 e sgg.
  18. Ivi, p. 13.
  19. G. Scalia, Dalla natura all’industria, op. cit., p. 103.
  20. I. Calvino, La tematica industriale, in «Il Menabò di letteratura», 5, 1962, p. 19.
  21. Ibidem.
  22. Ibidem.
  23. Ibidem.
  24. Ivi, p. 20.
  25. Si veda G. Bonsaver, Il Menabò, Calvino and the ‘Avanguardie’: Some Observations on the Literary Debate of the Sixties, in «Italian Studies», 50, 1995, pp. 86-96.
  26. A. Giuliani, Introduzione a I novissimi. Poesie per gli anni ’60, Milano, Edizioni del Verri, 1961, pp. XVI-XVII.
  27. E. Vittorini, Parlato e metafora, in «Il Menabò di letteratura», 1, 1959, p. 126.
  28. E. Pagliarani, Tutte le poesie. 1946-2005, a cura di A. Cortellessa, Milano, Garzanti, 2006, p. 459.
  29. E. C. Vitzizzai, Scrittori e industria: dal «Menabò» di Vittorini e Calvino alla ‘letteratura selvaggia’, Torino, Paravia, 1982, pp. 49 e sgg.
  30. I. Calvino, Il mare dell’oggettività, op. cit., p. 11.
  31. U. Eco, Il modo di formare, in «Il Menabò di letteratura», 4, 1962, p. 230.
  32. E. Sanguineti, Poesia informale?, in «Il Verri», n. 3, 1961, ora in Gruppo 63. Critica e Teoria, Milano, Feltrinelli economica, 1976, p. 83: «E quanto alla crisi di linguaggio stabilita e patita, mi aiuta proprio quella battuta di Zanzotto, per cui si giudicava degno di punizione il mio Laborintus, qualora non fosse “sincera trascrizione di un esaurimento nervoso».
  33. Ivi, pp. 231 e sgg.
  34. F. Fortini, Astuti come colombe, in «Il Menabò di letteratura», 5, 1962, p. 231.
  35. Si tratta di un saggio di F. R. Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, in «Nuova Corrente», 36, 1965, pp. 5-43.
  36. Il primo a parlare di Cubismo e, in specie, di Cubismo “analitico” a proposito di Pagliarani è stato G. Sechi, Realtà e tradizione formale nella poesia del dopoguerra, in «Nuova Corrente», XVI, 1959, pp. 91 e sgg.
  37. I. Calvino, La sfida al labirinto, in «Il Menabò di letteratura», 5, 1962, p. 99.

(fasc. 53, 25 agosto 2024)