Soggettività e oggettività nei “Pensieri” di Leopardi

Author di Luca La Pietra

Nella rielaborazione dei passi zibaldoniani operata da Leopardi per la composizione dei Pensieri, si possono individuare come tendenze prevalenti: l’oggettivazione, la riduzione dell’“io” autobiografico a favore di un “tu” indeterminato o di un “noi” generico, la mutazione in enunciazione impersonale di originarie brevi drammatizzazioni e la soppressione di parti narrative1. Il passaggio delle riflessioni dallo Zibaldone ai Pensieri consiste generalmente in «sfrondamento e condensazione delle pagine del diario, verso una perfezione aforistica»2. Tuttavia nei Pensieri un certo margine di soggettività resta ineliminabile.

Partendo da quanto Leopardi stesso ha dichiarato nella lettera del 2 marzo 1837 a Louis De Sinner («Je veux publier un volume inedit de Pensées sur les caractères des hommes et sur leur conduite dans la société»)3, gli intenti della raccolta di aforismi, pubblicata postuma nel 1845, erano quelli di confutare tante diffuse false verità, di tracciare alcune considerazioni universali, ma soprattutto di «dir le cose del tempo co’ nomi loro»4, espressione programmatica, quest’ultima, già presente nell’abbozzo «Per la novella Senofonte e Machiavello» (1822) e che ricorre tre volte nei Pensieri (i, xxiii, c).

Ebbene, anche in questo tipo di scrittura, funzionale ad un’osservazione della realtà sine ira et studio, è ravvisabile la presenza del soggetto; sia perché il punto di vista dell’autore è insopprimibile («Non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo», Zib. 452, 22 Dicembre 1820)5, sia perché le riflessioni sono spinte da una profonda e personale esigenza morale, seppur meno veemente e più rassegnata rispetto alle Operette morali.

Galimberti ha individuato nei Pensieri, in opposizione, appunto, alle Operette, «un amarissimo distacco che prevale su quel gusto vendicativo, e senza più veri intenti satirici, che sottintendano una qualche speranza di mutamento»6; lo studioso ha però aggiunto che nella scrittura aforistica l’impassibilità lascia talvolta il posto «al lamento sulla innocenza offesa» e al «rimpianto delle antiche virtù estinte, in tono non moralistico ma eccezionalmente commosso»7. Insomma il distacco impersonale perseguito da Leopardi è effettivamente disatteso in più punti, anche perché il dato esperienziale, seppur disgiunto da una mera caratterizzazione autobiografica, viene sovente mostrato come punto di partenza o come esemplificazione di una tesi.

Leopardi in varie occasioni ha precisato che per studiare l’“uomo in sé” è partito da se stesso. Ad esempio, nella nota lettera scritta a Bologna il 4 marzo 1826 e indirizzata a Giampietro Vieusseux, dopo essersi dichiarato «ignorante» in materia di filosofia sociale, ha così proseguito: «sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l’uomo in sé, e similmente i suoi rapporti col resto della natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare».

Tale impostazione ha un antecedente di rilievo in Montaigne, il quale scrisse negli Essais, nell’avvertenza al lettore: «je suis moy-mesmes la matiere de mon livre»8; e ancora nel III libro: «chaque homme porte la forme entiere de l’humaine condition»9. Tuttavia, leggendo il primo dei pensieri leopardiani, la prospettiva sembra ribaltata, in quanto il Recanatese riflette sui rischi che si corrono nel basare le proprie osservazioni relative all’umanità esclusivamente sul nosce te ipsum. Leopardi afferma di aver iniziato anche lui a giudicare gli altri «da sé medesimo», ma di essersi poi dovuto ricredere, giungendo ad una netta contrapposizione tra l’io e gli altri. Ha osservato Antonio Prete: «l’esplorazione dell’io non è il fine, ma solo un passaggio per la conoscenza»10. In effetti, nello stesso ambito dei Pensieri, oltre alle meditazioni di Montaigne, è doveroso collocare la riflessione di Machiavelli e l’approccio “empirico” di Guicciardini11.

Da una lettura complessiva dei Pensieri possiamo evidenziare varie tensioni: da una parte abbiamo il tentativo di stilare un resoconto oggettivo della realtà («chiamare le cose coi loro nomi»)12, ma dall’altra permane il condizionamento imprescindibile di ogni punto di vista, insieme al potere costruttivo della mistificazione. Il ruolo giocato dalla simulazione nella comunicazione fra gli individui, con inevitabili influssi anche nell’ambito della conoscenza, è attestato in modo perentorio dal pensiero xxix:

L’impostura è anima, per dir così, della vita sociale, ed arte senza cui veramente nessun’arte e nessuna facoltà, considerandola in quanto agli effetti suoi negli animi umani, è perfetta. […] L’impostura vale e fa effetto anche senza il vero; ma il vero senza lei non può nulla. Né ciò nasce, credo io, da mala inclinazione della nostra specie, ma perché essendo il vero sempre troppo povero e difettivo, è necessaria all’uomo in ciascuna cosa, per dilettarlo o per muoverlo, parte d’illusione e di prestigio, e promettere assai più e meglio che non si può dare. La natura medesima è impostora verso l’uomo, né gli rende la vita amabile o sopportabile, se non per mezzo principalmente d’immaginazione e d’inganno.

Riguardo all’incidenza del punto di vista, può risultare significativa la citazione, contenuta nel pensiero xxxix, di un passo del Cortegiano sulla nostalgia del passato che solitamente provano i vecchi. In sostanza, argomenta il Castiglione, le mancanze che gli anziani attribuiscono alla contemporaneità sono dovute non tanto alla corruzione dei costumi quanto al loro intorpidimento psico-fisico e al loro ottundimento percettivo. Se è il punto di vista dei vecchi ad essere offuscato, la conoscenza non può essere, dunque, ridotta ad un mero gioco di interpretazioni, giacché una realtà oggettiva si può in qualche modo presumere. Si tratta di una realtà esterna forse inconoscibile direttamente, che il soggetto non riuscirà mai a possedere stabilmente e in modo esaustivo, ma che va supposta se non altro per poter confutare le opinioni fallaci.

2.

Alla ricerca di aspetti formali che indichino le manifestazioni della soggettività e i tentativi di attuare delle generalizzazioni, soffermiamoci sul pensieroi, il quale svolge una funzione introduttiva:

Io ho lungamente ricusato di creder vere le cose che dirò qui sotto, perché, oltre che la natura mia era troppo rimota da esse, e che l’animo tende sempre a giudicare gli altri da se medesimo, la mia inclinazione non è stata mai d’odiare gli uomini, ma di amarli. In ultimo l’esperienza quasi violentemente me le ha persuase: e sono certo che quei lettori che si troveranno aver praticato cogli uomini molto e in diversi modi, confesseranno che quello ch’io sono per dire è vero; tutti gli altri lo terranno per esagerato, finché l’esperienza, se mai avranno occasione di veramente fare esperienza della società umana, non lo ponga loro dinanzi agli occhi.

Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi. Quando due o più birbanti si trovano insieme la prima volta, facilmente e come per segni si conoscono tra loro per quello che sono; e subito si accordano; o se i loro interessi non patiscono questo, certamente provano inclinazione l’uno per l’altro, e si hanno gran rispetto. […] Io ho veduto più volte uomini paurosissimi, trovandosi fra un birbante più pauroso di loro, e una persona da bene piena di coraggio, abbracciare per paura le parti del birbante: anzi questa cosa accade sempre che le genti ordinarie si trovino in occasioni simili: perché le vie dell’uomo coraggioso e da bene sono conosciute e semplici, quelle del ribaldo sono occulte e infinitamente varie. Ora, come ognuno sa, le cose ignote fanno più paura che le conosciute; e facilmente uno si guarda dalle vendette dei generosi, dalle quali la stessa viltà e la paura ti salvano; ma nessuna paura e nessuna viltà è bastante a scamparti dalle persecuzioni segrete, dalle insidie, né dai colpi anche palesi che ti vengono dai nemici vili. […] naturalmente noi siamo tocchi dalle sventure di chi ci è compagno e consorte, perché pare che sieno altrettante minacce a noi stessi; e volentieri, potendo, vi apprestiamo rimedio, perché il trascurarle pare troppo chiaramente un acconsentire dentro noi medesimi che, nell’occasione, il simile sia fatto a noi. Ora i birbanti, che al mondo sono i più di numero, e i più copiosi di facoltà, tengono ciascheduno gli altri birbanti, anche non cogniti a se di veduta, per compagni e consorti loro, e nei bisogni si sentono tenuti a soccorrerli per quella specie di lega, come ho detto, che v’è tra essi. […] All’opposto i buoni e i magnanimi, come diversi dalla generalità, sono tenuti dalla medesima quasi creature d’altra specie, e conseguentemente non solo non avuti per consorti né per compagni, ma stimati non partecipi dei diritti sociali, e, come sempre si vede, perseguitati tanto più o meno gravemente, quanto la bassezza d’animo e la malvagità del tempo e del popolo nei quali si abbattono a vivere, sono più o meno insigni; […] Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina13.

La raccolta si apre, dunque, con l’ammissione di un errore: Leopardi giudicava gli altri in base a se stesso, ma poi «quasi violentemente» è stato smentito dall’esperienza. Da questa impostazione si evince che la conoscenza procede per tentativi ed errori, per induzione, per pratica, per ipotesi e verifiche. Si può tirare in ballo il termine francese essai, che significa ‘esperimento’, ‘prova’. La stessa funzione introduttiva e metadiscorsiva del pensiero i rimanda, a mio avviso, ad una concezione moderna di “scientificità”, da non intendersi come esposizione di verità inconfutabili bensì come esibizione della propria metodologia.

Proviamo a seguire rapidamente le oscillazioni dei pronomi personali e le varie forme verbali. Non a caso la prima parola è “io”, quasi a confermare la rilevanza del proprio punto di vista. Il soggetto, poi, ricorre ad alcune generalizzazioni, rese con forme impersonali, ma anche con la seconda persona singolare o con la prima persona plurale; per evitare un tono asettico in altre pagine della raccolta verrà adottata una struttura dialogica14.

Esiste nell’atteggiamento leopardiano un’ambivalenza tra una netta contrapposizione io / mondo e una ricerca di caratteri generali (effettuata, la seconda, per mezzo di una parziale assimilazione io / gli altri oppure con l’individuazione dell’“altro” dentro di sé). Ad un esame più attento, però, in controtendenza rispetto al rilevamento dei tratti comuni, le contrapposizioni e il senso di esclusione risultano prevalenti15: anche quando l’autore usa la prima persona plurale, ribadisce in un certo senso la disgregazione della società, individuando in questa la presenza di sottogruppi («noi siamo tocchi dalle sventure di chi ci è compagno e consorte»). Ci si trova, pertanto, in una società destinata a rimanere frazionata e sbilanciata, sebbene un certo senso di solidarietà e un bisogno di appartenenza (ma forse spesso alla base ci sono convenienza e viltà) possano far avvicinare tra loro le persone che si sentono in qualche modo affini, accomunate, in realtà, più dal vizio tanto diffuso che dalla virtù rarissima16. Sono, anzi, soltanto i malvagi a costituire una “lega” contro i buoni e i magnanimi che appaiono, invece, dei corpi estranei, tenuti ai margini della collettività.

Quasi come reazione all’ostracismo riservato ai pochi virtuosi, l’esigenza comunicativa dell’autore potrebbe rappresentare il desiderio di fondare una comunità di sodali («sono certo che quei lettori che si troveranno aver praticato cogli uomini molto e in diversi modi, confesseranno che quello ch’io sono per dire è vero»), realizzabile più che altro su un piano diacronico17. Al di là del definire l’identità del destinatario (è un lettore del futuro?), è qui importante notare come Leopardi si preoccupi seriamente e costantemente della ricezione, dell’intelligibilità, ovvero di evitare l’autoreferenzialità, oltre che di promuovere una visione dinamica e problematica del sapere.

In generale nelle prose leopardiane la presenza della soggettività è sempre indiretta, ovvero celata dietro una citazione o un’impostazione rigorosa e distaccata o, ancora, sotto la maschera di un personaggio18. Eppure lo stesso ricorso al linguaggio cifrato o al discorso altrui può essere, in un certo senso, considerato un segno di apertura, perché tutte queste operazioni consentono al soggetto di uscire dal proprio guscio e di predisporsi alla comunicazione, attenuando la spontaneità e scongiurando il mero impressionismo.

Leopardi, convinto com’è che «cosa odiosissima è il parlar molto di sé» (pensiero xl), deve quasi superare un certo pudore prima di inserire aneddoti autobiografici. Ad esempio, nel pensiero iv, prima di parlare di Antonio Ranieri, definito «un mio amico, anzi compagno della mia vita», specifica: «questo che segue, non è un pensiero, ma un racconto, ch’io pongo qui per isvagamento del lettore». In pratica, oltre a rivelare quanto gli stia a cuore intrattenere il lettore, l’autore sembra volersi giustificare per il fatto di riportare un dato personale. Altrove egli esprime un certo fastidio per alcune forme di esibizionismo, come nel pensiero xx, in cui dileggia quelli che ammorbano gli altri leggendo i loro mediocri versi.

3.

Sebbene in diversi passi l’intervento esplicito del soggetto, finalizzato a tenere insieme riflessioni altrimenti frammentarie, si limiti a svolgere una funzione neutra di regia, non mancano nei Pensieri riferimenti ad esperienze personali. Sembra, infatti, che Leopardi sia stretto tra due tendenze opposte: una orientata ad occultare il proprio vissuto, l’altra ad esibirlo, con il comune obiettivo di corroborare l’attendibilità del testo.

Egli cerca, da un canto, di ridurre la soggettività affinché non si dica che le considerazioni dell’autore sono viziate dalla sua condizione personale19, ma dall’altro enfatizza il dato dell’esperienza personale, per ribadire che i suoi pensieri non sono concetti astratti, bensì derivano dalla pratica del mondo, sia pure compiuta in prevalenza come testimone. Molte espressioni nei Pensieri sembrano rimarcare che non vi è vera conoscenza che si fondi solo sui libri, prescindendo cioè dall’esperienza, in accordo con la base sensistica delle sue riflessioni e con l’empirismo guicciardiniano («La scienza non supplisce mai all’esperienza […] il filosofo che non ha veduto il mondo da presso, non lo conosce», Zib. 1586-87, 30 Agosto 1821).

A questo proposito non sarà superfluo riportare qualche esempio dai Pensieri: «ho notato, interrogando in tal proposito parecchi» (xiii); «provata l’ingratitudine, l’ingiustizia» (xvi); «per esperienza oramai bastante» (xxiii); «l’uso del mondo insegna più a pregiare che a dispregiare» (xxxii); «È manifesto per isperienza» (xxxix); «imparato a vivere» (lii); «Il giovane non acquista mai l’arte del vivere, non ha, si può dire, un successo prospero nella società […] finché dura la veemenza dei desideri» (lxxix); «l’uso pratico della vita, e non già la filosofia, fa odiare gli uomini» (lxxxix)20.

L’esperienza più profonda e sconvolgente, e perciò più “formativa”, resta, però, l’amore, che produce degli effetti anche all’esterno, sul piano della socializzazione, come esposto nel pensiero lxxxii:

[…] all’uscire di un amor grande e appassionato, l’uomo […] conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di loro che arda, infiamma tutte l’altre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze; […] In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo […] ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non più felice, ma, per dir così, più potente di prima, cioè più atto a far uso di sé e degli altri.

Sul rilievo attribuito all’esperienza e all’osservazione diretta della realtà, un punto di partenza potrebbe essere la lettera, redatta a Recanati il 13 agosto 1819, che Leopardi ventunenne, dopo il fallimento del tentativo di fuga da casa, indirizzò a Saverio Broglio d’Ajano. Il giovane spiega con franchezza al conte Broglio, a cui si era precedentemente rivolto per il rilascio del passaporto, le motivazioni del suo progetto. Il piano era naufragato in seguito al coinvolgimento del marchese Filippo Solari, capo della polizia di Macerata, che aveva informato Carlo Antici (e quest’ultimo aveva avvisato, a sua volta, il cognato Monaldo)21. Nella lettera di Giacomo le esigenze di confrontarsi con il mondo, di verificare direttamente quanto letto e intuito (o osservato nei limiti del possibile a Recanati), ma anche semplicemente l’impeto di consegnarsi al flusso vitale, appaiono insopprimibili:

Mio padre crede ch’io da giovanastro inesperto non conosca gli uomini. Vorrei non conoscerli, così scellerati come sono. Ma forse sono più avanti ch’egli non s’immagina. […] Crede mio padre che con un carattere ardente, con un cuore estremamente sensibile come il mio, non mi sia mai accaduto di provare quei desideri e quegli affetti che provano e seguono tutti i giovani della terra? […] voglio vivere anch’io, e questo da giovane e non da vecchio quando sarò inutile a tutti e a me stesso, mi gitterò disperatamente nelle mani della fortuna, e se questa mi sarà contraria come non dubito, sarò un altr’uomo perduto, e il milionesimo esempio della malvagità degli uomini.

Come è noto, il tanto agognato soggiorno a Roma, effettuato per la prima volta negli anni 1822-1823, si rivelerà una cocente delusione22. Tale fallimento, però, era già stato previsto, considerando ciò che Giacomo stesso dichiara alla sorella Paolina nella lettera del 28 gennaio 1823: «queste cose già le sai e non solo le sai, ma le credi; e nondimeno hai bisogno e desideri di vederle coll’esperienza tua propria»23.

A completare il quadro potremmo aggiungere un passo zibaldoniano del 1821, in cui si argomenta come il giovane dotato d’ingegno, inesperto ma istruito, sia reso già diffidente dalle prime esperienze con gli altri, dalle proprie letture e meditazioni solitarie. Ciò nonostante, egli è sostenuto dalla vaga speranza di rientrare in una rara e felice eccezione, di riuscire cioè a sottrarsi alla regola universale attestante che la vita è male. Sarà la frequentazione diretta del mondo a far precipitare anche questo confortante auto-inganno e a demolire quell’aura di affidabilità che ingenuamente aveva conferito alle persone più vicine, anch’esse ritenute erroneamente delle eccezioni positive. La cognizione del mondo, attraverso la capacità di trarre conclusioni generali dalle singole esperienze individuali, corrisponde in questo modo alla “facoltà di non eccettuare”:

[…] dopo due o tre esperienze, s’egli [il giovane] ha talento, termina di eccettuare, si persuade che il generale si avvera ne’ particolari, divien pratico degli uomini, le sue teorie applicate alla pratica gli servono effettivamente al saper vivere; ed egli non è più capace d’illusioni individuali intorno agli uomini, siccome già da principio non era capace d’illusioni generali24.

Tale estensione delle disillusioni dal piano generale a quello individuale, nella dolorosa applicazione della regola generale al proprio contesto personale, tornerà nell’ultima riflessione zibaldoniana:

La cosa più inaspettata che accada a chi entra nella vita sociale, e spessiss. a chi v’è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già e lo crede in teoria. L’uomo resta attonito di vedere verificata nel caso proprio la regola generale25.

Volendo trarre qualche conclusione, l’esperienza, nell’indagine leopardiana, equivale a: dato di partenza della filosofia sensistica, analizzata attraverso un metodo empirico, induttivo; elemento per verificare o completare le proprie impressioni, intuizioni e conoscenze teoriche; risposta ad un’irrefrenabile pulsione vitalistica, che si attenua nel corso degli anni, ma che la conoscenza razionale, per quanto scoraggiante, non riesce mai del tutto ad inibire.

  1. Cfr. L. Blasucci, I registri della prosa: “Zibaldone”, “Operette”, “Pensieri”, in Id., Lo stormire del vento tra le piante, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 103-23.
  2. Ivi, p. 119. Cesare Galimberti definisce i Pensieri «frammenti netti come cristalli» in Cose che non son cose, Venezia, Marsilio, 2001, p. 209.
  3. Le citazioni dall’epistolario leopardiano provengono da G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
  4. Cfr. G. Leopardi, Operette morali, edizione critica a cura di O. Besomi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1979, Appendice, p. 489.
  5. Tutte le citazioni dallo Zibaldone provengono da G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991.
  6. Cfr. C. Galimberti, Cose che non son cose, op. cit., pp. 210-11.
  7. Ivi, pp. 210-12.
  8. Cfr. M. de Montaigne, Œuvres completes, Paris, Gallimard, 1962, p. 2.
  9. Ivi, p. 782.
  10. Cfr. A. Prete, Teatro interiore, teatro del mondo, prefazione a G. Leopardi, Memorie della mia vita. Edizione tematica dello Zibaldone di pensieri stabilita sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, Roma, Donzelli, 2003, p. viii.
  11. Guicciardini viene definito nel pensiero li: «il solo storico tra i moderni, che abbia e conosciuti molto gli uomini, e filosofato circa gli avvenimenti attenendosi alla cognizione della natura umana, e non piuttosto a una certa scienza politica, separata dalla scienza dell’uomo, e per lo più chimerica». Le citazioni dai Pensieri provengono dall’edizione a cura di Cesare Galimberti, Milano, Adelphi, 1982.
  12. Cfr. il pensieroi.
  13. Il corsivo è mio.
  14. Cfr. il pensiero ii: «Scorri le vite degli uomini illustri, e se guarderai a quelli che sono tali, non per iscrivere, ma per fare, troverai a gran fatica pochissimi veramente grandi, ai quali non sia mancato il padre nella prima età» (il corsivo è mio).
  15. Per una netta contrapposizione io / mondo, è indicativo anche il Dialogo Galantuomo e Mondo.
  16. Per comprendere meglio questo ragionamento potremmo citare l’individuazione dei tre generi di persone contenuta nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, rielaborazione di Zib. 3183-91, 18 Agosto 1823. Ecco, in sintesi, le tre categorie: 1) persone la cui natura è «trasformata dall’arte, e dagli abiti della vita cittadinesca», le quali partecipano «con diletto nel commercio gentile degli uomini»; 2) persone la cui natura è poco mutata «dalla sua prima condizione», o perché non coltivata o «per sua strettezza e insufficienza»; è il gruppo più numeroso, ma disprezzato: il volgo; 3) questo gruppo «incomparabilmente inferiore di numero agli altri due, quasi così disprezzato come il secondo, e spesso anco maggiormente», «per soprabbondanza di forza, ha resistito all’arte del nostro presente vivere, ed esclusala e ributtata da sé», ha rinunciato all’«uso dei negozi» e alla conversazione. Le citazioni sono tratte dalle Operette morali, op. cit., pp. 275-76.
  17. Ad esempio, nella lettera del 16 dicembre 1822 al fratello, Leopardi aveva ammesso di cercare rifugio nella posterità, ma in Dialogo Galantuomo e Mondo leggiamo: «la fama poco può consolare in vita e niente dopo morte» (Operette morali, op. cit., Appendice, p. 471).
  18. La soggettività negli scritti leopardiani è stato uno dei temi affrontati nel convegno Un anno di Zibaldoni e altre meraviglie. Visioni e idee per la comunità avvenire, a cura di E. De Vivo e G. Virgilio, tenutosi a Frascati il 31 gennaio 2004, in occasione del primo anno di vita della rivista online «Zibaldoni e altremeraviglie». Antonio Prete, uno dei relatori, ha asserito: l’«io di Leopardi che circola nello Zibaldone non è un io definibile con i nostri termini di soggetto, perché è un io che si mostra quasi sempre attraverso un libro, con la biblioteca, con la citazione, con il margine e il commento, con la meditazione che lambisce un pensiero altrui e da esso è mossa fino a staccarsi e farsi autonoma. L’io si disloca nel margine di altri libri, di altri pensieri». Lo scrittore Gianni Celati ha rilevato come il linguaggio cifrato possa servire in alcuni casi ad «alienare la {…} soggettività per poter guardare un po’ in lontananza». Gli Atti del convegno sono reperibili su http://www.zibaldoni.it/comunicato_stampa/index_frascati_a.htm.
  19. Su questa preoccupazione ricordiamo ad esempio, da Tristano e un amico: «E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare…» (cfr. Operette morali, op. cit., p. 409). Anche nel Discorso sullo stato presente dei costumi degl’Italiani Leopardi sembra voler prevenire accuse di faziosità: «Se io dirò alcune cose circa questi presenti costumi (tenendomi al generale) colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno straniero, non dovrò esserne ripreso dagli Italiani, perché non lo potranno imputare a odio o emulazione nazionale» (cfr. G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, edizione diretta da M. A. Rigoni, Milano, BUR, 1998, p. 49). Ma l’alienazione da se stessi, volta ad evitare parzialità e autoreferenzialità, viene in parte smentita nel prosieguo del saggio sui costumi, in particolar modo quando Leopardi definisce l’Italia e i suoi connazionali rispettivamente: «famiglia» e «fratelli», assumendo così un atteggiamento ambivalente tra distacco e appartenenza.
  20. Il corsivo è mio. I pensierixxxii e lxxxix sembrano costituire un’aporia, che potremmo provare a risolvere così: l’uso del mondo, sebbene scoraggi più della filosofia circa le qualità del genere umano, con il passare degli anni rende più indulgenti e smussa il carattere. Sull’alternanza nella vita di periodi di solitudine e di socializzazione si veda il Dialogo tra Tasso e il suo Genio familiare.
  21. Solari, in una lettera datata probabilmente 2 agosto 1819, consigliò a Monaldo di agire con cautela nei riguardi di un giovane che conosceva il mondo soltanto dai libri, i quali offrono una conoscenza «sempre imperfetta e manchevole» (cfr. Epistolario di Giacomo Leopardi, a cura di F. Moroncini, Firenze, Le Monnier, 1934, vol. i, p. 296). Forse questi atteggiamenti iper-protettivi e questi preconcetti nei confronti del giovane Giacomo, insieme agli attacchi che egli riceverà da recensori e letterati coevi, sono alla base delle precisazioni presenti nelle sue opere e nei suoi scritti privati per non apparire ingenuo o poco obiettivo.
  22. Per Blasucci il primo soggiorno romano «agì in certo senso da catalizzatore psicologico, dando a quelle verità già ferme nell’animo del Leopardi una ulteriore e decisiva autenticazione di vita vissuta» (Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 185).
  23. Nel Dialogo della Natura e dell’Islandese il secondo si rivolge così alla Natura: «Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini» (Operette morali, op. cit., pp. 168-69). In realtà nemmeno l’Islandese riesce ad accontentarsi della teoria e si mette perciò in viaggio alla ricerca di un riscontro effettivo.
  24. Cfr. G. Leopardi, Zib. cit., 1868-69, 8 Ottobre 1821.
  25. Ivi, 4525-26, 4 Dicembre 1832.

(fasc. 2, 25 aprile 2015)