Spunti di pedagogia crociana nelle pagine della rivista «La Critica»
Se si tiene presente l’intero sviluppo del pensiero crociano, potrebbe apparire improprio e, per certi versi, azzardato, parlare in senso stretto ed esplicitamente di una pedagogia crociana, specialmente se si rileva che alla pedagogia in termini specialistici Croce non dedicò sezioni specifiche della sua opera. È pur vero che, comunque, non sono mancate voci, anche autorevoli, che hanno dedicato al tema alcuni studi, come è il caso del noto, e ancora attuale, volume di Vittorio Enzo Alfieri, Pedagogia crociana[1], e del saggio di Adelchi Attisani Pagine di pedagogia di B. Croce, in Interpretazioni crociane[2]; così come un legame evidente con la tematica pedagogica è palese nel ruolo istituzionale che Croce ricoprì come ministro della Minerva nel biennio 1920-1921 nel governo Giolitti[3]. Se, poi, si vuole rintracciare una dimensione pedagogica “implicita” (come quella che si rinviene negli exempla delle grandi opere del pensiero come nelle biografie, che rivelano sempre un indirizzo pedagogico) nella sua opera, possiamo senza dubbio affermare che quella di Croce rappresenta una grande pedagogia civile.
In questa direzione è possibile affermare che l’azione svolta dalla «Critica» abbia avuto e abbia ancora, nel voler mantenere la prospettiva da essa indicata e realizzata, una funzione pedagogica ed educativa tra le più alte della storia della cultura italiana, ben coerente con le linee pedagogiche di matrice speculativa rintracciabili negli scritti crociani e nell’intero pensiero del filosofo: ovvero coerente con quei valori di libertà, autonomia ed emancipazione che sono anche i capisaldi di un’ideale di educazione intesa come formazione spirituale dell’uomo alla propria umanità, che si esplica attraverso l’universalità della cultura e l’individualità della coscienza critica e responsabile all’interno dello storico mondo della società e della comunità umana. Sin dai primi numeri della rivista, nel 1906, in uno scritto inserito nelle “Varietà” dal titolo Scienza ed università, tale compito ‒ quasi una missione ‒ viene attribuito come scopo della nascente rivista, allorché Croce scrive: «è necessario condurre instancabilmente la polemica, che questa rivista, per sua parte, conduce»[4].
Nel presente breve intervento, che non intende essere esaustivo riguardo al rapporto fra Croce e la pedagogia, si cercherà di offrire alcuni spunti di riflessione sulla dimensione educativa presenti negli scritti crociani comparsi nella «Critica».
Il rapporto tra Croce, la pedagogia e l’educazione nella «Critica» e in altri suoi scritti
Nei fascicoli della «Critica» che precedono la rottura tra Croce e Gentile è presente, specialmente in forma di recensioni a volumi di trattazione pedagogica, un vivace dibattito, condotto essenzialmente da Gentile e Lombardo Radice, attraverso il quale vengono esposti molti dei principi fondamentali del pensiero pedagogico che i due studiosi andranno a porre in forma rigorosa e sistematica nelle loro opere. I temi di fondo, a volte affrontati in modo aspro e polemico, come del resto è il tono di molti saggi presenti nella rivista, possono essere ricondotti, a grandi linee, all’affermazione di una pedagogia di matrice idealistica sviluppata attraverso la polemica antipositivistica e, in particolare per Gentile, a quella che oggi definiremmo la ricerca di uno statuto epistemologico della pedagogia, che il filosofo siciliano, com’è noto, riconduce interamente sotto il dominio della filosofia. Questi scritti hanno, inoltre, il non secondario merito di aprire un importante e autorevole sipario e di fornire una ricca testimonianza storica del confronto riguardo alla dimensione epistemologica della pedagogia che si svolse nei primi decenni del Novecento e che, specialmente alla luce del dibattito attuale, sembra avere rinnovata attualità.
In primo luogo, merita di essere ricordata, seppur brevemente, la questione, ripresa sulle pagine della rivista da Gentile, dell’inserimento dell’insegnamento della storia dell’arte nei programmi di istruzione secondaria[5], sulla cui occorrenza Gentile non discute, affermando come essa sia già ampiamente accreditata favorevolmente nel dibattito. Lo scritto testimonia la difficoltà di attuazione del provvedimento e presenta disparate ipotesi circa quale docente disciplinare debba assumerne l’insegnamento e per quante ore, e da sottrarre a quale attività. I problemi sollevati si prestano al confronto e non sono lontani da equivalenti questioni che di volta in volta, anche oggi, si affacciano a ogni riforma degli ordinamenti e dei programmi scolastici.
La proposta avanzata da Pasquale Papa[6] ‒ che Gentile discute ‒ consiste nell’affidarne l’insegnamento ai professori di lettere e, per non sottrarre ore all’insegnamento della letteratura, di impiegare i professori di filosofia per la revisione dell’attività di componimento. L’ipotesi offre lo spunto a Gentile per riflettere sul tema del componimento e per mettere in dubbio lo stesso valore di tale attività, in cui «s’impone a tutti i giovani d’una classe, a giorno ed ora fissa, di pensare e sentire quello che naturalmente essi non penserebbero e non sentirebbero»[7]; egli la giudica «ridotta a una ricerca della pura forma, a un’incetta di immagini ed argomenti, a una pura arte topica, allo studio della morfologia, del lessico, della sintassi, della retorica, sempre della morta astrazione, del preparato anatomico tratto dalla dissezione di quel vivo organismo che è l’umano pensiero»[8]. Un’arte che induce e abitua, continua Gentile, «all’abilità sofistica di escogitar argomenti a sostegno di tutti gli assunti e quindi all’indifferenza scettica verso la verità»[9]. Contro il componimento Gentile difende «l’inscindibile unità della forma letteraria con la sostanza del pensiero» e propone di sostituire la composizione con l’esposizione, ossia con la trasposizione in forma letteraria del contenuto concreto del pensiero per mezzo delle discipline che gli studenti hanno appreso e vanno apprendendo: in tal modo la correzione delle singole “esposizioni” avverrà collegialmente e non occorreranno ulteriori competenze né vi sarà un ulteriore carico di lavoro per i professori delle diverse discipline se non quello di conoscere, ciascuno, la propria.
A intervenire nel dibattito sulle riforme, gli ordinamenti e i regolamenti liceali e universitari è, in alcuni interventi, anche Croce, di cui vale la pena ricordare, sin dal primo volume (nella recensione a Donato Jaja, L’insegnamento filosofico universitario e il regolamento nuovo[10]), il tentativo di difesa, sempre in chiave antipositivistica, della filosofia teoretica e dell’autonomia della filosofia dalle scienze naturali a proposito delle nuove disposizioni riguardo all’insegnamento della filosofia nelle università. In tali disposizioni Croce intravede un tentativo sottile e “furbesco” di delegittimare e detronizzare, da un lato, la filosofia teoretica (con l’associarla e, in qualche modo, delimitarla, specificandola, alla logica e alla psicologia); e, dall’altro, la filosofia pratica, affiancandole la sociologia. E, in ultimo, intravede il tentativo di eliminare dai corsi di laurea in Lettere, Filologia e Storia l’obbligatorietà della filosofia teoretica per sostituirla con quella della storia della filosofia perché ‒ scrive Croce non senza una certa ironia ‒ «si tratta di storia, e la storia è rispettabile» purché sia «una storia della filosofia senza filosofia», dal momento che nei corsi suddetti, tolta l’obbligatorietà della filosofia teoretica, essa rimarrebbe tale. Tutte queste disposizioni (che secondo il filosofo non avranno forza effettiva, ma che piuttosto manifestano la crisi che vive allora la filosofia) coincidono, per Croce, con la negazione stessa della filosofia: una «nuova forma di persecuzione contro la filosofia fatta non con le carceri e i roghi», come lo stesso Croce suggerisce. La via di redenzione da tale malcostume e deriva non può che essere ‒ ed è questa una costante della rivista crociana ‒ la fiducia che la filosofia possa esser fatta salva attraverso gli individui che ad essa si dedicano per responsabilità e dovere.
Nel fascicolo del 1923, cominciato il ministero gentiliano, in due postille (L’insegnamento religioso[11] e L’abbinamento delle cattedre di storia e filosofia[12]), Croce prende una posizione favorevole, pur non facendo mancare originali appunti, nei confronti dei due provvedimenti. Nella seconda postilla, prima di riferirsi all’argomento oggetto del breve scritto, si può leggere un’accorata quanto autentica, malinconica ‒ come anche egli suggerisce ‒ descrizione dello stato di crisi in cui si trovano la filosofia e, in genere, la cultura italiana, soggiogate dalle mode e somiglianti alla vichiana “barbarie della riflessione”. Nelle prime righe si trova una testimonianza chiara ed efficace dell’evoluzione storica e antropologica nel rapido progredire della cultura di massa, ai cui mali Croce oppone la fantasia della fondazione di una “Società per gli studi eleganti”, rammaricandosi che erano allora ignorati «nomi e cose un tempo celebri» e che vi erano «vuoti mentali e culturali, dove immaginavo che ci fosse lo stesso pieno e ultrapieno che è in me»:
Sono ora studi eleganti – scrive ‒ quelli che si occupano nel raccogliere religiosamente le tradizioni locali, nel tener viva la memoria di uomini e di questioni e dibattiti che un tempo appassionarono, e la congiunta aneddotica, nel leggere libri e opuscoli che nessuno più legge o nel leggere diversamente quelli che tutti leggono o dicono di leggere; persino nell’amore e possesso del libro materialmente inteso, dell’edizione che un tempo fece testo, del libro raro e curioso, dell’opuscolo a lungo ricercato e che serve a illustrare un particolare recondito. Anche questo genere di bibliofilia, da povero letterato, sembra ora poco comune, sostituita dalla grande e lussuosa bibliofilia da americani, da milionari o da arricchiti di guerra, che quota i libri colme titoli di borsa, e li chiude come questi nelle casseforti, e spasima per gl’incunaboli, per le plaquettes, per le legature, pei libri a figure, come un tempo si collezionavano tulipani o come oggi altri colleziona (oh la stupidissima collezione, quantunque la si veda esposta perfino nel British Museum!) francobolli[13].
Suggestivo è il ritratto che Croce delinea della cultura dominante, in quel 1923, che, a paragone degli ultimi anni del secolo precedente, gli appare come «un grande quadro disegnato e dipinto nel quale mancassero mezze tinte, sfumature, e velature» e nella quale invece domina «il crudo, lo stridente, l’esagerato, lo stonato».
Prendendo di seguito a trattare dell’argomento che la nota esprime nel titolo, Croce elogia senza dubbio il provvedimento di unificare le cattedre, che ritiene:
Ottimo perché costringerà i filosofi a tuffarsi nei fatti particolari, nella cognizione della vita del genere umano, a interpretar la quale la filosofia è nata; e costringerà gli storici a ripensare ai concetti che essi adoperano nel raccontar la storia, configurandola e giudicandola nel suo carattere e nei suoi aspetti di civiltà, progresso, regresso, stato, politica, religione, cultura, arte, scienza, pensiero, e via di séguito[14].
D’altro canto, Croce scorge il rischio che tale possibile proficuo sviluppo possa tramutarsi ‒ ed è qui ben chiara la preoccupazione dell’eccessivo hegelismo e idealismo e delle filosofie della storia ‒ mercé la pigrizia, più dei filosofi che degli storici, nella compilazione e presentazione, già presente nei testi scolastici, di «esangui classificazioni», schemi e astrazioni, «movimenti di pensieri e grandi dialettiche».
Altri scritti usciti sulla rivista chiariscono meglio, comunque, il discorso pedagogico di Croce, mostrandone anche l’attualità di fondo. Il primo è il già citato Scienza ed università, apparso nel quarto volume del periodico e del quale è stata individuata precedentemente la caratteristica di fondo, che consiste nel fare appello al dovere della verità che è compito degli studiosi, missione degli intellettuali e dei professori, nei quali la funzione di promozione (e di difesa) della scienza è incarnata, materializzata, istituzionalizzata.
Il testo, pur nella sua linearità e nella chiarezza del pensiero, risulta piuttosto complesso: vi è, innanzitutto, una critica ai mali connaturati all’Università che Croce in certo qual modo giustifica allorquando, nel presentare l’argomento, si difende dall’accusa rivoltagli di «condurre una campagna contro l’università». Il filosofo argomenta affermando che vi sono mali in ogni tipo di organizzazione e che questi, se sembrano necessari perché insiti nella sua struttura, vanno comunque sempre individuati e combattuti. Croce prende le distanze sia dalle drastiche contrapposizioni all’Università, per quanto riguarda il rapporto tra questa e il progresso scientifico, facendo riferimento alla condanna assoluta dell’istituto universitario condotta da Schopenhauer (la cui posizione il filosofo analizza, tra l’altro, nel fascicolo del 1909); sia da ogni forma di cesura netta fra i due poli della relazione: Università e progresso scientifico. Si tratta, afferma Croce, di combattere non l’Università ma l’“universitarismo”; e capovolge le accuse mossegli nella difesa, persino strenua, dell’Università, della sua incontrovertibile utilità, proprio dalla deriva “universitaristica”.
Passati i tempi in cui Chiesa e Stato si contendevano il controllo pervicace sulle attività universitarie, la libertà degli studi è, a suo parere, piuttosto minacciata da «manifestazioni di interessi pratici» che hanno origini “meschine” e che si esprimono, essenzialmente, in «manifestazioni pseudoscientifiche». L’avanzare di occupazioni pseudoscientifiche, sostiene ancora Croce, è mosso dal bisogno del collocamento lavorativo, specialmente negli studenti, che rende estrinseche le ragioni della ricerca e piega le prospettive e le teorie alle mode del momento; il procedere a discapito del progresso del sapere è dovuto all’atteggiamento di difesa delle posizioni acquisite, che rimuove «ogni minimo accenno di dubbio e di discussione». Mali e problemi, questi, che ricadono sotto l’accezione di “universitarismo” e che sembrano occorrere al determinarsi di un certo tipo di società, ancora attuale: per risolverli Croce ha ben chiaro che non vi siano soluzioni estrinseche, calate dall’alto, registrate e misurate e sottoposte a rigido controllo di chissà quale ente preposto a valutare e giudicare, ferma restando la pur parziale utilità di strategie e strumenti di tal genere. Le possibili soluzioni risiedono, piuttosto, nelle stesse forze insite nell’Università: «nel sentimento della dignità degli studii, nella libertà interiore, nello scrupolo morale, nella forza del volere». E precisa:
E queste doti, come sono doveri di tutti, non sono privilegio di nessuno; né vengono distribuite o rifiutate secondo le classi e le corporazioni. Ciò importa che, nella polemica che conduciamo, noi continuiamo su tutti gli animi ben disposti; e, giacché, come abbiamo riconosciuto, la massima parte degli studiosi, e i più benemeriti, appartengono in Italia al pubblico insegnamento, contiamo anche sul loro assenso ed aiuto: sull’università, contro l’universitarismo[15].
Una pagina interessante dal punto di vista pedagogico si trova nel quindicesimo fascicolo della rivista, laddove Croce analizza il significato e le diverse angolature di senso del concetto di “scolaro”, inteso in termini molto ampi, che esulano dall’analisi specifica del rapporto scolaro-maestro nelle istituzioni educative e di istruzione, cogliendone la dimensione sostanziale, senza la quale ogni aspetto tecnico e metodologico non avrebbe reale significato.
In tutta la storia della pedagogia è possibile riscontrare, nelle differenti posizioni, un’attenzione privilegiata alla fenomenologia del rapporto fra maestro e scolaro. Alla riflessione filosofico-antropologica sull’educazione e sulla formazione come processi inerenti la natura umana e alla tematizzazione circa i fini e gli scopi pratici, etici, sociali, dell’azione educativa, intenzionale o meno, è sempre accostato il momento pratico effettivo dell’educare, da intendersi non come giustapposizione e derivazione secondaria rispetto al momento della riflessione, ma nella relazione di circolarità tra i due momenti, che stanno assieme e si significano a vicenda, e sono distinti solo dal fatto che l’uno è cieco senza l’altro e quest’ultimo è vuoto senza il primo, come la teoria e la prassi. Croce rintraccia e disegna tre modelli ideali nei quali collocare l’atteggiamento dello scolaro nei confronti dell’insegnamento del maestro e, per estensione, nei confronti del sapere che riceve: quello dello scolaro fedele, quello dello scolaro ribelle e quello, infine, giudicato l’unico positivo, dello scolaro-maestro[16]. Il primo dipende anche dalle capacità e dal ruolo del maestro e da quella che potremmo definire, ricorrendo a un concetto in uso oggi, la relazione educativa: è giudicato negativamente giacché, rispetto all’insegnamento ricevuto, si limita al «momento riproduttivo», che viene assunto come momento definitivo e nel quale «la scienza è solidificata in fede». Se, come scrive Croce, tale atteggiamento da parte del discepolo nei confronti del maestro, sia anche egli un maestro ideale, può certamente compiacere per l’efficacia che l’insegnamento ‒ vorremmo dire la trasmissione del sapere ‒ ha sortito, esso pone, d’altra parte, il maestro nella condizione di vedere come frutto del proprio operato «un morto sé stesso», un «cadavere» se non, addirittura, «uno scheletro». È interessante qui notare la centralità che viene attribuita alla necessità di consapevolezza del maestro nel riconoscere il proprio ruolo e la propria funzione: quasi una richiesta di assunzione di responsabilità che potremmo concepire come prioritaria rispetto alla determinazione di qualsiasi metodo e metodologia applicata. “L’estrema fedeltà” dello scolaro è riscontrabile, sostiene Croce, in molti allievi e studiosi di Hegel in Germania e di Rosmini in Italia: i risultati delle interpretazioni e dei libri di questi “scolari”, così acritiche rispetto alle elaborazioni dei maestri, che richiedono di coltivare dubbi e di esercitare la critica e non sono mai assolute e definitive, costituiscono «non vie, ma barriere, a giungere ai libri dei maestri».
Non migliore ufficio viene svolto dall’altra tipologia, opposta a quella dello scolaro fedele: quella dello scolaro ribelle. Tale figura, secondo Croce di derivazione hegeliana, può riuscire più affascinante della prima perché, nello sviluppo del sapere, il superamento tramite la negazione del pensiero precedente «contiene qualcosa di vero»; eppure tale posizione, «presa a rigore, è falsa anch’essa». I termini della questione, rispetto alla fedele riproduzione, cambiano poco. Infatti: «Negare la teoria del maestro è imitarla al rovescio, è insistere sullo stesso problema di lui, è spremere il frutto già spremuto di lui, è darsi l’aria del nuovo rimanendo nel vecchio»[17]. Il giudizio di Croce sembra essere ancora più duro nei confronti di questo secondo tipo di studioso, forse per l’illusione che un siffatto atteggiamento produce verso il progredire del sapere, e scrive:
La quale critica logica della posizione dello scolaro ribelle riceve conferma o illustrazione dalla osservazione psicologica del tipo stesso di questo scolaro, che è di colui che ha sostituito al sentimento servile dell’ossequio il sentimento, non meno servile, dell’invidia; e, senza saper essere differente, va cercando come possa differenziarsi dal maestro, e nega per negare, o fa questioni di lana caprina, o cangia le parole dandosi a credere, e per dare a credere, di aver cangiato le cose. Anche costoro conosciamo per frequenti incontri nella vita, dove si incontra di tutto; e sono anch’essi gente noiosa, gente che si poteva risparmiare la pena di venire al mondo[18].
Infine è presentata la terza figura: quella del «vero scolaro, scolaro-maestro». Figura di derivazione teoretica[19], che identifica lo scolaro con colui che si accinge a comprendere il pensiero altrui, formandosene uno proprio. In tale immagine, la conoscenza autentica del pensiero di un maestro, in carne e ossa o ideali che siano la grandiosità e l’efficacia del suo insegnamento – Croce esemplifica attraverso il ricorso ad Hegel –, ha sempre come risultato il «distinguersi» da esso, ossia il porre e risolvere «problemi proprii»; e implica il rivolgersi al pensiero del maestro «rendendosi conto dei problemi risolti da lui, o accogliendone il frutto per vie indirette, o ignorando talora persino il nome dell’autore», poiché la vera consacrazione all’immortalità del pensiero di lui vive nella «nuova storia del pensiero»: non solo se riguarda lo stesso genere di disciplina e lo stesso ordine di problemi, ma anche in ciò che non ha natura teoretica ovvero nell’azione pratica. Tale tipo di relazione è innalzata a esemplificazione della costante condizione del progredire ‒ libero, autentico e consapevole ‒ del sapere e della vita spirituale, in modo che colui che la persegue «è maestro ed assieme scolaro di sé medesimo. Perché la relazione di scolaro e maestro non è la relazione di due individui fisicamente distinti, ma di due momenti ideali, il ritmo stesso della vita dello spirito». Nell’autonomia e nella libertà, potremmo dire, consiste ogni autentico processo di formazione.
Nell’analisi crociana risuonano, com’è evidente, echi idealistici e, allo stesso tempo, la dimensione pedagogica si delinea con coerenza rispetto al pensiero teoretico del filosofo, laddove, in sintesi, tutto il processo si determina nel «farsi diverso», che è cosa semplice a dirsi, sostiene Croce, ma difficile a realizzarsi e che ha uno stretto legame con la formazione della personalità. Formazione della personalità che nobilita l’esistenza e la rende degna in ciascuna circostanza e che consiste nel:
saper ascoltare e saper tacere, cercare indefessamente e assieme pazientemente aspettare, confidare e diffidare sempre di sé stesso, e rassegnarsi anticipatamente al qualsiasi grado cui accadrà di pervenire, anche al grado ed ufficio di piccolissimo, di minimo uomo, purché sia di uomo e non di scimmia o finto uomo[20].
E conclude che «quel che importa (e non è facile) è di essere uomini».
Il tema della formazione della personalità occorre nuovamente nello scritto Specialismo e dilettantismo[21]. Qui Croce asserisce che è opportuno senz’altro raccomandare ai giovani di “specializzarsi” e «farli vergognare della “genialità”» che è presupposta nell’elogio del dilettantismo. Ma lo specialismo, ed è questione strettamente attuale e di grande interesse, se si rapporta all’odierno avanzamento tecnologico, può assumere significati diversi e, se a un primo esame esso sembra rimandare a un «fermar la mente sul particolare e sul concreto e guardarlo da tutti i lati e penetrarlo sino al fondo», può anche voler dire «dividere in pezzetti il mondo della realtà e della storia, e distribuirne un pezzetto a ciascuno», da cui può derivare, tutt’al più, utilità. In questa sua definizione deteriore, lo specialismo[22] ha significato meccanicistico («il meccanico specialista», lo definisce Croce) e non richiede nemmeno la fatica del pensiero, che sempre s’imbatte anche nell’errore e nella deviazione. Il vero specialismo, afferma Croce, è insieme universalismo, «perché il singolo non sorge e non vive se non sul tronco del tutto», e il vero specialismo si realizza nella formazione della personalità, ed è qui che si riscontra in forza il tema pedagogico-educativo, giacché la personalità non si possiede per natura e il ritenerla erroneamente tale produce sempre il falso e l’illusione di cui si nutre il dilettantismo.
Nella sezione “Schiarimenti e idee” del fascicolo del 1943, le pagine intitolate Aristocrazie e masse[23], assieme allo scritto L’aristocrazia e i giovani raccolto in Cultura e vita morale, potrebbero essere considerate un piccolo manifesto sull’educazione, che sembra identificarsi con la vita stessa. Il concetto di aristocrazia è sostanzialmente adoperato, in un primo momento, nel significato quasi letterale di aspirazione a distinguersi: a elevarsi individualmente dalla massa e a determinarsi in quel gruppo dei pari cui appartengono in pochi. Così, almeno, nella definizione essenziale. Potremmo dire che si allude alla formazione dell’uomo come soggetto o come individuo. Eppure è un concetto che, sebbene esprima un’aspirazione all’elevazione presente in maniera quasi universale (si potrebbe, prendendo spunto da ciò, cominciare un lungo e difficile discorso sul bisogno di identità, di appartenenza, di conformazione che esprime oggi il nostro tempo), dà adito a una serie di fraintendimenti e sbrigative interpretazioni.
In primo luogo è da fugare, secondo Croce, la banale ed errata visione schematica e dicotomica d’intendere per aristocrazia ciò che si oppone, in maniera meccanica, alla massa. Il significato denso e profondo di aristocrazia è riferibile, lungi da allusioni a vecchie e chiuse aristocrazie di sangue, a coloro «che pensano e operano profondamente» e ai quali sono, perciò, legate «le sorti della società umana»; e che, proprio per tale ragione, per pensare e operare nello sviluppo e nel progresso storico, sono sempre «aperti» e in «continuo rinnovamento». Si trova qui una seconda definizione essenziale di ciò che si può intendere positivamente per “aristocrazia”: la capacità, propria delle minoranze “elette”, ciò che altri hanno definito avanguardie, di preparare e guidare i cambiamenti storici. Non vi è, come abbiamo detto, opposizione determinata, netta separazione, tra massa e aristocrazia, e per tante ragioni: perché l’aristocratico proviene e appartiene alla massa, dal momento che non è tale per una dote naturale; perché l’idea mistica della massa non è lecita né corretta, al pari del concetto ottocentesco di popolo, che vive e si muove come un individuo solo e in carne e ossa, e dirige le sorti intere della storia; perché nessuno è “interamente aristocratico”, nel senso che si distingue e supera tutti in tutto, ma è sempre volgo e plebe in qualcosa, nei campi che non gli competono e di cui non si occupa. E, per via dell’inconsistenza di tale opposizione, l’aristocrazia non può trattare la massa «da nemica né da estranea né da materia indifferente, che calchi col piede e sulla quale superbamente passi».
Nella sua funzione storica e civile, e nel rappresentare un modello di virtù nel praticare lo sforzo costante del pensiero e dell’impegno, l’aristocrazia ha però, verso le masse, un dovere e un compito: quello di educarle. Ma lo scopo di tale educazione non può non essere che quello di contribuire a rendere migliori le società umane, che è il solo ufficio cui possa attendere chi aspiri ad appartenere all’aristocrazia così intesa. E il contributo consiste nel preparare il terreno, nell’arare il campo per il rinnovamento e il progresso.
In tale prospettiva educare le masse non vuol dire conformarle a sé e avvilirle come nella schiavitù del dover essere sempre sottoposte, dipendenti e subalterne, ma «metterle in condizione che si educhino da sé»: al perseguimento di questo fine occorre che sia un’educazione «universalmente e pienamente umana, opera morale e non particolaristica e partigiana» che non coincide affatto, diremmo, con la mera formazione tecnica e utilitaristica, e nemmeno con l’indottrinamento. Tale modello educativo, tiene a chiarire Croce, non deriva solo dall’educazione istituzionalizzata nelle scuole.
Anticipando tematiche e argomenti di attualità pedagogica, quali la ricerca della necessaria “dimensione motivazionale” che è sottesa a ogni processo volto all’acquisizione di una formazione culturale e di un’educazione alla cittadinanza attiva e consapevole, e la necessità di un’educazione degli adulti intesa come formazione permanente, Croce ritiene che emancipazione e capacità di orientarsi e di educarsi da sé provengano, deweyanamente, dall’esperienza diretta, dalla partecipazione alla vita sociale, culturale e politica: «duplice e consecutiva educazione del maestro e della vita»[24], come scrive. Così Croce nel saggio citato:
E come si suol lasciare, per non comprimerli troppo e invano, che la vita stessa educhi i giovani e che essi dagli errori traggano le lezioni dell’esperienza, così è da condursi verso gli uomini che si vuole innalzare a cittadini, partecipi della vita politica della loro patria. Associazioni operaie, camere di lavoro, sindacati, richieste di provvedimenti legislativi, leghe di resistenza, scioperi, e simili istituti e azioni, sono solo alcuni dei mezzi coi quali si compie il processo educativo dei già adulti. Né c’è da temere, salvo che episodicamente, d’intemperanze ed eccessi da parte di quegli uomini appartenenti alle masse, perché l’operare, il contrastare, il persuadere, il durare pericoli, il dichiarare guerre e il sostenerle, le sconfitte non meno che le vittorie, sono efficacissimi mezzi pedagogici, che danno, la coscienza dei propri e degli altrui diritti, di quel che si può e di quel che non si può chiedere né aspettare, del divario tra il desiderato e l’ottenibile, del limite che è nelle cose ossia nelle situazioni storiche, e fanno apprendere, a chi non le possegga già adulte, le virtù della moderazione e della pazienza. In questa libera lotta si svolge la comprensione e la generosità. Gli uomini sotto tutela, gli schiavi, avviliti, diventano, quando l’occasione si presenti, crudeli e bestiali[25].
In questo modo, nell’analisi della relazione circolare tra aristocrazie e masse, viene dato un contributo al “problema” e al “mistero” della formazione delle classi dirigenti. E, se si volesse provare a rispondere alla domanda circa cosa dovrebbe e potrebbe concorrere a realizzare tale proposito, un suggerimento sarebbe dato se si esaminasse il già citato scritto L’aristocrazia e i giovani. In esso si scorgono sia una definizione del concetto di sapere inteso nella dimensione educativa sia il valore da attribuire all’educazione.
Croce si domanda se l’ideale aristocratico sia di ordine materiale, ossia coincidente con certe determinazioni particolari che si oppongono a certe altre determinazioni particolari come in una sorta di astratta precettistica, o formale, in modo che «superi e abbracci» tutte le determinazioni particolari. Non si tratta di intendere l’accezione “formale” come ciò che è vuoto ed estrinseco, ma come ciò che riguarda «l’integralità dello spirito umano» in cui il bene non esclude il vero, l’utile e il bello. Solo in questo senso Croce ritiene possa essere considerato il termine “aristocratico” (il saggio s’inscrive nella polemica tra le mode del democraticismo e del falso aristocraticismo), ossia come ciò o colui che “si distingue”, si individualizza nel conato all’elevazione, nel lavoro, nello sforzo di tenere assieme l’unità dello spirito, nel vir bonus, scrive Croce, nel raggiungimento della «piena umanità». E piena umanità viene raggiunta nel porsi come individualità che vive e partecipa pienamente alla comunità[26]: «il giovane deve studiare ed educarsi» allo scopo di «rendersi utile alla società», per superare «l’oziosità e l’individualismo atomico». Oziosità e individualismo atomico che si superano con l’attendere al proprio ufficio, perché è tramite esso che la società progredisce, e non attraverso l’ingannevole illusione e la fede nei «grandiosi programmi» che solo astrattamente sono considerati motori della storia. Il richiamo all’impegno, il sollecitare l’impegno nelle generazioni che si affacciano sulla scena della storia, sembrano essere, in definitiva, la dimensione più propria della pedagogia crociana, che è inscritta nella sfera dell’attività pratica.
Gli abiti volitivi e l’individualità
Una delle pagine più interessanti dal punto di vista pedagogico potrebbe essere, come sottolineato già da Vittorio Enzo Alfieri, un capitolo, Gli abiti volitivi e l’individualità, contenuto nel volume Filosofia della pratica, una parte del quale, fra l’altro, è dedicata proprio all’educazione. Il tema principale del capitolo riguarda le passioni che sono definibili quali abiti volitivi: «i concetti empirici delle passioni debbono fondarsi sulla varia determinazione dell’attività volitiva secondo gli oggetti»; esse non corrispondono al mero impulso o al desiderio istantaneo, ma si spiegano «come inclinazione o abito di desiderare e volere in un certo indirizzo». Nell’orizzonte dell’abito e della volizione sembra trovi fondamento l’individualità empirica che si definisce, quindi, come del resto gli abiti, nel determinarsi assieme nella relativa fissità e nella relativa mobilità, ossia storicamente. Scrive Croce:
Coteste passioni o abiti volitivi non sono rigidi e fissi, perché niente di rigido e fisso v’ha nel campo del reale. Come il letto del fiume regola il corso del fiume e ne viene insieme di continuo modificato, così accade delle passioni e degli abiti volitivi che la realtà viene formando e modificando, e nel modificare forma da capo e nel formare modifica. Perciò qualcosa di arbitrario vi ha sempre nel definire gli abiti come se rispondessero a una realtà ferma e ben delimitata. Gli abiti non sono categorie né sono pensabili come concetti distinti […][27].
Assunta come premessa questa serie di distinzioni concettuali, l’interrogativo di fondo riguarda sia la possibilità di signoreggiare, quindi anche di educare (auto o etero-educare), le passioni sia il modo attraverso cui ciò possa essere possibile. Coerentemente con il metodo argomentativo crociano, il saggio procede attraverso la disamina delle semplificazioni e degli errori con i quali tradizionalmente si è affrontato il tema del padroneggiamento di abiti e passioni, che richiede impegno e tenacia e che non si innesca in modo automatico:
Nulla, infatti, ci toglie così bruscamente la coscienza della libertà e della personalità, e ci fa sentire in modo così sconfortante la nostra impotenza, la nostra umana miseria, come il trovarci con la buona intenzione o l’appena iniziata azione dinnanzi alle forze scatenate delle nostre passioni e degli abiti a quella contrari, che col loro frastuono assordante coprono la voce debole e timida della incipiente azione, la soverchiano con la loro prepotenza e ci rapiscono per vie note e aborrite[28].
Sbagliano i «livellatori» e i «pedanti della astratta regolarità» nel ritenere che vi sia uniformità degli abiti; sbagliano i sostenitori dell’unilaterale polipatismo o dell’altrettanto unilaterale apatismo, i quali:
come nella teoria dell’atto volitivo propugnavano un’astratta azione condotta dalla mera volontà razionale nel vuoto delle passioni, così ora, nella teoria degli abiti volitivi, propugnano un astratto abito razionale, un modello di umana attività, al quale tutti gl’individui dovrebbero conformarsi. […] l’atto volitivo e le passioni, la volizione e le volizioni, sono tagliate nella stessa stoffa (benché l’una sia attuale e le altre soltanto possibili, l’una positiva, le altre negative), e che la natura del volere importa situazioni di fatto determinate; onde non si vuole mai in universale, ma sempre in particolare. Allo stesso modo la virtù, l’abito virtuoso della volontà, non è di natura diversa dagli abiti della volontà in genere, dalle passioni; ed è sempre particolare e individuale come quelli. Coloro che imprendono la guerra contro gli abiti individuali non riescono mai a sostituirli con un abito universale, che è inconcepibile […][29].
Di conseguenza, la possibilità di dominare le passioni e guidare e modificare la formazione degli abiti ha fondamento nell’individualità stessa, per cui il primo passo, la condicio sine qua non, è «la scoperta del proprio essere», il «cercare sé medesimo», l’«indagare le proprie disposizioni» per dare forma alla propria materia: il che non significa assecondare il proprio capriccio o «l’individualità disgregata», ma affermare un «diritto dell’individualità». Quanto finora detto insegna che «ogni potenza ha la sua impotenza, ogni individuo il suo limite» e che non avrebbe senso, da parte dell’educatore e del sistema di educazione, forzare eccessivamente una natura che non può conformarsi a un modello assoluto.
In questo orizzonte sembra quasi venir meno la possibilità stessa dell’educazione o pare che essa debba ridursi all’assecondare le attitudini individuali, il che, sostiene Croce, sarebbe null’altro che addestramento. Invece, leggendo le pagine in questione, sembra proprio che la “soluzione” di una così importante e complessa questione sia affidata all’educazione, che ha il compito di connettere l’individuale e l’universale, che non sono mai scissi; di difendere il corrispettivo «diritto dell’universalità», poiché ciascuno ha «l’obbligo di cercare sé stesso» ma, per fare ciò, «ha l’obbligo assieme di coltivarsi come uomo in universale», di modo che il bene e il meglio, in questo campo, è in «colui che adempie la sua propria e individuale missione così perfettamente, da adempiere insieme, con essa e per essa, la missione universale dell’uomo»[30].
Appare opportuno concludere questo breve intervento con le parole che Croce dedica alla missione della scuola, che non deve essere addestramento ma palestra di attività spirituali e creatrici: «Una scuola che fosse semplice cultura delle attitudini individuali, sarebbe addestramento e non educazione, fabbrica di utensili, non vivaio di attività spirituali e creatrici».
- Cfr. V. E. Alfieri, Pedagogia crociana, Napoli, Morano, 1967. ↑
- A. Attisani, Interpretazioni crociane, Messina, Università degli Studi di Messina, 1953. Si ricordino anche i saggi contenuti nel volume L’opera filosofica, storica e letteraria di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1942: in particolare, C. Sganzini, L’estetica di Benedetto Croce e la pedagogia (pp. 32-56) e W. Günther, Benedetto Croce e la pedagogia (pp. 57-68). ↑
- Cfr. almeno G. Tognon, Benedetto Croce alla Minerva. La politica scolastica italiana tra Caporetto e la marcia su Roma, Brescia, La Scuola, 1990; Id., Croce ministro della Pubblica Istruzione, in Enciclopedia Treccani, 2016; cfr. l’URL: https://www.treccani.it/enciclopedia/croce-ministro-della-pubblica-istruzione_%28Croce-e-Gentile%29/. ↑
- B. Croce, Scienza ed università, in «La Critica», a. IV (1906), pp. 319-21: 321 (rist. in Id., Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza, 1914, pp. 75-79). ↑
- G. Gentile, L’insegnamento della storia dell’arte ne’ licei e l’arte del comporre, in «La Critica», a. I (marzo 1903), pp. 232-36. ↑
- Sul dibattito relativo all’introduzione della storia dell’arte nei licei, si confronti P. Papa, L’insegnamento della storia dell’arte nei licei. Lettera al prof. I.B. Supino, in «Miscellanea d’arte. Rivista mensile di storia dell’arte medievale e moderna», I (1903), Supplemento al n. 2, pp. 1-16. ↑
- G. Gentile, L’insegnamento della storia dell’arte ne’ licei e l’arte del comporre, art. cit., p. 235. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, pp. 235-36. ↑
- B. Croce, Recensione a D. Jaja, L’insegnamento filosofico universitario e il regolamento nuovo, in «La Critica», a. I (1903), pp. 372-74. ↑
- B. Croce, Sull’insegnamento religioso, in «La Critica», a. XXI (1923), pp. 253-56, in Id., Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, ed. 1926, con il titolo: Sull’insegnamento religioso nella scuola elementare. ↑
- B. Croce, L’abbinamento delle cattedre di storia e di filosofia, in «La Critica», a. XXI (1923), pp. 318-20, in Id., Cultura e vita morale, op. cit., ed. 1926, con il titolo: Degli studi eleganti. ↑
- Ivi, p. 318. ↑
- Ivi, p. 319. ↑
- B. Croce, Scienza ed università, in «La Critica», a. IV (1906), pp. 319-21: 321. ↑
- Le consonanze con il pensiero gentiliano sono, come vedremo, più che evidenti. ↑
- B. Croce, Lo scolaro fedele – Lo scolaro ribelle – Lo scolaro-maestro, in «La Critica», a. XV (1917), pp. 141-44: 142, in Id., Cultura e vita morale, op. cit., 1926, con il titolo Maestro e scolari. ↑
- Ivi, pp. 142-43. ↑
- Sulla dimensione teoretica del rapporto scolaro-maestro si confronti il saggio di K. R. Popper, Ritorno ai Presocratici, in Congetture e confutazioni, trad. di G. Pancaldi, Bologna, Il Mulino, 1989, nel quale la nascita della filosofia come tradizione critico-razionale è fatta risalire al peculiare rapporto critico che si instaura nella Scuola di Mileto. ↑
- Ivi, p. 144. ↑
- B. Croce, Specialismo e dilettantismo, in «La Critica», a. XVIII (1918), pp. 378-80 e in Id., Cultura e vita morale, op. cit., 1926. Si confronti anche Id., Filosofia della pratica, op. cit., p. 165. ↑
- Al riguardo potrebbe essere utile approfondire le consonanze con il pensiero della complessità e, soprattutto, con le teorie pedagogiche di Edgar Morin. Si confronti, fra gli altri, il volume di G. Gembillo, Benedetto Croce filosofo della complessità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006. ↑
- B. Croce, Aristocrazie e masse, in «La Critica», a. XLI (1943), pp. 224-26. ↑
- A tal proposito si ritiene utile rimandare alle suggestioni contenute nel volume di F. M. Sirignano, Il grande esule di Acquafredda. Francesco Saverio Nitti tra pedagogia, politica e impegno civile, Milano, Franco Angeli, 2019. In particolare si fa riferimento al capitolo dedicato a Il radicamento etico-civile delle istituzioni democratiche: l’educazione alla libertà, nel quale l’autore, riferendosi al pensiero di Francesco Saverio Nitti, scrive: «La capacità di Francesco Saverio Nitti di cogliere l’implicito pedagogico-educativo delle relazioni socio-politiche vigenti nei vari contesti storici emerge con tutto il suo vigore e la sua chiarezza nella monumentale monografia su La democrazia. Nel ricostruire e nell’analizzare criticamente la formazione delle democrazie moderne, lo studioso lucano evidenzia che uno degli aspetti peculiari dei processi democratici consta nel travalicare l’ambito puramente istituzionale per costituirsi come una pluralità di forme di vita aperte, dialogiche e cooperative, che ne favorisce il radicamento etico-civile» (p. 74). ↑
- B. Croce, Aristocrazie e masse, in «La Critica», a. XLI (1943), pp. 224-26: 224-25. ↑
- Sul rapporto tra individuo e comunità si rimanda al volume di E. Paolozzi, Il liberalismo come metodo, Napoli, Kairos Edizioni, 2015, al capitolo Individuo e comunità. ↑
- B. Croce, Filosofia della pratica, Bari, Laterza, 1963, p. 156. ↑
- Ivi, p. 157. ↑
- Ivi, pp. 159-60. ↑
- Ivi, p. 165. ↑
(fasc. 47, 25 febbraio 2023)