Recensione di Francesco de Cristofaro, “La palla al balzo. Dieci viaggi nella letteratura e nell’immaginario del Novecento” (Carocci 2021)

Author di Marianna Scamardella

Francesco de Cristofaro prende per mano il lettore e lo trasporta in dieci viaggi immaginari: dalle crociere di David Foster Wallace e di Andy Warhol sulla nave dell’amore al sintomatico dolore cosmico di Philip Roth, passando per i taccuini di Bruce Chatwin, la commedia, la parodia, il teatro eduardiano, la lettura grottesca dell’apocalisse zombie, tentando di rilanciare ai lettori la stessa palla che egli stesso ha provato ad afferrare al balzo.

Nel preambolo l’autore spalanca subito le porte dell’immaginario, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, come dimostra il Dialogo d’Ercole e di Atlante in cui la leggerezza descritta della Terra che da pagnotta diventa un uovo offre la possibilità di giocare a palla col mondo perché il globo appare vuoto e spento. Dall’altra parte, spostandoci nell’America degli anni Novanta, la palla lanciata in Underworld, così viva nella sua materialità da avere lividi, presentandoci un affresco americano a partire dall’inizio della Guerra fredda, ci racconta di una realtà che esiste, «anche se avvolta in una ragnatela di immagini» (p. 9). Vi è anche il caso in cui la palla è usata come oggetto per definirsi: si pensi a The Ballon di Donald Barthelme, dove improvvisamente nel cielo di New York compare un pallone che incombe sulla vita degli abitanti. Si muove nell’aria, si dilata a dismisura come una mongolfiera e ognuno reagisce in modo diverso, come se quella sfera fungesse da specchio riflettente dei singoli e differenti comportamenti umani. Ci sono, infine, casi in cui la palla non c’è e che però, nello spazio vuoto che lascia, ci dà la sensazione che il lancio sia comunque avvenuto e ci racconta qualcosa; un’assenza che prevede spettri di presenza. È il caso di Blow up, film di Michelangelo Antonioni ispirato a Le bave del diavolo di Cortázar, dove si gioca una partita a tennis senza pallina, benché il suono nell’aria sia percettibile. Non si tratterà di giocare col mondo ma di cogliere i fantasmi delle sue variazioni e tensioni che sono alla base del suo stesso principio di struttura.

Il primo viaggio si apre sotto l’insegna di A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again, opera di Wallace che, attraverso il pretesto di voler documentare una crociera di lusso ai Caraibi, rappresenta un’ampia veduta del modo di vivere americano a lui contemporaneo. Tale scritto saggistico-narrativo si presenta come una forza postmoderna dove tutti i viaggiatori, nei panni di turisti, credendo di vivere il benessere, sono soggetti alla «bêtise» di una realtà deformante, suscitando nel lettore una risata dianoetica che, con un omaggio sterniano, fa ridere dell’infelicità del mondo mediante un’umoristica allegoria del dispositivo formale che si evince a partire dalla negazione contenuta nel titolo, «never».

Il secondo viaggio parte da un punto illusoriamente più lontano: dalla luna. Un esempio tratto dal libro è quello di Luigi Ghini che in Kodachrome ci racconta la labilità del reale, la cui opacità che chiama «geroglifico» può essere schiarita nel rapporto tra ciò che è infinitamente piccolo (l’uomo) e ciò che è infinitamente grande (la natura). Solo oscillando tra gli estremi, provando a osservare quella palla lanciata dal microscopio al telescopio, si può tentare di rendere più nitido ciò che si cela dietro la non trasparenza del reale. Nell’«infinitamente complesso» (p. 17), dove non esistono orpelli o maschere, si può meglio comprendere la realtà e maggiormente comprendersi.

Nel terzo viaggio, Francesco de Cristofaro rilancia la sua palla a partire da Bruce Chatwin e Paul Theroux, due sentimental travellers che in Patagonia Revisited hanno raccontato di un paesaggio del Sud desolato e che pure attestava la loro presenza, scoprendo che «nowhere is place», dove il “non-luogo” diventa luogo proprio in virtù di quel paradossale rapporto tra «minuscoli fiori» e «uno spazio immenso» in una totale patagonica «culla dell’essere» (p. 25).

La palla lanciata nel quarto viaggio attraversa un processo non fittizio o metaforico ma reale: una guerra fra teatri, modello emblematico nella storia europea del diritto d’autore: Il figlio di Iorio con cui nel 1904 il commediografo Eduardo Scarpetta schernì il Vate d’Italia, Gabriele d’Annunzio. Una parodia-lampo che si svolse tra il 2 e il 3 dicembre del 1904 a Napoli fra il teatro Politeama e il teatro Mercadante, e che comportò accadimenti legali, appoggi di un’intera società culturale e di intellettuali fino a concludersi con l’effettiva riuscita di quel motto citazionistico scarpettiano «Qui rido io» che riconobbe la sua drammaturgia capocomicale.

La palla che l’autore lancia nel suo quinto viaggio immaginario attraversa uno specifico cronotopo, quello della cena, nel lasso cronologico che arriva al 1972 e parte da dieci anni prima, quando proprio nel 1962 Luis Buñuel trae un film dall’opera teatrale di José Bergamín Los naufragos de la calle Providencia, e lo intitola L’Angelo sterminatore, restituendoci l’allegoria del destino della borghesia con i suoi vizi e le sue ottusità.

Il sesto capitolo ripercorre il «teatro minore» di Eduardo, secondo l’espressione deleuziana per intendere «deterritorializzato», «politico», tracciando una linea della sua opera sommersa; da ’O padron songh’io (1932), commedia feroce in cui la morte del padrone di casa fa perdere ai suoi servitori le piccole rendite di cui avevano goduto facendo riflettere sulla fatale dialettica servo-padrone, fino a L’abito nuovo, ispirato alla celebre novella di Pirandello del 1913. Anche in questo caso il focus della vicenda è il denaro appartenente a un’eredità, quella che Michele Crispucci deve accettare dopo la morte della moglie che lo aveva abbandonato. Il dono ricevuto innesca una reazione tragica; nel vedere nella figlia Assuntina le sembianze della defunta, Michele morirà di dolore e così il dono viene visto ancora una volta non come beneficium ma come un qualcosa di nefasto.

Dal teatro, seguendo i rimbalzi della palla lanciata dall’autore, si arriva nel mondo della cinematografia dove tre studi del cinema degli anni Sessanta, in un connubio tra eros e politica demografica, illustrano un’Italia di poco antecedente agli anni di piombo. È del 1968 La ragazza con la pistola di Mario Monicelli, una commedia all’italiana che tratta con comicità e umorismo temi drammatici, come la spaccatura contrastante tra il Sud, rappresentato da una Sicilia arretrata, e un Regno Unito disinibito e trasgressivo. Nel 1962 esce il film di Marco Ferreri e Pasquale Festa Campanile Una storia moderna, l’ape regina, caricatura grottesca delle norme etiche di una religione sessuofobica.

Seguiamo ancora i balzi sul suolo del cinema ma cambiando scenario e spostandoci nell’America latina. Nel film Cronaca di una morte annunciata di Francesco Rosi, tratto dall’omonimo romanzo di Gabriel García Márquez, la ricostruzione del delitto annunciato avviene in una natura mitica e atemporale, con un realismo meraviglioso che ricorda il racconto di Cortázar sulle violenze della dittatura sudamericana: Apocalipsis de Solentiname.

Nel nono viaggio Francesco de Cristofaro rilancia la palla in direzione di un luogo popolato da zombie, morti viventi che ci parlano del Capitale imperante. In un’imagery macabra riaffiora il mostro da un «incorporamento di troppa civiltà» (p. 85) dove la borghesia detiene armi che uccidono e che la uccidono. Un eccellente documento per noi è il film del 1971 di Corrado Farina …Hanno cambiato faccia, in cui nell’immaginario domina la parassitarietà vampiresca che non può non far ricordare, in perfetta coincidenza cronologica, l’alienazione operaia nel film di Elio Petri La classe operaia va in paradiso. In questo caso, il celestiale luogo promesso nel titolo è solo una tragica ironia verso chi è condannato «alla razza di chi rimane a terra». Frankestein e Dracula, pertanto, sono i due estremi di una stessa società: il miserabile e il possidente, l’operaio e il capitale.

Ultimo lancio. Ultimo viaggio dove, dal regno dei morti-viventi del capitolo precedente, la palla arriva tra gli scaffali della Biblioteca centrale di Stoccolma, in cui una smisurata opera enciclopedica raccontata da Danilo Kiš raccoglie le vite di uomini passati sulla terra dopo la Rivoluzione francese e che non hanno lasciato traccia di sé, se non una sorta di “plasticità della malattia” che apparteneva a molti di costoro. La stessa si evince anche dai romanzi di Roth, in particolare Patrimony. A true Story dove il patrimonio a cui si allude della «vita e la morte del corpo di un uomo» (p. 111) risiede nelle feci, nel pene turgido seppur appartenente a un uomo malato, nel cervello vivo benché tumefatto dal cancro. La «cosmologia del dolore» non è metafora e non è memoria, ma è ciò che esiste, è materia: il corpo malato, la carne nella sua miserabile consistenza, i sensi deboli. Dinanzi all’alienazione e all’aberrazione, Francesco de Cristofaro sembra invitarci non più a essere catcher ma tiratori, senza preoccuparci di sbagliare la presa, per non afferrare la palla ma godere della forza del suo tiro; così ce la rilancia per provare a farla rimbalzare fuori dalle inferriate di questa gabbia barocca per resistere all’invenzione della morte. E provare a vivere più che a lasciarsi vivere.

(fasc. 49, 31 ottobre 2023, vol. II)

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