Il mosto bolliva nelle botti aperte, sciamante di moscerini ubbriachi.
(S. Slataper, Il mio Carso)[1]
Come molti ricordano, Scipio Slataper nacque nel 1888 a Trieste, all’epoca in cui la città faceva parte dell’impero austro-ungarico, da padre sloveno della zona di Tolmino[2] (Tomizza lo riconduceva, invece, nel 1992 a origini boeme)[3] e madre italiana di provenienza veneta. Come molti triestini, fu sempre consapevole della propria natura ibrida di “sanguemisto”, che divenne il segno della sua “diversità”, a volte esibita e talora rivendicata.
Nel 1903 lasciò il Liceo a causa di una malattia nervosa e trascorse un periodo sul Carso. Dopo il diploma, come accadde ad altri intellettuali triestini quali Biagio Marin, Giani Stuparich, Virgilio Giotti e Umberto Saba, ottenne una borsa di studio dalla Fondazione Ester Kohen Fano, con l’obbligo di utilizzarla in Italia: per questo motivo, si trasferì a Firenze per proseguire gli studi.
Nella città toscana venne anche a contatto con l’ambiente degli intellettuali della «Voce»[4], per la quale iniziò a collaborare, pubblicando, fra gli altri articoli, le Lettere triestine (1909)[5], una serie di pezzi nei quali criticava l’ambiente culturale della Trieste dell’epoca e le scelte della sua classe dirigente borghese, e che gli costarono la borsa di studio. La morte della ragazza che amava, Anna Pulitzer Finali, lo gettò nella più cupa disperazione ed egli si rifugiò sul Carso per scrivere la propria “autobiografia lirica”; in seguito concluse gli studi, laureandosi in Lettere con una tesi originale e criticamente rilevante su Ibsen, sposò Luisa Carniel (detta Gigetta) e andò a vivere ad Amburgo come lettore di italiano al Kolonialinstitut.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, nonostante all’inizio fosse in polemica con alcuni esponenti del movimento irredentista, si arruolò nel Regio Esercito Italiano e morì sul Monte Podgora nel 1915, all’età di ventisette anni, combattendo per la causa italiana. Non fece in tempo a conoscere il figlio, Scipio junior, morto anche lui nel 1943, dopo essersi arruolato negli alpini, senza poter conoscere – a propria volta – il figlio Aurelio.
L’opera più nota e significativa di Scipio Slataper senior è Il mio Carso, da lui stesso definita «un’autobiografia lirica», nella quale racconta la propria giovinezza dai primi anni selvatici e tumultuosi al cambiamento indotto dal lutto improvviso per il suicidio della giovane donna amata, Anna, e nella quale contrappone la natura brulla e selvaggia del Carso alla vita abitudinaria e soffocante della città di Trieste. Il volumetto venne edito nella Libreria della Voce nel 1912, e in seguito fu ristampato prima da Vallecchi (nel 1933) e poi da Mondadori (nel 1958).
Nella prima pagina dell’autobiografia, rivela di essere nato sul Carso e prende immediatamente a descriverlo con tratti di dettagliato realismo che sono una caratteristica di tutta l’opera: in particolare, in questa mia analisi, mi sono soffermata molto sulla precisione della sua enumerazione di elementi relativi alla flora carsica e sulla presenza degli animali.
Sarà funzionale al prosieguo dell’argomentazione ricordare la maggior parte delle occasioni in cui Slataper nomina alberi, arbusti ed elementi vegetali tipici della zona del Carso con un’esattezza terminologica e una padronanza lessicale che rendono bene l’idea della conoscenza che allora avevano, e tuttora hanno, i triestini del loro retroterra geografico, cui, forse, sono emotivamente più legati che al mare che si dispiega di fronte alla loro città: «grande foresta di roveri» della Croazia (p. 17)[6]; «sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa» (ibidem); «un ippocastano rosso con due rami a forca» (p. 19); «una specie di abete, vecchissimo, su cui s’arrampicava una glicinia grossa come un serpente boa, rugosa, scannellata, torta, che serviva magnificamente per le salite precipitose» (ibidem); «vecchio cipresso ricco di cantucci folti e di cespugli» (ibidem); «mi divertivo a ciucciare la ciocca di glicine che mi batteva fresca sugli occhi come un grappolo d’uva. Il fiore del glicine ha un sapore dolciastro-amarognolo, strano, di foglie di pesco e un poco come d’etere» (ibidem; passo dal sensualismo sinestetico accentuato); «C’erano anche molti alberi fruttiferi, àmoli, ranglò [entrambi simili a pruni: N.d.A.], ficaie, specialmente. Appena i fiori perdevano i petali e i picciòli ingrossavano, io ero lassù a gustarli, non ancora acerbi. Acerbi son buoni! Il guscio del nocciolo è ancora tenero, come latte rappreso, e dentro c’è un po’ d’acqua limpidissima e ciucciosa. Poi, dopo qualche giorno […] essa diventa una gomma gelatinosa dolce a sorbirsi con la punta della lingua. Ma la carne com’è buona, così aspra. Prima il dente ha paura di toccarla, e la strizza guardingo, mentre la lingua riccamente la inumidisce e assapora la linfa delle piccole punture. Poi la addenta. Le gengive bruciano, i denti si stringono l’uno addosso all’altro, si fanno scabri e ruvidi come pietre, e tutta la bocca diventa una ricca acqua» (pp. 19-20: descrizione lussureggiante e allusiva). Ancora: «un tasso baccata [o taxus baccata, una conifera: N.d.A.], che scortecciavo facilmente a larghi brani per vederlo più pulito e più rossiccio» (p. 20); «bacche rosse» (ibidem); «i cacti sgonfi di zio Daghelondai» (p. 22); «le rosse ciliegie carnose, a ciocche» (p. 23); «saccheggiano le ficaie, stroncando i rami aridi» (p. 27); «Le labbra e il mento sono appiccicose di mele stillato» (p. 28); «Buona è l’uva, addentata a grani dal tralcio» (ibidem; da notare l’inversione di copula e parte nominale); «Scridivano gli agostani» (p. 30; ovvero le «piante che si raccolgono o si seminano in agosto o nel colmo dell’estate, come il fieno di secondo taglio, le varietà di mais precoci»[7] o i frutti che maturano ad agosto); «in cerca delle gocce di gomma sui tronchi dei susini, dei quadrifogli» (p. 32); «scalai il pioppo e l’elianto» (p. 33), «misi la mano dentro una specie di rovo» (p. 34); «un ramettino rotto irregolarmente con due foglie passe e raggricciate, un batuffoletto di seta del pioppo» (ibidem); «Coltiva nel suo giardino begliomini[8], daglie s’ciave, crisantemi di S. Anna [ovvero del Cimitero per antonomasia di Trieste: N.d.A.]» (p. 35), «rosai» (ibidem); «Agguanta un ramo carico di susine» (p. 36); «il pesco nano» (ibidem), «Ucio chiama dal melo» (ibidem); «i gineprai» (p. 39); «atterrato dritto sulle ceppaie e sul terreno» (ibidem); «aspre eriche e timi e mente, fra il ronzo delle api tutt’oro» (p. 40); «una larga foglia di platano» (p. 41); «la prima primola» (p. 42); «sorriso roseo dei peschi» (ibidem); «il profumo dei cedri e delle magnolie» (p. 43); «Lichene sotto ai piedi» (p. 46); «un querciolo torto» (ibidem); «i piccoli verdi pini» (p. 47); «pini giganti» (ibidem); «ginepraie» (ibidem); «Rose, rose, rose» (p. 49); «le peonie di Lipizza» (p. 112), nel Carso sloveno; «è un frassino, certo, questa scorza liscia come pelle» (p. 115); «il ciuffo rosso del giunco» (p. 122); «il lichene secco» (p. 123); «fra i peschi rossi e le pannocchie canneggianti» (p. 123) etc. A Trieste diventeranno «popputi aranci» (p. 60), «sacchi di riso» (ibidem), «caffè» (p. 61), «Pomi e pere grasse sugli alberi» (ibidem) etc. Altrove si menzionano «le colline e gli ulivi» (p. 69) di Firenze, e «gli ulivi di Muggia» (p. 84). Oppure il bosco di Melara, ora quartiere di Trieste, con le «carnose papilionacee, rosse, gialle, screziate» (p. 102), le «foglie delle querce» (ibidem), «i ginepri» (ibidem), «i tronchi dei platani» (ibidem), «qualche viola» (ibidem), «un rovere» (ibidem) etc.
Altrettanta precisione Slataper impiega nel far riferimento ai vari animali e agli insetti che popolano il territorio circostante: «un cane spelacchiato e rauco» (p. 17), «due oche infanghiate sotto il ventre» (ibidem), «le cornacchie crocidanti» (ibidem), «quattro cavalloni pezzati» (p. 18), «pieni di sole e di passeri» (p. 19); «Tacevano le vespe e i bombi. […] Era il grande silenzio infocato, quando gli occhi dei colombi stanno chiusi sotto l’ala e il bue rumina accosciato corpulento sulla paglia fresca» (p. 27), «i cani sbalzano» (p. 28), «i passeri frullano sbandati» (ibidem), «mille ragnateli stracciati» (p. 29); «Una gatta baia» (ibidem) ovvero ‘rossastra’; «l’odor di pantigane» (ibidem), «moscerini ubbriachi» (p. 30), «la caccia col flobert ai merli» (p. 33), «cane rinselvatichito» (p. 34), «l’opera predace di decine di formiche» (ibidem); «le crote dello stagno» (p. 36) ossia le rane; «la bianca fuga dei colombi impauriti» (p. 39), «il bel ragno vellutato dalle secche zampe» (p. 41), «tenevo avvinta per le grandi ali cilestrine la libellula» (ibidem), «il rospicino dalla pancia giallonera» (ibidem), «le biscie» (ibidem); «Sorridevo agli sbalzelli alati dei moscerini, tagliati dal colpo imperioso d’una mosca smeraldina, al pispillare roteante delle rondini» (ibidem); «quasi riscaldato dal sonno d’una lepre» (p. 42), «lombrichi» (ibidem), «il passerotto vi frulla con le ali» (ibidem), «la faina» (p. 117), «lo scassacodola» (p. 122) o cutrettola etc.
Anche gli elementi meteorologici fanno ampiamente parte di quello specifico angolo di mondo evocato: «il grande cielo sonante» (p. 39), «Correvo col vento» (ibidem); «L’aria e la terra è piena di un trepestio serrato che pare una mandra di torelli» (p. 40; detto della pioggia violenta); «La bora aguzza di schegge mi frusta» (p. 45; vari passi, oltre a questo, ricordano il Montale degli Ossi); «Bella è la bora. È il tuo respiro, fratello gigante» (ibidem, detto del monte Kâl) etc.
Numerosissime sono anche le similitudini che coinvolgono flora, fauna e fenomeni naturali, come se le strategie retoriche di Slataper non potessero comunque prescindere da quel potente sostrato legato alla sua conoscenza esperienziale del mondo: «correvo come una lepre» (p. 17), «pelle morbida come una foglia» (p. 19), «procedevo a modo di bruco» (p. 20), «Codeste sono le schizzate dei tedeschi! Flosce e piatte come carnume di medusa» (p. 25); «piombano in fondo, tirati da qualche polipo mostruoso» (ibidem; detto di ragazzi che si abbarbicano alle gambe dei tedeschi per tirarli giù sott’acqua per gioco); «Pipi era come un piccolo pescecane predace» (p. 26), «corsi in campana gridando come un falco ch’abbia lasciato per la prima volta il suo nido» (pp. 30-31), «La vecia aveva gli occhietti di un barbagianni di giorno» (p. 32), «temevo il vento come un uccello senz’ali» (p. 33), «fracide di sudore del suo ventre pratoso» (p. 35), «Ucio infuriò come la grandine e la bora» (p. 37), «romoreggiavo nella foresta come fiume che scavi il suo letto» (p. 39); «notando sott’acqua a bocca spalancata come un luccio» (ibidem), «addentando l’ondata vispa, come un ciuffo d’erba fiorita quando si sale in montagna» (ibidem); «la luna emerge dal lontano cespuglio e si fa strada fra le nubi, candida e limpida come un prato di giunchiglie in mezzo al bosco» (p. 40), «accarezzavo il bruco liscio e fresco che si raggrinzava come una fogliolina secca» (p. 41), «annusando come cane in traccia» (p. 42); «Io sono nato nella grande pianura dove il vento corre tra l’alte erbe inumidendosi le labbra come un giovane cerbiatto» (p. 43), «Ho i capelli come aghi di ginepro» (p. 45), «Anni giovani che vi spalancate tremando come corolle di violette nella neve» (p. 46); «cane dagli occhi cilestrini» (p. 47), detto di un contadino; «e lu fila via come el levro» (p. 68); «c’è le solite otto, nove che passeggiano con il loro andare di oche culone» (p. 72), «Son qua per terra come un cane in agonia» (p. 84), «una risata di cornacchia infuriata» (p. 98), «Sei una bestia ferita a morte che cerca un nascondiglio per crepare» (p. 119) etc.
Naturalmente, vale anche il processo inverso, laddove il paesaggio e gli animali assumono tratti antropomorfici: «sentivo urlare i lupi» (p. 17), «Il mare schizza di gioia, e spuma» (p. 24), «gridando come un falco» (pp. 30-31), «una collina corsa dal succhio d’infinite radici profondissime, sgorganti alla sommità in mille fiori irrequieti e folli» (p. 40: passo che sembra metaforicamente alludere anche al carsismo), «l’urlo vigliacco d’un cane» (p. 114) etc.
«Perché voi non sapete quant’astuzia s’impara guardando come un’ape entra in un fiore e il ragno chiappa la mosca» (p. 38): la Natura, dunque, è nel Mio Carso magistra vitae, e si comprende bene quanto l’esperienza del suo autore si nutra dell’osservazione attenta, ripetuta e vigile del territorio in cui è vissuto. «Il nostro mondo raffinato è molto ingenuo» (ibidem), osserva, infatti, il narratore, dall’alto della successiva esperienza di vita in un altro ambiente, i cui abitanti ritengono di essere superiori, pur essendo, in realtà, molto meno “attrezzati” ad affrontare la vita vera, la «vita selvaggia» (ibidem). «Conoscevo il terreno come la lingua della bocca» (p. 40), rivela il protagonista: «La terra ha mille segreti. Ogni passo era una scoperta» (ibidem). Il percorso di conoscenza nella natura è, infatti, potenzialmente infinito e produce meraviglia nei pochi fortunati che vengono messi a parte dei segreti della madre terra. Provoca, però, anche malinconia («Triste delle belle creature della terra», p. 41), perché
la terra ha mille patimenti. Su ogni creatura pesa un sasso o un ramo stroncato o una foglia più grande o il terriccio d’una talpa o il passo di qualche animale. Tutti i tronchi hanno una cicatrice o una ferita. Io mi sdraiavo bocconi sul prato, guardando nell’intorcigliamento dell’erbe, e a volte ero triste. (Ibidem)
Il protagonista sviluppa una sorta di empatia nei riguardi di tutte le creature terrene e coglie la struggente bellezza del creato anche nella sua sofferenza: «Amavo le farfalle in amore impagliate nella trama nerastra del rovo, sbattenti disperatamente le ali in una pioggia di bianco pulviscolo» (ibidem). Marino Biondi ha scritto, al solito assai felicemente, che l’«ottimismo vitale di Slataper aveva radici proprio nel dolore, ma un dolore che non lo prostrava mai perché era sentito pur sempre come una manifestazione dell’energia della vita, il volto più radiante e tale da rendere partecipi e veramente comunicanti le vite, altrimenti separate. Il dolorismo slataperiano era l’altro volto della sua gioiosa volontà di esistere insieme, il medium della partecipazione esistenziale»[9]. Del resto, Bataille ha osservato:
Se noi individuiamo nei divieti fondamentali il rifiuto che oppone l’essere alla natura concepita come orgia di energia vivente e opulenza di annientamento, non possiamo più trovare differenze tra la morte e la sessualità. La sessualità e la morte non sono che le fasi culminanti di una festa che la natura celebra con la moltitudine infinita delle creature viventi; e l’una e l’altra danno il senso dello spreco illimitato che la natura contrappone al desiderio di sopravvivere, proprio di ogni essere[10].
«Tutta la terra lavora in una grande frenesia di dolore che vuol dimenticarsi» (p. 95), conclude a un tratto Slataper nell’autobiografia. Le sue notazioni sul paesaggio che lo circonda chiamano in causa e sollecitano tutti i sensi: oltre alla vista, in ordine di frequenza il tatto, l’odorato, il gusto, l’udito. Egli sa ascoltare la natura e sa cogliere lo «sgricciar» di una foglia o il cadere di una «coccola» (p. 42) o ‘bacca’. Il bosco diventa una cattedrale nella quale si può imparare nuovamente a pregare: il fitto della boscaglia come un luogo sacro, di raccoglimento spirituale.
Contrapposta a questa Natura traboccante e alla sua così empatica e approfondita conoscenza, la vita a Trieste, una volta divenuto critico teatrale del «Piccolo»: «Non vedevo più le cose, e diedi cozzo senza sapere in spigoli acuti onde gli altri mi credettero un eroe. Io andavo per la strada già scavata, disgustoso a me stesso, desiderando che qualcuno mi bastonasse a morte» (p. 77).
Conforto nella vita cittadina offrono compagni e amici, ma il protagonista ha la consapevolezza di essere «meno intelligente di loro. Io non so dir niente che li persuada» (p. 78):
Forse io sono d’una città giovane e il mio passato sono i ginepri del carso. Io non sono triste; a volte mi annoio: e allora mi butto a dormire come una bestia in bisogno di letargo. Io non sono un grübler [‘sognatore’]. Ho fede in me e nella legge. Io amo la vita. […] Ma i discorsi d’arte e di letteratura m’annoiano. Io sono un po’ estraneo al loro mondo, e me n’addoloro ma non so vincermi. […] Può essere che tutta la mia vita sarà una ricerca vana d’umanità, ma la filosofia e l’arte non m’accontentano né m’appassionano abbastanza. La vita è più ampia e più ricca. Ho voglia di conoscere altre terre e altri uomini[11]. Perché io non sono affatto superiore agli altri, e la letteratura è un tristo e secco mestiere. (Pp. 78-79)
Il riferimento più o meno palese è ai giovani letterati fiorentini del tempo, e in particolare ai vociani; e, infatti, arriva la citazione esplicita della rivista: «Scrivo con il chiodo dell’alpenstoc le lettere Voce nella neve. Porpongo [sic] che la festa vociana sia un’annua salita al Secchieta, di febbraio. Lupercalia. Ah, ah, in questo momento qualcuno esce dalla redazione d’un cotidiano e va a dormire! Venite a bever l’alba sui monti!» (pp. 81-82).
Slataper era, infatti, entrato a contatto con il gruppo dei fiorentini e, come ricordato, fu proprio la Libreria della Voce a pubblicare l’autobiografia slataperiana: infatti, «L’incipit del Mio Carso, edito a Firenze dalla Libreria della Voce nel 1912, ha segnato, anche con la sua sequenza anaforica, la letteratura vociana. È stato della «Voce» e del vocianesimo generazionale uno dei momenti apicali d’incandescenza esistenziale e intellettuale»[12], sebbene il rapporto fra Slataper e i vociani, specie Prezzolini, non sia stato sempre di vicinanza e consonanza spirituale. Nonostante ciò, è innegabile che
Eco giuliana dai confini, dalle marche di frontiera, la triestinità slataperiana fu una componente decisiva del movimento. Il suo vento del Nord, qualcosa che assomigliava a un epos di frontiera nella centralissima e semiaddormentata Firenze, così poco o così misuratamente fraterna, e dava ai luoghi della ben nota civiltà urbana una spolveratura di barbarico. Era il dovere della coscienza, del suo riflesso e del suo giudizio, che stimolava continuamente la prosa di Slataper, qualsiasi testo noi interroghiamo di lui, dalla lettera privata, dell’Epistolario e del carteggio con Prezzolini, fino agli articoli e ai saggi vociani. Una delle punte del moralismo della rivista si toccava con Slataper, di gran lunga insieme a Jahier l’anima inquieta dolente anche prescrittiva della rivista prezzoliniana[13].
Per fare un affondo sulla lingua adoperata da Slataper nel Mio Carso, si può affermare che sia un italiano costruito, letterario, che fa appello a componenti diverse, ragion per cui ritengo si possa parlare, per lui, di multilinguismo.
Innanzitutto, egli ricorre sovente a espressioni desuete e a termini non comuni: «faceva a ruffa» (p. 20) per ‘zuffa’ (voce probabilmente longobarda); «ubbriachi» (p. 30); «flobert» (p. 33) ossia ‘fucile o pistola a retrocarica’; «fra radici e sassi invano inghermigliati» (p. 39); «carrucolandomi per gli scogli rimontavo sfinito la corrente» (ibidem); «dolce diffusità misteriosa» (p. 40); «mandra» (ibidem) per “mandria”; «lo zinzino» (p. 41) ossia il ‘coleottero’; «pispillare» (ibidem) per ‘cinguettare’; il ricorso al lessico nautico («beccheggi», p. 42) per indicare le oscillazioni delle foglie; «primola» (ibidem) per “primula”; «alioso» (ibidem) per ‘impalpabile’; «Scricchia» (p. 45) per “scricchiola”; «musco» (p. 80) per “muschio” etc. Svariati sono anche gli esempi di voci dell’italiano antico o letterario: «romoreggiavo» (p. 39) per “rumoreggiavo”; «dischiomando» (ibidem) ovvero ‘privando della chioma, strappandola’; «stracciato il viso» (ibidem) ossia col viso ‘sconvolto’, ‘straziato’; «notando» (ibidem) per “nuotando”; «correntia» (ibidem) per “corrente” etc. Numerosi anche i toscanismi: «concio» (p. 17) per ‘letame’; «pampani» (p. 28) per ‘pampini’; «motriglia» (p. 30) per ‘fanghiglia’; la voce famigliare toscana «Amo la piova pesa e violenta» (p. 40) nel senso di ‘pesante’; «coccola» (p. 42) per ‘bacca’ del ginepro coccolone o gineprone; «stronco» (p. 81) per ‘affaticato’ etc.
Slataper adopera largamente pure vari termini e locuzioni regionali: «piove» (p. 17, per ‘piogge’) e «piova» (ibidem); «arrivare i pochi frutti» (p. 20) nel senso transitivo di ‘raggiungere, prendere’; «noi non s’illuminava le finestre e si temeva qualche sassata» (p. 22); «lunghi, teneri risi nel grasso brodo di pollo» (p. 23); «l’ombolo liscio cosparso dalla salsa di capperi» (ibidem) ossia la cotoletta di maiale marinata nel vino con aglio ed alloro, che si cuoce alla griglia assieme alla salsicce istriane e si serve con crauti in umido, nella gastronomia istriana[14]; «ciapo» (p. 27) ovvero ‘stormo di uccelli’ in veneto; «brente» (p. 28)[15]; «bota» (p. 30) per ‘botta’ o ‘botte’ nel dialetto romagnolo; «La bora mi schiaffa a ondate nella schiena» (p. 46) etc.
Ampio è, poi, il ricorso a voci dialettali: «infanghiate» (p. 17); «la veciota venesiana» (pp. 18-19), riferito alla nonna di Venezia; «si giocava a ’sconderse»[16] (p. 19) per ‘nascondersi’; «baicoli» (p. 22) ossia biscotti tipici veneziani; «vignali» (p. 28; voce diffusa in vari dialetti) per ‘vigne’, ‘vigneti’; «mangia fagioli e patate, e brontola dalle profondità: “Xe bon, xe bon!”» (p. 35); «Vila xe ’na stela» (ibidem); «Fora de qua, fora! Va de quela scrova de to mare! Fora!» (p. 37) etc. E a proverbi ed espressioni che rientrano sempre nell’ambito dialettale del Friuli Venezia Giulia o del Veneto (si ricorda spesso, infatti, la nonna veneta dell’autore): «Beati i oci che i la vedi» (p. 19) ossia ‘Beati gli occhi che la vedono’; «Fioi, ve ’mazarè su quei alberi!» (p. 20); «Daghe! Daghe!» (p. 21); «Ma intanto mi go vinto! ma intanto mi go vinto!» (ibidem); «un toco de legno per la bota!» (p. 30); «né per torto né per rason, no state far meter in preson» (p. 53); «Se moro mi, i mii no ga de magnar» (p. 62); «Sì, sì, ti ga ragion, ma ti vederà, studierò, legerò, semo tanto giovini. No stemo esser tristi, dai!» (p. 63); «Ma se no i ghe fa mal nianca a una mosca! I xe boni come fioi» (p. 68) etc.
Da rammentare anche svariate espressioni particolari, al confine fra dialetto, parlata quotidiana, creazione linguistica, come: «a pertugio» (p. 17), riferito a una porta aperta quasi per una fessura (quantomeno curioso che, nelle regioni carsiche, si dica “pertugio beante” la spaccatura del suolo entro la quale si smaltiscono le acque che scorrono in superficie); la voce onomatopeica «frignando per il freddo» (ibidem); «levando» nel senso di ‘facendo sollevare in volo’ (ibidem); «essa» per “ella”, riferito alla nonna (p. 19); «contemplavo tronificante»[17] (p. 20) ovvero ‘comodo come su un trono’; «pensando soltanto quella persona» (ibidem), col predicato verbale transitivo; «ti annodavano un tovaglione odoroso di lavanda» (p. 23); «t’orecchinavi» (ibidem) ossia ‘ti adornavi le orecchie’ (detto dell’adornarsi con le ciliegie); «buttandosi giù a gnocco» (p. 24) etc. E ancora: «in mezzo la cantina» (p. 19), «Mi divertivo vederli lavorare» (p. 27), «giochei» (p. 32) ossia ‘fantino’ etc.
Come si può comprendere anche solo dagli esempi riportati, si tratta di una prosa lussureggiante e viva, con un alto tasso di metaforicità, che dà l’impressione che il triestino, consapevole del suo essere “altro”, tendesse ad esasperare la letterarietà della propria scrittura, utilizzando anche varie parlate e vari registri.
Il testo esordisce con un «Vorrei dirvi:» (p. 17), facendo appello a un apparentemente generico “Voi” (che potremmo pensare rivolto ai lettori), ma più tardi si ha il dubbio che con quel pronome egli voglia riferirsi nello specifico agli amici collaboratori della «Voce», citati esplicitamente in seguito. Infatti, alla pagina dopo Slataper racconta: «Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l’italiano, ho scelto gli amici fra i giovani più colti; – ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto male» (pp. 17-18). La “patria” è, dunque, il Carso, non l’Italia, e in queste prime righe l’autore traccia una demarcazione molto evidente fra la propria terra di origine, ov’è stato felice, e Firenze, la città della cultura e dell’“addomesticamento” forzato a una lingua non sua, e a uno stile di vita che non gli appartiene: in seguito, infatti, rivendicherà «lontane origini sconosciute» (p. 18) e un «avolo intraprendente che cala a Trieste all’epoca del portofranco» (ibidem), dopo il 1719. Successivamente, però, discorrendo della guerra italo-etiopica del 1895-1896, definisce patria l’Italia: «La nostra patria era di là, oltre il mare. […] Ma l’Italia vincerà a ci verrà a liberare. L’Italia è fortissima» (p. 22). Il mare, infatti, è l’elemento che lo separa dalla patria stessa, «e infinito è il mondo al di là del mare» (p. 43). La distesa marina come confine fra il mondo lussureggiante e selvaggio e conosciuto e meraviglioso del Carso, e tutto il resto: come barriera che protegge dall’ignoto che spaventa ma attrae, al tempo stesso.
Rivolgendosi di nuovo con il “Voi” probabilmente ai vociani, prosegue:
Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d’imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch’io confessi d’esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra cultura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. Le vostre obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v’ascolto disinteressato e contento, e non m’accorgo che voi state gustando la vostra intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto, nell’angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento. Penso avidamente al sole sui colli, e alla prosperosa libertà; ai veri amici miei che m’amano e mi riconoscono in una stretta di mano, in una risata calma e piena. Essi sono sani e buoni. (P. 18)
In questo passo sono rintracciabili una serie di motivi ricorrenti nel testo: oltre alla contrapposizione fra città e campagna, fra patria e posti nei quali Slataper in un certo senso si sente in esilio, in primo luogo è da sottolineare il motivo della fratellanza[18], che (come ben sappiamo) larga eco avrà nell’Esame di coscienza di un letterato di Serra (si veda anche: «Camminando guardavo tutto con affetto fraterno», p. 40; «Io sono come te freddo e nudo, fratello. Sono solo e infecondo. Fratello, su di te passa il sole e il polline, ma tu non fiorisci», scrive del monte Kâl a p. 45); poi, quello della «prosperosa libertà»; infine, quello dell’opposizione fra sanità e bontà, da un lato, e malattia, dall’altro.
Il protagonista, infatti, si riferisce a se stesso come a un bambino «bello e sano» (p. 23), «sano e forte» (ibidem), durante l’infanzia: «i tuoi compagni ti nominavano subito comandante, poiché li vincevi in corsa, in lotta e in tirar sassi[19]. Eri buono, e tutti ti volevano bene» (p. 24).
Il ritratto del «ragazzo bello, sereno, buono. È quello che tutti desiderano d’essere» (p. 27) assume, però, i tratti machiavelliani del principe nel racconto di Scipio, che ogni giorno narra ai bimbi una storia: «Nella piccola capanna del bosco è nato un eroe, forte come cento leoni e furbo come cento volpi» (ibidem). Anche nella giovinezza la voce narrante parla di sé come di un ragazzo «pieno di salute e di forza» (p. 38); eppure, a un tratto ammette che è stato proprio a causa della sua malattia («ero ammalato sul serio di anemia celebrale», pp. 38-39) che ha potuto vivere ininterrottamente per sei mesi in «carso» (sempre minuscolo): «Fu allora che scopersi per la prima volta il mio carso» (p. 39). Come se la condizione di indisposizione fisica gli avesse aperto uno spazio profondo di consapevolezza che, altrimenti, non sarebbe riuscito ad attingere.
Il motivo della malattia torna allorché Slataper allude alla madre, amata per la sua bontà e per la sua generosità: «Io avrei bisogno di prosperità e contentezza. Sono quasi irritato contro il suo male, contro l’oscurità che è calata da tanti anni nella nostra casa» (p. 70). E aggiunge: «Io amo i miei fratelli e i miei genitori perché la nostra vita è stata dolorosa e confidente. […] Noi vogliamo esser noi, con i nostri difetti e le nostre virtù, liberi di respirare l’aria che ci spetta» (p. 71). Del resto, come è stato giustamente osservato, Slataper era scontento di «una scontentezza che era irrequietudine, non effimero o fatuo nervosismo»[20]. La malattia si estende talora anche allo spirito: «Allora ebbi ribrezzo di me. Stetti duro, fermo. Ero tutto infetto. Mi pareva che una mia parola avrebbe impestato il mondo. Guardai il mare largo, puro, e avrei voluto pregare. Ma no: tutto il mio dolore è mio, tutto il mio strazio è per me solo» (p. 96).
A un tratto il protagonista cade preda del timore di precipitare nella follia; anche in questo caso il rifugio è nella Natura: «Vorrei farmi legnaiolo della Croazia. Amo le frondose querce e la scure» (p. 98) oppure «Vorrei essere piuttosto sorvegliante d’una piantagione di caffè nel Brasile» (p. 100). Alcune possibilità di vita alternative sfilano davanti ai suoi occhi, ma il desiderio che le accomuna è sempre quello del ritorno al grembo protettivo e materno della Natura, cui ritiene che siamo stati strappati: «Perché dunque ci estrassero dalla terra? Dormivamo quieti nel tepore umido delle radici. Più fondi ancora eravamo: eravamo il buio cuore duro della terra. Venne giù un’ondata di luce, ci squarciarono, ci portarono al sole. […] Ebbene: ora viviamo. Ora vogliamo sole sulla terra. Grande sole di deserto» (p. 99).
La struttura del Mio Carso è come costituita da due parti che si rispecchiano l’una nell’altra: si apre sul Carso, gioiosamente; poi, la parentesi cittadina, con allusioni anche all’ambiente fiorentino; infine, di nuovo il Carso, a chiudere il cerchio, sebbene con un sapore più amaro in bocca. E torna ancora una volta il motivo della malattia/debolezza contrapposta alla salute/vigore:
Io voglio rifarmi forte e duro. L’aria del carso[21] ha già sfregato via dal mio viso il color di camera. I polmoni tirano più lungo la fiatata. La schiena sente poco i sassi. Io amo il corpo robusto, capace di patire, di resistere, di lavorare. I deboli mi fanno schifo, come creature dipendenti dalla pioggia e dal bel tempo. Salute è condizione di libertà […] Io ho bisogno d’amare come tutti gli uomini. Io voglio la vita piena, completa, col suo fango e i suoi fiori. Io non sono fedele alla morte. Io voglio bene alla carne sana, piena di sangue e di prosperità. Io voglio bene alla mia carne. (Pp. 119-20)
La donna amata, poi ribattezzata «Carsina», continua a vivere per Slataper «nel laborioso amore. Cercheremo d’esser degni di te. La nostra opera è tua» (p. 121): si fanno chiare una concezione della vita come servizio e la riduzione dell’uomo alla sua opera (sarebbe interessante approfondire quanto queste idee derivino da un’influenza crociana).
A tratti Slataper si riferisce anche a se stesso con il “tu”, ma dipingendosi – con tutti altri toni – bimbetto sereno cui tutto piaceva: «E quando tutti avevan già finito di mangiare e bevevano il caffè fumando i lunghi sigari virginia, […] tu entravi nel tuo grembiulino candido con alle spalle i bei nastrini rosa, dormiglioso Pipi» (p. 23). Di questa stessa prima parte dell’opera, più serena e vivace, molto piacevoli sono anche le pagine (pp. 24-26) dedicate al club «Dagli!» e alla gara di tuffi in cui sono coinvolti il protagonista e i suoi giovani amici: non si può fare a meno di rintracciare in questo vivace schizzo di vita locale anche la radice letteraria del capitoletto che Mauro Covacich ha dedicato alla «clanfa» (Da Barcola All’Ausonia, in costume da bagno) nel suo Trieste sottosopra. Quindici passeggiate nella città del vento[22].
La rivendicazione della propria “alterità”, invece, trova un’orgogliosa manifestazione in una pagina in cui il protagonista apostrofa idealmente un contadino: «Che mi guardi? Tu stai istupidito mentre ti rubano gli aridi pascoli, i paurosi della tua bora. Barbara è la tua anima, ma sol che la città ti compri cinque soldi di latte te la rende soffice» (p. 47). La voce narrante instaura, con questa schiva figura di contadino-pastore incontrata per caso fra gli alberi, un ideale dialogo non privo di accorati e veementi accenti:
S’ciavo, vuoi venire con me? Io ti faccio padrone delle grandi campagne sul mare. Lontana è la nostra pianura, ma il mare è ricco e bello. E tu devi esserne il padrone. […] Perché tu sei slavo, figliolo della nuova razza. Sei venuto nelle terre che nessuno poteva abitare, e le hai coltivate. Hai tolto di mano la rete al pescatore veneziano, e ti sei fatto marinaio, tu figliolo della terra. Tu sei costante e parco. Sei forte e paziente. Per lunghi anni ti sputarono in viso la tua schiavitù; ma anche la tua ora è venuta. È tempo che tu sia padrone. […] Perché tu sei slavo, figliolo della grande razza futura. Tu sei fratello del contadino russo che presto verrà nelle città sfinite a predicare il nuovo vangelo di Cristo; e sei fratello dell’aiduco[23] montenegrino che liberò la patria dagli osmani[24]; e tua è la forza che armò le galere di Venezia, e la grande, la prosperosa, la ricca Boemia è tua. […] Trieste deve esserti la nuova Venezia. Brucia i boschi e vieni con me[25].
D’altro canto, il successivo riferimento agli italiani contrasta molto con questa immagine eroica dello slavo: «Povero sangue italiano, sangue di gatto addomesticato» (p. 48). Il riferimento a se stesso è quello a un perdente: «Tu sei malato d’anemia cerebrale, povero sangue italiano, e il tuo carso non rigenera più la tua città. Sdraiati sul lastrico delle tue strade e spetta che il nuovo secolo ti calpesti. […] Così stagnai, acqua marcia» (ibidem).
Ma, ancora una volta, basta una nuova alba a provocare un repentino cambio di tono («tutto freme com’io lo tocco, perché io sono la primavera»: p. 49) e una diversa consapevolezza, un vero e proprio slancio di vitalismo:
è nato un poeta che ama le belle creature della terra perché egli deve ridare puro il loro torbido pensiero, come acqua succhiata dal sole. E ruba e stronca dalle belle creature della terra perché egli non è pietoso e sa soltanto di dover nutrire di sangue vivo. Troppe mammelle di latte nel mondo, e la forza vitale è debole e accasciata, e gli uomini si lagnano d’essere vivi. (P. 49)
Il contrasto con l’ambiente cittadino è netto, anche se, a metà dell’opera, si descrive vivacemente una protesta per l’università italiana a Trieste contro i gendarmi muniti di baionetta inastata, dietro i quali «c’era tutto l’impero austroungarico […] la forza che aveva tenuto nel suo pugno il mondo […] C’era Carlo Quinto e Bismarck» (p. 51). La vita come scontro di forze vitali. E un fuggevole cenno al glorioso caffè Chiozza di Trieste. Ma questa forza imperiale ormai è fiacca, e il gendarme che lo ha arrestato se lo lascia scappare senza nemmeno rincorrerlo, e poi riprende la propria «marcia cadenzata» (p. 53) come una marionetta.
Il protagonista ne approfitta per correre al mare: «Bevvi l’acqua salsa del nostro Adriatico. […] Mare nostro. Respirai libero e felice come dopo un’intensa preghiera» (p. 53).
In una delle varie passeggiate per Trieste ripercorse nell’autobiografia, il contrasto fra il suo abbigliamento (polverosi «scarponi bullettati», p. 54) e quello dei cittadini è emblematico della grande distanza che non solo il protagonista percepisce tra sé e gli altri:
Era gente che guardava ed era guardata. I giovanotti avevano larghi soprabiti a campana, con di dietro un taglio lungo, come le giubbe dei servitori, e bastoni grossi e lievi che volevano sembrare rami appena scorzati. Le signorine erano accompagnate dal babbo e dalla mamma, e avevano stivalini lustri come i dorsi delle blatte. Erano stivalini assai più puliti e limpidi che i loro occhi. (Ibidem)
Da notare il ricorso a termini di paragone tratti dal mondo naturale, anche in questo passo. «Difficile è camminare tra gente inoperosa» (ibidem), conclude il protagonista. E osserva amaramente: «Nessuno si fida di nessuno, benché tutti salutano tutti […] Mi volto bruscamente. Lassù è il monte Kâl. Perché scesi? […] Bene: ora sei qui. E qui devi vivere» (p. 55). Ma la città è «Fumo e puzza. Soffoco» (ibidem). Eppure, la prima parte dell’opera si chiude con la constatazione che «Niente è qui strano, e tutto è duro e definito come gli spigoli del carso. […] Sono tra ladri e assassini: ma se io balzo sul tavolo e Cristo mi infonde la parola io con essi distruggo il mondo e lo riedifico. Questa è la mia città. Qui sto bene» (p. 56).
La seconda parte dell’opera, però, denuncia la noia provata nel contesto urbano, sebbene (in parziale contraddizione) si ammetta che «Anche la città è divertente […] Mi piace il moto, lo strepito, l’affacendamento, il lavoro. Nessuno perde tempo, perché tutti devon arrivare presto in qualche posto, e hanno una preoccupazione» (p. 59). «Un inquieto e giovine animale s’agita in voi» (ibidem): il solo motivo di consonanza spirituale con i cittadini sembra far leva sul substrato d’irrequieta animalità che accomuna i due ideali schieramenti contrapposti Noi/Voi.
La permanenza in città, in effetti, ha la conseguenza di risvegliare l’orgoglio di sentirsi, sebbene sanguemisto, italiano: «La storia di Trieste è nei suoi porti. Noi eravamo una piccola darsena di pescatori pirati e sapemmo servirci di Roma, servirci dell’Austria e resistere e lottare finché Venezia andò giù. Ora l’Adriatico è nostro» (p. 60). La forza del leone e l’astuzia della volpe, ancora una volta. Il tema dell’irredentismo serpeggia in varie altre pagine, specie nella seconda parte dell’opera (si ricordi che Slataper aveva preso parte anche a due numeri monografici della «Voce» sul tema dell’irredentismo nel dicembre 1910).
Nonostante tali sussulti di “patriottismo cittadino”, per sfuggire alla più volte denunciata noia della vita urbana il protagonista, comunque, si rifugia (non è un caso) sul monte toscano Secchieta, ove c’è la neve, e poi a Vallombrosa, fra «vecchi castagnoli» (p. 80), «elleboro nero» (ibidem), «musco» (ibidem), «ginestre» (ibidem), «il cipresso stronco sotto il peso della neve» (p. 81). Anche il mare gli offre occasione di «riposo» (p. 84) e di ristoro.
La terza parte dell’autobiografia è un ritorno alle origini: «Ho ritrovato il mio carso in un periodo della mia vita in cui avevo bisogno d’andar lontano» (p. 89): il desiderio di evasione lo induce a tornare indietro, alla vita selvaggia, al “naturismo” della propria giovinezza. Slataper confessa di aver avuto necessità della solitudine, perché «Dentro di noi s’accumulano molte nausee e schifi, e un giorno escono e ci appestano l’aria che respiriamo» (p. 92). Denuncia anche il male esistenziale dell’incomunicabilità: «Tutta la vita è intrecciata così ridicolamente. Nessuno può capire l’altro, ma s’infinge d’amarlo e d’odiarlo. Perché? […] Io passo e lascio passare, e guardo questa ignota vita come un forestiero» (p. 93). La conclusione di tali amare e lucidissime riflessioni conduce sempre all’amato Carso: «Avevo bisogno di sassi e di sterilità. E mi ricordai del carso, e dentro ebbi un piccolo grido di gioia come di chi ha ritrovato la patria» (p. 90).
In altri momenti della narrazione, in una sorta di panismo dannunziano si anela alla fusione con la Natura, vista come soluzione alla sofferenza umana, che orribilmente stride con la raggiante e gaia bellezza del creato: «Non posso dormire. Un disgusto orribile storce le mie guance per tutta questa vita piena di gioia che mi circonda. Che ho commesso io di non potermi fondere dentro quest’ora calda in cui una divina certezza d’amore freme da foglie e tronchi e fiori e uccelli e sole?» (p. 103).
Una vera e propria ode al Carso è, poi, un altro passo quasi alla fine dell’autobiografia:
Il carso è un paese di calcari e ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorni, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi. […] Lunghe ore di calcare e di ginepri. L’erba è setosa. Bora. Sole. […] La terra è senza pace, senza congiunture. Non ha un campo per distendersi. Ogni suo tentativo è spaccato e inabissato. […] Grotte fredde, oscure. La goccia, portando con sé tutto il terriccio rubato, cade regolare, misteriosamente, da centomila anni, e ancora altri centomila. […] Ma se una parola deve nascere da te – bacia i timi selvaggi che spremono la vita dal sasso! Qui è pietrame e morte. Ma quando una genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera. […] Premi la bocca contro la terra e non parlare. (Pp. 105-106)
E ora si torni alla dedica dell’opera, «A Gioietta», soprannome affettuoso di Anna, la giovane donna amata da Slataper che si era tolta la vita nel 1910. Ricorre più volte nell’opera l’apostrofe diretta a una «creatura» amata, ma proprio alla fine, in un momento di forte e tragico sconforto del protagonista, solo col proprio dolore «nell’infinito notturno»[26] del paesaggio carsico illuminato solamente dal conforto della «luna bianchissima»[27], ecco nuovamente comparire il “tu” dell’adorata «creatura», con il quale il poeta dialoga costantemente:
Ma forse lei è qui sopra di me, in questa luce senza scampo, in questo cielo, in questa terra. Anche tu sei qui con me. Forse anche tu soffri. Aiutami, creatura. Ch’io senza solo una sillaba della tua voce e la tua mano sulla fronte, perché è silenzio e solitudine qui, e nessuno disturba. Intorno, nessuna cosa respira. La terra si può aprire e restituire la sua preda. Il cielo si può riunire per ricrear la sua forma. L’anima è diffusa in tutte le parti; ma io voglio averti ancora qui, amore. Io posso farti rinascere. Basta ch’io creda. Io credo che tu puoi rinascere. Tu non sei ancora morta. (P. 106)
Presa, però, coscienza dell’inesorabilità della sua scomparsa, Slataper torna ancora una volta al Carso per farle omaggio in un altro passo di struggente bellezza: «Bisognerebbe strappare quella lapida. Bisogna portare tutti i ginepri del carso sulla sua tomba. Porterò un macigno grande; e rami di quercia giovane, perché tu stia sotto il fresco delle foglie, e i boccioli, e i narcisi, tutti, così i fiori non nasceranno più in carso» (p. 107).
Dopo l’ammissione «Io non capisco la morte» (ibidem), giunge, alfine, un tentativo di rassegnazione, che tanto ci dice del cupo tormento che il non aver saputo intuire le intenzioni suicide di Anna doveva aver provocato in Scipio:
Nessuno può penetrare dentro una persona e amarla così perfettamente ch’essa sia legata a noi come corpo nel corpo. […] dentro ogni individuo c’è un segreto tutto suo che l’amante e il maestro non toccano. […] egli aspira alla sua pace d’individuo, dove la sua forma non sia turbata dall’altre; esser tutto suo. Ed egli patisce finché non arriva: questa ricerca è la vita. L’individuo desidera di morire dagli altri. E naturalmente noi non possiamo comprendere la sua morte. (P. 108)
Per Slataper, già nell’infanzia gli uomini avvertono il «rimpianto» (p. 109) di qualcosa di cui hanno goduto e che manca. Dunque, lavorare è «cercar invano un ristoro per la cosa perduta» (p. 109). In un universo in cui regna il caso, un uomo può strappare una pianta di timo «perché non hai capito cos’era. Tu non l’hai capita perché sei un letterato» (p. 110): torna il discredito gettato più volte sulla letteratura e sull’arte. Il protagonista arriva a sostenere addirittura che né l’opera di Dante né i Prigioni di Michelangelo miglioreranno l’universo, ma poi afferma anche: «Esprimere. Tutta la vita è espressione» (p. 112; e si ricordi che l’Estetica di Croce era del 1902); «Io vado avanti. Io sono un poeta» (ibidem).
Dopo l’ennesima ed entusiastica ode al Carso, l’autobiografia ripiomba nell’atmosfera frenetica ma organizzata di Trieste: «Qui è ordine e lavoro» (p. 124). Slataper si riconcilia con l’universo cittadino, attribuendo alla città la funzione di temprare gli animi e di prepararli all’agone della vita: «Noi vogliamo bene a Trieste per l’anima in tormento che ci ha data. Essa ci strappa dai nostri piccoli dolori, e ci fa suoi, e ci fa fratelli di tutte le patrie combattute. Essa ci ha tirato su per la lotta e il dovere» (p. 125). L’explicit è, infatti, una professione d’amore verso la città: «Trieste è benedetta d’averci fatto vivere senza pace né gloria. […] Noi andremo nel mondo soffrendo con te. Perché noi amiamo la vita nuova che ci aspetta. Essa è forte e dolorosa. Dobbiamo patire e tacere» (p. 125).
Come ha notato Diego Zandel, Slataper sapeva bene di non poter fingere di essere ciò che non era: «nato a Trieste, di famiglia borghese, di origini sconosciute, ma di lingua italiana, italiano per scelta prima che di sangue»[28] (p. 13). Il senso del Mio Carso risiede, dunque, proprio in questa ricerca di sé, nel suo tentativo di definizione di quella diversità inafferrabile di cui, però, Scipio era profondamente consapevole.
«Noi vogliamo amare e lavorare»: la nota chiusa del Mio Carso. Poi, però, come ha ben evidenziato Biondi,
Molti argomenti e saperi si bruciarono al rogo della sopravveniente passione della guerra. Sull’argomentare, spesso lucido e incalzante, prevalse la passione dell’andare insieme. Sarebbe stato impensabile per questa mente generosa, per questo cuore intelligente, per chi aveva sempre desiderato l’eroismo nella vita, per chi aveva vissuto intellettualmente in un clima letterariamente tragico, perdere l’occasione di entrare nel grande e tragico movimento di popoli che fu la guerra mondiale[29].
Infatti, l’«altoforno della guerra»[30] interruppe sia la sua vita sia la vita di altri giovani appassionati di quella generazione, votati all’interventismo, certi di dover offrire il proprio contributo per cambiare il mondo, generosi e animati da uno slancio vitale così irruento e impetuoso da condurli fino alla morte.
- Questo saggio è dedicato a chi mi ha insegnato il fiore del cardo. ↑
- Secondo la ricostruzione del filologo e glottologo sloveno Pavle Merku. Da un’ulteriore ricerca, condotta dal nipote di Scipio, Aurelio (cfr. la nota successiva), emerge che «potrebbe trattarsi di dalmati dell’entroterra di Sebenico, assoldati dai proprietari terrieri dell’Alto Isontino per sedare una rivolta contadina e poi rimasti lì a vivere. Smentite quindi le origini boeme attribuite da altri studiosi» (Vita, amori e segreti della famiglia Slataper negli appunti del nipote, in «Il Piccolo», 14 maggio 2019; cfr. l’URL: https://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2019/05/14/news/incontro-a-piu-voci-con-manenti-e-zorzenon-1.32357546). ↑
- Cfr. F. Tomizza, Destino di frontiera, Genova, Marietti, 1992, p. 41. Cfr. anche il recente volume del nipote Aurelio Slataper (Appunti per una storia di famiglia, Trieste, Centro studi Scipio Slataper, 2019), che ripercorre la storia della famiglia dalle origini al secondo dopoguerra, intrecciandola con quella della città di Trieste. ↑
- Il suo carteggio con Giuseppe Prezzolini (negli anni 1909-1915) è stato pubblicato, a cura di Anna Storti, per le romane Edizioni di Storia e Letteratura nel 2011. ↑
- Si possono leggere nell’edizione Trieste, Dedolibri, 1988. ↑
- Tutte le citazioni a testo, per le quali si farà riferimento all’edizione del Mio Carso con prefazione di Diego Zandel (Mursia 2015), saranno seguite dal numero della pagina da cui sono tratte fra parentesi tonda. Per le citazioni da altri testi, invece, si indicherà la fonte in nota. ↑
- Vocabolario Treccani ad vocem: cfr. l’URL https://treccani.it/vocabolario/agostano/ (ultimo accesso: 10 ottobre 2020). ↑
- Voce popolare per “begliuòmini”, erbe annue più note come balsamine. Cfr. Vocabolario Treccani ad vocem; cfr. l’URL https://www.treccani.it/vocabolario/begliuomini/ (ultimo accesso: 10 ottobre 2020). ↑
- M. Biondi, La «Voce» di Scipio. Fraternità vociane, p. 12; si legge all’URL http://www.museocivico.rovereto.tn.it/UploadDocs/12249_Art_14_biondi.pdf (ultima consultazione: 10 ottobre 2020). ↑
- G. Bataille, L’erotismo, Milano, SE, 2017, pp. 58-59. ↑
- Al riguardo, forte è la consonanza con certe riflessioni dei personaggi di Nelida Milani. Mi permetto di rimandare al mio La navigazione in barca nella narrativa di Nelida Milani, in Atti del Convegno internazionale Vele d’autore nell’Adriatico orientale. La navigazione a vela fra Grado e Dulcigno nella letteratura italiana, Trieste 5-6 ottobre 2017, a cura di G. Baroni e C. Benussi, Pisa-Roma, F. Serra Editore, 2018, pp. 245-51. ↑
- M. Biondi, La «Voce» di Scipio. Fraternità vociane, op. cit., p. 1; si legge all’URL http://www.museocivico.rovereto.tn.it/UploadDocs/12249_Art_14_biondi.pdf (ultima consultazione: 10 ottobre 2020). ↑
- Ivi, p. 14. ↑
- Cfr. l’URL: https://www.myporec.com/it/gastronomia/specialita-istriane/66; http://fiumetrieste.blogspot.com/2020/08/il-famoso-ombolo-istriano.html. Ultima consultazione: 10 ottobre 2020. ↑
- La brenta è una specie di «bigoncia di legno, in uso nell’Italia settentr., che si porta spalleggiata per mezzo di cinghie e serve per il trasporto del vino o del mosto»: cfr. Vocabolario Treccani ad vocem (https://treccani.it/vocabolario/brenta/: ultima consultazione 10 ottobre 2020). ↑
- Cfr. G. Piccio, Vocabolario veneziano-italiano, II ed., Venezia, Libreria Emiliana Editrice, 1928, p. 151 (cfr. l’URL: http://www.linguaveneta.net/linguaveneta/wp-content/uploads/2018/05/Dizionario-Veneto-italiano-Piccio.pdf; ultima consultazione: 10 ottobre 2020). ↑
- Cfr. G.L. Beccaria, Strutture melodiche nella prosa d’arte moderna, in «Lettere Italiane», vol. 12, n. 1, gennaio-marzo 1960, pp. 32-72. ↑
- «La fratellanza? Un patto comune? Significava per lui essere passati dalla vita intima dell’altro. L’orfismo fu una fratellanza o fraternità di tipo eminentemente intellettuale, una fraternità elitaria. Quello slataperiano fu un orfismo che chiedeva il sigillo della comunione fra amici, ancora di una vita o di una porzione di vita condivisa e trasfusa»; cfr. M. Biondi, La «Voce» di Scipio. Fraternità vociane, op. cit., pp. 14-15; si legge all’URL http://www.museocivico.rovereto.tn.it/UploadDocs/12249_Art_14_biondi.pdf (ultima consultazione: 10 ottobre 2020). ↑
- «I maschi devono essere esuberanti, i loro corpi mal sopportare le angustie degli spazi, i banchi scolastici, hanno bisogno di abiti comodi che permettano di essere scomposti. Devono fare battute volgari, devono ubriacarsi, calarsi, mangiare eccessivamente, fare i giochi pericolosi, godere nello sfidare i limiti e il rischio»: S. Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Torino, Rosenberg & Sellier, 2009, p. 101. ↑
- M. Biondi, La «Voce» di Scipio. Fraternità vociane, op. cit., p. 15; si legge all’URL http://www.museocivico.rovereto.tn.it/UploadDocs/12249_Art_14_biondi.pdf (ultima consultazione: 10 ottobre 2020). ↑
- Sempre parlando di Carso: «Disteso sul tuo grembo io sento lontanar nel profondo l’acqua raccolta dai tuoi abissi, una sola acqua, e fresca, che porta la tua giovane salute al mare e alla città» (S. Slataper, Il mio Carso, op. cit., p. 123). ↑
- Al riguardo mi permetto di rimandare a M. Panetta, Mille sfumature di “triestinità”: itinerari autobiografici di Mauro Covacich, in «Diacritica», a. IV, n. 5 (23), 25 ottobre 2018, pp. 42-56. ↑
- «Adattamento ital. del termine serbocr. hajduk (che è anche voce polacca, ceca, romena, bulgara, ungherese, forse der. del turco hajdūt “bandito”), che nei territorî balcanici indicò, in epoca medievale, i briganti di strada; questi più tardi divennero i protagonisti delle insurrezioni e delle guerriglie contro i Turchi, iniziando quel metodo della guerra partigiana di cui si sono avuti episodî notissimi nei Balcani ancora nella seconda guerra mondiale. Questa loro attività patriottica favorì la diffusione del termine sia nel sign. di “patriota, insorto (per l’indipendenza del proprio paese)”, sia per indicare gli appartenenti a speciali milizie, tra cui anche, dal 1776, le guardie del corpo dei granduchi di Toscana»: cfr. Vocabolario Treccani ad vocem (cfr. l’URL: https://www.treccani.it/vocabolario/aiducco/. Ultima consultazione: 10 febbraio 2021). Si noti che Slataper preferisce, al solito, la variante meno comune “aiduco” invece di quella più diffusa “aiducco”. ↑
- Ovvero il combattente balcanico che nel Cinquecento si oppose alla dominazione ottomana. ↑
- S. Slataper, Il mio Carso, op. cit., pp. 47-48. Ritengo che Paolo Rumiz non possa non aver tratto ispirazione da questi passi di Slataper per il suo reportage La rotta per Lepanto, uscito a puntate su «La Repubblica» nell’estate del 2004 (cfr. l’URL: https://www.repubblica.it/2004/h/sezioni/cronaca/rumizviaggio/rumizviaggio/rumizviaggio.html); si veda anche il passo slataperiano: «Studiavo l’orario dei piroscafi lloydiani, e se avessi avuto qualche centinaio di corone sarei andato in Dalmazia, a Cattaro, poi mi sarei arrampicato su fino a Cettigne, poi chissà? Nell’interno della Croazia dove c’è boschi immensi e bisogna cavalcare lunghe ore per arrivare a una casipola di legno bigio. […] Forse piuttosto sarei andato nell’Oriente. […] Guadavo i bragozzi ciosoti che con una gran spinta si staccavano, gonfi e carichi, dalla riva. […] Tutta la notte avrebbero corso l’Adriatico col borino […]» (p. 89). Al riguardo cfr. M. Panetta, Visioni d’Istria e Dalmazia in Paolo Rumiz e Nelida Milani, in Visioni d’Istria, Fiume, Dalmazia nella letteratura italiana. Atti del Convegno internazionale IRCI Trieste, 7 e 8 novembre 2019, a cura di G. Baroni, C. Benussi, Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore, 2020, pp. 254-59. ↑
- Ivi, p. 106. ↑
- Ibidem. ↑
- D. Zandel, Prefazione a S. Slataper, Il mio Carso, op. cit., pp. 7-14, cit. a p. 13. ↑
- M. Biondi, La «Voce» di Scipio. Fraternità vociane, op. cit., p. 24; si legge all’URL http://www.museocivico.rovereto.tn.it/UploadDocs/12249_Art_14_biondi.pdf (ultima consultazione: 10 ottobre 2020). ↑
- Ivi, p. 17. ↑
(fasc. 35, 25 ottobre 2020)